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LA DIFESA NON È UNA QUESTIONE DI GENERE

di Giulia Boccassi* Quanto accaduto nei giorni scorsi avanti alla Corte di Appello di Firenze, ove quattro avvocati al termine di un’udienza durante la quale erano stati impegnati nella difesa di due imputati per il reato di violenza sessuale, sono stati destinatari di offese e minacce (tanto da dover uscire da una porta secondaria del Palazzo di Giustizia) per il fatto stesso di aver assunto quel mandato, mostra la gravità del pensiero dominante in tema di diritto di difesa. È infatti sempre più evidente il pregiudizio che accomuna l’attività difensiva alla difesa del reato stesso; questo è il frutto di una cultura populista e demagogica che ignora i principi costituzionali secondo i quali il diritto di difesa è tra quelli fondamentali del cittadino. Ma l’attacco al ruolo del difensore è stato in questo caso, ancora più odioso perché rivolto anche ad una avvocata “colpevole”, in quanto donna, di aver assunto la difesa di un presunto violentatore. Non si tratta purtroppo di un caso isolato. Troppe sono le colleghe che vengono aggredite e minacciate per aver semplicemente assolto al loro ruolo di difensori. È assurdo e paradossale in una società che si dice evoluta ritenere poco etico che una donna possa difendere un uomo accusato di particolari reati. Purtroppo, la cronaca ci pone sempre più spesso difronte a manifestazioni di quel dominante populismo giudiziario che ha in odio le garanzie e i diritti a maggior ragione se ad esserne portatrici sono le avvocate che divengono così vittime di esecrabili attacchi social e non solo, come nel caso di Firenze, per aver assunto la difesa di un accusato di violenza sessuale, quasi fosse un tradimento al genere femminile. Questi esecrabili episodi sono emblematici di un modo di pensare infarcito di stereotipi e che rappresentano sempre più le avvocate, in quanto donne e madri, investite per elezione del ruolo di difensori della vittima e quindi “per natura” distanti dalla possibilità di difendere uomini accusati di particolari reati. La gogna mediatica che troppo spesso identifica l’accusa con la certezza della responsabilità dell’indagato e che condanna ancor prima che sia emessa una sentenza alimenta quotidianamente l’insofferenza, che spesso sfocia in violenza, nei confronti di tutte quelle avvocate che assolvono al loro ruolo di difensori con la medesima professionalità e il medesimo impegno sia che tutelino imputati o vittime, nella convinzione che non ci siano interessi più meritevoli rispetto ad altri. È incredibile che simili posizioni, tipiche della vulgata populista, siano condivise anche da qualche magistrato che vorrebbe dividere gli avvocati in base agli interessi che tutelano: le avvocate buone stanno con i centri antiviolenza, mentre le avvocate delle camere penali difendono i presunti violentatori. La realtà è che la difesa non è mai una questione di genere e il diritto di difesa non consente differenze di genere e di categorie. Si è avvocati a prescindere dal sesso, a prescindere dal titolo del reato e a prescindere dal cliente che si assiste, sia esso imputato o persona offesa. Si è avvocati e basta. D’altro canto, non è questo il modo di affrontare il fenomeno ingravescente come quello della violenza sulle donne che ha radici sociali e culturali profonde e che non ha certo trovato argine nei recenti interventi legislativi, securitari ed emergenziali.     La convinzione che nessun processo per nessun titolo di reato giustifichi manifestazioni di insofferenza nei confronti dei principi costituzionali e delle garanzie processuali proprie dello Stato di diritto, è il pilastro del ragionamento intorno all’idea di parità in cui le avvocate UCPI credono e si riconoscono, respingendo ogni deplorevole attacco al diritto di difesa. D’altro canto, l’UCPI è sempre stata, e sempre lo sarà, a fianco delle avvocate e delle donne nella convinzione che pari opportunità significa tutela dei diritti fondamentali, diritti che debbono essere garantiti sempre a tutte e a tutti. Ed il garantismo non è mai una questione di genere, così come la difesa non è una questione di genere. Il ruolo e la dignità dell’avvocato non hanno dunque alcuna connotazione di genere e devono essere riconosciuti e tutelati come previsto dal nostro sistema penale e dalla Costituzione perché gli avvocati e le avvocate rappresentano l’ultimo baluardo in difesa dei diritti di tutti i consociati. Occorre dunque rivendicare con forza che si è difensori senza se e senza ma, rifuggendo la facile semplificazione che vuole le avvocate relegate a ruoli di difesa delle persone offese e più inclini alla tutela di questo tipo di interessi. Da sempre le avvocate in Italia e nel mondo sono in prima linea nella battaglia per il riconoscimento dei diritti degli ultimi, degli oppressi, e anche di quelli che nessuno vuole difendere, e lo fanno sempre allo stesso modo con la stessa passione e la stessa determinazione, non lasciandosi mai intimidire.   *Componente di Giunta dell UCPI

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“I CIMITERI DEI VIVI” E L’ULTIMO DEI MOLTI SENZA RESPIRO. SUICIDIO N. 81. CRONACA DI MORTI ANNUNCIATE

Soltanto pochi giorni fa un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita nella casa di reclusione di Catanzaro. La notizia, diffusa dalla stampa, suscita tristezza e rinnova il sentimento di sgomento, ci tocca da vicino, perché si tratta di un suicidio avvenuto nelle carceri cittadine e perché questo estremo gesto di disperazione denuncia ancora una volta, ove ve ne fosse la necessità, le gravi inadeguatezze che accompagnano la detenzione. Non si tratta soltanto di rimarcare le condizioni di sovraffollamento, con le ricadute sulla salubrità dei luoghi, sull’assistenza sanitaria, sulla sicurezza e sui percorsi rieducativi, che non sono carenze di poco momento, ma di prendere coscienza che in carcere sono detenuti anche cittadini estremamente fragili, per condizioni di dipendenza dalle sostanze stupefacenti o per via di patologie psichiatriche. È’ il caso del giovane che ha deciso di togliersi la vita a Catanzaro, il quale sommava in sé le due fragilità e che aveva chiesto di poter essere allocato in una struttura più prossima alla residenza dei familiari e la fruizione di cure psichiatriche aggiuntive, a quanto pare senza esito, per come riportato dalla stampa. Sono note le molte iniziative assunte dalla società civile e dalle associazioni impegnate in questo campo, tra cui – in prima linea – l’Unione delle Camere Penali Italiane e le Camere penali territoriali che, ormai da lungo tempo, denunciano le difficili ed inaccettabili condizioni della detenzione nelle carceri italiane. Tuttavia, l’impegno profuso, pur alimentando il dibattito nel discorso pubblico e sollecitando la coscienza sociale ad occuparsi delle drammatiche condizioni dei “cimiteri dei vivi” (come li definì Filippo Turati in un Suo celebre discorso), non riesce a scuotere i palazzi della politica, nei quali il tema è volontariamente trascurato, chiusi, come sono, in una sorda indifferenza. A rendere più amara la distanza dalla vita reale, la presa d’atto che al Governo si è piuttosto impegnati a compiacersi del disagio, se non anche della sofferenza inferta ai detenuti nei trasferimenti sui blindati della Polizia Penitenziaria; o, ancora, si avverte il senso della sconfitta solo a ipotizzare l’adozione di procedure premiali che, senza automatismi e con adeguate garanzie, potrebbero nel breve periodo ridurre la popolazione carceraria, determinando così il miglioramento  delle condizioni di vita all’interno degli Istituti di pena e la fruizione di percorsi di risocializzazione e sanitari almeno sufficienti, se non anche efficaci. Senza entrare nel merito della vicenda particolare e lontano dall’esprimere giudizi che non competono, si tratta però e una volta per tutte di prendere coscienza che lo Stato, quando assume la custodia dei cittadini detenuti, ha degli obblighi che non può disattendere, così come nessuno di noi può tollerare che le condizioni di vita nelle carceri possano incidere sulla scelta di smettere di vivere. Non si pensi, allora, che l’Ultimo dei Molti che si sono tolti la vita era un tossicodipendente o un paziente psichiatrico e che l’epilogo era inevitabile,  perché l’Ultimo ed i Molti hanno smesso di vivere mentre erano in carcere e non altrove, in una condizione nella quale lo Stato se ne era assunto la custodia, e per cui era tenuto a curarli e a salvaguardarli anche da se stessi. Rinnoviamo la nostra denuncia auspicando “se non ora quando” che la Politica nazionale voglia farsi carico dell’adempimento dei doveri dello Stato verso i cittadini detenuti e tra questi con priorità verso i più fragili.    Il Consiglio Direttivo e l’Osservatorio Carcere  

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LE INSIDIE DELLA VITTIMA IN COSTITUZIONE

Enrico Amati* – 1.Il testo unificato di quattro disegni di legge di modifica costituzionale prevede l’inserimento all’interno dell’art. 111 Costituzione, dopo il quinto comma, del principio secondo cui «La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate». La prospettata riforma appare, da un alto, superflua, posto che l’istanza di tutela della vittima è implicita nella stessa potestà punitiva dello Stato e che le posizioni di debolezza sono già tutelate in termini generali agli artt. 2 e 3 Cost.; dall’altro lato, potrebbe alterare gli equilibri del sistema penale. 2. Occorre, invero, ricordare che il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico avviene proprio attraverso la ‘neutralizzazione’ della vittima. Di più: «senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe nemmeno lo Stato moderno. La neutralizzazione della vittima del reato comporta infatti niente meno che il monopolio della violenza da parte dello Stato nell’amministrazione della giustizia penale»[1]. Di qui il rischio che l’accentuazione del ruolo della vittima nell’ambito del “giusto processo” possa accentuare quel c.d. paradigma vittimario[2] sintomatico dell’attuale egemonia del linguaggio e della logica del penale[3]. In particolare, il riferimento alle vittime all’interno dell’art. 111 Cost. rischia di legittimare il passaggio da un modello processuale “binario”, che vede contrapporsi l’imputato e la parte pubblica, ad un modello “triadico”, nel quale si veicola l’idea che l’esito del processo debba soddisfare le attese della parte lesa: da processo a garanzia dell’accusato a processo per la vittima[4]. Le vittime devono certamente essere tutelate nella misura massima fuori dal processo, mediante adeguate forme di assistenza sociale e di riparazione; è invece necessaria estrema cautela riguardo alla  tutela della vittima all’interno del processo, poiché si rischia di alterare il sistema delle garanzie[5]. Come noto, se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono, appunto, le leggi del più debole[6]. A questo principio si ispira, peraltro, il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo dell’UCPI, allorché si precisa che «la funzione stessa del diritto processuale penale è quella di proteggere i diritti fondamentali di chi subisce l’”attacco” del potere pubblico, così da consentirgli di difendersi nel modo migliore possibile […]» (canone n. 22). 3. L’approccio basato sulla centralità della vittima può, inoltre, produrre “effetti perversi” sul piano della produzione normativa, su quello dell’interpretazione e sulle logiche punitive. L’ipervalorizzazione della vittima avalla, invero, una produzione penale compulsiva orientata al diritto penale “massimo”[7], con inevitabili ricadute sulla coerenza e sull’efficienza del sistema penale nel suo complesso e sulle garanzie. Un diritto penale vittimocentrico è, infatti, insofferente alle garanzie tipiche del diritto penale liberale (tassatività e determinatezza del precetto, offensività, proporzionalità della pena, etc), poiché nell’ottica della vittima “giustizia è fatta se condanna è emessa”. Tutto ciò si riflette sulla qualità della produzione normativa, che può accentuare la produzione di norme prive del requisito della precisione, da sperimentare attraverso l’applicazione pratica e l’esperienza giudiziale, con il rischio che, in sede applicativa, si tenda a privilegiare l’effetto utile e lo scopo dell’incriminazione rispetto a letture tassativizzanti e tipizzanti. Sul versante delle logiche punitive, inoltre, la centralità della vittima potrebbe aprire le porte a quelle teorizzazioni deteriori che fanno leva sul right to punishment, secondo cui la punizione del reo non deve contenere solo la condanna del suo comportamento da parte della società, ma anche una manifestazione di solidarietà verso la vittima, che si estrinseca mediante l’inflizione effettiva di una sofferenza all’autore[8]. In generale, l’approccio vittimocentrico “filtra” ed altera il diritto penale classico, e a farne le spese sono i principi fondamentali della tradizione liberale scolpiti nella Carta costituzionale: la potestà punitiva statale; l’imparzialità del giudice, etichettato come “cattivo punitore”[9] se non soddisfa le esigenze della (presunta) vittima; la presunzione d’innocenza; il diritto di difesa.   4.In conclusione, la prospettata modifica costituzionale, in apparenza senza dire nulla di nuovo, se da un lato si colloca in quel percorso di ascesa del c.d. paradigma vittimario che legittima un processo penale “offensivo”, dall’altro lato si presterebbe ad alimentare la “crudele illusione” che – soprattutto nei casi con “vittime diffuse” – il processo penale sia lo strumento ideale per vedere riconosciute le proprie pretese risarcitorie e punitive. In altre parole, si rischia di accentuare non solo il panpenalismo ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima[10], posto che l’unica riparazione giuridicamente possibile all’interno del processo penale è il risarcimento del danno, che ovviamente nei casi gravi non ripara nulla[11]. *Presidente della Camera Penale di Rimini e Professore associato di Diritto penale all’Università di Udine   [1]W. Hassemer, Perché punire è necessario, trad. it., Bologna, 2012, p. 233 s. [2] D. Giglioli, Critica della vittima, Milano, 2024. [3] T. Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitivista, Torino, 2022. [4] In termini problematici, M. Buchard-F. Fiorentin, La giustizia riparativa, Milano, 2024, p. 457 s. [5] L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale , Roma-Bari, 2024, p. 285. [6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989. [7] N. Mazzacuva, La clemenza collettiva nell’epoca del ‘diritto penale massimo’, in Dir. pen. cont., 2018, p .192 s. [8] G. Fornasari, “Right to punishment” e principi penalistici. Un critica della retorica anti impunità, Napoli, 2023. [9] N. Mazzacuva, Se la pena fa ancora spettacolo: talune riflessioni “fuori dal coro”, in A. Valenti (a cura di), L’inarrestabile spettacolo della giustizia penale, Persiani ed., 2013, p. 73 s. [10] T. Pitch, Il Protagonismo della vittima, in disCrimen, 20.2.2019. [11] L. Ferrajoli, Giustizia e politica. cit., p. 285.

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LA GIUSTIZIA PREDITTIVA TRA MITO E REALTÀ

di Roberto Staro* –    Premessa: La dottrina già da diverso tempo si confronta sul tema dell’intelligenza artificiale e della sua interazione con il settore giuridico, in particolare ponendo attenzione sull’attuale primordiale gestazione di un panorama normativo di riferimento – sia a livello comunitario che nazionale – e sui risvolti già presenti nella pratica, anche in ambiente giurisprudenziale. Invero, nonostante per alcuni sia considerato di improvvisa attualità a causa dell’ormai degenerante invasione nella realtà quotidiana di svariate forme di IA, la comunità dei giuristi e degli operatori del diritto sta ormai maturando la consapevolezza che, più di altri settori della vita e della quotidianità, la rivoluzione tecnologica dell’IA coinvolgerà, fino a stravolgere, non solo le dinamiche della vita privata ma, ancor più, la formazione del libero pensiero e finanche l’autonomia decisionale propria del ragionamento umano. La tentazione di affidare ad una macchina – rectius, ad un algoritmo – la “fatica” di una decisione ovvero la sintesi tra molteplici fattori e soluzioni (scegliendo, come si vedrà infra, su un calcolo probabilistico ma vincolato alle informazioni di partenza) è sempre più evidente e, nel volgere di pochi anni, apparirà inevitabile laddove non si riuscirà a vincolarla a parametri rigidi nei quali l’esperienza umana e la maturità di ragionamento dovranno essere tutelati. Orbene, il presente articolo si propone di seguire le linee direttrici già tracciate su questa Rivista[1] e, si spera, di offrire nuovi spunti di riflessione, ponendo tuttavia l’accento tra la velocità della dinamica evolutiva di questa nuova tecnologia, e della conseguente sempre maggiore interazione con ogni settore del diritto e della applicazione pratica dello stesso, ed il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento e della centralità del valore dell’uomo. Non v’è dubbio, del resto, che l’accesso così facilitato ad una tecnologia di tipo predittivo (ossia capace di generare pensieri autonomi o di eseguire ragionamenti deduttivi e non soltanto algebrici) sia assai rischiosa ove posta a confronto con la necessaria evoluzione positiva del diritto, e cioè con la capacità di quest’ultimo di modificarsi secondo le diverse esperienze dell’uomo ma sul presupposto del rispetto dei diritti fondamentali. Laddove poi questo tipo di ragionamento sia diretto a valutare i vantaggi ed i rischi, se così si può dire, dell’utilizzo dell’IA nel processo penale, si comprende con plastica evidenza quanto tale argomento sia delicato e non possa perciò cedersi ad una brusca abdicazione del ragionamento cognitivo e deduttivo ove vi sia pericolo per la salvaguardia del bene più prezioso: la libertà individuale.   L’IA come un oracolo? La possibilità di predire il futuro è un desiderio con il quale l’uomo ha combattuto da sempre perché è intimamente connesso alla curiosità di conoscere ciò che l’aspetta ed il timore di non saperlo affrontare. Nel passato, tale debolezza umana trovava il suo compimento nell’oracolo a cui chiunque, dal più forte al più debole, affidava le proprie scelte e sul quale misurava le proprie azioni. Nella mitologia, tuttavia, il vaticinio era per lo più connesso alla sventura e, lungi dal prevedere il futuro, condizionava esso stesso l’agire di chi vi si rivolgeva, con il paradosso di non predire ma di indirizzare. È di questo tipo, ad esempio, l’interpretazione proposta da Cassese delle tragedie di Edipo e Antigone[2]; è la conoscenza del futuro, prima che esso accada, ad innescare il corso di azioni che condurrà alla hybris tanto del padre quanto del figlio che, così facendo, per evitare il vaticinio metteranno in opera una serie di azioni che lo realizzeranno. Il desiderio di conoscere il futuro, e per certi versi di governarlo, è un’angoscia che non ha abbandonato l’uomo il quale, seppur con formule di volta in volta più nuove, continua la ricerca di una soluzione a tale istinto primordiale. A differenza dell’oracolo, la moderna IA contiene in sé il simulacro della razionalità e, quindi, potrebbe apparire più rispondente alle esigenze umane rispetto alla “magia” di un essere dotato di poteri di chiaroveggenza. Il dubbio amletico è se la logica quantistica ed il principio di autodeterminazione dell’IA possano sostituire l’uomo nelle sue scelte, tanto rispetto al proprio di futuro quanto a quello degli altri. Il comportamento umano, le sue scelte e decisioni, tuttavia, non sono determinabili con le stesse leggi con le quali si comprendono i fenomeni fisici o chimici o con cui rispondono le regole matematiche; alla possibilità di predire con esattezza il comportamento umano si è sempre opposta una caratteristica tipica dell’evoluzione dell’uomo: la libertà (intesa anche come imprevedibilità ed eccezione rispetto al binomio causa-effetto). L’essere umano non è mai soltanto il prodotto deterministico delle sue stimolazioni biochimiche o neurofisiologiche, né tantomeno il risultato necessario delle condizioni socio-economiche o ambientali in cui vive. Oggi non sarebbe possibile tollerale che una scelta venga affidata ad un oracolo il quale, per definizione della mitologia, ha sempre ragione pur non dando mai ragioni. Eppure, si è disposti con facilità a cedere all’agio di una decisione operata da un algoritmo predittivo al quale sono attribuiti (sbagliando, come si vedrà infra) i requisiti di terzietà, imparzialità e predeterminazione.   IA e Costituzione: Proprio sulla scorta dei principi da ultimo richiamati, la necessaria premessa di ogni ragionamento circa l’applicabilità dell’IA alla sfera dell’esercizio della giustizia non può prescindere dalla corrispondenza di tale tecnologia con il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti nella Costituzione. Non v’è dubbio che l’argomento sia così vasto da non poter essere sviluppato sufficientemente in questo breve articolo. Ci si limiterà pertanto a proporre le tre principali aree di rischio maggiormente di interesse nella connessione tra utilizzo dell’IA e amministrazione della giustizia: il principio della sovranità popolare (art. 1): la matrice democratica su cui si base la nostra architettura costituzionale, come è noto, non si può ridurre semplicisticamente al concetto di moltitudine e di rispetto della volontà popolare (intesa alla stregua di maggioranza da contrapporsi al potere dispotico di uno soltanto o di pochi), bensì contiene in sé un significato più penetrante al quale appartiene, tra l’altro, il rispetto per le minoranze e la cultura delle diversità. Al fine di comprendere la portata potenzialmente deflagrante dell’IA

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE: PREDIZIONE DELLA DECISIONE E VALUTAZIONE DELLA PROVA

  di Paolo Carnuccio* –  Il termine intelligenza indica in generale un insieme di caratteristiche relative alle capacità mentali degli esseri umani. Lo studio dell’intelligenza è stato affrontato da diverse discipline (come filosofia e psicologia) da più di duemila anni. Negli anni cinquanta, anche grazie allo sviluppo degli elaboratori elettronici, diversi campi di ricerca su tematiche riguardanti lo studio dell’intelligenza sono confluiti in un’unica disciplina autonoma denominata Intelligenza Artificiale (IA)[1]. Oggi, l’intelligenza artificiale ha invaso anche il terreno giudiziario. La capacità intrinseca della struttura di apprendere e di risolvere i problemi determina notevoli conseguenze in termini di predizione della pronuncia giudiziaria e di valutazione della prova. Non potendosi affrontare in modo esaustivo i variegati risvolti dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sul mondo del diritto, il proposito delle presenti riflessioni attiene alla rilevanza dello strumento ed alla sua efficacia concreta. L’operazione supera i panorami diversificati che ne hanno tracciato i contenuti fino ad un decennio orsono[2] per giungere ad interrogativi circa l’attribuzione di valutazioni giuridicamente rilevanti alle entità artificiali[3]. Il campo di analisi dovrà essere condotto su quegli aspetti che in maniera più diretta coinvolgono il dominio della previsione sull’epistemologia giudiziaria e la riflessione giuridica sul fenomeno probatorio[4]. L’espressione intelligenza artificiale ha un’accezione più o meno ampia a seconda dell’angolo visuale prescelto, tanto da sembrare alle volte un prisma dalle mille sfaccettature. Tradizionalmente, si distingue tra una concezione “forte” ed una “debole”. La prima, tende alla creazione di modelli in grado di possedere veri e propri stati cognitivi analoghi a quelli della mente umana; la seconda, prevede la realizzazione di elaborati capaci di compiti normalmente attribuiti all’intelligenza dell’uomo senza però alcuna assimilazione tra pensiero e sistema informatico. In entrambe le prospettive, l’intelligenza artificiale sarebbe comunque qualificabile come “la scienza intesa a sviluppare modelli computazionali del comportamento intelligente in grado di eseguire compiti che richiederebbero intelligenza da parte dell’uomo”[5]. In altre parole, la codificazione variabile del ragionamento umano. La prima fonte definitoria la si trova contenuta nella “Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi” adottata il 3-4 dicembre 2018 dalla Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) istituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2002, in cui la si considera come “l’insieme di metodi scientifici, teorie e tecniche finalizzate a riprodurre mediante le macchine le capacità cognitive degli esseri umani”[6]. I sistemi dell’intelligenza artificiale sono variegati, e vanno dalla costruzione del software (ad esempio assistenti vocali, analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale), a quello dell’hardware (ad esempio veri e propri robot o droni), strumenti interagenti nel mondo virtuale. In entrambi i casi la raccolta delle informazioni è indispensabile, ragionando sulla conoscenza o elaborando le soluzioni adeguate all’obiettivo. Una prima, e fondamentale, questione attiene al rapporto tra la mente umana e il sistema informatico. Il tema nasce dalle origini culturali dell’intelligenza artificiale, si propaga mediante la costituzione di una lingua universale in grado di rappresentare i nostri pensieri, e finisce per creare un’elaborazione sistematica capace di ridurre il ragionamento ad operazione automatica o matematica[7]. La creazione dei cd. logaritmi si inserisce in questo paradigma concettuale, e rappresenta la conseguenza dello sviluppo artificiale. Sia nel ragionamento giudiziario, sia nella predizione del suo esito, viene in rilievo l’utilizzo della logica come strumento posto a fondamento delle varie interazioni. I sillogismi artificiali sono necessari e devono poter essere affrontati nella loro corretta dimensione, finalizzata, cioè, ai risultati per i quali sono utilizzati. Il problema principale attiene all’individuazione del modello: quello probabilistico oppure quello non-monotonico? Quello deduttivo, quello abduttivo, o ancora quello deontico?[8] La risposta non è univoca in quanto è possibile utilizzare i vari tipi di ragionamento inferenziale a seconda dei contesti in cui ci si trova ad operare, variando, pertanto, l’esito del risultato dell’intelligenza artificiale. Ciò in virtù del fatto che l’intelletto umano adopera svariati meccanismi di ragionamento a seconda dell’oggetto, del luogo e del tempo in cui si trova ad operare. Ad esempio, la diagnosi medica, o il progetto tecnico di un ingegnere sono diversi dalla decisione giudiziaria o dalla valutazione della prova. Lo scrutinio della decisione giudiziaria, e della valutazione della prova, diventano precondizioni necessarie per costruire la struttura dell’intelligenza artificiale. Laddove la stessa sia semplice, e non particolarmente complessa, è possibile adoperare criteri altrettanto agevoli, ma quando l’ordito diventa infarcito da sillogismi di natura logica il compito dell’elaboratore è alquanto complesso giacché rivolto alla qualificazione della tipologia del modello logico di riferimento ed alla conseguente individuazione dei parametri da inserire nella struttura artificiale. Significa gettare nuova luce su un procedimento mentale che è stato definito “complesso, variabile, avvolto nell’incerto, vago e intriso di valori”[9] Il percorso di indagine diventa ancora più complicato se si pone mente alla valutazione giudiziaria totalmente ancorata alla visione del libero convincimento, dunque sganciata da qualunque parametro razionale[10]. Al netto di motivazioni inesistenti, o totalmente insufficienti, il punto è quello di capire come l’intelligenza artificiale risulta compatibile con la decisione giudiziaria a-logica. Ogni sentenza ha un contenuto intrinsecamente collegato al sentimento della decisione, al diversamente legato al criterio inferenziale, a ciò che è intimamente collegato alla sua percezione della prova.  Questo è il terreno più difficile da affrontare perché costituisce forse il limite dell’intelligenza artificiale. La componente ineluttabile, il nocciolo duro della natura umana, quelli che alcuni chiamano intelligenza emotiva. Tale ambito riguarda una componente dell’intelligenza, che consiste nella capacità di percepire, valutare, comprendere, utilizzare e gestire le emozioni. Le persone con un’elevata intelligenza emotiva sanno riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, distinguerle tra di esse ed utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni[11]. Essa è composta da tre rami principali: valutazione ed espressione delle emozioni, regolazione delle emozioni, utilizzo delle emozioni. Tale definizione iniziale è stata poi successivamente aggiornata in quanto appariva imprecisa e priva di un ragionamento sui sentimenti, trattando solo la percezione e la regolazione delle emozioni. È stata, quindi, definita come segue: “l’intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione; l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri; l’abilità di

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Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione

Di Giuseppe Amarelli* –  Il controllo giudiziario volontario è stato introdotto nel sistema della prevenzione antimafia con il duplice obiettivo di mitigare l’indiretta ma draconiana portata afflittiva delle interdittive e di differenziare l’entità dell’intervento prefettizio a seconda della gravità delle situazioni sintomatiche di contagio mafioso, evitando l’irragionevole assurdo di assimilarle quoad incapacitatem e di adottare il medesimo provvedimento inabilitante sia nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso, che della vittima di un’estorsione mafiosa. Nei casi di infiltrazione mafiosa solamente occasionale si è così concessa la possibilità all’impresa destinataria di un’interdittiva di richiedere, previa impugnazione al TAR, l’attivazione da parte del tribunale di prevenzione di un periodo di monitoraggio della durata da uno a tre anni per consentire l’eventuale bonifica e sospendere gli effetti incapacitanti. Questo istituto, sebbene sia nato per incidere a valle del sistema della prevenzione amministrativa antimafia, lenendone gli eccessi rigoristici, in realtà, ha segnato un radicale cambio di paradigma nelle politiche di contrasto all’ingerenza mafiosa nelle imprese, più in sintonia con gli assetti valoriali di uno Stato costituzionale democratico, in cui queste prioritarie esigenze pubblico-collettive devono sempre tenere nel giusto conto i contrapposti interessi sia dei destinatari diretti, che dei destinatari indiretti, come i lavoratori dipendenti e gli stakeholders. Grazie al controllo volontario, si è abbandonata la pregressa strategia imperniata su un approccio retrospettivo-stigmatizzante e su misure istantanee immediatamente inibitrici dei rapporti con la pubblica amministrazione e si è inaugurata una del tutto nuova, incentrata su un approccio prospettico-cooperativo e su misure dialogiche di lunga durata, inclusive e recuperatorie, in cui lo Stato non ostracizza subito l’impresa contaminata “colpevolizzandola”, ma, al contrario, le si affianca in un articolato processo di self cleaning. Purtroppo, ad oggi, nonostante le buone intenzioni, il bilancio sullo stato di salute del controllo volontario è ancora chiaroscurale, presentando alcune luci e non poche ombre. Per un verso, è sicuramente apprezzabile l’estensione delle sue potenzialità applicative ottenuta tramite: la tendenziale polarizzazione del giudizio per la sua concessione sulla prognosi di futura bonificabilità; l’interpretazione del concetto di occasionalità come ‘non stabilità’; l’esclusione del Prefetto dal novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento di ammissione; il riconoscimento della sua adottabilità anche rispetto al diniego di iscrizione nelle white list. Per altro verso, generano non poche perplessità: la sua applicazione ancora fortemente a “geografia variabile”, essendo pochi i tribunali di prevenzione che ne hanno colto la straordinaria utilità per l’intero sistema; il mancato coordinamento dell’esito positivo con la misura interdittiva “a margine” della quale è stato concesso; e, soprattutto, il contrasto interpretativo circa i presupposti applicativi. A tale ultimo riguardo, convivono in giurisprudenza due orientamenti opposti, uno maggiormente garantista che, per evitare esiti irragionevoli, ritiene possibile applicare la misura anche quando il g.o. accerti con i suoi diversi standard probatori l’insussistenza dell’infiltrazione mafiosa posta alla base dell’interdittiva, ritenendo ancor più probabile in questo caso la recuperabilità dell’impresa; ed un altro più rigoroso che, invece, facendo leva sull’autonomia di giudizio del giudice della prevenzione rispetto al giudice amministrativo, esclude tale possibilità, innescando un paradosso per il quale l’impresa infiltrata occasionalmente può mitigare gli effetti dell’interdittiva, mentre quella non infiltrata deve continuare a scontarli. Sul funzionamento del controllo volontario grava poi un’altra ipoteca iscritta dalla misura amministrativa della prevenzione collaborativa introdotta nel 2021 sulla sua falsariga. Questa, infatti, sembra voler accentrare nelle mani del Prefetto il contrasto ai tentativi di ingerenza mafiosa nelle imprese, evitando conflitti con il potere giudiziario che, oggi, invece, nei casi di ammissione al controllo, sembrano sorgere. Nell’attesa (vana?) di una più organica riforma della prevenzione amministrativa antimafia che la traghetti sul piano della prevenzione giurisdizionale, declassando il Prefetto ad organo pubblico deputato a proporre ad un giudice terzo le misure dell’interdittiva e del controllo, si deve confidare in una valorizzazione del controllo volontario da parte dell’autorità giudiziaria. Diversamente da quanto possa apparire prima facie, questo non rappresenta un mero favor per il destinatario che indebolisce l’apparato di contrasto alle mafie. All’opposto, costituisce uno strumento giuridico dotato di una pluralità di funzioni eterogenee ma complementari, tendendo a: equo-contemperare meglio i contrapposti interessi in gioco, evitando di sbilanciare il rapporto autorità-individuo in modo antitetico con la natura democratica del nostro ordinamento; tutelare i diritti dei terzi estranei esposti a serio rischio dalle interdittive, in primis quelli dei lavoratori dipendenti; e, last but not the least, offrire un bagaglio informativo più completo e attendibile all’autorità competente per la valutazione del livello di infiltrazione mafiosa e, quindi, per la scelta della misura più idonea da adottare.   *Professore Ordinario di Diritto Penale

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IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO

I comunicati di ANM – nazionale e territoriale – che censurano la ruvidezza dei toni usati nel documento licenziato dal Coordinamento regionale, all’indomani dell’assoluzione dell’Avvocato Armando Veneto, meritano una attenta e seria analisi. Entriamo subito in medias res: comprendiamo la replica di ANM per il registro comunicativo scelto dall’avvocatura. Due le riflessioni. La prima, di contesto. Abbiamo sofferto a fianco di Armando Veneto per 4 lunghissimi anni, registrando quanto male egli abbia patito per una accusa infamante che è lontana anni luce dalla Sua storia personale e professionale. L’esito liberatorio – un esito che ha il merito di avere riallineato la verità processuale a quella “storica” e all’evidenza della prova – ha suscitato emozioni forti, intense, che, da un lato, sono alla base del registro del comunicativo espresso da chi si sente “figlio” di quella Scuola penalistica che vede in Armando Veneto l’indiscusso Maestro; dall’altro lato, hanno stimolato riflessioni indifferibili e urgenti sulla cifra non tollerabile di ingiustizia del sistema. Una cifra ben conosciuta dall’avvocatura, costretta a misurarsi sempre più spesso con la quota insopportabile, semmai ve ne possa essere una, di sofferenza marchiata a fuoco sulla pelle viva del cittadino esposto alla nuova fisionomia assunta dal moderno diritto penale di lotta. La seconda, di prospettiva. ANM legge nelle parole – più precisamente negli aggettivi e nelle metafore usate – un attacco a specifici (ma non precisati) magistrati ai quali esprime pertanto solidarietà. Non è così. Se così fosse, infatti, saremmo tutti sollevati dal pensiero che le distorsioni denunciate negli anni dall’avvocatura, da nord a sud, dipendano dai limiti di pochi e non, per come in effetti riteniamo, da sbilanciamenti di sistema che incrementano i rischi per tutti, non solo per i sovraesposti in ragione della categoria o del profilo di appartenenza. Emblematico, al riguardo, è anche il caso di Torre Annunziata, in cui l’intervento di un avvocato (un grande Avvocato…) davanti una platea gremita di studenti è stato bollato da quella sezione di ANM, come nocivo per la gioventù immatura. Ci sia consentito di dissentire. Vorremmo che ANM ascoltasse il grido di dolore proveniente dall’avvocatura tutta: interrogare la coscienza di chi detiene il potere e riflettere sui costi inaccettabili di un esercizio dell’autorità sbilanciato dagli accenti punitivi. Vorremmo che non venisse trascurato il merito delle posizioni critiche provenienti dal mondo in fermento dell’assise organizzata dei penalisti. Quello rimane ancora sul tappeto. Da parte nostra c’è la ferma volontà di leggere il buono del messaggio che ANM diffonde – un invito alla pacatezza – e l’auspicio che, da parte di tutti, si abbia il coraggio di fermare l’attenzione su ciò che i casi esemplari imporrebbero di inserire nell’agenda di chi è interessato al funzionamento del processo penale. Per ridurre le distanze tra noi, è sufficiente rivolgere l’attenzione sui moderni effetti prodotti dal più terribile dei poteri, e sulla piaga degli innocenti precipitati nel processo ed estratti in pezzi dopo anni di patimenti. Ha ragione ANM, serve un certo grado di dissennatezza per spingere gli avvocati a denunciare le anomalie del sistema, piuttosto che assennatamente accomodarsi al riparo di banali luoghi comuni che raccomandano di limitarsi ad esprimere soddisfazione perché giustizia è fatta. Sia consentito: assennati sì, ma non fino al punto di rinunciare ad occuparci delle dinamiche dell’accertamento giudiziario che generano inique spirali e danni incalcolabili. Perché molto assennatamente tradiremmo il senso della nostra funzione. A fine febbraio, il 27 per la precisione, le Camere Calabresi hanno trovato chiuse le porte dei Tribunali, nonostante avessero espressamente chiesto l’autorizzazione a ricordare, nelle aule di Udienza, la ricorrenza del V anniversario del suicidio di Rocco Greco, vittima di (in)giustizia. Ci è stato spiegato che parlare in pubblica udienza dell’errore giudiziario e delle sue cause deprime la fiducia dei cittadini nella Giustizia; e fuor di luogo sarebbe manifestare nei luoghi in cui si amministra giustizia dubbi sulla costituzionalità di norme che alimentano il rischio dell’errore. Ci è stato richiesto di preservare il cittadino e di ricercare piuttosto il confronto tra addetti ai lavori. Crediamo che il Tribunale debba essere (anche) il luogo in cui discutere dei “limiti” del sistema giustizia. Ad ogni modo, rinnoviamo la nostra disponibilità al confronto franco e leale con la magistratura, specie sui temi difficili. Un confronto aperto alla società civile, perché il tema della libertà impegna, per primi, i cittadini. Dobbiamo esser disposti a riflettere sulle concrete dinamiche dell’errore giudiziario e dei danni del processo, che riguarda tutti, nessuno escluso. Dobbiamo interrogarci sul ribaltamento (anche culturale) della presunzione di innocenza, sulle sue cause, sulla sua contagiosa diffusività, sulla permeabilità di un sistema inefficace quando si tratta di prevenire l’errore ovvero di riconoscerlo e porvi rimedio. Insomma, dovremmo essere pronti tutti a comprendere che il confronto utile è quello scomodo. Auspichiamo disponibilità a questo genere di confronto.   Scarica il comunicato da noi sottoscritto: IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO Rassegna stampa: https://shorturl.at/bcBVX https://shorturl.at/krN03

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L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci

di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi –    Oggi raccontiamo una storia sbagliata. Ce ne sono più di quante vorremmo nel grande calderone della giustizia e questo crea una doppia difficoltà: è difficile dedicare a tutte l’attenzione che pure meriterebbero; è sempre latente la sensazione di inutilità poiché nessuno sforzo pare capace di provocare anche il più marginale cambiamento. Tuttavia ci sono storie più sbagliate di altre, soprattutto quando sbaglia chi ha il compito di correggere gli errori altrui. È questo il ruolo della Corte di cassazione che Michele Taruffo, in una raccolta di saggi edita da Il Mulino nel 1991, denominò il “vertice ambiguo”, espressione giustificata dalla difficoltà di coniugare le due funzioni tipiche della nostra Suprema Corte; la verifica della legittimità delle singole procedure e il ruolo nomofilattico generale. Chi analizza per studio o lavoro la sua produzione complessiva, i risultati che produce, i suoi conflitti interni, la sua capacità persuasiva, non tarda a scorgere i sintomi dell’affanno: la Cassazione fa fatica a reggere i rilevantissimi flussi di lavoro che le sono assegnati ma al tempo stesso deve smaltirli perché il tempo non è più una variabile indipendente e l’arretrato non è più un’opzione. La prima vittima è ovviamente la funzione nomofilattica, sempre più indebolita da una produzione necessariamente convulsa che fa premio su qualsiasi altro fattore, ivi compresa la riflessione. La seconda vittima è la verifica della legittimità: il ritmo martellante dei flussi in entrata, delle udienze sovraffollate, delle camere di consiglio, delle decisioni da scrivere in fretta e furia fanno sì che la Cassazione si distanzi sempre più dal cuore dei processi e quindi dalle persone in carne e ossa che stanno dietro ogni ricorso e ogni difesa. Non stupisce allora che possano verificarsi storie sbagliate come quella di cui ci accingiamo a parlare. L’avvocato Maurizio Capozzo, difensore di VS (lo identifichiamo con le sole iniziali nel rispetto del suo diritto alla riservatezza), una di queste persone in carne e ossa, ricorre per cassazione contro la decisione della Corte territoriale che ha confermato la condanna inflitta in primo grado al suo assistito, riconosciuto responsabile in concorso di una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate o tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. Si affida ad un unico motivo, deducendo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto – esso difensore di fiducia – alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze attraverso le quali si è sviluppato il giudizio di appello, per essere stato notificato l’avviso, invece, ad altro difensore. Il ricorso è trattato e deciso da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 50649/2023, udienza del 14 settembre 2023 ma, per quanto possa sembrare strano, per raccontarne l’esito abbiamo necessità di fare riferimento ad una differente decisione, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, ordinanza n. 50430/2023, udienza del 14 dicembre 2023, di cui riportiamo il testo integrale: “All’udienza del 14 settembre 2023 questa seconda sezione penale della Corte di Cassazione decideva i ricorsi proposti da VS ed altri avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli che il 28/9/2022 aveva confermato il giudizio di penale responsabilità espresso nei loro confronti dal Tribunale cittadino il 30/6/2021 in relazione ad una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate e tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. VS, in particolare, con unico motivo di impugnazione, aveva dedotto la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto il difensore di fiducia, avv. Maurizio Capozzo, alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze. Il collegio giudicante, rilevando che in nessuna delle udienze celebratesi dinanzi alla Corte di Appello era stata eccepito l’omesso avviso all’avv. Capozzo, dichiarava inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’esistenza di altro difensore di fiducia dello Scarano e, pertanto, della sussistenza di una nullità a regime intermedio intempestivamente rilevata, anche alla luce dei principi posti da questa Corte di Cassazione, secondo cui il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell’imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell’imputato che dell’altro difensore, ritualmente avvisati (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651). Durante la stesura della motivazione della sentenza, però, si è rilevato l’errore percettivo in cui si era incorsi, in quanto nel ricorso per cassazione proposto nell’interesse di VS si era espressamente specificato che non era “intervenuta alcuna nuova nomina, surroga o affiancamento di altro difensore”, come, peraltro, verificato dall’esame degli atti trasmessi a questa Corte, sicché si è proceduto senza formalità, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una svista o equivoco incidente sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto è stato percepito in modo difforme da quello effettivo, tale da integrare l’errore di fatto, indicato dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Barbato, Rv. 273193; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250527) e, per quel che più rileva, si tratta di errore percettivo determinante ai fini della decisione presa, in quanto l’omesso avviso dell’udienza all’unico difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo cod. proc. pen. (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Rv. 263598). Si impone, pertanto, la necessità di correggere l’errore nel dispositivo della sentenza di cui si tratta, come riportato nel ruolo di udienza, con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei confronti di VS, con trasmissione degli atti per il giudizio alla Corte territoriale, e le rettifiche conseguenziali in tema di spese processuali. P.Q.M. Corregge il dispositivo della sentenza emessa dalla seconda sezione penale di questa Corte in data 14/9/2023, riportato nel ruolo di udienza pubblica n. 20, nei confronti di VS nel senso di aggiungere, prima

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Presentazione del libro “Lettere a Francesca”

  Il 26 ottobre 2023, a Catanzaro, nell’Auditorium Casalinuovo gremito di oltre 400 studenti, è stato presentato il libro “Lettere a Francesca”, libro che nasce dall’incontro di Francesca Scopelliti e della fondazione Enzo Tortora con l’Unione delle Camere penali italiane e si propone quale strumento utile a continuare la straordinaria battaglia politica che un uomo retto e coraggioso, Enzo Tortora, ha combattuto fino all’ultimo istante della sua vita per l’affermazione della responsabilità civile dei magistrati, della terzietà del giudice, della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, nonché della cultura di un processo penale giusto e autenticamente liberale, non inquinato dal circo mediatico giudiziario. In rappresentanza della Camera Penale di Catanzaro sono intervenuti l’Avv. Francesco Iacopino, l’Avv. Danilo Iannello e l’Avv. Antonella Canino. Approfondisci l’argomento: https://shorturl.at/nBO48 https://shorturl.at/tuUX7

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L’evoluzione gattopardiana delle misure di prevenzione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

  di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (Avvocato del Foro di Torino) Con la consueta ed eccelsa sapienza giuridica Marcello Fattore, in un articolo pubblicato su Il Dubbio del 5 aprile scorso, ricorda che le misure di prevenzione hanno origini remote, sono da sempre limitative della libertà personale e, destinate a fronteggiare situazioni apparentemente eccezionali, hanno finito con essere stabilizzate dal potere statuale di turno: un sistema degno della peggiore inquisizione che, nei secoli, ha fatto una strage di diritti e ancora oggi conserva evidenti connotati repressivi. Conoscerne le origini è necessario, per smascherare l’ipocrisia di chi, pur di difenderle e non potendo altrimenti giustificarne la eccentricità rispetto ai principi generali dell’ordinamento, ne colloca la genesi quale risposta alla eversione terroristica o alla criminalità mafiosa. In realtà, un sistema punitivo/preventivo era già presente nel Regno di Sardegna: tra le “regie patenti” alcune erano destinate agli “individui dediti alle osterie e all’ozio a tutti i vizi che ne derivano e che troppo sovente riescono ad eludere l’azione della giustizia”, che si ritenevano, pur in assenza di prove, essere autori di furti nelle campagne e che venivano raggiunti anche dalle misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Seguirono la legge Galvagno nel 1852, la legge Pica contro il brigantaggio nelle province meridionali e contro gli anarchici che “costituiscono turbamento” (ogni riferimento alla attualità è puramente casuale…). Nella produzione legislativa, vi fu una breve pausa fino all’avvento del fascismo, regime in cui le misure di prevenzione furono il maggiore strumento contro il dissenso politico. In quella stessa epoca, furono varate le prime misure di prevenzione antimafia, per conferire poteri speciali al prefetto. Con la Costituzione, la mancata previsione delle misure di prevenzione indusse il Legislatore ad una prima giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, prevedendo l’intervento di un giudice, ma senza tuttavia modificare il contenuto della legge: attribuire ad un soggetto diverso da quello esecutivo un potere tanto esteso pareva sufficiente a conferire alle misure di prevenzione dignità e rispondenza al dettato costituzionale. Ma, come contraltare, la proliferazione legislativa di nuovi soggetti passibili e l’introduzione massiccia di misure di prevenzione patrimoniali proseguì incessantemente, estendendo la normativa antimafia ai soggetti considerati pericolosi comuni (legge Reale del 1975), e prevedendo, nel 2009, la applicazione disgiunta di misure personali e patrimoniali per tutti, mafiosi e non, in base ad una semplice sproporzione rispetto ai redditi dichiarati. Nel 2011 l’operazione di “fagocitazione” dei pericolosi comuni tra i soggetti passibili di prevenzione si è completata anche dal punto di vista formale, con il varo del decreto legislativo 159 che passerà alla storia, significativamente, come il Codice Antimafia. In questi ultimi anni, la platea degli assoggettabili a misure di prevenzione si è arricchita ed oggi i destinatari sono anche persone (e patrimoni) che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso (gli stalker, gli evasori fiscali, i corrotti ad esempio). Un sistema così perverso che ha fatto dell’eccezione la regola, dell’emergenza l’ordinario, sacrificando diritti costituzionalmente garantiti, non poteva passare inosservato a livello europeo, al punto che con la nota sentenza del 2017 De Tommaso c/ Italia la CEDU rilevò un deficit di tassativizzazione nella normativa italiana in materia di misure di prevenzione. La Corte costituzionale, con una indubbia capacità di equilibrismo giuridico e un uso disinvolto della semantica, ha ritenuto che le misure di prevenzione pur avendo una dimensione afflittiva non hanno scopi punitivi, non possono essere assimilate alle pene, ma hanno come unico scopo il controllo della pericolosità sociale. Per usare le parole del professor Tullio Padovani, la distinzione operata dalla Corte costituzionale tra afflizione e punizione “corrisponde alla distinzione tra operazioni militari speciali e guerra”. Vane sono state le voci che, da parte della dottrina più illuminata e dalla avvocatura sono arrivate per denunciare l’incostituzionalità dell’intero sistema di prevenzione, che deve la sua sopravvivenza, si diceva, all’ipocrisia dei suoi falsi natali antimafia. E nel nome dell’antimafia, storicamente, è tutto consentito. Ecco che, allora, il presente e il futuro sono in realtà un ritorno al passato. Infatti, dalle “regie misure di prevenzione” del monarca per gli oziosi e vagabondi (in letteratura, quelle del principe per i “bravi” delle grida manzoniane, posti alla corda “ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno…” ), siamo arrivati alle misure di prevenzione di competenza del Prefetto e del Questore, quali le interdittive antimafia nei confronti delle imprese e, per quanto riguarda i singoli, l’avviso orale qualificato (“salvato” dal denunciato profilo di illegittimità costituzionale anche con l’ultima sentenza della Consulta del 20 dicembre 2022): misura di prevenzione di tipo amministrativo “a vita” poiché, non ha una durata predeterminata (è l’ergastolo in versione preventiva…). Anche l’istituto del 41 bis è stato considerato dalla Corte di Cassazione una misura di prevenzione ibrida, che presenta “profili di differenza quanto a presupposti e funzioni” con le misure di prevenzione in senso stretto ma, nel contempo, singolari similitudini, in quanto collegato alla pericolosità dell’autore (e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa). Chi pensa, allora, che con qualche correttivo, o interpretazione “tassativizzante”, il sistema di prevenzione possa rendersi rispondente ai principi basilari dell’ordinamento, è come il medico che pensa di curare un tumore con medicine omeopatiche. La loro lunga storia ci dice che tutte le riforme, anche quelle presentate come nuove codificazioni, hanno solo scalfito la superficie di quella che si presenta come la peggiore delle “terribilità” statuali. Per dirla con le parole, ancora una volta condivisibili, di Marcello Fattore “la prevenzione è asistematica,” come tale inemendabile: l’obiettivo dell’avvocatura penale non può che essere la cancellazione dall’ordinamento di un sistema che “tutti ci invidiano” ma che (chissà come mai…) nessuno ci copia.

L’evoluzione gattopardiana delle misure di prevenzione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Leggi tutto »

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