Nome dell'autore: barbara

Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione

Di Giuseppe Amarelli* –  Il controllo giudiziario volontario è stato introdotto nel sistema della prevenzione antimafia con il duplice obiettivo di mitigare l’indiretta ma draconiana portata afflittiva delle interdittive e di differenziare l’entità dell’intervento prefettizio a seconda della gravità delle situazioni sintomatiche di contagio mafioso, evitando l’irragionevole assurdo di assimilarle quoad incapacitatem e di adottare il medesimo provvedimento inabilitante sia nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso, che della vittima di un’estorsione mafiosa. Nei casi di infiltrazione mafiosa solamente occasionale si è così concessa la possibilità all’impresa destinataria di un’interdittiva di richiedere, previa impugnazione al TAR, l’attivazione da parte del tribunale di prevenzione di un periodo di monitoraggio della durata da uno a tre anni per consentire l’eventuale bonifica e sospendere gli effetti incapacitanti. Questo istituto, sebbene sia nato per incidere a valle del sistema della prevenzione amministrativa antimafia, lenendone gli eccessi rigoristici, in realtà, ha segnato un radicale cambio di paradigma nelle politiche di contrasto all’ingerenza mafiosa nelle imprese, più in sintonia con gli assetti valoriali di uno Stato costituzionale democratico, in cui queste prioritarie esigenze pubblico-collettive devono sempre tenere nel giusto conto i contrapposti interessi sia dei destinatari diretti, che dei destinatari indiretti, come i lavoratori dipendenti e gli stakeholders. Grazie al controllo volontario, si è abbandonata la pregressa strategia imperniata su un approccio retrospettivo-stigmatizzante e su misure istantanee immediatamente inibitrici dei rapporti con la pubblica amministrazione e si è inaugurata una del tutto nuova, incentrata su un approccio prospettico-cooperativo e su misure dialogiche di lunga durata, inclusive e recuperatorie, in cui lo Stato non ostracizza subito l’impresa contaminata “colpevolizzandola”, ma, al contrario, le si affianca in un articolato processo di self cleaning. Purtroppo, ad oggi, nonostante le buone intenzioni, il bilancio sullo stato di salute del controllo volontario è ancora chiaroscurale, presentando alcune luci e non poche ombre. Per un verso, è sicuramente apprezzabile l’estensione delle sue potenzialità applicative ottenuta tramite: la tendenziale polarizzazione del giudizio per la sua concessione sulla prognosi di futura bonificabilità; l’interpretazione del concetto di occasionalità come ‘non stabilità’; l’esclusione del Prefetto dal novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento di ammissione; il riconoscimento della sua adottabilità anche rispetto al diniego di iscrizione nelle white list. Per altro verso, generano non poche perplessità: la sua applicazione ancora fortemente a “geografia variabile”, essendo pochi i tribunali di prevenzione che ne hanno colto la straordinaria utilità per l’intero sistema; il mancato coordinamento dell’esito positivo con la misura interdittiva “a margine” della quale è stato concesso; e, soprattutto, il contrasto interpretativo circa i presupposti applicativi. A tale ultimo riguardo, convivono in giurisprudenza due orientamenti opposti, uno maggiormente garantista che, per evitare esiti irragionevoli, ritiene possibile applicare la misura anche quando il g.o. accerti con i suoi diversi standard probatori l’insussistenza dell’infiltrazione mafiosa posta alla base dell’interdittiva, ritenendo ancor più probabile in questo caso la recuperabilità dell’impresa; ed un altro più rigoroso che, invece, facendo leva sull’autonomia di giudizio del giudice della prevenzione rispetto al giudice amministrativo, esclude tale possibilità, innescando un paradosso per il quale l’impresa infiltrata occasionalmente può mitigare gli effetti dell’interdittiva, mentre quella non infiltrata deve continuare a scontarli. Sul funzionamento del controllo volontario grava poi un’altra ipoteca iscritta dalla misura amministrativa della prevenzione collaborativa introdotta nel 2021 sulla sua falsariga. Questa, infatti, sembra voler accentrare nelle mani del Prefetto il contrasto ai tentativi di ingerenza mafiosa nelle imprese, evitando conflitti con il potere giudiziario che, oggi, invece, nei casi di ammissione al controllo, sembrano sorgere. Nell’attesa (vana?) di una più organica riforma della prevenzione amministrativa antimafia che la traghetti sul piano della prevenzione giurisdizionale, declassando il Prefetto ad organo pubblico deputato a proporre ad un giudice terzo le misure dell’interdittiva e del controllo, si deve confidare in una valorizzazione del controllo volontario da parte dell’autorità giudiziaria. Diversamente da quanto possa apparire prima facie, questo non rappresenta un mero favor per il destinatario che indebolisce l’apparato di contrasto alle mafie. All’opposto, costituisce uno strumento giuridico dotato di una pluralità di funzioni eterogenee ma complementari, tendendo a: equo-contemperare meglio i contrapposti interessi in gioco, evitando di sbilanciare il rapporto autorità-individuo in modo antitetico con la natura democratica del nostro ordinamento; tutelare i diritti dei terzi estranei esposti a serio rischio dalle interdittive, in primis quelli dei lavoratori dipendenti; e, last but not the least, offrire un bagaglio informativo più completo e attendibile all’autorità competente per la valutazione del livello di infiltrazione mafiosa e, quindi, per la scelta della misura più idonea da adottare.   *Professore Ordinario di Diritto Penale

Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione Leggi tutto »

Principio di autonomia della responsabilità dell’ente

a cura di avv. Francesco Mazza, avv. Francesco Catanzaro, avv. Maria Laura De Caro, avv. Serena Lacaria, avv. Alessio Russo, dott.ssa Annalaura Ludovico Da poco più di un ventennio è stata introdotta all’interno del nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti i quali divengono, così, centri di imputazione autonomi e ulteriori rispetto all’autore persona fisica del reato. L’art. 1 del d.lgs. in esame chiarisce il campo di applicazione della disciplina relativa alla “responsabilità da reato degli enti”, stabilendo che essa possa sorgere sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica sia a carico di quelli che ne sono privi. Non sono invece soggetti a tale normativa gli enti di cui al comma 3: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono attività di rilievo costituzionale. La ratio di tale esclusione va ricercata nella considerazione che, con riferimento a detti enti, le tipologie di sanzioni previste dal decreto legislativo 231/2001, quali la sanzione pecuniaria e la sanzione interdittiva, sarebbero inapplicabili o disfunzionali, perché i loro effetti negativi, lungi dal ricadere direttamente sull’ente, si produrrebbero invece in capo ai cittadini. Occorre precisare, inoltre come non sia sufficiente che tali soggetti commettano un fatto di reato, ma è necessario, affinché sorga anche la responsabilità dell’ente, che il comportamento penalmente illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, con la precisazione ex art. 5 comma 2 che, qualora il soggetto attivo del reato agisca per un interesse esclusivo proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere. Così facendo si assiste ad un superamento del dogma secondo cui “societas delinquere et puniri non potest” per il quale solo una persona fisica può rispondere della commissione di un reato e non anche un soggetto giuridico. Tuttavia, la normativa in esame, per come delineata e precisata anche dalla Suprema Corte, prevede che l’ente possa andare esente dalla responsabilità da reato, ma le condizioni di tale esenzione dipenderanno dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: Se il soggetto attivo del reato si trova in una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà sottrarsi a responsabilità solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato i modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati; Se il reo si trova in posizione subordinata, deve essere l’accusa a dimostrare in giudizio che il modello di gestione adottato non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In relazione a quanto sopra delineato appare doveroso rappresentare le posizioni dottrinali e giurisprudenziali sopravvenute, soprattutto relativamente al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8, comma 1, lett. b) del d.lgs. 231/2001.   Un esempio esplicativo della disciplina in esame è certamente riconducibile all’ipotesi di prescrizione del reato presupposto, la cui conseguenza è quella secondo cui il giudice istruttore sarà comunque tenuto a valutare e procedere tramite un percorso processuale del tutto autonomo ed infatti, essa sussiste anche nelle ipotesi in cui il reato “presupposto” si estingue, eccezion fatta per le ipotesi di amnistia. L’illecito dell’ente, pertanto, pur essendo inscindibilmente correlato alla commissione di un reato da parte di una persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia giuridica e a confermarlo è la Suprema Corte in due sentenze che si qualificano come promotrici di un pensiero per il quale si ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo. La prima sentenza in esame è la n. 21640/2023 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’interno della quale viene precisato che il giudice di merito non solo non ha accertato gli specifici profili di colpa di organizzazione, ma non ha neppure verificato se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia, ha chiarito la Corte di Cassazione, i criteri valutativi, tramite i quali la Corte d’Appello sia pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente, sono stati valutati tramite una formula del tutto generica decisamente inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità in capo all’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in quanto totalmente carente di elementi concreti indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’ente. Nel motivare quanto appena sostenuto, la Suprema Corte richiama un’altra sentenza, la n. 23401/2022 della Sesta Sezione Penale dell’11.11.2021, dep. 2022, secondo la quale: “l’addebito della responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale del soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto – normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo”. Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello organizzativo adottato, il giudice di merito è chiamato ad adottare il criterio epistemico – valutativo della c.d. “prognosi prostuma”: tale criterio si sostanzia nell’attività da parte del giudice di collocarsi, seppur idealmente, nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se, nell’ipotesi in cui si fosse osservato il modello organizzativo per come previsto, il pericolo di verificazione dell’illecito si sarebbe eliminato o quanto meno ridotto. Sarà lo stesso giudicante, pertanto, a dover dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, la carenza di quel complesso di regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, le quali trovano la loro sede naturale all’interno dei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” (MOG), meglio delineati all’interno degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. Anche la dottrina maggioritaria si trova d’accordo nel sostenere quanto affermato dalla Suprema Corte, soprattutto in relazione all’operato del giudice di merito relativamente all’adeguatezza del modello sopraindicato in quanto dovrà dimostrare, tramite una verifica concreta e non tramite un semplice criterio sillogistico per cui la commissione del reato equivale all’inidoneità dell’assetto organizzativo, se l’eventuale rispetto della normativa sancita dal MOG idoneo delineato dall’ente avrebbe portato a far sì che l’evento non si verificasse. In conclusione, la responsabilità dell’ente deriva dall’idoneità e correttezza del modello organizzativo

Principio di autonomia della responsabilità dell’ente Leggi tutto »

IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO

I comunicati di ANM – nazionale e territoriale – che censurano la ruvidezza dei toni usati nel documento licenziato dal Coordinamento regionale, all’indomani dell’assoluzione dell’Avvocato Armando Veneto, meritano una attenta e seria analisi. Entriamo subito in medias res: comprendiamo la replica di ANM per il registro comunicativo scelto dall’avvocatura. Due le riflessioni. La prima, di contesto. Abbiamo sofferto a fianco di Armando Veneto per 4 lunghissimi anni, registrando quanto male egli abbia patito per una accusa infamante che è lontana anni luce dalla Sua storia personale e professionale. L’esito liberatorio – un esito che ha il merito di avere riallineato la verità processuale a quella “storica” e all’evidenza della prova – ha suscitato emozioni forti, intense, che, da un lato, sono alla base del registro del comunicativo espresso da chi si sente “figlio” di quella Scuola penalistica che vede in Armando Veneto l’indiscusso Maestro; dall’altro lato, hanno stimolato riflessioni indifferibili e urgenti sulla cifra non tollerabile di ingiustizia del sistema. Una cifra ben conosciuta dall’avvocatura, costretta a misurarsi sempre più spesso con la quota insopportabile, semmai ve ne possa essere una, di sofferenza marchiata a fuoco sulla pelle viva del cittadino esposto alla nuova fisionomia assunta dal moderno diritto penale di lotta. La seconda, di prospettiva. ANM legge nelle parole – più precisamente negli aggettivi e nelle metafore usate – un attacco a specifici (ma non precisati) magistrati ai quali esprime pertanto solidarietà. Non è così. Se così fosse, infatti, saremmo tutti sollevati dal pensiero che le distorsioni denunciate negli anni dall’avvocatura, da nord a sud, dipendano dai limiti di pochi e non, per come in effetti riteniamo, da sbilanciamenti di sistema che incrementano i rischi per tutti, non solo per i sovraesposti in ragione della categoria o del profilo di appartenenza. Emblematico, al riguardo, è anche il caso di Torre Annunziata, in cui l’intervento di un avvocato (un grande Avvocato…) davanti una platea gremita di studenti è stato bollato da quella sezione di ANM, come nocivo per la gioventù immatura. Ci sia consentito di dissentire. Vorremmo che ANM ascoltasse il grido di dolore proveniente dall’avvocatura tutta: interrogare la coscienza di chi detiene il potere e riflettere sui costi inaccettabili di un esercizio dell’autorità sbilanciato dagli accenti punitivi. Vorremmo che non venisse trascurato il merito delle posizioni critiche provenienti dal mondo in fermento dell’assise organizzata dei penalisti. Quello rimane ancora sul tappeto. Da parte nostra c’è la ferma volontà di leggere il buono del messaggio che ANM diffonde – un invito alla pacatezza – e l’auspicio che, da parte di tutti, si abbia il coraggio di fermare l’attenzione su ciò che i casi esemplari imporrebbero di inserire nell’agenda di chi è interessato al funzionamento del processo penale. Per ridurre le distanze tra noi, è sufficiente rivolgere l’attenzione sui moderni effetti prodotti dal più terribile dei poteri, e sulla piaga degli innocenti precipitati nel processo ed estratti in pezzi dopo anni di patimenti. Ha ragione ANM, serve un certo grado di dissennatezza per spingere gli avvocati a denunciare le anomalie del sistema, piuttosto che assennatamente accomodarsi al riparo di banali luoghi comuni che raccomandano di limitarsi ad esprimere soddisfazione perché giustizia è fatta. Sia consentito: assennati sì, ma non fino al punto di rinunciare ad occuparci delle dinamiche dell’accertamento giudiziario che generano inique spirali e danni incalcolabili. Perché molto assennatamente tradiremmo il senso della nostra funzione. A fine febbraio, il 27 per la precisione, le Camere Calabresi hanno trovato chiuse le porte dei Tribunali, nonostante avessero espressamente chiesto l’autorizzazione a ricordare, nelle aule di Udienza, la ricorrenza del V anniversario del suicidio di Rocco Greco, vittima di (in)giustizia. Ci è stato spiegato che parlare in pubblica udienza dell’errore giudiziario e delle sue cause deprime la fiducia dei cittadini nella Giustizia; e fuor di luogo sarebbe manifestare nei luoghi in cui si amministra giustizia dubbi sulla costituzionalità di norme che alimentano il rischio dell’errore. Ci è stato richiesto di preservare il cittadino e di ricercare piuttosto il confronto tra addetti ai lavori. Crediamo che il Tribunale debba essere (anche) il luogo in cui discutere dei “limiti” del sistema giustizia. Ad ogni modo, rinnoviamo la nostra disponibilità al confronto franco e leale con la magistratura, specie sui temi difficili. Un confronto aperto alla società civile, perché il tema della libertà impegna, per primi, i cittadini. Dobbiamo esser disposti a riflettere sulle concrete dinamiche dell’errore giudiziario e dei danni del processo, che riguarda tutti, nessuno escluso. Dobbiamo interrogarci sul ribaltamento (anche culturale) della presunzione di innocenza, sulle sue cause, sulla sua contagiosa diffusività, sulla permeabilità di un sistema inefficace quando si tratta di prevenire l’errore ovvero di riconoscerlo e porvi rimedio. Insomma, dovremmo essere pronti tutti a comprendere che il confronto utile è quello scomodo. Auspichiamo disponibilità a questo genere di confronto.   Scarica il comunicato da noi sottoscritto: IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO Rassegna stampa: https://shorturl.at/bcBVX https://shorturl.at/krN03

IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO Leggi tutto »

L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci

di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi –    Oggi raccontiamo una storia sbagliata. Ce ne sono più di quante vorremmo nel grande calderone della giustizia e questo crea una doppia difficoltà: è difficile dedicare a tutte l’attenzione che pure meriterebbero; è sempre latente la sensazione di inutilità poiché nessuno sforzo pare capace di provocare anche il più marginale cambiamento. Tuttavia ci sono storie più sbagliate di altre, soprattutto quando sbaglia chi ha il compito di correggere gli errori altrui. È questo il ruolo della Corte di cassazione che Michele Taruffo, in una raccolta di saggi edita da Il Mulino nel 1991, denominò il “vertice ambiguo”, espressione giustificata dalla difficoltà di coniugare le due funzioni tipiche della nostra Suprema Corte; la verifica della legittimità delle singole procedure e il ruolo nomofilattico generale. Chi analizza per studio o lavoro la sua produzione complessiva, i risultati che produce, i suoi conflitti interni, la sua capacità persuasiva, non tarda a scorgere i sintomi dell’affanno: la Cassazione fa fatica a reggere i rilevantissimi flussi di lavoro che le sono assegnati ma al tempo stesso deve smaltirli perché il tempo non è più una variabile indipendente e l’arretrato non è più un’opzione. La prima vittima è ovviamente la funzione nomofilattica, sempre più indebolita da una produzione necessariamente convulsa che fa premio su qualsiasi altro fattore, ivi compresa la riflessione. La seconda vittima è la verifica della legittimità: il ritmo martellante dei flussi in entrata, delle udienze sovraffollate, delle camere di consiglio, delle decisioni da scrivere in fretta e furia fanno sì che la Cassazione si distanzi sempre più dal cuore dei processi e quindi dalle persone in carne e ossa che stanno dietro ogni ricorso e ogni difesa. Non stupisce allora che possano verificarsi storie sbagliate come quella di cui ci accingiamo a parlare. L’avvocato Maurizio Capozzo, difensore di VS (lo identifichiamo con le sole iniziali nel rispetto del suo diritto alla riservatezza), una di queste persone in carne e ossa, ricorre per cassazione contro la decisione della Corte territoriale che ha confermato la condanna inflitta in primo grado al suo assistito, riconosciuto responsabile in concorso di una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate o tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. Si affida ad un unico motivo, deducendo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto – esso difensore di fiducia – alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze attraverso le quali si è sviluppato il giudizio di appello, per essere stato notificato l’avviso, invece, ad altro difensore. Il ricorso è trattato e deciso da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 50649/2023, udienza del 14 settembre 2023 ma, per quanto possa sembrare strano, per raccontarne l’esito abbiamo necessità di fare riferimento ad una differente decisione, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, ordinanza n. 50430/2023, udienza del 14 dicembre 2023, di cui riportiamo il testo integrale: “All’udienza del 14 settembre 2023 questa seconda sezione penale della Corte di Cassazione decideva i ricorsi proposti da VS ed altri avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli che il 28/9/2022 aveva confermato il giudizio di penale responsabilità espresso nei loro confronti dal Tribunale cittadino il 30/6/2021 in relazione ad una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate e tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. VS, in particolare, con unico motivo di impugnazione, aveva dedotto la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto il difensore di fiducia, avv. Maurizio Capozzo, alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze. Il collegio giudicante, rilevando che in nessuna delle udienze celebratesi dinanzi alla Corte di Appello era stata eccepito l’omesso avviso all’avv. Capozzo, dichiarava inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’esistenza di altro difensore di fiducia dello Scarano e, pertanto, della sussistenza di una nullità a regime intermedio intempestivamente rilevata, anche alla luce dei principi posti da questa Corte di Cassazione, secondo cui il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell’imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell’imputato che dell’altro difensore, ritualmente avvisati (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651). Durante la stesura della motivazione della sentenza, però, si è rilevato l’errore percettivo in cui si era incorsi, in quanto nel ricorso per cassazione proposto nell’interesse di VS si era espressamente specificato che non era “intervenuta alcuna nuova nomina, surroga o affiancamento di altro difensore”, come, peraltro, verificato dall’esame degli atti trasmessi a questa Corte, sicché si è proceduto senza formalità, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una svista o equivoco incidente sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto è stato percepito in modo difforme da quello effettivo, tale da integrare l’errore di fatto, indicato dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Barbato, Rv. 273193; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250527) e, per quel che più rileva, si tratta di errore percettivo determinante ai fini della decisione presa, in quanto l’omesso avviso dell’udienza all’unico difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo cod. proc. pen. (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Rv. 263598). Si impone, pertanto, la necessità di correggere l’errore nel dispositivo della sentenza di cui si tratta, come riportato nel ruolo di udienza, con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei confronti di VS, con trasmissione degli atti per il giudizio alla Corte territoriale, e le rettifiche conseguenziali in tema di spese processuali. P.Q.M. Corregge il dispositivo della sentenza emessa dalla seconda sezione penale di questa Corte in data 14/9/2023, riportato nel ruolo di udienza pubblica n. 20, nei confronti di VS nel senso di aggiungere, prima

L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci Leggi tutto »

Presentazione del libro “Lettere a Francesca”

  Il 26 ottobre 2023, a Catanzaro, nell’Auditorium Casalinuovo gremito di oltre 400 studenti, è stato presentato il libro “Lettere a Francesca”, libro che nasce dall’incontro di Francesca Scopelliti e della fondazione Enzo Tortora con l’Unione delle Camere penali italiane e si propone quale strumento utile a continuare la straordinaria battaglia politica che un uomo retto e coraggioso, Enzo Tortora, ha combattuto fino all’ultimo istante della sua vita per l’affermazione della responsabilità civile dei magistrati, della terzietà del giudice, della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, nonché della cultura di un processo penale giusto e autenticamente liberale, non inquinato dal circo mediatico giudiziario. In rappresentanza della Camera Penale di Catanzaro sono intervenuti l’Avv. Francesco Iacopino, l’Avv. Danilo Iannello e l’Avv. Antonella Canino. Approfondisci l’argomento: https://shorturl.at/nBO48 https://shorturl.at/tuUX7

Presentazione del libro “Lettere a Francesca” Leggi tutto »

L’evoluzione gattopardiana delle misure di prevenzione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

  di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (Avvocato del Foro di Torino) Con la consueta ed eccelsa sapienza giuridica Marcello Fattore, in un articolo pubblicato su Il Dubbio del 5 aprile scorso, ricorda che le misure di prevenzione hanno origini remote, sono da sempre limitative della libertà personale e, destinate a fronteggiare situazioni apparentemente eccezionali, hanno finito con essere stabilizzate dal potere statuale di turno: un sistema degno della peggiore inquisizione che, nei secoli, ha fatto una strage di diritti e ancora oggi conserva evidenti connotati repressivi. Conoscerne le origini è necessario, per smascherare l’ipocrisia di chi, pur di difenderle e non potendo altrimenti giustificarne la eccentricità rispetto ai principi generali dell’ordinamento, ne colloca la genesi quale risposta alla eversione terroristica o alla criminalità mafiosa. In realtà, un sistema punitivo/preventivo era già presente nel Regno di Sardegna: tra le “regie patenti” alcune erano destinate agli “individui dediti alle osterie e all’ozio a tutti i vizi che ne derivano e che troppo sovente riescono ad eludere l’azione della giustizia”, che si ritenevano, pur in assenza di prove, essere autori di furti nelle campagne e che venivano raggiunti anche dalle misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Seguirono la legge Galvagno nel 1852, la legge Pica contro il brigantaggio nelle province meridionali e contro gli anarchici che “costituiscono turbamento” (ogni riferimento alla attualità è puramente casuale…). Nella produzione legislativa, vi fu una breve pausa fino all’avvento del fascismo, regime in cui le misure di prevenzione furono il maggiore strumento contro il dissenso politico. In quella stessa epoca, furono varate le prime misure di prevenzione antimafia, per conferire poteri speciali al prefetto. Con la Costituzione, la mancata previsione delle misure di prevenzione indusse il Legislatore ad una prima giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, prevedendo l’intervento di un giudice, ma senza tuttavia modificare il contenuto della legge: attribuire ad un soggetto diverso da quello esecutivo un potere tanto esteso pareva sufficiente a conferire alle misure di prevenzione dignità e rispondenza al dettato costituzionale. Ma, come contraltare, la proliferazione legislativa di nuovi soggetti passibili e l’introduzione massiccia di misure di prevenzione patrimoniali proseguì incessantemente, estendendo la normativa antimafia ai soggetti considerati pericolosi comuni (legge Reale del 1975), e prevedendo, nel 2009, la applicazione disgiunta di misure personali e patrimoniali per tutti, mafiosi e non, in base ad una semplice sproporzione rispetto ai redditi dichiarati. Nel 2011 l’operazione di “fagocitazione” dei pericolosi comuni tra i soggetti passibili di prevenzione si è completata anche dal punto di vista formale, con il varo del decreto legislativo 159 che passerà alla storia, significativamente, come il Codice Antimafia. In questi ultimi anni, la platea degli assoggettabili a misure di prevenzione si è arricchita ed oggi i destinatari sono anche persone (e patrimoni) che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso (gli stalker, gli evasori fiscali, i corrotti ad esempio). Un sistema così perverso che ha fatto dell’eccezione la regola, dell’emergenza l’ordinario, sacrificando diritti costituzionalmente garantiti, non poteva passare inosservato a livello europeo, al punto che con la nota sentenza del 2017 De Tommaso c/ Italia la CEDU rilevò un deficit di tassativizzazione nella normativa italiana in materia di misure di prevenzione. La Corte costituzionale, con una indubbia capacità di equilibrismo giuridico e un uso disinvolto della semantica, ha ritenuto che le misure di prevenzione pur avendo una dimensione afflittiva non hanno scopi punitivi, non possono essere assimilate alle pene, ma hanno come unico scopo il controllo della pericolosità sociale. Per usare le parole del professor Tullio Padovani, la distinzione operata dalla Corte costituzionale tra afflizione e punizione “corrisponde alla distinzione tra operazioni militari speciali e guerra”. Vane sono state le voci che, da parte della dottrina più illuminata e dalla avvocatura sono arrivate per denunciare l’incostituzionalità dell’intero sistema di prevenzione, che deve la sua sopravvivenza, si diceva, all’ipocrisia dei suoi falsi natali antimafia. E nel nome dell’antimafia, storicamente, è tutto consentito. Ecco che, allora, il presente e il futuro sono in realtà un ritorno al passato. Infatti, dalle “regie misure di prevenzione” del monarca per gli oziosi e vagabondi (in letteratura, quelle del principe per i “bravi” delle grida manzoniane, posti alla corda “ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno…” ), siamo arrivati alle misure di prevenzione di competenza del Prefetto e del Questore, quali le interdittive antimafia nei confronti delle imprese e, per quanto riguarda i singoli, l’avviso orale qualificato (“salvato” dal denunciato profilo di illegittimità costituzionale anche con l’ultima sentenza della Consulta del 20 dicembre 2022): misura di prevenzione di tipo amministrativo “a vita” poiché, non ha una durata predeterminata (è l’ergastolo in versione preventiva…). Anche l’istituto del 41 bis è stato considerato dalla Corte di Cassazione una misura di prevenzione ibrida, che presenta “profili di differenza quanto a presupposti e funzioni” con le misure di prevenzione in senso stretto ma, nel contempo, singolari similitudini, in quanto collegato alla pericolosità dell’autore (e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa). Chi pensa, allora, che con qualche correttivo, o interpretazione “tassativizzante”, il sistema di prevenzione possa rendersi rispondente ai principi basilari dell’ordinamento, è come il medico che pensa di curare un tumore con medicine omeopatiche. La loro lunga storia ci dice che tutte le riforme, anche quelle presentate come nuove codificazioni, hanno solo scalfito la superficie di quella che si presenta come la peggiore delle “terribilità” statuali. Per dirla con le parole, ancora una volta condivisibili, di Marcello Fattore “la prevenzione è asistematica,” come tale inemendabile: l’obiettivo dell’avvocatura penale non può che essere la cancellazione dall’ordinamento di un sistema che “tutti ci invidiano” ma che (chissà come mai…) nessuno ci copia.

L’evoluzione gattopardiana delle misure di prevenzione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Leggi tutto »

LE MISURE DI PREVENZIONE: CONTROLLO E PUNIZIONE.

CONTROLLARE E PUNIRE, PUNIRE SENZA ACCERTARE di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (avvocato del Foro di Torino) Ormai da tempo, stiamo assistendo ad un uso massiccio delle misure di prevenzione, sia in ambito amministrativo, sia in ambito giudiziario. Ciò è dovuto ad una legislazione, sempre emergenziale, che mira al contrasto di fenomeni criminali estremamente eterogenei tra loro, facendo ricorso alla costante implementazione del catalogo contenuto nel testo unico per le disposizioni antimafia (D.L.vo 159/11). “Codice” che, peraltro, reca disposizioni la cui genesi va fatta risalire alla esigenza, avvertita particolarmente nelle periferie industriali di fine ‘800, di reprimere devianze sociali quali il vagabondaggio, prevenendo così la commissione di reati da parte di soggetti socialmente emarginati e, quindi, potenzialmente pericolosi. Questo strumento, nato dunque in chiave prettamente special preventiva e di applicazione del tutto residuale rispetto alle pene, si è rivelato, nel tempo, un’utile scorciatoia per giungere, attraverso una sempre meno evidente funzione praeter delictum, alla aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati. Tanto da arrivare a prescindere, ormai, persino dalla prognosi di futura pericolosità del soggetto destinatario, perdendo così la funzione special preventiva, per assumere contorni sempre più spiccatamente sanzionatori. Nel percorso di evoluzione ed espansione, l’impulso decisivo verso l’attuale sistematico uso di queste misure si rinviene nel pacchetto sicurezza del 2008 che, consentendo la confisca disgiunta dalla misura di prevenzione personale, l’ha resa uno strumento agile e deformalizzato nella repressione della criminalità da profitto. Repressione (le parole sono importanti) e non più prevenzione, perché da tempo la prognosi di prossima pericolosità personale dei proposti, che nelle intenzioni del Legislatore del 1873  era il presupposto necessario per l’applicazione di misure che, in quanto preventive, dovevano dispiegarsi nel futuro, ha assunto il ruolo, per usare le parole di SSUU Spinelli, del presupposto fattuale e della “misura temporale” dell’ablazione, nel senso di consentire la confisca anche quando non sia possibile prevedere la futura proclività al reato, purché si tratti di beni accumulati in costanza di pregresse manifestazioni delittuose. Dalla prevenzione di fenomeni di marginalità ed emarginazione (destinate agli “oziosi e vagabondi”), le misure di prevenzione hanno lentamente preso la scena del contrasto ai reati lucrogenetici, a valle della commissione, o presunta tale, degli stessi e, cioè, mediante l’apprensione del profitto, o presunto tale, di tali delitti. E, tuttavia, tale fenomeno presenta non pochi punti di frizione, se così inteso, con l’intera architettura costituzionale, sulla quale si regge l’equilibrio tra pretesa punitiva dello stato, sicurezza sociale, libertà personale e libertà di iniziativa economica privata. Si tratta, infatti, di un giudizio sommario, non a caso definito procedimento (e non processo) di prevenzione, destinato a concludersi con un giudizio che, non essendo formalmente una sentenza di condanna, si basa su indizi che non solo non devono essere gravi, precisi e concordanti, ma neanche assimilabili a quelli, ben più labili, sufficienti per la irrogazione di una misura cautelare. Sospetti e, spesso, anche valutazioni probabilistiche. Uno strumento, quindi, di natura e di applicazione naturalmente inquisitorie, per le decise asimmetrie nella formazione e nella valutazione della prova, tanto più utile alle ragioni dello Stato, quanto più caratterizzato da aspetti di peculiare asistematicità rispetto alle forme dell’accertamento della responsabilità penale, all’esito del processo. Si pensi, ad esempio: Alla imprescrittibilità dell’azione, per cui la misura di prevenzione può essere richiesta ed applicata senza limiti di tempo rispetto al fatto-indice di pericolosità. Alla sottrazione alla riserva di Legge, per cui la norma può essere etero-integrata dalla produzione giurisprudenziale, con effetto formante del precetto, annettendo così, al diritto dei Giudici una funzione legislativa concorrente, rispetto al diritto delle Fonti. Alla retroattività delle norme di sfavore e, per effetto della “tassativizzazione giurisprudenziale” avallata anche dal Giudice delle Leggi con la sentenza 24/19, anche della integrazione interpretativa del precetto. Retroattività affermata sulla analogia legis tra misure di prevenzione e misure di sicurezza, che non pare trovare base normativa valida, alla luce dei principi generali dell’ordinamento. Alla previsione di presunzioni di derivazione illecita del patrimonio del proposto, che invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico di chi si difende, sovvertono i canoni della accusatorietà, sui quali si basa il nostro modello processuale penale. Alla tendenziale instabilità del giudicato, che consente la ripetuta attivazione dell’azione di prevenzione sulla base di presupposti di fatto non solo nuovi, ma anche semplicemente non valutati. Tale eccezionalità avrebbe imposto di non sviare l’applicazione delle misure di prevenzione dalla loro finalità special preventiva, esclusivamente indirizzata verso manifestazioni di pericolosità che si presentassero concrete e, soprattutto, future, poiché solo il perseguimento di interessi pubblici superiori avrebbe potuto consentire una aggressione così deformalizzata di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà individuale nelle sue diverse declinazioni e la libertà di iniziativa economica, esercitata mediante il diritto alla proprietà privata. Numerosi sono stati, sul punto, i richiami della Giurisprudenza europea: basterebbe leggere la dissenting opinion nella decisione De Tommaso/Italia, per apprezzare come il sistema prevenzionale nazionale sia visto con sospetto in sede convenzionale e giustificato solo, appunto, in chiave di prevenzione di fenomeni criminali di particolare allarme. Di fronte alla progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione (con l’estensione degli istituti processuali penali in tema di diritto alla prova, astensione e ricusazione, decadenza dall’azione), ma anche davanti all’allineamento ai principi convenzionali in punto di qualità della Legge, avevamo creduto ad una evoluzione delle misure di prevenzione nel senso di attenuarne le asistematicità, così da rispettare quegli standard minimi di garanzia che dovrebbero regimentare azioni che, pur non essendo assimilate a pene, da queste ultime hanno finito per mutuare una funzione ormai spiccatamente afflittiva. Avevamo creduto che, avvicinandosi alla “materia penale”, le misure di prevenzione potessero affrancarsi da quei profili di “terribilità” che, per anni, le avevano relegate nel sottoscala polveroso dove, come vecchi arnesi, erano state relegate e dove, per le loro caratteristiche, avrebbero dovuto rimanere. Attenta dottrina, tuttavia, ci aveva messo in guardia da tempo su come l’abbraccio tra processo penale e misure di prevenzione avrebbe potuto costituire l’occasione, piuttosto che di una nobilitazione delle seconde, della corruzione del primo, del quale la prevenzione si sarebbe presto proposta come utile succedaneo.

LE MISURE DI PREVENZIONE: CONTROLLO E PUNIZIONE. Leggi tutto »

Un anno di covid-19 nel mondo penitenziario

ABSTRACT Il tortuoso percorso della tutela dei diritti umani al tempo del giustizialismo di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   Sommario: 1. Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. – 2. Populismo penale e sovraffollamento penitenziario – 3. Il contenimento del virus nel mondo penitenziario tra misure deflattive e sirene del giustizialismo. – 4. Le carceri un anno dopo: i dati. – 5. Una buona occasione per ripensare il sistema penale. 1- Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. Nelle giornate del 6, 7 e 8 marzo dell’anno passato, all’inizio dell’emergenza sanitaria nazionale ed appena prima del lockdown di giorno 9, le rivolte dei detenuti infiammarono buona parte degli istituti penitenziari italiani, riportandoci indietro di mezzo secolo. Era dagli anni settanta, infatti, che non si assisteva ad una rivolta così generalizzata delle carceri. Erano gli anni in cui la vita penitenziaria era regolata dal vetusto regolamento Rocco e tra i mezzi di disciplina vi erano anche i letti di contenzione. Gli effetti più drammatici delle recenti rivolte si ebbero nell’istituto penitenziario di Modena nel quale, al termine dei disordini, si contarono tredici detenuti morti. Secondo la ricostruzione dei principali media nazionali, i detenuti persero la vita perché, entrati nell’infermeria della casa circondariale modenese, assunsero grossi quantitativi di metadone, trovando così la morte. Alcuni di essi morirono nell’istituto penitenziario S. Anna di Modena, altri nel corso del trasferimento presso altri istituti penitenziari, dal momento che, a seguito della rivolta, fu ordinata la traduzione della maggior parte dei reclusi presso altri siti, visto la parziale inagibilità dell’istituto modenese. Gli eventi descritti hanno comportato l’apertura di procedimenti di indagine al fine di accertare il reale svolgimento dei fatti e la causa dei decessi. Recentemente, la Procura della Repubblica di Modena ha avanzato richiesta di archiviazione rispetto al decesso di otto detenuti della locale casa circondariale perché la morte sarebbe stata causata dall’overdose di metadone avvenuta nel corso della rivolta… LEGGI TUTTO Un anno di covid nel mondo penitenziario

Un anno di covid-19 nel mondo penitenziario Leggi tutto »

Stop all’ergastolo ostativo: “Sì alla speranza e alla funzione rieducativa della pena”

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   In data 23 marzo si è svolta dinanzi alla Corte Costituzionale l’udienza avente ad oggetto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Al termine dell’udienza la Corte ha riservato la decisione. La storia Francesco Saverio Pezzino, condannato all’ergastolo per il delitto di omicidio volontario, avvenuto in contesto mafioso e quindi aggravato, dopo aver scontato oltre trenta anni di carcere ha avanzato istanza di liberazione condizionale al competente Tribunale di Sorveglianza. Il Tribunale di Sorveglianza non ha rigettato l’istanza, ma ha dichiarato l’inammissibilità della stessa, poiché Pezzino nel corso della propria detenzione non ha mai collaborato con la giustizia. In sostanza il tribunale non ha operato alcuna valutazione in ordine al percorso detentivo dell’istante e all’eventuale ravvedimento dello stesso. La questione di legittimità Avverso la declaratoria di inammissibilità la difesa del condannato ha avanzato ricorso in Cassazione e nel corso del giudizio è stata sollevata la questione oggi al vaglio della Corte Costituzionale.  La quaestio ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. In particolare, le disposizioni che disciplinano l’ergastolo ostativo sarebbero, secondo il tessuto argomentativo dell’ordinanza di rimessione, in violazione degli articoli 3 (principio di eguaglianza), 27 (funzione rieducativa della pena e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità) e 117 (obbligo di compatibilità della normativa interna con quella internazionale) della Costituzione. La funzione della pena Infatti, la Corte di Cassazione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19), ha evidenziato come le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza  n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena”. Per meglio comprendere la problematica è necessario, almeno per un momento, mettere da parte le ansie securitarie, oggi molto in voga, e tenere in debito conto la funzione della pena nel suo divenire storico. Ad esempio, la pena dell’ergastolo ha conosciuto un lungo e lento percorso di costituzionalizzazione, iniziato nel 1962 con l’introduzione della liberazione condizionale e poi continuato con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma Gozzini del 1986. Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro ravvedimento alla liberazione condizionale. Al contrario, nel caso della ostatività, avviene che la vigente normativa ripristina una disciplina che è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come concepita dal legislatore del 1930, ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena, salvo l’ipotesi di collaborazione con la giustizia. Presunzione assoluta e preclusione ostativa La problematica sta proprio in questa piega della “vicenda” normativa, cioè l’aver equiparato, mediante una presunzione di carattere assoluto, la mancata collaborazione alla presenza di legami con la criminalità organizzata e ad indice di pericolosità sociale. Difatti, nel caso in cui il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari conseguenza di altri fattori quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’ostatività, pur non essendo la scelta di non collaborare necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Sotto altro aspetto, speculare e contrario, può avvenire che qualcuno decida di collaborare con la giustizia ed in gergo “pentirsi” solo al fine di godere dei benefici che ne conseguono, senza aver posto in essere alcun percorso di rivisitazione critica del proprio passato criminale. L’eventuale accoglimento Qualora la Corte dovesse ritenere fondata la questione sollevata, ne discenderebbe che la presunzione dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale potrebbe caratterizzarsi, quantomeno, in termini di relatività.  Eliminando un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, si ridarebbe, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza sia in ordine alla effettiva pericolosità del condannato che rispetto al sicuro ravvedimento dello stesso. Difatti, è bene ricordare che, contrariamente a chi sostiene che in caso di accoglimento ci sarebbe l’apertura delle carceri con la fuoriuscita dei peggiori criminali, i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione si basa sulle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. Pare evidente che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema penitenziario. Una pronuncia di accoglimento sarebbe un segno civiltà a garanzia dello stato di diritto. (Pubblicato su Calabria 7, 28/03/21)

Stop all’ergastolo ostativo: “Sì alla speranza e alla funzione rieducativa della pena” Leggi tutto »

Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo

di Orlando Sapia, Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.” La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo. La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità  dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso. Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale. In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare. La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone. (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)

Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo Leggi tutto »

Torna in alto