Osservatori

Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024

di Domenico Pasceri* – Si segnala all’attenzione dei lettori la tematica di particolare rilevanza sociale, prima ancora che giuridica, che è stata affrontata per la prima volta nel nostro Ordinamento dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 48/2024. Il tema trattato inerisce la rilevanza dell’istituto comunemente noto come “poena naturalis” e del suo rapporto con la finalità cui deve protendere la pena inflitta dallo Stato per la commissione di un illecito di rilevanza penale: ossia se sia conforme a giustizia punire l’autore di un reato colposo che sia rimasto, a sua volta, vittima del reato stesso ed abbia già patito una sofferenza interiore tale che, l’ulteriore persecuzione da parte dello Stato, risulterebbe inutile (in termini di rieducazione) oltre che sproporzionata ed eccessivamente afflittiva. La nozione di “poena naturalis”, quale concetto giuridico volto all’individuazione e alla valorizzazione di quella sofferenza interiore che l’autore del fatto illecito già subisce per gli effetti nefasti del reato stesso, è istituto già riconosciuto in alcuni ordinamenti europei come ad esempio quello tedesco, laddove è pacificamente ammessa la possibilità per il giudice di non irrogare la pena prevista dal sistema giudiziario quando il colpevole ha già subito le conseguenze “naturali” della propria condotta in misura “…talmente grav(e) che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo” (§ 60 StGB). Il caso trattato dal Tribunale rimettente era assolutamente calzante rispetto al tema trattato, in quanto ha avuto ad oggetto il decesso di un lavoratore, nipote stretto del titolare dell’azienda, che, in occasione di alcuni lavori su di un tetto, a causa della mancata attuazione di alcune misure di sicurezza, cadeva perdendo la vita. La vicenda si connotava di particolari che mettevano in risalto proprio quel patimento interiore richiesto dall’istituto in esame perché, all’arrivo dei soccorsi, questi trovano lo zio, particolarmente legato al nipote, che si disperava tentando inutilmente di rianimarlo. Inoltre, a dimostrazione del profondo legame familiare, anche durante il processo i genitori del ragazzo defunto non si costituirono parte civile. Proprio nell’alveo del principio insito nella teorica della “poena naturalis” ed in ragione del caso specifico oggetto di giudizio, il Giudice rimettente ha inteso sottoporre alla Consulta il problema dell’assenza nell’ordinamento italiano del giusto collocamento dell’istituto in commento e dei riflessi che esso avrebbe potuto avere sulla punibilità del reo, posto che, in siffatti casi «…qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne» (cfr. Sentenza Consulta par.1.1). Ed allora, con ordinanza del 20 febbraio 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso». Al fine di superare il vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni da affrontare, il giudice a quo ha correttamente evidenziato come la denunciata lacuna normativa andasse a violare i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, in ragione del fatto che, la sanzione irrogata dall’ordinamento statuario, in aggiunta alla sofferenza già patita, sarebbe percepita alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», non solo inidonea ad assolvere a quella funzione rieducativa a cui la pena stessa dovrebbe protendere, ma anche del tutto inutile nella prospettiva di ogni sua possibile declinazione finalistica, sia essa generalpreventiva, specialpreventiva o retributiva. Essa si risolverebbe, argomenta il Giudice rimettente, solo in una «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza». V’è da dire però che la Corte, seppur superando l’eccezione inerente il limite della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità (la Corte sul punto ha ribadito il principio ormai granitico secondo cui l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, trova il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte) non ha potuto addentrarsi oltre nella tematica alla stessa sottoposta in ragione della eccessiva ampiezza che la pronuncia additiva avrebbe avuto. Secondo il pronunciato della Corte, infatti, il Tribunale di Firenze non avrebbe ben definito i confini del petitum, tanto da risultare incompatibile con il tipo di pronuncia richiesta, posto che, pur ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità avrebbero poi incluso tutte le ipotesi di reato colposo (ivi comprendendo, tra l’altro, non solo i delitti ma anche le contravvenzioni), ed anche i rapporti inerenti i familiari non strettamente intesi (in ragione del novero soggettivo molto ampio indicato dall’art.307 quarto comma cp che si estende fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo e persino vincoli di affinità). Purtuttavia, (ed è questo quello che veramente conta) il pronunciato della Corte, sebbene di rigetto, ha comunque riconosciuto l’importanza e la centralità della tematica affrontata, lasciando al contempo intendere che il tema della pena naturale, se correttamente definito nei suoi confini applicativi, potrebbe trovare la giusta collocazione anche nel nostro Ordinamento per disciplinare quelle “…situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione” (da: La “Pena Naturale” al vaglio della Corte Costituzionale di Tullio Padovani).  La Corte infatti, criticando anche sotto altro profilo l’ordinanza di rimessione, ha sottolineato come l’istituto della pena naturale non può essere ricondotto nell’alveo di una pronuncia in rito (qual è la declaratoria ex art. 529 cpp), ma va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale, presupponendo con ciò il pieno accertamento delle modalità del fatto, ben potendo essa costituire “…in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva” (cfr. sentenza par.5.3.1). Ciò che si auspica, pertanto, è che, lo

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Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* –  Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior. La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole. La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato.  Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato. Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale.  Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022. Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità). Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale. Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata

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Principio di autonomia della responsabilità dell’ente

a cura di avv. Francesco Mazza, avv. Francesco Catanzaro, avv. Maria Laura De Caro, avv. Serena Lacaria, avv. Alessio Russo, dott.ssa Annalaura Ludovico Da poco più di un ventennio è stata introdotta all’interno del nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti i quali divengono, così, centri di imputazione autonomi e ulteriori rispetto all’autore persona fisica del reato. L’art. 1 del d.lgs. in esame chiarisce il campo di applicazione della disciplina relativa alla “responsabilità da reato degli enti”, stabilendo che essa possa sorgere sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica sia a carico di quelli che ne sono privi. Non sono invece soggetti a tale normativa gli enti di cui al comma 3: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono attività di rilievo costituzionale. La ratio di tale esclusione va ricercata nella considerazione che, con riferimento a detti enti, le tipologie di sanzioni previste dal decreto legislativo 231/2001, quali la sanzione pecuniaria e la sanzione interdittiva, sarebbero inapplicabili o disfunzionali, perché i loro effetti negativi, lungi dal ricadere direttamente sull’ente, si produrrebbero invece in capo ai cittadini. Occorre precisare, inoltre come non sia sufficiente che tali soggetti commettano un fatto di reato, ma è necessario, affinché sorga anche la responsabilità dell’ente, che il comportamento penalmente illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, con la precisazione ex art. 5 comma 2 che, qualora il soggetto attivo del reato agisca per un interesse esclusivo proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere. Così facendo si assiste ad un superamento del dogma secondo cui “societas delinquere et puniri non potest” per il quale solo una persona fisica può rispondere della commissione di un reato e non anche un soggetto giuridico. Tuttavia, la normativa in esame, per come delineata e precisata anche dalla Suprema Corte, prevede che l’ente possa andare esente dalla responsabilità da reato, ma le condizioni di tale esenzione dipenderanno dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: Se il soggetto attivo del reato si trova in una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà sottrarsi a responsabilità solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato i modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati; Se il reo si trova in posizione subordinata, deve essere l’accusa a dimostrare in giudizio che il modello di gestione adottato non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In relazione a quanto sopra delineato appare doveroso rappresentare le posizioni dottrinali e giurisprudenziali sopravvenute, soprattutto relativamente al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8, comma 1, lett. b) del d.lgs. 231/2001.   Un esempio esplicativo della disciplina in esame è certamente riconducibile all’ipotesi di prescrizione del reato presupposto, la cui conseguenza è quella secondo cui il giudice istruttore sarà comunque tenuto a valutare e procedere tramite un percorso processuale del tutto autonomo ed infatti, essa sussiste anche nelle ipotesi in cui il reato “presupposto” si estingue, eccezion fatta per le ipotesi di amnistia. L’illecito dell’ente, pertanto, pur essendo inscindibilmente correlato alla commissione di un reato da parte di una persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia giuridica e a confermarlo è la Suprema Corte in due sentenze che si qualificano come promotrici di un pensiero per il quale si ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo. La prima sentenza in esame è la n. 21640/2023 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’interno della quale viene precisato che il giudice di merito non solo non ha accertato gli specifici profili di colpa di organizzazione, ma non ha neppure verificato se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia, ha chiarito la Corte di Cassazione, i criteri valutativi, tramite i quali la Corte d’Appello sia pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente, sono stati valutati tramite una formula del tutto generica decisamente inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità in capo all’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in quanto totalmente carente di elementi concreti indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’ente. Nel motivare quanto appena sostenuto, la Suprema Corte richiama un’altra sentenza, la n. 23401/2022 della Sesta Sezione Penale dell’11.11.2021, dep. 2022, secondo la quale: “l’addebito della responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale del soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto – normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo”. Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello organizzativo adottato, il giudice di merito è chiamato ad adottare il criterio epistemico – valutativo della c.d. “prognosi prostuma”: tale criterio si sostanzia nell’attività da parte del giudice di collocarsi, seppur idealmente, nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se, nell’ipotesi in cui si fosse osservato il modello organizzativo per come previsto, il pericolo di verificazione dell’illecito si sarebbe eliminato o quanto meno ridotto. Sarà lo stesso giudicante, pertanto, a dover dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, la carenza di quel complesso di regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, le quali trovano la loro sede naturale all’interno dei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” (MOG), meglio delineati all’interno degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. Anche la dottrina maggioritaria si trova d’accordo nel sostenere quanto affermato dalla Suprema Corte, soprattutto in relazione all’operato del giudice di merito relativamente all’adeguatezza del modello sopraindicato in quanto dovrà dimostrare, tramite una verifica concreta e non tramite un semplice criterio sillogistico per cui la commissione del reato equivale all’inidoneità dell’assetto organizzativo, se l’eventuale rispetto della normativa sancita dal MOG idoneo delineato dall’ente avrebbe portato a far sì che l’evento non si verificasse. In conclusione, la responsabilità dell’ente deriva dall’idoneità e correttezza del modello organizzativo

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IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico

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Brevi note in tema di giustizia riparativa

  Osservatorio Giustizia Riparativa, Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro –  La giustizia riparativa, intesa come forma di mediazione tra l’autore di un reato, la vittima/persona offesa e la società, ha radici risalenti nel tempo, in Italia ed in Europa.Il d.Lgs. 150/2022 ha introdotto una disciplina organica concernente l’applicazione sistematica dell’istituto nelle nostre aule di giustizia. In effetti, buona parte della Riforma Cartabia è stata dedicata alla predisposizione di norme con il fine di regolare la materia in esame. Da qui lo sviluppo di aspettative considerevoli sull’applicazione delle stesse. Ad ormai più di un anno dall’entrata in vigore del decreto, l’attuazione pratica delle disposizioni in questione non ha ancora convinto del tutto, per così dire, gli addetti ai lavori. Sono di tutta evidenza le difficoltà concernenti la materia, sotto ogni punto di vista: organizzativo, pratico e, non ultimo, sostanziale. Tralasciando, per quel che riguarda il presente contributo, le problematiche emerse in ordine alla organizzazione delle strutture (centri per la G.R.), alla formazione di mediatori esperti e alla istituzione delle Conferenze locali per la Giustizia riparativa (era lecito aspettarsi delle difficoltà iniziali in tal senso) – che pure sono ostacoli di non poco conto – quel che preoccupa è l’uniformità di giudizio dei giudicanti ai quali perviene un’istanza di accesso ai programmi di G.R. In tema di organizzazione e sviluppo delle strutture, nonché delle figure che saranno protagoniste nel campo della giustizia riparativa, ci si aspetta celeri risposte da parte dei soggetti preposti. Analizzando, nel mentre, il profilo sostanziale, l’incertezza aumenta e si aggiunge alle criticità di cui sopra. È innegabile, sul punto, quale fosse l’intento del legislatore.         La Giustizia Riparativa non nasce come uno strumento attraverso il quale “sottrarsi” ai procedimenti penali. Non rappresenta assolutamente una forma di giustizia alternativa a quella ordinaria. Trattasi piuttosto di un percorso incidentale a quello del procedimento penale vero e proprio che consente, il più delle volte, di ridimensionare il trattamento sanzionatorio del soggetto di cui sia stata (o sarà) accertata la responsabilità penale. Ciò che si sostiene è palese essendo previsto che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può avvenire in ogni stato e grado del procedimento, nella fase di esecuzione della pena e della misura di sicurezza e dopo l’esecuzione delle stesse. La riforma intendeva, ed intende, a ben vedere, offrire la massima potenzialità operativa allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, permettendone lo sviluppo addirittura in fase esecutiva della pena. La sensazione, allo stato, è che non sia stata del tutto recepita la ratio e la finalità dei programmi di G.R., in quanto stiamo assistendo a provvedimenti diametralmente opposti relativi alle richieste di accesso proposte nelle diverse aule di giustizia. A titolo di esemplificativo è sufficiente confrontare le decisioni assunte in questo primo arco temporale di operatività della nuova disciplina. È opportuno evidenziare il caso di Davide Fontana, imputato e condannato in primo grado per il delitto di omicidio. La Corte di Assise di Busto Arsizio – con ordinanza emessa in data 19.9.2023 – ha disposto, su istanza di parte, l’invio degli atti al Centro per la Giustizia Riparativa di Milano per la predisposizione di un programma di G.R.La decisione della Corte è avvenuta nonostante la richiesta di rigetto della Procura e del difensore delle costituite Parti civili, le quali rappresentavano di non consentire rapporto di alcun tipo, neanche tramite mediazione, con il Fontana. La Corte di Assise di Busto Arsizio ha sottolineato, attraverso l’ordinanza,  i concetti che esprimono proprio quella ratio di cui si accennava prima l’esistenza, per disporre l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa: “ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa – laddove ritenuto esperibile anche con “vittima aspecifica” – possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, pag 297), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento, come emerge dall’art. 43, comma 4, d.Lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito (…)” Proprio l’art. 43, comma 4, della “Riforma Cartabia” evidenzia la volontà del legislatore: l’unica circostanza che limita il ricorso alla G.R. consiste in un pericolo concreto per i partecipanti che sia direttamente dipendente dallo svolgimento del programma. È, in particolare, questa norma che rende di difficile comprensione gli svariati provvedimenti di rigetto di cui tutti noi siamo ad oggi testimoni. Quasi come se la G.R. rappresenti un peso o addirittura un “escamotage” del richiedente. Un esempio, del tutto contrario a quello poc’anzi citato, lo si rinviene in un’ordinanza emessa quasi contestualmente al provvedimento della Corte d’Assise di Busto Arsizio. La Corte d’Appello di Milano, in data 12 luglio 2023, rigettava così – nonostante il parere positivo espresso dalla Procura Generale – l’istanza di accesso ad un programma riparativo: “rilevato che i programmi di giustizia riparativa, per come configurati dal d. Lgs 150/2022 (..) si rivolgono agli autori di reati che contemplino l’esistenza di una vittima; rilevato, infatti, che l’art. 53 d. Lgs. 150/2022 individua come possibili programmi di giustizia riparativa la mediazione, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico; ritenuto che in un reato privo di vittima – quale è l’art. 73 DPR 309/90 – non è ontologicamente ipotizzabile un dialogo di alcun tipo, mancando la parte con cui intrattenere un dialogo; rilevato, dunque, che l’istanza non possa essere accolta per le ragioni suddette; p.q.m. rigetta l’istanza”. Il risultato che consegue dal confronto dei due provvedimenti riportati, i quali sembrano emessi sulla scorta di norme contrastanti, può essere solo uno: confusione. Risulta singolare come, in entrambi i casi, non vi sia uniformità, non solo tra

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Solidarietà al Prof. Avv. Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta – Senza difesa non c’è giustizia

  Osservatorio Avvocati Minacciati –  Qualche giorno fa, in coincidenza della giornata internazionale dedicata agli avvocati minacciati, è stata pubblicata la notizia che il 16 novembre scorso, sulla piattaforma online Chang.org, un dipendente del Ministero della Cultura ha lanciato una petizione per chiedere al Prof. Avv. Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta e Ordinario di Diritto Penale presso l’Università di Padova, di rinunciare al mandato difensivo, chiedendo altresì all’Ateneo di esprimersi pubblicamente, in ordine al mandato assunto dal docente, dissociandosi dalla scelta “inopportuna” dello stesso. Per i promotori dell’iniziativa e per i circa 200 sottoscrittori, accettare l’incarico di difesa o non dissociarsi pubblicamente dall’accettazione di tale mandato, significa in qualche modo non condannare la violenza sulle donne, non essere loro vicine. Sono state raccolte 200 firme, con l’obiettivo di raggiungere quota 500. Cinquecento firme per confermare che, nell’epoca del dilagante populismo penale, ci sono categorie di imputati per le quali è disonorevole assicurare il diritto di difesa, imputati che non “meritano” un giusto processo, di fatto anche inutile, avendo peraltro la “giuria popolare” già emesso la relativa sentenza. La difesa di un ragazzo, scrivono, che “ha commesso un omicidio efferato e la cui colpevolezza è indubitabile” rappresenta, nella coscienza di queste persone, un complesso di limiti e vincoli all’esercizio del potere punitivo nei confronti del colpevole e, pertanto, l’accusato andrebbe abbandonato a sé stesso, senza alcuna tutela, e chiuso nelle patrie galere fino alla fine dei suoi giorni, buttando via la chiave. La petizione lanciata in rete è il chiaro segno di una deriva culturale che si esprime con una sempre più pressante richiesta di giustizia “vendicativa”, parossistica, e di una delegittimazione della figura dell’avvocato, espressione di un giustizialismo spicciolo non degno di un Paese civile che vanta un’alta tradizione giuridica. L’Avvocatura non può tollerare una condotta di tale gravità, non può non stigmatizzare il chiaro invito rivolto al Prof. Caruso di fare un passo indietro. Si sta pericolosamente diffondendo nell’opinione pubblica l’idea che assumere la difesa di un soggetto imputato di un reato di sangue voglia dire, in qualche modo, ritenere giustificabile il reato o fiancheggiare il suo (possibile) autore e che ciò sia disonorevole, vieppiù, come nel caso di specie, se il professionista in questione sia anche un accademico. Orbene, nel quadro dei valori liberali di derivazione illuministica, a cui si ispira il nostro processo penale, nessun uomo accusato di un reato, qualunque esso sia, può essere privato del diritto di difesa. Ogni imputato ha diritto all’assistenza legale e un giusto processo, nel contraddittorio tra le parti e davanti a un Giudice terzo e imparziale. Questa è la base della nostra civiltà e la garanzia della nostra libertà. Di tutti. Senza difesa (effettiva) non può esserci sentenza “giusta”. E difatti, la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento ed a sancirlo è l’art. 24 della nostra Carta fondamentale. In questo quadro valoriale, il difensore assume il ruolo di sentinella nel processo, a tutela dei diritti fondamentali della persona, di ogni persona, e del rispetto delle garanzie processuali. Dunque, la scelta se accettare o meno la difesa di un imputato deve riguardare solo ed unicamente il professionista e tale decisione non può tollerare condizionamenti o critiche che possano interferire con l’esercizio in piena autonomia del mandato difensivo. A fronte di ciò, le pressioni finalizzate a convincere il difensore di Filippo Turetta a rinunciare al mandato conferitogli – giudicando disonorevole l’esercizio del suo ministero – appaiono del tutto insensate e pretestuose, atte solo ad alimentare la gogna mediatica e ad imbarbarire il dibattito pubblico sui temi della giustizia. L’iniziativa che si sta portando avanti è inaccettabile, in uno stato liberale, ecco perché la Camera penale di Catanzaro esprime ferma e incondizionata solidarietà al Prof. Avv. Giovanni Caruso, convinta che l’incarico difensivo dallo stesso assunto, senza arretramenti, sia espressione di una battaglia di civiltà giuridica e, ancor prima, culturale, invero necessaria per salvaguardare l’identità democratica del nostro Paese.

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IL GRATUITO PATROCINIO: STORIA DI UN SISTEMA QUANTO MAI NECESSARIO

OSSERVATORIO GRATUITO PATROCINIO – di Manuel Curcio e Federico Sapia –  L’istituto del gratuito patrocinio, inteso nella sua accezione più ampia, risulta essere figlio di una tradizione ormai secolare, per non dire millenaria, ampiamente diffusa in tutto il mondo occidentale fin dai tempi antichi. L’esigenza di una tutela nei confronti degli individui meno abbienti ha da sempre accompagnato le civiltà, rappresentando un vero e proprio perno morale dell’intero sistema sociale, infatti, basti pensare come già nel tardo diritto romano si prevedeva la possibilità, spettante in capo a determinati soggetti ritenuti più “fragili”, quali, ad esempio, le vedove, gli orfani e persone definite come “miserabili”, di essere giudicati direttamente dal Tribunale imperiale romano in funzione della protezione sociale esercitata nei loro confronti da parte degli esponenti del regno Carolingio. Anche numerosi statuti medievali predisposero un sistema simile volto, appunto, ad assicurare la difesa a soggetti che per il loro contesto economico e sociale risultavano essere al di fuori del tessuto cittadino e, quindi, privi di un’apposita protezione. Una testimonianza di un simile approdo storico venne dalla città di Parma, quando, nel 1233, nacque la figura ad hoc del “Difensore del Povero”, creando così un apposito settore statale con competenze specifiche volte in tal senso. Parallelamente, anche altre realtà territoriali, sia Statali che Comunali, iniziarono a predisporre un sistema ove la difesa dei soggetti non abbienti veniva addossata interamente sulle classi degli avvocati e dei procuratori mediante l’istituzione di un apposito titolo onorifico. Passando invece ai tempi più moderni, è utile sottolineare come, con l’avvicinarsi dell’unificazione d’Italia, gli istituti posti in essere come forma di sostegno per l’accesso alla giustizia ai soggetti non abbienti vennero ricondotti a due macro categorie: da un lato si ebbe la costituzione di un onere in capo ai membri della classe forense di eseguire le loro prestazioni pro bono rispetto le persone rientranti nel novero della disciplina, dall’altro vennero istituiti degli uffici legali di rilievo pubblicistico, ove era lo Stato a intervenire direttamente per la retribuzione dei patrocinanti. Quest’ultimo istituto prese il nome di “Avvocatura dei Poveri” e nacque inizialmente all’interno del Regno di Sardegna, per poi espandersi a Vercelli, Novara e Cuneo, sotto forma d’ufficio avente carattere pubblicistico, mentre, ad Alessandria si diffuse nell’ambito delle fondazioni private. Continuando con l’analisi storica, vi è da dire come un’ulteriore formalizzazione del fenomeno si ebbe con il legislatore Piemontese mediante l’adozione della legge “Rattazzi” n° 3871 del 1859, tramite cui nacquero, presso ciascuna corte d’appello, degli appositi uffici, detenuti da un avvocato e da un procuratore dei poveri, i quali vennero inseriti direttamente nell’organigramma magistratuale con funzioni di patrocinio pro bono per i soggetti non abbienti e retribuiti interamente dalle casse statali. Dopo la nascita del Regno d’Italia, tuttavia, vi fu un netto cambio di tendenza e il fenomeno dell’Avvocatura dei poveri vide due fasi distinte e contrapposte. Infatti, in un primo momento, l’istituto venne ampliato con i R.D. n°620/1862 e n° 851/1862 alle province di Napoli e della Sicilia, tuttavia, successivamente, il sistema del patrocinio gratuito per i soggetti non abbienti vide, per la prima volta, un vero e proprio ridimensionamento che portò quasi alla sua scomparsa. Le casse del neonato Stato italiano non risultarono in grado di sostenere i costi economici del servizio e fu così che, con la Legge Cortese n° 2626/1865, il parlamento sancì l’eliminazione dell’Avvocatura dei Poveri sostenuta dallo Stato, con l’unica eccezione degli uffici istituiti mediante le fondazioni private che comunque continuarono ad operare. Da qui in poi la difesa pro bono dei soggetti meno abbienti divenne un vero e proprio incarico di valore prettamente “morale” atteso che l’istituto, a seguito dell’abolizione dei finanziamenti statali, acquisì in toto il carattere della gratuità. Era quindi il singolo professionista a dovesi accollare la difesa senza che vi fosse alcuna retribuzione economica. Anche nell’epoca fascista si proseguì con questa linea, tuttavia il “regime” volle riorganizzare organicamente la materia de quae, grazie al R.D. n° 3282/1923, venne istituito il gratuito patrocinio indicandolo come un vero e proprio ufficio onorifico ed obbligatorio rispetto la classe degli avvocati e dei procuratori. La particolarità di un simile approdo legislativo si manifestò essenzialmente nell’organicità della riorganizzazione, infatti, all’interno dell’istituto vennero ricompresi anche i giudizi penali, i cui destinatari del provvedimento di ammissione potevano essere l’imputato, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Ai fini della richiesta della difesa pro bono, il soggetto interessato avrebbe dovuto fornire la prova di un vero e proprio stato di povertà, tale per cui l’individuo doveva ritenersi impossibilitato a sopperire alle spese di lite del giudizio in questione. In concreto, occorreva che il cittadino non abbiente producesse un’attestazione del sindaco del comune nel quale risiedeva, previa esibizione di un certificato dell’agenzia delle imposte ove veniva indicato l’ammontare delle tasse pagate dal soggetto interessato così da provare, appunto, il suo stato di povertà. In più poi, nell’ambito dei giudizi civili e amministrativi, l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio venne subordinato al rilascio di un’ulteriore certificazione, disposta anch’essa da un’autorità amministrativa avente funzioni ad hoc, vincolata alla presunta probabilità di esito positivo della causa. Le particolarità eccentriche della procedura in questione, tali da renderla incompatibile rispetto poi ai successivi approdi costituzionali sul tema, furono, in primis, la suddetta potestà dell’autorità amministrativa nel rilascio dei certificati, con la conseguenza che l’accesso al beneficio finiva con l’essere subordinato all’esercizio di una potere di natura esecutiva e non di matrice giudiziaria e, successivamente, la scelta del difensore venne addossata come dominio esclusivo dell’autorità procedente, togliendo quindi la possibilità in capo al richiedente di godere di una difesa di fiducia nel caso di gratuito patrocinio. Con l’avvento della Carta Costituzionale del 1948, nonostante l’incompatibilità di alcuni principi, tra cui quelli poc’anzi citati, vennero comunque ribaditi alcuni capi saldi della disciplina, soprattutto rispetto l’obbligatorietà della difesa pro bono. In particolare, è con l’articolo 24 co. 1 e 3 che il Costituente individuò un vero e proprio obbligo gravante sullo Stato rispetto la tutela effettiva circa l’esercizio del diritto di difesa del singolo, con la conseguenza

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Spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche

di Angela La Gamma   Il presente contributo mira ad offrire spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche, ex D.lgs. 231/2001 e di adeguatezza ed efficace applicazione del Modello di Organizzazione Gestione e controllo, partendo dall’analisi della pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, in data 5 ottobre 2023, avente numero 1636/2023 r.g sent. La sentenza in commento affronta la spinosa tematica della responsabilità dell’ente nelle ipotesi di morte (o infortunio) sul lavoro occorsa ad un dipendente e, nello specifico, della responsabilità derivante alla società dal presunto delitto di omicidio colposo commesso da soggetto apicale, il legale rappresentante dell’ente, nella qualità di datore di lavoro, fattispecie contemplata all’art. 25 septies del Dlgs 231/2001. La Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – la quale, confermando una pronuncia resa dal Tribunale di Pisa, aveva condannato, per il delitto di omicidio colposo ai danni di un operaio intento a rimuovere dei rifiuti boschivi derivanti da lavorazioni, tanto il datore di lavoro, quanto la persona giuridica- muove pesanti critiche ai giudici di secondo e primo grado. In particolare, la Cassazione, nella pronuncia in commento, rileva una serie di “errori giuridici” commessi dal Tribunale e reiterati dalla Corte d’Appello. In primo luogo, la Corte fiorentina è incorsa, secondo i Giudici di legittimità, in un’erronea valutazione, nel momento in cui ha edificato la responsabilità dell’ente su condotte che erano “riferibili, in astratto ancor prima che in concreto, esclusivamente alla persona fisica”: secondo le previsioni contenute nel D.lgs. 231/01, al contrario, la responsabilità dell’Ente va a sommarsi e non si confonde con quella della persona fisica che ha commesso l’illecito, è autonoma rispetto alla tradizionale responsabilità penale personale ed è legata alla commissione di un reato ricompreso nel catalogo dei reati presupposto previsti dal decreto medesimo. I Giudici di prime e seconde cure, inoltre, sono incorsi in un ulteriore errore valutativo, sempre secondo la Cassazione, allorquando hanno ritenuto coincidente il Modello di Organizzazione Gestione e controllo, di cui l’ente era dotato, con il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro. Ancora, l’ultima censura che ha determinato l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Firenze è relativa alla mancata prova circa la ricorrenza dei presupposti di imputazione della responsabilità, sanciti nell’art. 5 del D.lgs 231/01, il quale richiede, indefettibilmente, che il reato c.d. presupposto, quand’anche colposo, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente. Pare opportuno soffermarsi, brevemente, su tali due ultime censure mosse dai Giudici di legittimità alla Corte territoriale fiorentina, ossia l’aver confuso, sovrapponendoli, gli ambiti di operatività, rispettivamente, del MOG e del sistema di gestione della sicurezza sul lavoro e l’aver trascurato la necessità che fosse provato l’interesse o il vantaggio per l’ente derivante dalla commissione dell’illecito. Con riferimento al primo punto, giova ricordare che il Modello di Organizzazione e Gestione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs .231/01, è uno strumento di gestione aziendale che individua le procedure operative sviluppate per ridurre il rischio che soggetti apicali o sottoposti commettano reati a vantaggio o nell’interesse della società. Orbene, il MOG è affatto coincidente con il modello di gestione della sicurezza sul lavoro che è incentrato sul DVR (Documento Valutazione dei Rischi) e sul POS (Piano Operativo di Sicurezza): a differenza del primo, il modello di gestione della sicurezza sul lavoro individua i rischi connessi a quella specifica attività lavorativa e determina i mezzi e le misure idonee ad eliminarli o ridurli; al contrario il MOG, ha una portata molto più ampia, non limitata ad una specifica attività o settore di attività ed  è volto a prevenire il rischio di commissione di reati da parte di soggetti interni all’ente. Ciò attraverso la previsione di specifiche procedure aziendali di compliance, sottoposte al vaglio ed al controllo dell’Organismo di Vigilanza e caratterizzate da flussi informativi costanti che permettano di verificarne, non solo l’adozione ma anche e, forse, soprattutto, l’efficace attuazione. È vero che sotto il profilo della colpa dell’Ente, tanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione del MOG, quanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione modello di gestione della sicurezza sul lavoro, forniscono la prova della colpa in organizzazione da parte della società. Ma è altrettanto vero che ciò non significhi che i due piani siano coincidenti o, peggio, sovrapponibili, in quanto, come detto, i due modelli sono proiettati e normativamente destinati a finalità completamente differenti; né, tantomeno, bisogna ritenere che il verificarsi del reato implichi, ex sé, che il MOG adottato dall’Ente fosse inefficace o inidoneo a prevenire illeciti della stessa indole di quello in concreto verificatosi. Il D.lgs.231/01, infatti, all’art. 6, nel momento in cui “impone” l’adozione di un modello organizzativo valido ed efficace, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma prevede, al contrario la c.d. colpa di organizzazione dell’Ente, intesa come mancata predisposizione di una serie di accorgimenti preventivi, idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quelli realizzati: è necessario cioè, al fine di sancire una responsabilità della persona giuridica, il riscontro, al suo interno, di un deficit organizzativo. L’addebito di responsabilità all’Ente, in altri termini – e come chiarito dalla giurisprudenza – non si fonda su un’estensione più o meno automatica della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato (cfr. Cass. Pen. sez. IV n. 570 del 2023), tanto è vero che, come detto, la responsabilità è esclusa se la società, prima della commissione del fatto, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (sul punto cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 23401 dell’11/11/2021 cd. Impregilo – Cass pen. N. 21640 del 19 maggio 2023). È evidente, quindi, l’errore di fondo in cui sono incorsi i Giudici toscani, i quali hanno confuso i due piani di responsabilità e che deve essere ora sanato da una nuova sezione della Corte d’appello di Firenze, alla luce dei principi di diritto sanciti dalla Corte

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