Oltre la norma

RIEQUILIBRIO COSTITUZIONALE (NECESSITÀ ISTITUZIONALE)

di Leo Pallone*– La separazione delle carriere è un elemento logico-giuridico e democratico indispensabile per completare l’architettura del processo penale moderno, non è una scelta facoltativa, ma la correzione necessaria per armonizzare l’organizzazione della magistratura con i principi fondamentali del «giusto processo». L’assetto attuale è strutturalmente sbilanciato rispetto ai principi fondamentali della Costituzione. L’organizzazione istituzionale (l’unità delle carriere ereditata dal 1948) non è mai stata adeguata alla logica del «nuovo processo» (il modello accusatorio introdotto nel 1988). Il Riequilibrio Costituzionale mira a sanare la contraddizione storica lasciata aperta dal 1948: l’adozione del modello accusatorio senza la separazione dei ruoli. La separazione, quindi, non aggiunge un nuovo principio, ma completa l’architettura per farla aderire pienamente alla sua logica interna e al dettato costituzionale (art. 111, Cost.), che esige un giudice terzo e imparziale. Ciò premesso, è necessario richiamare il “pensiero puro” sulla separazione delle carriere, richiamando quei passaggi significativi della sinistra riformista oggi inspiegabilmente ripudiati da molti amici e colleghi. L’oblio di tale storia è per me fonte di grande dispiacere, perché tradisce una battaglia di autentico garantismo. L’idea della separazione delle carriere, nata per ragioni puramente tecnico-giuridiche, trovò storicamente il pieno supporto della matrice socialista e della sinistra riformista tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90: Giuliano Vassalli** (Ministro PSI), fu l’artefice del Codice di Procedura Penale del 1988. L’introduzione del modello accusatorio (basato sul contraddittorio tra Accusa e Difesa davanti a un arbitro terzo) per logica giuridica imponeva la separazione, una tesi condivisa da molti giuristi che parteciparono a quel progetto riformatore; la Commissione Bicamerale (1997-1998), presieduta da Massimo D’Alema (PDS/DS), questa commissione per le riforme costituzionali non solo considerò seriamente, ma incluse tra le ipotesi di riforma la separazione delle carriere. Per quella corrente di pensiero, la separazione non era un attacco alla magistratura, ma un modo per rafforzare il principio del «Giusto Processo» (Art. 111 Cost.), garantendo la piena terzietà del Giudice e una vera parità delle armi tra accusa e difesa. Si trattava, insomma, di un adeguamento istituzionale all’evoluzione del diritto. Il dramma di oggi è che la sinistra riformista si trova su barricate opposte rispetto alle sue battaglie storiche. Il motivo di questo ripudio è prevalentemente politico. Di conseguenza, il progetto della separazione è passato dall’essere un imperativo garantista (a tutela del Giudice Terzo) a essere percepito come un tentativo di indebolire il Pubblico Ministero e la sua indipendenza dal potere esecutivo. I partiti progressisti hanno scelto di sacrificare la coerenza logico-giuridica (la terzietà del giudice) sull’altare della strategia politica, preferendo difendere lo status quo per tutelare l’indipendenza formale della funzione requirente e non legittimare una riforma promossa dall’avversario. Questa inversione di rotta non è solo un errore politico, ma, per chi ha a cuore i principi del processo, una ferita alla cultura del garantismo, che antepone la difesa dello status quo organizzativo (o la paura di uno scontro) alla realizzazione di un assetto finalmente coerente e costituzionale.   *Avvocato, direttore della rivista “Ante Litteram” **Giuliano Vassalli, artefice del Codice del 1988. Il modello accusatorio da lui introdotto impone, per logica giuridica, la separazione delle carriere per garantire la terzietà.

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GIOACCHINO DA FIORE, TRA UTOPIA RELIGIOSA E TEOLOGIA POLITICA

di Luigi Mariano Guzzo* Monaco cistercense vissuto tra il decimo e l’undicesimo secolo sulle montagne della Sila calabrese, Gioacchino da Fiore segna in maniera indelebile la storia, il pensiero e la cultura dell’Occidente. Dal medioevo arriva ai giorni nostri una posterità definita «multiforme»[1], perché interpretata in modi differenti, talvolta contrastanti. L’abate calabrese per Dante è di «spirito profetico dotato»[2], mentre per Tommaso d’Aquino è rudis, ignorante[3]. Ma quest’ultimo giudizio non deve sorprendere: per Gioacchino la realtà sensibile non può essere colta appieno negli schemi della razionalità classica, come vorrebbe la filosofia scolastica. La sua è una intelligenza analogica, che si muove per immagini, per figure e per simboli. Non può essere altrimenti: il millenarismo gioachimita traduce la verità trascendente rivelata nelle Scritture cristiane nell’immanenza della storia. E questa traduzione opera nella sfera simbolica, ovvero onirica[4]. Ogni tentativo di ridurre la proposta gioachimita a sistema risulterà parziale. In Gioacchino, il cui influsso è ultroneo al punto da produrre uno “Pseudo-Gioacchino”, si sono ritrovati, e si ritrovano, eretici e osservanti, francescani e regolari, luterani e tridentini, marxisti e borghesi, anarchici e massoni, modernisti e reazionari, mazziniani e fascisti, monarchici e repubblicani, estremisti e moderati, progressisti e tradizionalisti. La formazione della poliedrica coscienza occidentale[5] ha, insomma, un debito importante nei confronti di Gioacchino. Non finisce qui. In tempi più recenti, l’eco di questo insegnamento arriva sin dentro la Casa Bianca di Obama con un accento messianico e apocalittico. Le chiese cristiane avventiste del settimo giorno, con le quali lo Stato italiano ha raggiunto un’intesa ai sensi dell’articolo 8, comma 3 della Costituzione[6], individuano nel cattolico Gioacchino un precursore. Mentre papa Benedetto XVI elogia la speranza nella «riconciliazione dei popoli e delle religioni»[7] in quella stessa tesi definita «eretica e inaccettabile»[8] dal predicatore pontificio Raniero Cantalamessa, comunque elevato alla dignità cardinalizia da papa Francesco che riconosce Gioacchino quale precursore dell’ecologia integrale e della fraternità universale[9].   La logica simbolica L’ultimo millennio dell’Occidente è quindi per intero attraversato da una composita recezione dell’opera gioachimita, che forse in sé già realizza l’auspicata palingenesi universale della storia. L’abate calabrese divide e, al contempo, mette d’accordo tutte e tutti. Ha ragione sia Guido Fassò che riconosce in Gioacchino la volontà di attuare sul piano storico il regno di Dio[10], sia Hans Kelsen che nega il fondamento divino alla cooperazione sociale e individua nell’opera dell’abate il tentativo di costituire uno «stato religiosamente perfetto nel mondo»[11]. Non si tratta di contraddizioni, appropriazioni più o meno debite, anacronismi, come potrebbero apparire sull’asse cartesiano di un pensiero “razionale”. Giacché, il pensiero di Gioacchino non può essere valutato con i criteri della razionalità classica. Egli rifiuta la logica formale della distinctio che si afferma nella filosofia e nella dottrina giuridica medievale[12]. Non per questo, comunque, il suo pensiero è irrazionale. È un’altra forma di razionalità, che può essere qualificata come “analogica” o “simbolica” e che rientra tra quelle logiche oggi definite «non classiche» che consentono di realizzare spazi interstiziali di discorso aperte a differenti e contraddittorie soluzioni interpretative e pratiche[13]. Si tratta di un flusso di coscienza “esoterico”, strutturato non in base alla parola, bensì al simbolo, cioè al linguaggio «delle verità che trascendono la nostra intelligenza»[14]. Gioacchino non è un intellettuale, e anzi se la prende con coloro che «si gonfiano della scienza scolastica» e credono più nella «letteratura» che nella «potenza di Dio»[15]. Al contempo, si guarda bene dal definirsi, e dall’essere definito, profeta: in un frammento autobiografico ricorda di essere un «homo agricola»[16]. Egli si annovera tra quegli «uomini spirituali» che sono in grado di «avere colloqui spirituali con le persone semplici o aliene dalla fede cattolica»[17]. Il suo messaggio, quindi, non è il prodotto né di elucubrazioni sofisticate né di visioni mistiche. Fa affidamento ad una inclinazione dell’animo, ad una particolare sensibilità emotiva, ad una forma di intelligenza spirituale, che gli consente di rileggere nella storia umana la rivelazione cristiana.   Il messaggio L’intelligenza spirituale consente a Gioacchino di «aguzzare gli sguardi delle pupille interiori sul mondo delle realtà trascendenti»[18], in modo da definire una concordia, una concordanza di testo tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, e interpretare «la Trinità storicamente e la storia trinitariamente»[19]. Il nucleo centrale della proposta gioachimita si basa sul rilievo che i Testamenti sono due, ma presentano una dimensione trina: nel primo si rivela il Padre, mentre nel secondo, in maniera duplice, il Figlio e lo Spirito[20]. Vi sono, quindi, tre stati che corrispondono ad altrettante età storiche: l’età del Padre, che si estende fino all’incarnazione di Gesù, l’età del Figlio, quella della Chiesa presente, e l’età dello Spirito Santo, già annunciata come tempo “terzo”, di libertà e di unità piena. La Chiesa di Pietro, quella gerarchica, lascia il posto alla Chiesa di Giovanni, quella dell’apocalissi, spirituale, senza sacerdoti, guidata da contemplativi, i monaci. È il regno della riunione tra cristiani, ebrei e gentili. La pace sarà tale che persino i «santi si riposeranno dal lavoro di scrivere libri»[21]. Tutto è portato a compimento, e quindi a unità: «il primo Stato del mondo fu di schiavi; il secondo, di liberi; il terzo, sarà comunità di amici»[22]. L’operazione di esegesi biblica si trasforma in una proposta sovversiva dell’ordine sociale ed ecclesiale. Nella misura in cui si riconosce che il destino dell’individuo non è separabile da quello della comunità, della massa, il messaggio di Gioacchino appare come un’utopia politica e un’ucronia sociale. Con gli occhi della fede, però, esso è innanzitutto un messaggio escatologico, un annuncio dell’imminente arrivo del Regno di Dio.   La declinazione meridiana di una giustizia trasformativa Il pensiero simbolico di Gioacchino è conseguente al dramma che egli vive nella realtà contraddittoria in cui è immerso: la dissolutezza morale dell’apparato ecclesiastico, la sfrontatezza del potere imperiale, la minaccia delle incursioni dei saraceni, la violenza delle crociate, l’arretratezza culturale ed economica delle classi subalterne. Una situazione angosciante, che Gioacchino affronta con il suo «temperamento bruzio, forte ed elastico, a volte duro ma sempre sincero ed affettuoso, dotato di spirito di penitenza, fortezza di carattere, amore alla solitudine, dono della profezia, distacco completo

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L’IRREVERSIBILE SQUILIBRIO TRA I POTERI DELLO STATO

di Gian Domenico Caiazza* «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti (…) Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere». Così Montesquieu ragionava, nel 1748, nel porre a fondamento della idea moderna di Stato democratico il principio della separazione dei poteri. Ecco allora che il potere legislativo «fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti»; il potere esecutivo «fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni»; il potere giudiziario, infine, “bouche de la lois”, «punisce i delitti o giudica le liti dei privati». Naturalmente le idee evolvono, si adeguano alle mutazioni sociali e politiche, ma il principio della separazione dei poteri, della limitazione reciproca tra di essi, resta il caposaldo, direi la precondizione di sopravvivenza del sistema democratico. Regolarmente, dove esso è messo in discussione, si teme per la sorte stessa della democrazia. Le cronache statunitensi di queste prime settimane di Presidenza Trump, ad esempio, ne sono la dimostrazione lampante ed allarmante, con un potere esecutivo (il Presidente) che forza e scavalca sia il potere legislativo (con la adozione di centinaia di “ordini esecutivi”), sia quello giudiziario (addirittura ignorando statuizioni non gradite e non condivise della Suprema Corte). In casa nostra, sebbene con forme del tutto diverse, l’equilibrio è saltato nei primi anni ’90, e non c’è più verso di recuperarlo. È bastata una indagine giudiziaria sulla certamente assai diffusa corruzione del potere politico, accompagnata da un formidabile consenso popolare e da una irresponsabile, acritica copertura mediatica, per attribuire all’ordine giudiziario magistratuale un potere di condizionamento e di interdizione verso gli altri due poteri che non ha equivalenti in nessun altro sistema democratico. L’immagine simbolo, lo ricordiamo tutti, fu quella dei magistrati del pool milanese in TV che affermano la necessità che un legittimo provvedimento di un governo democraticamente eletto, giusto o sbagliato che fosse non importa, venisse ritirato perché da essi non condiviso, ottenendone la revoca a furor di popolo. Un atto – a prescindere dalle intenzioni di chi lo realizzò – tecnicamente eversivo, che ha segnato in modo irreversibile l’equilibrio tra poteri dello Stato nel nostro Paese. Perfino in questi mesi, nei quali una solida maggioranza parlamentare sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) determinata a portare a termine la più avversata (dalla magistratura) riforma dell’ordinamento giudiziario nella storia Repubblicana, i segni della debolezza del potere politico, intimorito e condizionato dal potere giudiziario, ci giungono copiosi. È di pochi giorni fa la sorprendente iniziativa, assunta direttamente dalla presidente Giorgia Meloni, di fermare l’iter della proposta di legge di istituzione della giornata in onore delle vittime degli errori giudiziari, individuata nella simbolica data del 17 giugno, quella nella quale fu arrestato Enzo Tortora nell’ormai lontano 1983. Le cronache riferiscono la testualità della motivazione addotta dalla Presidente del Consiglio: «Non diamo altri pretesti ai giudici fino alla approvazione della riforma sulla separazione delle carriere». Dietro le apparenze di una decisione dettata da realismo strategico, di chi intenda in questo modo rendere più agevole la strada di quella fondamentale riforma costituzionale, si affaccia in realtà, nitidissima, la impressionante fotografia del patologico rapporto tra potere politico e potere giudiziario in Italia. Da un lato, infatti, non esiste alcun nesso logicamente plausibile tra questa riforma costituzionale e quella proposta di legge sulle vittime degli errori giudiziari; dall’altro, non si comprende esattamente quale pretesto potrebbe mai cogliere un soggetto – la magistratura associata – che non ha (non dovrebbe avere!) né titoli né ragioni per interloquire su una simile iniziativa politica. Il fatto che l’ANM abbia subito manifestato a proposito di essa le proprie obiezioni critiche, con motivazioni peraltro assai discutibili, non si comprende in qual modo potrebbe incidere sul percorso della riforma ordinamentale, anche nella prospettiva della quasi certa campagna referendaria successiva alla sua auspicabile approvazione. Nelle intenzioni, la Presidente Meloni vuole prevenire argomenti polemici, intesi a rafforzare, da parte delle toghe, l’idea di una maggioranza politica ispirata da sentimenti di ostilità nei confronti della Magistratura. Ma è proprio questo il punto. Le vittime di un errore giudiziario sono tali in forza di una valutazione operata dalla stessa magistratura, che riconosce l’errore giudiziario, o la ingiusta detenzione, all’esito di un procedimento che essa stessa gestisce in modo sovrano, ed in assoluta autonomia e indipendenza. Errori giudiziari ed ingiuste detenzioni sono definiti tali non dalla politica, con arbitrarie valutazioni polemiche, ma dai giudici della Repubblica, con sentenze definitive pronunziate in nome del popolo italiano. La scelta dello Stato di esprimere, con una giornata celebrativa annuale, la propria rammaricata vicinanza a chi ha subito una così grave ingiustizia, è una scelta schiettamente politica, sulla quale la magistratura, in un normale e non alterato sistema di divisione dei poteri, non avrebbe titolo alcuno per manifestare riserve o, peggio ancora, risentimento. D’altronde, la speciosa critica avanzata da ANM, secondo la quale si dovrebbe allora celebrare anche la giornata per le vittime -fu fatto questo esempio- della malasanità (le quali però, diversamente che per gli errori giudiziari, ne vedono puniti i responsabili!) dà proprio il segno di quanto sia deteriorato quel delicato equilibrio costituzionale. Da un lato il potere giudiziario pretende, come se fosse la cosa più normale del mondo, di svolgere una funzione di interdizione critica e quasi sindacale su qualsiasi iniziativa legislativa che possa anche solo richiamare l’attenzione sugli esiti e sulla qualità dell’esercizio della giurisdizione, assumendo alla stregua di una indebita aggressione qualsiasi  valutazione ad essa non gradita; dall’altro, la politica riconosce, nei fatti, pieno fondamento a questa assurda pretesa, mostrando anzi di temerne le conseguenze, e confessando così, nel modo più clamoroso e sorprendente, la propria soggezione verso il potere giudiziario, ed in definitiva la sua disarmata debolezza. Che non scopriamo certo adesso, ma che francamente mai avremmo immaginato potesse spingersi a tanto. *Past President UCPI – Direttore PQM (Editoriale pubblicato in Ante Litteram 1-aprile 2025)

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ETTORE RANDAZZO, AVVOCATO E SCRITTORE

di Lucia Randazzo* – Martedì 24 giugno 2025, presso la suggestiva cornice del The Siracusa International Institute of Criminal Justice and Human Rights a Siracusa, si è tenuto un sentito evento in memoria di mio padre Ettore, difensore appassionato e scrittore raffinato, protagonista della cultura giuridica siciliana e nazionale. L’incontro è stato organizzato dal Rotary Club Monti Climiti di Siracusa, insieme all’associazione La.P.E.C.[1] e Giusto Processo “Ettore Randazzo”, con l’intento di ricordare non solo l’avvocato ma anche la sua produzione letteraria. A dare avvio all’incontro sono stati i saluti istituzionali del Segretario del The Siracusa Institute, Dott. Filippo Musca, che ha brevemente tratteggiato le principali cariche ricoperte da mio padre nel corso della sua carriera, sottolineandone il ruolo di guida morale e culturale all’interno della comunità forense e soprattutto all’interno del The Siracusa Institute (già Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) di cui è stato anche Presidente del Consiglio Regionale Scientifico. A seguire, è intervenuto il Presidente del Rotary, Dott. Aurelio Alicata, che ha ribadito l’impegno del Club nel valorizzare figure che hanno saputo coniugare l’eccellenza professionale con l’impegno sociale e umano sottolineando la sua personale ammirazione per le sue idee su carcerazione preventiva, ragionevole durata del processo e soprattutto sulla separazione delle carriere.  L’incontro, articolato e ricco di contributi, è stato condotto con competenza e sensibilità dalla giornalista Dott.ssa Laura Valvo che, dopo aver tratteggiato la carriera di mio padre con sensibilità e intensità, ha saputo guidare gli interventi con equilibrio e partecipazione, creando un clima di profondo ascolto e condivisione. Ad aprire la serie degli interventi è stata mia madre, Elisabetta Guidi, anch’ella avvocato e compagna di una vita, che ha condiviso un ricordo intenso e affettuoso, rievocando la gioia che mio padre provava nello scrivere. Elisabetta ha spiegato che il suo intento era quello di celebrare mio padre anche come scrittore. La volontà di Ettore era quella di avvicinare anche gli appartenenti al mondo non giuridico alla giustizia. Per ricordare a tutti che la Giustizia è la nostra base, ha rammentato che siamo un paese meraviglioso con una cultura giuridica antica di cui dobbiamo essere fieri. Se siamo in un paese democratico, è grazie alla Giustizia e al Giusto Processo, tanto amato da Ettore. “Un Giusto Processo che deve essere applicato secondo le regole, con un Giudice terzo e al di sopra delle parti, con un Pubblico Ministero che ricerca la verità e con un Difensore. Questo diritto meraviglioso di Difesa del cittadino. Un ruolo sociale che i media non riconoscono perché gli avvocati sono talvolta ritratti, in modo ingiusto, come “intrighini, pasticcioncelli”. No! L’avvocato è il tutore del diritto di difesa, colui che deve accompagnare chi incorre nelle maglie della giustizia ed è normale che sia giudicato secondo le regole”.  Ettore si divertiva scrivendo. Era un po’ un modo di staccare la tensione emotiva dall’intenso mestiere del Difensore. Con tono partecipe e vivace, Elisabetta ha offerto al pubblico una descrizione pittoresca del romanzo Doppio inganno[2], a lei dedicato “Ad Elisabetta con i perché di una vita”, ambientato nella magica Ortigia, dove il confine tra realtà e finzione si fa sottile e letterario incuriosendo gli intervenuti sulla trama del romanzo. “Doppio inganno è un libro particolarmente bello, non solo perché traspare un amore per la Giustizia, ma traspare un amore per Siracusa, la bella Ortigia, qui chiamata Pantalica Marina, che è idealizzata. Si parla di un isolotto, che è separato da un ponte dal resto della città, con una bellissima porta spagnola, che purtroppo è stata abbattuta. Si entra in carrozza e, chi entra, apprezza la bellezza, i silenzi, il profumo di zagara, di gelsomino. Questi vicoletti ti riportano lontano.  La storia è un giallo: si parla di una famiglia siracusana, in cui i personaggi si vogliono molto bene, con un senso forte della famiglia. C’è un peso su questa famiglia, una vicenda non risolta, che non vi dico… perché dovete leggerlo”. Ettore è riuscito a fare capire l’atmosfera che si vive a Siracusa e soprattutto l’incanto di Ortigia. Questo isolotto magico senza tempo.   Mio zio Marcello Randazzo, anche lui avvocato, ha introdotto il libro Il pieghevole dei sogni[3]: “Una storia di famiglia che è soprattutto una storia di scelte, di sogni sacrificati, di tensioni tra il dovere verso gli altri e la fedeltà a sé stessi. Attraverso le vicende di tre generazioni — il primo Enea, il figlio Ernesto, e il secondo Enea — Ettore ci racconta un conflitto universale: quello tra gli obblighi familiari e le aspirazioni più intime… E in tutto questo, ci sono altri due protagonisti che accompagnano la vita della famiglia Latomia: lo stabilimento tipografico e l’incantevole Ortigia. Lo stabilimento, posto al pian terreno del palazzo di famiglia, con le sue macchine che lavorano instancabilmente — Tu-tu tu-tum, tu-tu Tu-tum… — quasi un respiro meccanico, costante e ipnotico. Un “mostro ammaliatore”, così lo percepiscono i suoi eredi: fonte di orgoglio e di sostentamento, ma anche di vincoli, di obblighi, di rinunce. È quel battito delle macchine che scandisce i giorni e le notti di tre generazioni di Latomia, accompagnando la vita familiare come un sottofondo inevitabile, familiare, e talvolta ingombrante. E poi Ortigia: un’isola abitata sin dalla preistoria, ideale e idealizzata nelle sue strade millenarie, nei suoi profumi, nella luce limpida che si riflette sul mare, nei canti degli uccellini del mattino. Ortigia diventa nel romanzo un personaggio essa stessa, un teatro della memoria e della vita, un luogo dove passato e presente si intrecciano in modo indissolubile. In ogni vicolo, in ogni scorcio di mare, in ogni angolo di questa terra antica, il lettore può avvertire quella sottile malinconia che solo i luoghi intrisi di storia sanno trasmettere.  I temi trattati da Ettore sono temi universali che spesso tutti noi, in prima persona, o nel momento in cui sono i nostri figli a dover scegliere il proprio percorso di vita, ci troviamo ad affrontare” (…)“Ecco: nelle pieghe di questo romanzo non c’è solo la storia di una famiglia, non c’è solo una riflessione sulla giustizia.  C’è, soprattutto, l’Uomo che

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LA TENTAZIONE AUTORITARIA: COLPIRE L’AUTONOMIA E L’INDIPENDENZA DEGLI AVVOCATI

di Ezio Menzione* – Colpisce e induce a riflettere il fatto che due paesi così diversi si stiano scagliando contro l’indipendenza degli avvocati: Turchia e USA. Certo la differenza è grande: diversi i presupposti, diversi alcuni degli scopi perseguiti (mentre altri sono comuni), diversi i metodi e gli strumenti di intervento. Vediamo da vicino le due realtà, poi passiamo a confrontarle e a richiamare quanto accade anche in altri paesi ed infine traiamo alcune conclusioni per quanto riguarda l’Italia, anche alla luce di alcuni richiami storici. *   *   * Ci eravamo “abituati”, ammesso che a certe violazioni si possa fare l’abitudine, a constatare che in certi paesi gli avvocati venivano attaccati dal governo perché difendevano gli oppositori del governo stesso. È così in maniera massiccia in Turchia, ma anche nelle Filippine e in alcuni paesi dell’America Latina e altrove. Si tratta, in genere, di paesi dalle democrazie deboli perché non ancora compiute (perennemente incompiute) o in crisi (perennemente in crisi). Prendiamo il caso della Turchia. Dall’ascesa al potere di Erdogan, cioè da quando divenne primo ministro  e dunque ben prima di diventare Presidente della Repubblica e quindi della trasformazione del paese in una repubblica presidenziale, l’esecutivo da lui presieduto colpì con l’accusa di terrorismo gli avvocati che difendevano persone accusate di terrorismo e specificamente di essere terroristi del PKK, il partito curdo dei lavoratori, considerato terrorista dalla Turchia e dall’Europa e dagli USA, ma non dall’ONU: insomma nella lista nera stesa dagli USA dopo l’11 settembre 2001 e recepita dall’Europa. Gli avvocati dei terroristi venivano e vengono perseguiti secondo un paradigma molto comune in queste situazioni: non per avere compiuto atti di terrorismo, ma perché difendevano i terroristi e le accuse erano e sono appartenenza a vario titolo e con varie responsabilità ad associazione terroristica ed eversiva. Al reato associativo di solito si abbinava anche il reato (o più reati) di propaganda sovversiva e siccome il codice penale turco non prevede la continuazione fra reati, ogni singolo episodio di propaganda vale circa un anno di reclusione che, al momento della condanna, va a sommarsi al reato associativo. E la propaganda consiste in dichiarazioni rilasciate alla stampa a commento dell’andamento di un processo oppure interventi in convegni giuridici e occasioni simili. Insomma, il ben noto paradigma secondo cui il difensore deve rispondere dello stesso reato dell’accusato che sta difendendo ha cominciato a colpire in maniera massiccia dall’inizio degli anni 2000 e non accenna ad affievolirsi. Talora il target di questa vera e propria persecuzione erano e sono avvocati appartenenti o vicini ad associazioni – per esempio il CHD o lo OHD – che della difesa degli oppositori al regime avevano fatto la propria “specializzazione”, per cui difendevano anche le vittime di sciagure sul lavoro, o le vittime dei femminicidi o le vittime di sfratti di occupanti o residenti in aree destinate alla gentrificazione e così via. Ma non sempre gli avvocati perseguitati facevano parte o riferimento a strutture di difesa o a studi professionali o associazioni, molto spesso si trattava e si tratta di avvocati singoli, impegnati magari in un solo processo per terrorismo o associazione sovversiva. Lo schema descritto viene comunemente e massicciamente utilizzato anche contro i giornalisti (ed anche contro le testate, chiudendole in via amministrativa) con la differenza che mentre i giornalisti talora vengono assolti, gli avvocati assolti non lo sono stati mai: e le pene comminate non stanno nella condizionale, ma sommano a tre, cinque, dieci anni e su su fino a 13, 18, 20 e più. Avvocati e giornalisti che osano schierarsi o almeno prendere in considerazione le ragioni degli oppositori: è chiaro l’intento di colpire i singoli, ma altrettanto chiara è l’intenzione di intimidire le due categorie, dissuadendo i possibili interessati dallo schierarsi. Durante i tre anni di stato di emergenza che seguirono il tentativo di colpo di stato del luglio 2016, tramite apposito decreto, si sancì che l’avvocato sotto processo con accusa di terrorismo non potesse difendere in nessun processo della stessa natura. Da un anno, però, Erdogan ha posto in essere un nuovo schema di attacco per minare l’indipendenza degli avvocati, prendendo di mira l’autonomia della avvocatura stessa. Circa un anno fa si tennero le elezioni del nuovi consigli dell’ordine (il termine non è appropriato, sarebbe meglio bar association, dato il carattere semiprivatistico della compagine, ma uso consiglio dell’ordine o COA per farmi capire meglio) e a Istanbul, dove sono iscritti 65.000 avvocati (il più grande ordine al mondo) fu eletto un presidente, Ibrahim  Kaboglu, anziano costituzionalista, che proviene dalle fila del maggior partito di opposizione, il CHP, che nelle ultime politiche e  presidenziali – era il 2023 –  per un soffio non ebbe la maggioranza. L’intero consiglio si colloca in area d’opposizione, anche se è sempre difficile capire lo schieramento di appartenenza dei singoli consiglieri. Dopo pochi mesi dall’insediamento il consiglio uscì con un comunicato in cui, a fronte dell’uccisione con un drone turco di due giornalisti siriani che stavano per oltrepassare la frontiera Siria-Turchia, si chiedeva una indagine “accurata e imparziale”. È partita immediatamente dalla Procura di Istanbul una incriminazione contro il Presidente del COA e dieci consiglieri, per aver “attentato alla nazione” e per diffusione di notizie atte a sovvertire l’ordine pubblico”; “propaganda per un’organizzazione terroristica” e “diffusione pubblica di informazioni ingannevoli”. Reati, perlopiù,  di opinione di cui è costellato il codice penale turco. Il codice di procedura, in questi casi, prevede due ordini di procedimenti: uno civile, in cui la Procura richiede che il COA decada e l’altro in sede penale per i reati contestati. Il procedimento dinnanzi ad un giudice monocratico civile si è tenuto nel marzo scorso e con un’unica sbrigativa udienza è stata accolta la richiesta della procura. Fortunatamente la sentenza è appellabile ed è stata appellata e non è esecutiva fino alla definitività. In sede penale, dove si procede contro il Presidente e 10 consiglieri, si è già tenuta la prima udienza, ma ha subìto un rinvio a settembre prossimo perché uno dei dieci, arrestato al suo arrivo all’aeroporto da Strasburgo dove era andato

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IL MUSABA: LA VISIONE DI NIK SPATARI

di Nicola Tavano* – Il MUSABA è un’isola. Il MUSABA è una macchia di colore che si fa largo in un territorio brullo. Il MUSABA ricorda da vicino il disegno utopistico della Città del Sole di Tommaso Campanella, a cui il suo (co)creatore, Nik Spatari, ha dedicato diverse opere. E il MUSABA è un luogo eccezionale, proprio come Nik Spatari. Spatari nasce a Mammola nel 1929. Sin da giovanissimo, manifesta una spiccata propensione per le arti, tanto da vincere, a soli nove anni, il suo primo premio internazionale. Ancora bambino, perde l’udito ma ciò non gli impedisce di perfezionare, da assoluto autodidatta, le sue capacità artistiche. Poco più che ventenne, comincia ad allargare i suoi orizzonti valicando i confini italiani, stabilendosi, sul finire degli anni ‘50, a Losanna. In quel periodo, conosce Hiske Maas, sua compagna di vita e artefice, insieme allo stesso Spatari, negli anni successivi, del MUseo di SAnta BArbara. Si trasferiscono a Parigi, dove Spatari frequenta e collabora con personaggi del calibro di Le Corbusier, Jean Cocteau, Max Ernst e Pablo Picasso. Nel 1966 decidono di tornare in Italia. Dapprima a Milano, dove fondano una galleria d’arte e, poco dopo, in Calabria. Dopo un breve soggiorno a Chiaravalle Centrale, dove Spatari realizza alcune opere per il convento dei Frati Minori Cappuccini, decidono di stabilirsi nel suo paese natio, Mammola, in località Santa Barbara, dove sostanzialmente Spatari è rimasto fino alla fine dei suoi giorni, continuando incessantemente a lavorare alla sua creatura. La coppia, infatti, ottiene in concessione dalla curia il complesso monastico di Santa Barbara, ormai in rovina e sommerso dai rovi. Negli anni, la loro pervicacia consente al neonato Parco museale di raggiungere le dimensioni attuali, con diverse e successive annessioni di territori limitrofi. Il loro percorso è stato, però, tutto fuorché sereno. Oltre alle comprensibili difficoltà insite nella creazione di un’impresa di tal fatta, le traversie giudiziarie che hanno dovuto superare sono state moltissime e, a tratti, inspiegabili. Il MUSABA ha dovuto subire, nel corso della sua vita, plurimi sequestri e ordini di demolizione da parte dell’autorità amministrativa e della magistratura, anche penale. Anche Nik Spatari e Hiske Maas sono stati sottoposti a misure personali coercitive in relazione ad accuse rivelatesi sempre infondate. Emblematica appare la promulgazione di una Legge regionale dei primi anni ‘90 con la quale si definiva il complesso “Santa Barbara” come “monumento bizantino”. Da qui le accuse, nei confronti della coppia, di danneggiamento del patrimonio archeologico ma anche, in un secondo momento, di truffa e corruzione che hanno comportato, a loro carico, anche quaranta giorni di arresti domiciliari. Basta dare un’occhiata a qualche foto di repertorio per accorgersi dell’inverosimiglianza delle accuse: “Santa Barbara” non era altro che un’accozzaglia di pietre che nulla, ormai, avevano di artistico o culturale. Ciononostante, il processo è andato avanti e solo a metà degli anni 2000 è arrivata l’assoluzione. Incomprensibile appare, tutt’oggi, l’ostracismo della classe dirigente a un progetto che, pur sbocciato splendidamente, avrebbe potuto assumere una dimensione certamente più ampia di quella raggiunta. Dalla prima mostra realizzata appendendo alcune tele di Spatari alle mura ancora diroccate del convento, numerosissime sono, oggi, le opere che animano il parco ed il territorio circostante, alcune delle quali visibili anche da grande distanza. Certamente la più iconica è il “sogno di Giacobbe”, da molti definito – pur con le dovute differenze – la “Cappella Sistina Calabrese”. Realizzata nel primo lustro degli anni ‘90, la tecnica pittorica è singolare, forse unica nel suo genere. Sagome di legno dipinte e appese, attaccate sulla volta e sull’abside della Chiesa interamente ristrutturata (o, meglio, ricostruita) per volontà dello Spatari. L’effetto, enfatizzato dai contrasti  cromatici, è unico, dinamico. Sembra quasi che i personaggi si avvicinino all’osservatore. L’opera è quasi autobiografica. É lo stesso autore ad affermare: “Giacobbe è l’uomo a me simile. Per sognare, vagare negli spazi dell’imprevedibile, alla ricerca del sé e del mondo che ci circonda; l’amore, la lotta, il domani, l’infinito immaginario”.  Ancora, ma non solo, a tema biblico è il mosaico monumentale, iniziato nel 2006 e mai portato a compimento a causa della morte dello Spatari nel 2020. Trentasette pannelli, alcuni dei quali rimasti allo stato di bozza, che si estendono su circa 1400 metri quadri. Dieci di essi sono dedicati a una rivisitazione dello “Stendardo di UR”, opera sumerica risalente a quasi cinquemila anni fa, conservata presso il British Museum di Londra, raffigurante scene, di pace e di guerra, della città che, secondo la tradizione biblica, avrebbe dato i natali al patriarca Abramo. Gli altri pannelli sono dedicati ad altri episodi biblici, fino ad arrivare alla nascita ed alla morte in croce di Gesù. La geometria è alla base dei mosaici. Un’intricata rete di linee, insieme a una mirabile armonia di colori, viene utilizzata per dare profondità e direzionalità nel percorso visivo. Lo scopo dell’autore è di visualizzare una simbologia capace di catturare l’attenzione di chi osserva. Il mosaico monumentale adorna le mura della foresteria del parco, capace di dare alloggio a 22 persone. L’idea di fondo del parco museale, infatti, è quella di ospitare artisti di varia provenienza ed estrazione le cui opere sono visibili tuttora all’interno del MUSABA. L’accoglienza era ed è alla base della visione di Nik Spatari e di Hiske Maas. Non era infrequente, fino a pochissimo tempo prima della sua morte, incontrare Spatari e osservarlo all’opera. Accadeva che, immerso nel suo lavoro, non si accorgesse che una piccola folla si radunasse alle sue spalle. Una volta resosi conto della presenza di altre persone, la reazione consisteva in un largo sorriso. Dal canto suo, Hiske accoglieva ed accoglie gli ospiti del MUSABA con una familiarità disarmante, non disdegnando di intrattenerli con aneddoti della loro vita. La loro apertura e generosità erano evidenti a chiunque visitasse il MUSABA: accadeva spesso che Spatari si spendesse personalmente con le persone che gli si avvicinavano, sempre pronto a realizzare e donare un loro ritratto stilizzato. L’architetto Paolo Portoghesi, convinto sostenitore di Spatari, ha avuto modo di affermare che “il lavoro svolto dalla fondazione restituisce alla natura tutto il

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LA CONDITIO INHUMANA NEI CENTRI DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA

di Donatella Loprieno* 1. Qualche fatto – In una coraggiosa, quanto isolata, sentenza del Tribunale di Crotone del 20121, il giudice dell’epoca si interrogava sulla legittimità delle condizioni di trattenimento dei cittadini stranieri alla stregua del divieto di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3 della CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della relativa Corte. Dopo aver richiamato le principali sentenze in cui il Giudice di Strasburgo aveva proceduto ad affinare la giurisprudenza sulla violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti2, il giudice crotonese rilevava, senza mezzi termini, che «dall’esame del fascicolo fotografico (in atti), nonché dall’ispezione diretta dei luoghi, è risultato che gli imputati sono stati trattenuti nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Isola Capo Rizzuto in strutture che – nel loro complesso – sono al limite della decenza, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere esseri umani. E si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza». Si richiamava, nel caso di specie, la configurabilità della legittima difesa per le condotte di danneggiamento e resistenza aggravata dei tre imputati anzitutto «in ragione dell’ingiustizia dell’offesa ai loro diritti fondamentali, primo tra tutti (in ordine assiologico) quello alla loro dignità umana, lesa da condizioni di trattenimento indecenti». Le condotte dei tre imputati apparivano agli occhi del giudice come la sola forma di manifestazione di protesta efficace quantomeno per impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del centro. Tra il 10 e l’11 agosto del 2013, un’altra rivolta, scatenata probabilmente dalla morte “sospetta” di un ospite marocchino, rese temporaneamente inagibile una parte del CIE di Sant’Anna3. Dalla vicenda succintamente richiamata sono passati dodici anni durante i quali un numero impressionante di altre rivolte, con relativa devastazione di ambienti, e proteste eclatanti si sono consumate all’interno dei centri di detenzione amministrativa sparsi sul territorio nazionale. L’ultima di cui si ha contezza, nel momento in cui si scrive, è avvenuta nel CPR di Milo a Trapani il 16 novembre 2024. Notizie di stampa riferiscono che cinque agenti del reparto mobile di Palermo sono rimasti feriti nel tentativo di sedare la rivolta. Sempre dalla stampa si apprende che un esponente di rilievo del SAO auspica “che venga approvato al più presto al Senato il ddl sicurezza. Tale ddl, sostenuto da tempo dal SAP, prevede l’inasprimento delle pene per chi usa violenza e resistenza a pubblico ufficiale, nel caso di specie, la modifica del ddl 1236 del 2024 art. 26, secondo cui coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni”. Che questa sia una soluzione per porre fine al ciclo della violenza nei centri di detenzione amministrativa per persone migranti è dato dubitare, e non poco. E prima di argomentarne le ragioni in punta di diritto, occorre – io credo – insistere sui “fatti” facendoci guidare però da alcuni punti fermi. Tra questi, al momento, basti richiamare come la Corte Edu ha, da sempre, ritenuto che gli standard di tutela di cui all’art. 3, CEDU pur essendo stati elaborati avuto riguardo al contesto penitenziario, si applicano ad ogni forma di privazione della libertà personale, in qualsiasi posto essa si realizzi e certamente anche (e, forse) soprattutto all’interno dei CPR. Di ciò è testimonianza una sentenza molto recente che il giudice di Strasburgo ha adottato con riferimento alla detenzione amministrativa di una donna con evidenti vulnerabilità di natura psichiatrica all’interno del CPR di Ponte Galeria a Roma. Accogliendo la richiesta di adozione di un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 39 CEDU, nella decisione n. 17499/2024 del 3 luglio 2024, la Corte Edu ha ordinato al Governo italiano la liberazione della donna in detenzione amministrativa e il trasferimento in una struttura adeguata al suo stato di salute, incompatibile, alla luce dell’art. 3 CEDU, con lo stato detentivo. Detto in altri termini e più chiari termini, la detenzione in un CPR (in una cella di isolamento) di una persona con problemi di salute mentale è contraria a divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Duole ammetterlo ma il caso di Camelia ed il trattamento disumano ad essa inflitto non è da considerare l’eccezione bensì la regola. Nei CPR le violazioni dei diritti fondamentali della persona umana sono sistemiche e non ci sono meccanismi atti ad evitare che tali violazioni possano degenerare in trattamenti inumani, degradanti e crudeli se in tortura. 2. I rapporti – Per capire cosa succede davvero nei luoghi in cui si consuma la detenzione amministrativa occorrerebbe leggere i numerosi rapporti che, nel corso degli anni, diverse ONG (ma anche associazioni e singoli giornalisti) hanno coraggiosamente elaborato e pubblicato a cominciare dal Report di Medici senza Frontiere del 20044. In realtà, e paradossalmente, occorrerebbe ritornare a leggere il “Rapporto della Commissione per le verifiche e le strategie nei Centri di accoglienza e Permanenza Temporanea”, meglio noto come Rapporto De Mistura, consegnato a fine gennaio 2007 dopo un semestre di lavoro e visite sul campo. Con toni pacati ma fermi, nel Rapporto si suggeriva una rivisitazione dell’allora sistema normativo nel senso di ricondurre le espulsioni alla loro natura di provvedimenti necessari da applicarsi come ultima ratio e di proponeva il superamento dei CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza, così si chiamavano all’epoca) «attraverso un processo di svuotamento […] di tutte le categorie di persone per le quali non c’è bisogno di trattenimento». Nel 2016, per arrivare a tempi più recenti, Amnesty International ha pubblicato Hotspot Italy. How EU’s flagship approach leads to violations of refugee and migrant rights, al cui interno la parola “tortura” compare ben 49 volte. E ancora i report Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia, a cura della

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LA TORTURA IMPERITA

di Fausto Giunta* 1. La lunga storia della tortura registra un’importante svolta con l’avvento dell’età moderna. Dalle severe critiche di Cesare Beccaria diparte un filone di pensiero, di impronta razionalista e personalista, che domina, per il vero non incontrastato, il dibattito odierno. Utilizzata fin dall’antichità come legittimo strumento investigativo e probatorio, la tortura costituisce in molti ordinamenti giuridici un delitto gravemente punito, anche in ottemperanza alle richieste provenienti da fonti costituzionali e convenzionali. Per il vero rimangono sul tappeto anche proposte favorevoli a un suo impiego sorvegliato (addirittura medicalmente assistito) finalizzato a contrastare le più temibili forme di criminalità organizzata, come il terrorismo globale. Nel continente europeo, però, queste fughe in avanti sono opinioni isolate. Da noi, come noto, il delitto di tortura è stato inserito all’art. 613-bis c.p. dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. Si tratta di una fattispecie incriminatrice che, avversata già prima della sua entrata in vigore, ha continuato a esserlo anche dopo. Alla ritenuta inopportunità di criminalizzare l’operato delle Polizie di Stato, impegnate nel contrasto del crimine, si sono aggiunte le censure concernenti la formulazione della fattispecie incriminatrice. Non è azzardato affermare che la nuova figura di reato è riuscita a scontentare quasi tutti. Ciò ha alimentato critiche ulteriori e ancora più radicali, che sono sfociate nella proposta di legge n. 623 (presentata alla Camera dei deputati il 23 novembre 2022), avente ad oggetto l’abolizione del delitto di nuovo conio. A quest’ultimo proposito si fanno valere due argomenti, l’uno non veritiero, l’altro poco persuasivo. Da un lato, si ridimensiona la preoccupante entità del fenomeno criminoso, confermata, se mai occorresse, dalla cronaca degli ultimi tempi. Dall’altro lato, si sostiene la superfluità dell’innovazione, rilevando che il suo spazio operativo è già occupato da altre fattispecie incriminatrici: dalle percosse alle lesioni, dalle minacce al sequestro di persona. In realtà, la tortura è concetto poliedrico, che comprende vessazioni non sempre riconducibili agli anzidetti tipi criminosi. Del tutto fondati sono invece gli appunti mossi alla formulazione della fattispecie, foriera di questioni interpretative che, almeno in parte, si sarebbero potute evitare adottando una tecnica legislativa più accorta. Essendo logorroica e pletorica, la nuova figura di reato costituisce un fulgido esempio di insipienza legislativa.   2. La complessità del tema affonda le radici già nel terreno dell’oggettività giuridica. Per il nostro codice, la tortura è un delitto contro la libertà morale. La collocazione sistematica, tuttavia, ha un valore puramente indicativo del bene tutelato. Se si guarda alla notevole varietà dei fatti astrattamente rientranti nel delitto di tortura, ci si avvede agevolmente che il comune denominatore offensivo consiste nella dignità personale. La tortura può ledere anche altri beni della persona (oltre alla libertà morale, quella personale, nonché l’integrità fisica e psichica). Da qui la sua natura di reato eventualmente plurioffensivo. Un giudizio adesivo merita la scelta politico-criminale del nostro legislatore concernente la latitudine dell’intervento punitivo. Più che mai in un diritto penale di ispirazione liberale, va assoggettata a pena non solo la tortura con abuso dei poteri coercitivi pubblici, ma anche quella che si verifica nel contesto di relazioni private, caratterizzate dalla posizione di supremazia dell’agente rispetto alle vittime potenziali. Si rende necessario, pertanto, tracciare un duplice e problematico confine operativo, l’uno tra la tortura c.d. di Stato e l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), l’altro tra la tortura privata (o anche detta comune) e i maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.). Quanto al primo, considerato che l’interferenza normativa riguarda il fatto commesso dal pubblico ufficiale, il discrimine sembrerebbe dipendere dal grado di arbitrarietà della condotta, più marcato nella tortura di quanto non sia nell’abuso di misure di rigore, che sono pur sempre disciplinate dalla legge. Il confine con i maltrattamenti, invece, andrebbe ricercato nella maggiore sofferenza prodotta dai singoli atti di tortura.   3. Ma le problematiche attinenti alla struttura del reato interessano anche i rapporti interni al disposto dell’art. 613-bis c.p. Il legislatore non ha provveduto a scindere con la dovuta nettezza le due ipotesi di tortura, che avrebbero meritato di essere collocate in altrettanti articoli di legge, ciascuno con la sua rubrica. Si sarebbe chiarita in tal modo l’autonomia delle figure di reato. Invece, la loro previsione contestuale e l’anteposta collocazione della tortura comune ha indotto l’orientamento prevalente a qualificare quest’ultima come reato-base e a relegare la ben più grave tortura c.d. di Stato al ruolo di fattispecie circostanziale con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla sua attrazione nel vortice del bilanciamento con eventuali attenuanti concorrenti ex art. 69 c.p. Ad un attento esame, però, questa conclusione non è obbligata. Il fatto descritto dal secondo comma dell’art. 613-bis c.p. è simile a quello del primo comma sotto il profilo della condotta, non anche per il resto. Ciò riabilita la tesi che si tratti di figure autonome di reato, accomunate dal groviglio delle problematiche concernenti le molteplici modalità esecutive.   4. Secondo il disposto dell’art. 613-bis, comma 1, c.p., la tortura è integrata da tre distinte condotte, necessariamente attive e rilevanti anche singolarmente, quali le violenze, le minacce gravi e l’agire con crudeltà. Mentre le prime due sono tipizzate con un lessico ben noto alla parte speciale, la terza condotta, nel riproporre la dicitura della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p., sembrerebbe consistere in comportamenti anche doverosi o altrimenti leciti posti in essere con modalità tanto gratuite, quanto efferate o umilianti. Il requisito della “crudeltà”, in mancanza di altre connotazioni dell’agire illecito, allenta la determinatezza della fattispecie incriminatrice nell’intento di abbracciare condotte torturanti non rientranti nella violenza o nella minaccia (come la deprivazione del sonno già conosciuta in epoca medievale e magnificata dal giurista Ippolito Marsili perché efficace pur senza affliggere il corpo). A ciò si aggiunga che di “crudeltà” si può parlare tanto al singolare, quanto al plurale. Il canone dell’interpretazione sistematica inclina per la seconda opzione. Questa preferenza non implica, però, che la tortura sia un reato abituale; essa semmai rompe le simmetrie che intercorrono con il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. Le condotte

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ALGORITMI E PREVENZIONE: TRA NUMERI, LINGUAGGIO E GARANZIE

di Fabrizio Costarella* e Ottavio Porto** Nel contemporaneo scenario giuridico, l’espansione del paradigma preventivo rappresenta un mutamento strutturale delle forme di repressione penale. Non si tratta più soltanto di un aumento quantitativo delle misure di prevenzione, ma di una progressiva sostituzione funzionale del processo penale con strumenti alternativi, nei quali le garanzie costituzionali risultano ridimensionate o, talora, del tutto elise. In tale contesto, si profila il rischio che il principio della responsabilità personale accertata venga progressivamente sostituito da valutazioni di pericolosità basate su elementi indiziari, prognostici, e talvolta statistici, privi di un reale contraddittorio. Questo scenario prefigura una vera e propria inversione metodologica, dove la “certezza della pena” diventa, paradossalmente, espressione di una incertezza del diritto, frammentato da prassi giurisprudenziali, estensioni interpretative e criteri probatori informali. In tale deriva trova attualità la massima pitagorica secondo cui “tutto è numero”. Se, per il filosofo di Crotone, il numero era la chiave dell’ordine cosmico, nella declinazione tecnologica contemporanea esso diventa invece strumento di previsione e categorizzazione sociale. Gli algoritmi, utilizzati in funzione preventiva, si ergono a nuovi criteri di giudizio, riducendo la complessità del comportamento umano a variabili computabili. A ciò si accompagna la trasformazione del linguaggio giuridico, sempre più assorbito dal lessico tecnico e predittivo dell’intelligenza artificiale. Come ricordava Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo“: quando la lingua del diritto viene riscritta in codice computazionale, cambia anche la nostra concezione di colpa, responsabilità, libertà. L’introduzione di strumenti informatici come il Sistema Giove, fondato su logiche di polizia predittiva, segna una soglia epistemologica critica. Si tratta di una piattaforma che consente l’incrocio automatizzato di banche dati di diversa natura – giudiziaria, amministrativa, anagrafica – con l’obiettivo di identificare pattern ricorrenti associabili a fenomeni criminali ad alto impatto sociale. Il principio è quello della previsione del rischio: identificare soggetti potenzialmente pericolosi prima che compiano reati, così da attivare misure di prevenzione personale o patrimoniale. In tale modello investigativo, l’indagine si sposta dal fatto alla probabilità, dalla responsabilità accertata alla pericolosità supposta. La razionalità garantista, fondata sulla verifica rigorosa delle prove e sul contraddittorio, viene progressivamente erosa dalla logica predittiva e dalla statistica induttiva. Questa tecnica stocastica si inserisce in una più ampia tendenza, comune a diversi ordinamenti, che fa ricorso a tecnologie basate su machine learning, profilazione automatica e analisi comportamentale predittiva. Tali strumenti – se non rigorosamente regolati – rischiano di introdurre nel procedimento di prevenzione elementi discriminatori, amplificando bias preesistenti nei dati di addestramento: etnia, orientamento sessuale, contesto socioeconomico. Il cuore del problema è epistemologico: chi programma l’algoritmo determina il diritto implicito che esso codifica. Eppure, il controllo giudiziale su questi strumenti è spesso ostacolato dalla loro opacità, dall’assenza di accesso ai dati, e dalla mancanza di supervisione esperta. In questo scenario, la giustizia si espone al rischio di automazione non controllata della discrezionalità. Da questa prospettiva, risulta illuminante la riflessione sulla dimensione mistica e simbolica del potere punitivo pubblico. In epoca medievale, il potere giudiziario del sovrano si configurava come espressione di un ordine trascendente e non riducibile alla razionalità amministrativa. Per Kantorowicz, ad esempio, il sovrano incarnava due nature: un corpo fisico, destinato a morire, e un corpo politico immortale, simbolo della continuità e infallibilità dell’autorità statale. In tale dualismo, la giustizia non era semplicemente esercitata, ma incarnata: il giudice sovrano non agiva come la legge, ma era la legge, in una sovrapposizione tra diritto umano e ordine cosmico. Come la figura del re taumaturgo di Bloch, che si fondava sulla credenza collettiva che il sovrano fosse dotato di un potere miracoloso, capace di guarire per sola imposizione delle mani, non per abilità medica, ma per una legittimazione trascendente, collettivamente condivisa. Anche in quel contesto, il potere pubblico si fondava su una narrazione mistica di giustizia e ordine, accettata perché sentita come parte di un disegno superiore. Tale convinzione conferiva al potere una legittimazione carismatica e quasi liturgica, che legava l’autorità politica al destino spirituale della comunità. L’intelligenza artificiale – nella sua radicale opacità e nella sua pretesa di oggettività neutrale – spezza questo legame simbolico tra autorità e comunità. Non solo rimuove il volto del giudice, ma lo sostituisce con un’entità che non può essere né creduta né contestata sul piano del senso, perché priva di un’origine simbolica condivisa. Così facendo, si introduce una nuova mitologia impersonale, in cui il calcolo prende il posto della fede, e il rischio non è più il sopruso umano, ma l’arbitrio meccanico della macchina. La giustizia viene svincolata da ogni elemento simbolico e umano, recedendo il vincolo collettivo di senso tra governanti e governati e sublimando d’altro canto la dimensione misterica dell’auctoritas, il cui esercizio diviene nuovamente incomprensibile al volgo, smaterializzando la sua secolarizzazione illuministica. In tale modello, l’eccezione si fa norma e il sospetto diventa criterio di azione. La grammatica stessa del diritto moderno, fondata sulla responsabilità personale e sul principio di legalità, risulta sovvertita. Non è più necessario un atto, ma una correlazione statistica; non una colpa, ma un rischio. In chiave politico-filosofica contemporanea, questa trasformazione può essere letta alla luce della riflessione di Giorgio Agamben sul paradigma del “governo attraverso la sicurezza”: una logica in cui il diritto viene progressivamente svuotato, sostituito da pratiche amministrative orientate alla gestione dei rischi e dei comportamenti. La prevenzione algoritmica – fondata su una razionalità tecnico-statistica – si configura come uno stato di eccezione permanente, dove la sospensione delle garanzie è normalizzata, invisibile, addirittura automatica. Qui si innesta una riflessione centrale sul rapporto tra dittatura e stato di eccezione, così come tematizzato da Carl Schmitt e Ernst Fraenkel. Per Schmitt, il sovrano è “colui che decide sullo stato di eccezione”: il momento fondativo del potere politico si manifesta quando, in nome dell’emergenza, si sospende l’ordine normativo per salvaguardarlo. In questo senso, la prevenzione algoritmica si pone come una forma tecnicizzata e automatizzata della decisione sovrana, dove l’eccezione non è più pronunciata da un soggetto politico, ma è incorporata nel funzionamento stesso del sistema. Fraenkel, nel suo celebre Il doppio Stato, aveva mostrato come, nella Germania nazista,

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LA LEGGE A GUANTANAMO: TORMENTO O BENEDIZIONE?

di Joseph Margulies* Quando penso agli ultimi vent’anni, mi viene in mente la frase dei Grateful Dead: «Lately it occurs to me, what a long strange trip it’s been». I. Come Mai Guantanamo? Immagino che la storia sia familiare, ma molto brevemente, per capire come si sia arrivati a Guantanamo, dobbiamo capire che gli attacchi sono stati interpretati, immediatamente, non come un reato ma come un atto di guerra, e che in questa guerra, l’obiettivo più importante era l’intelligence. Tutto ciò che è avvenuto in risposta all’undici settembre, negli Stati Uniti e in gran parte dell’Occidente, Italia inclusa, si fa risalire a questa comprensione: questa era, ed è, una guerra di intelligence. Siete consapevoli, ad esempio, che tutte le vostre comunicazioni elettroniche possono essere lette dalla NSA. Naturalmente, l’11 settembre è stato un reato. Ma l’obiettivo primario dopo l’11 settembre non è stato quello di risolvere il reato – cioè, arrestare i responsabili e perseguirli – ma prevenire il prossimo attacco. L’amministrazione Bush ha capito, quasi dal primo giorno, che ci sarebbero state operazioni militari in Afghanistan, e che queste operazioni avrebbero portato alla cattura di sospetti prigionieri di Al Qaeda. E poi? Cosa dovrebbe accadere? La risposta era semplice: gli Stati Uniti hanno voluto sviluppare una tipologia di interrogatorio che permettesse di svuotare il contenuto della testa di un prigioniero. Avevano bisogno di un luogo, o diversi luoghi, dove qualsiasi interrogatorio potesse essere condotto in ogni momento, senza alcun controllo giudiziario o vincolo giuridico. Hanno voluto liberarsi dai limiti imposti dal diritto nazionale e internazionale. Secondo l’amministrazione Bush gli interrogatori nel mondo dopo l’11 settembre non dovevano più essere soggetti a nessuna restrizione, a eccezione di quelle che essi stessi si sarebbero volontariamente posti. La maggior parte di questi è stata condotta dai militari americani nelle basi in Afghanistan e Guantanamo. Per raggiungere la massima flessibilità, gli Stati Uniti hanno gettato via la Convenzione di Ginevra. La natura e la brutalità degli interrogatori militari varia moltissimo. Alcune persone vengono interrogate solo brevemente; tuttavia, molte altre centinaia, incluse praticamente tutte le persone trasferite a Guantanamo, sono state soggette a svariati abusi, inclusi la deprivazione del sonno, la manipolazione ambientale, posizioni di stress, umiliazioni fisiche e sessuali e violenze. Abbiamo intentato Rasul v. Bush per rispondere a questo vuoto, questo posto senza i freni della legge. Abbiamo detto in Rasul che non c’è una prigione fuori la legge. Abbiamo voluto inserire la legge in un posto dove, ed a un tempo quando, non c’era ricettività della legge. Che dev’essere un modo per contestare la legittimità legale e fattuale della detenzione in un tribunale, e per mostrare che – in ogni caso particolare – lo Stato ha commesso un errore. Punto. E abbiamo vinto. La Corte Suprema ha detto che i detenuti potrebbero contestare le basi della loro detenzione in tribunale.   II. La Legge Come Tormento Anche se abbiamo vinto, la legge ha fallito a Guantanamo, in almeno tre sensi. a. La Legge Come Complice Primo, la legge ha permesso all’amministrazione Bush di creare Guantanamo. Ha permesso la tortura e le prigioni segrete. La legge ha permesso l’intera architettura del regime di detenzione dopo l’undici settembre. In realtà, il regime non sarebbe stato possibile senza la legge. Negli Stati Uniti, veneriamo la legge, e soprattutto la Costituzione. Non è possibile creare un nuovo aspetto della vita americana senza prima dimostrare che è coerente con la Costituzione, e non solo con le parole ma anche con lo spirito della Costituzione. E quindi l’amministrazione ha dovuto stravolgere e contorcere la legge per adattarla a un luogo come Guantanamo ed a una pratica come la tortura. E l’ha fatto. Come ho scritto in un libro, What Changed When Everything Changed, 911 and the Making of National Identity, l’amministrazione ha reimmaginato ciò che la legge consente per preservare il nostro mito di innocenza e purezza. In questo senso, la legge è complice nel tormento. La legge fa parte del nostro incubo dopo 9/11 tanto quanto la tortura che ha permesso. b. La Legge Come Falsa Speranza Anche la legge ha fallito in un senso diverso. In Rasul, non abbiamo vinto un risultato, ma un processo. Quando il tribunale – ogni tribunale – crea un processo, vogliamo credere che sia vero, che sia reale. Vogliamo credere che i risultati del processo saranno divisi tra le parti perché i fatti non favoriranno sempre una parte rispetto all’altra, e quindi le regole che risolvono i casi non favoriranno una parte rispetto all’altra. Che, insomma, ci sia una possibilità di vittoria per tutte le parti. Altrimenti, non è un processo, è una finzione. Quella è la speranza di ogni processo e della legge che l’ha creato. In questo caso – in Rasul – abbiamo ottenuto il diritto di obbligare lo Stato a mostrare le basi legali e fattuali della detenzione di un detenuto. Ma la Corte Suprema ha lasciato i dettagli del processo ai tribunali di grado inferiore, e loro hanno creato un processo in cui lo Stato non può mai perdere e i detenuti non possono mai vincere. Mai. I dettagli non sono importanti ora; ci sono varie presunzioni a favore delle prove dello Stato. Ma il punto è solamente che non è un processo vero. È solo l’aspetto di un processo. È l’opportunità di entrare il tribunale e di iniziare il processo, ma come in un processo alle streghe, tutti conoscono l’esito prima che inizi. c. La Legge Come Mito Anche la legge ha fallito in un terzo senso, un senso più complesso. In un modo collegato al mito della legge. Cioè, purtroppo, esiste un mito negli Stati Uniti che la legge funziona. Che la legge possa limitare il potere. E quando abbiamo vinto Rasul, tutti i giornali e le riviste e la TV hanno detto, “Guarda. Ci piace dire che siamo un paese di leggi e non di uomini, ed è vero. Anche in tempo di guerra, la legge funziona”. In questo senso, la legge rafforza il suo stesso mito. Per me, questo è il

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