Oltre la norma

MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE.

di Francesco Iacopino* Nel nostro ambiente si afferma, simpaticamente, che avvocati e magistrati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Al di là della boutade, lo stato costituzionale di diritto, fondato sugli apriori dei diritti umani, affida all’avvocato il ruolo di mediazione tra apparato giudiziario e singolo cittadino e di garanzia nella tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona. L’avvocato ha il dovere di impegnare il magistrato, sia esso requirente o giudicante, a misurarsi con l’altro punto di vista, a confrontarsi con i risultati delle proprie azioni, perché la realtà può (e deve) essere guardata da prospettive diverse e perché nella complessità del nostro mondo è molto alto il rischio (e il prezzo) dell’errore giudiziario. L’avvocato ha, in altri termini, la responsabilità di alimentare nella giurisdizione il confronto sul terreno delle idee e dei valori costituzionali, coagulando in tale direzione – come ebbe a dire Vincenzo Maiello – le «energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto». Quindici anni fa Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino, per i tipi di Laterza ha pubblicato un libro intitolato «difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore». Scrive il procuratore nel Suo piccolo pampleth: «il rischio che può accecare e dannare il magistrato è quello di credere, a un certo punto, di dover non soltanto affermare il diritto ma la giustizia con la iniziale maiuscola. La storia però ci insegna – come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky – che coloro i quali credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano, sono particolarmente esposti al rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica. Perché chi pensa di aver trovato la Giustizia e la Verità prima o poi si sentirà in dovere di imporle agli altri. L’avvocato – con la sua presenza, il suo ruolo nel processo, il suo sguardo che ci osserva mentre operiamo ogni giorno – ci impedisce di cadere in questo baratro».  L’avvocato, con la sua professione di carità, nel difendere i diritti di chi si trova a tu per tu con il dolore, è lì a ricordare (a tutti) i destini di coloro che entrano nel circuito della penalità. È l’avvocato il tramite tra le carte e la vita degli altri: costantemente, assillantemente, giustamente. È lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevare il magistrato da quel peso indicibile. Ci ha insegnato Calamandrei che «l’ufficio più umano dell’avvocato è quello di stare ad ascoltare i clienti». Ecco perché, ancora una volta, ha ragione Borgna quando scrive che «l’avvocato è il miglior amico del pubblico ministero: lo aiuta a difendere la sua salute mentale», perché ciò che ci unisce è la condivisione del dolore degli altri, perché essere avvocato è una scelta di vita: un servizio in difesa della dignità dell’uomo. E allora, attingendo ancora agli insegnamenti di Calamandrei dobbiamo riconoscerci che il rispetto tra avvocati e magistrati non può che essere reciproco, perché obbedisce alla legge dei vasi comunicanti: non si può abbassare il livello dell’uno senza che si abbassi il livello dell’altro. Non è questione di rispetto della persona, perché per quello è sufficiente la buona educazione. È una questione di rispetto della funzione. Quel rispetto tra avvocati e magistrati nasce soltanto dalla consapevolezza della relazione di reciprocità che esiste tra le due funzioni.  Perché l’avvocato, innamorato del suo cencio nero, libero e indipendente, è colui il quale è chiamato a «difendere tutti» e «appartenere a nessuno», per usare le felici espressioni di Gian Paolo Zancan, avvocato e senatore della Repubblica: «ho difeso tutti, non sono appartenuto a nessuno». Tutti noi, tra gli attori della giurisdizione, dobbiamo recuperare la dimensione del ragionamento condiviso, individuare punti di incontro su cui edificare il miglioramento qualitativo della risposta alla domanda di giustizia, nella consapevolezza che la vera unità che dobbiamo perseguire e pazientemente ricercare, alimentandola anche nel discorso pubblico e nel pensiero comune, è quella tra avvocatura, magistratura e interessi del cittadino. In questa direzione l’avvocatura penalista sarà sempre francamente aperta al leale confronto e al dialogo costruttivo.    *Presidente Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro  

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LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

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“IL PROBLEMA NON CONSISTE NEL DECIDERE SE È NECESSARIO SEPARARE LE CARRIERE, QUANTO PIUTTOSTO NELL’INTERROGARSI COME MAI SIANO UNITE…”

di Tullio Padovani*- In tema di separazione delle carriere possiamo prender le mosse da un’affermazione sicuramente condivisa: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrati», esercitano due funzioni radicalmente diverse. La circostanza è di tale pacifica evidenza che proprio da essa i sostenitori dell’attuale assetto normativo ritengono di trarre un argomento pragmaticamente risolutivo per la sua perpetuazione. Una volta assicurato che un pubblico ministero non possa mutare il proprio ufficio in quello di giudice se non una o due volte nel corso della carriera, e peraltro con precisi vincoli di distanza dalle sedi ricoperte, perché si dovrebbe insistere ancora nella richiesta di carriere fin dall’origine ed istituzionalmente separate? Per essere posta correttamente, la questione deve essere pregiudizialmente sottratta ad una specie di strabismo concettuale che l’affligge quale effetto surrettizio dell’assetto esistente, e riproposta in termini simmetricamente inversi. Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono: – come sono – eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali (perché l’uno – il potere di giudicare – assume ad oggetto l’altro, e cioè l’esercizio del potere d’accusa), a quale titolo si dovrebbe accettare o addirittura giustificare l’omogeneità della carriera a partire dal reclutamento e nel contesto di un unico «ordine»? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Le ragioni che ci si industria di esporre a favore della conservazione sono – pare – fondamentalmente tre: tutte inconsistenti, sia pure per ragioni diverse. Prima ragione. Per corrispondere a pieno ai postulati dello stato di diritto è necessario che giudice e pubblico ministero, pur se investiti di poteri diversi, ma ugualmente significativi in termini di garanzia delle posizioni soggettive coinvolte nel loro esercizio, condividano un’uguale «cultura della giurisdizione», su cui è quindi edificata la pari qualifica di «magistrato». Rompendo il legame genetico originario segnato dall’appartenenza ad un unico «ordine», il pubblico ministero – par di intendere – uscirebbe dal seminato del diritto (cultura è, in fondo, coltura dello spirito) e si trasformerebbe, in pericolo o in atto poco importa, in una sorta di pianta selvatica. Ma l’argomento si riduce ad una nebbiolina che il sole del mattino dissolve. Infatti, se per “giurisdizione” (oggetto dell’auspicata cultura comune) si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come lo svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione, da parte del giudice, del conflitto contenzioso, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore. La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe bensì l’unicità delle carriere, ma a condizione che a questa unicità concorressero tutti i componenti del ceto forense. Un’apocalisse che non può nemmeno definirsi tale (e cioè come un’autentica rivelazione): si tratta, infatti, della regola comune agli ordinamenti di common low. Avendo acquisito il processo accusatorio (sia pure come argutamente notava Cherif Bassiouni, mediante una semplice cartolina postale) non ci sarebbe niente di strano che ci procurassimo anche l’aria in cui esso respira. Da noi sarebbe forse troppo? Può darsi, ma allora smettiamo di invocare la «cultura della giurisdizione» per tener in piedi un tavolino con due sole gambe: non regge. Seconda ragione. Un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe – si lamenta – facile preda della funzione di governo; sarebbe, in un modo o nell’altro, alle dipendenze dell’esecutivo. Sul punto bisogna intendersi. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché «il pubblico ministero gode [e deve godere] delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, comma 4° Cost.): non si tratta certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice (e la norma costituzionale lo sottointende con l’evidenza della specificità), ma di garanzie deve trattarsi; e di certo un vincolo di dipendenza gerarchica non potrebbe concepirsi in termini di «garanzia», il cui oggetto non può evidentemente prescindere dall’assicurare l’«indipendenza» (cui si riferisce espressamente l’art. 108, comma 2 Cost. in riferimento alla posizione del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali). Ma la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si prospetta certo in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere un’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti – come con tagliente lucidità scriveva Giovanni Falcone – «se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto». Parole forti ma parole vere. La citazione del grande Magistrato (isolato e combattuto anche per queste parole) prosegue poi con la domanda retorica: «come è possibile che in un regime liberaldemocratico […] non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti?». Appunto: come è possibile? Terza ragione. Sul tavolo dell’unicità delle carriere vien calato un preteso asso: l’art. 112 Cost. secondo cui: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Così come il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2° Cost.), il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale luminosa garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Il trait d’union che unisce giudice e pubblico ministero, entrambi vincolati, l’uno alla legge, l’altro all’esercizio dell’azione penale, è dunque il ponte su cui passa un’unica carriera per entrambi. Ma, più che di un argomento si tratta piuttosto delle comiche finali. Scriveva Robert H. Jackson, nel 1940 General Attorney degli Stati Uniti d’America: «L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve

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A PROPOSITO DELLA C.D. “CULTURA DELLA GIURISDIZIONE”

  di Francesco Calabrese*   Il dibattito sulla legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario, con la previsione della separazione delle carriere tra magistrato del pubblico ministero e magistrato giudicante, si sta progressivamente infervorando. Letture dietrologiche ed argomenti ad hominem si sostituiscono sempre più spesso ad un sano confronto sui temi e sulle ragioni che ciascuna delle parti adduce a sostegno della propria posizione. L’auspicio, in questo senso, è che lo stesso si mantenga nei limiti di un confronto sui contenuti. Dunque, dovrebbe porsi in analisi l’intervento normativo, gli effetti che ne potrebbero derivare sull’assetto istituzionale e l’incidenza che gli stessi possano assumere rispetto alla situazione che è in atto. In questa prospettiva si pone, pertanto, il presente contributo.    Ovviamente, affermare che la separazione delle carriere assuma – a parere di chi scrive – un’importanza fondamentale per realizzare (rectius, cominciare a realizzare) a pieno i principi di un “giusto” processo accusatorio è imprescindibile. Ma sarebbe anche ovvio limitarsi a ribadirne la valenza solo ed esclusivamente in questa prospettiva. Attraverso queste riflessioni, dunque, ci si ripropone di analizzare in maniera approfondita uno dei temi che viene spesso addotto per contrastare la riforma in atto: la realizzazione della cosiddetta “cultura della giurisdizione”. Locuzione assai suggestiva, questa, che essenzialmente sottende una sorta di comune contesto di appartenenza tra organo giudicante e organo requirente tale per cui, essendo entrambi intrisi di tale “retaggio culturale”, difficilmente potrebbe accadere che un’indagine penale possa essere “forzata” a tal punto da risultare non ortodossa rispetto ai meccanismi di acquisizione della prova; ovvero che, prima ancora delle norme poste a garanzia della ortodossia metodologica nelle indagini del pubblico ministero, vi sarebbe questa comune base culturale che lo porrebbe quale egli stesso “giudice” delle prove in corso di formazione o da acquisire, in termini tali da garantire un equilibrio nello sviluppo della stessa attività investigativa. In ciò richiamandosi – lo si consenta – la ormai desueta figura del giudice istruttore, del tutto avulsa da un contesto di tipo schiettamente accusatorio quale dovrebbe essere il nuovo processo penale. Il riferimento viene espresso in svariate e multiformi graduazioni esplicative: dal fatto che, essendo il pubblico ministero egli stesso giudice, difficilmente potrebbe perdere quell’equilibrio valutativo che lo caratterizza; al fatto che la comune appartenenza tra organo requirente ed organo giudicante vorrebbe il primo in una posizione di fortissimo imbarazzo laddove dovesse sostenere, di fronte al secondo, un’accusa fondata su basi assolutamente infondate; alla conclusiva affermazione secondo cui, semmai, una pregressa esperienza del pubblico ministero quale organo giudicante risulti estremamente formativa sul piano culturale, tanto da renderlo maggiormente esperto ed equilibrato. Così, in questa prospettiva, vengono addotte tutta una serie di situazioni (magari anche derivanti da casi concreti che si sono verificati) in cui sarebbe dimostrato che la suddetta “cultura della giurisdizione” abbia effettivamente assunto una funzione limitatrice rispetto ad eventuali impulsi tesi a forzare le modalità di acquisizione della prova. Rispetto a questa ricostruzione, di converso, ne viene contrapposta un’altra secondo cui, in realtà, questa comune appartenenza a tale ambito culturale rischi di determinare un forte – certamente maggiore del dovuto – condizionamento in capo all’organo giudicante che, proprio in virtù di tale condivisione, rischia di riconnettere in capo al pubblico ministero, una patente di fondatezza del procedimento di acquisizione delle prove (e dei relativi risultati). Dunque – si obietta rispetto alla prima opzione – questa comune appartenenza, più che portare il pubblico ministero verso una cultura della giurisdizione sposta invece la funzione giudicante verso l’angolo della pubblica accusa; con tutte le consequenziali determinazioni che da ciò ne possano derivare in punto di realizzazione di un processo di valutazione della prova che sia equilibrato e “terzo”. Anche in questo caso si susseguono richiami a situazioni concrete in cui tali evenienze si sono verificate, ponendo in assoluto rilievo la necessità che, dunque, sia in ogni caso garantita la terzietà della funzione giurisdizionale. Orbene, già da tale preliminare – anche se approssimativa – esposizione delle due posizioni sarebbe fin troppo agevole propendere per la seconda: il rischio che la funzione giurisdizionale possa essere in alcun modo condizionata, infatti, non può essere in ogni caso commensurato rispetto a qualsivoglia garanzia delle modalità acquisitive della prova. O, se si vuole, avere un pubblico ministero che possa in alcun modo forzare le modalità acquisitive risulta chiaramente subvalente rispetto ad un mancato o inefficace controllo giurisdizionale delle suddette procedure. La comparazione, ovviamente, è fondata su basi prettamente probabilistiche, su elementi prognostici, e dunque lascia il tempo che trova; tuttavia, appare già preliminarmente imprescindibile evidenziare come i due valori in gioco (da una parte la terzietà del giudizio e, dall’altra, la ortodossia nella acquisizione probatoria) non possano essere in alcun modo messi a confronto. In ogni caso, non è su questo campo che si vuole porre il focus delle presenti riflessioni. Il tema, invece, lo si vorrebbe spostare su un piano diverso di schietta natura, per così dire, epistemologica: su quale base cognitiva è fondato l’assunto secondo cui l’appartenenza alla comune “cultura della giurisdizione” garantisca un processo acquisitivo delle prove conforme alle regole del giusto processo? In effetti, se si riflette bene su tale punto, ci si rende conto di come l’assunto secondo cui la comune appartenenza a tale milieu culturale dovrebbe garantire una corretta esplicazione dell’attività acquisitiva delle prove sia sostanzialmente autoreferenziale. E ciò non solo perché non risulta fondato su alcun elemento giustificativo sul piano generale e formale; ma soprattutto perché, nel concreto, non esiste un mezzo che, prima ancora del controllo giurisdizionale, garantisca che i meccanismi di acquisizione della prova siano stati esplicati in maniera ortodossa sol perché attivati da un pubblico ministero imbevuto di tale cultura. In buona sostanza, dunque, non sussiste alcun principio generale – né di carattere giuridico, né di carattere epistemologico – che possa in alcun modo sostenere l’assunto secondo cui l’appartenenza a tale ambito culturale determini ipso facto la garanzia di una sorta di ortodossia acquisitiva della prova. E soprattutto, non esiste alcuno strumento – di natura prettamente processuale o meno che sia – che, sia sul piano potenziale che su

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IL GIUDICE: UN FREDDO OPERATORE DEL DIRITTO?

di Maria Clausi*- Molti pensano che chi opera nel mondo del diritto nel suo agire sia guidato esclusivamente dalla logica e dalla rigida osservanza delle norme. Probabilmente per molti sarà così: il diritto e le sue logiche come esigenza suprema che non può essere piegata a nulla! In verità, il diritto è sterile se non si interpreta in modo da renderlo più vicino all’uomo. Cristo, a proposito della rigida osservanza dei numerosi divieti imposti di sabato, affermava: Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Vangelo secondo Marco, capitolo 2). E così anche Marx, nella sua critica al pensiero di Hegel, affermava: la legge esiste per l’uomo e non l’uomo per la legge. Il giudice, dunque, nello svolgimento della sua delicatissima funzione non può compiere una rigida e fredda applicazione delle norme, senza tener conto che quelle norme sono destinate a regolare una vita, una sorte; a incidere sulla storia di un uomo e della sua famiglia. Il giudice che ha una formidabile preparazione giuridica, ma una scarsa sensibilità umana, sarà un buon tecnico, non un buon giudice. Il giudice, pur evitando coinvolgimenti emotivi che potrebbero paralizzare il suo lavoro, deve necessariamente fare uso di buon senso, umanità, carità ed empatia. Egli non può spogliarsi della sua dimensione umana quando svolge la sua funzione. Un giudice deve essere anche un po’ filosofo, sociologo, psicologo e letterato e la sua cultura giuridica deve essere arricchita da quella umanistica. Egli deve saper comprendere e conoscere la realtà del suo tempo ed i fenomeni, nel loro costante divenire, che si creano in seno alla società perché questi influenzano l’agire del singolo. Specie nel settore penale il giudice deve saper essere un attento osservatore del comportamento umano e della realtà che lo circonda. Nel processo penale il giudice deve saper cogliere i contesti sociali e famigliari che hanno determinato la condotta del reo: egli deve saper essere un buon indagatore dell’animo umano. Ma soprattutto nel momento in cui siede dietro il suo scranno in udienza e quando siede dietro la sua scrivania in camera di consiglio egli deve tenere sempre a mente che dietro quel fascicolo che sta sfogliando vi sono degli esseri umani, col loro vissuto, la loro coscienza, il loro presente, il loro futuro, il loro dolore ed il loro sconforto. La lettura del codice, indispensabile ad una corretta valutazione del fatto, deve essere accompagnata dalla lettura dell’anima e deve essere sorretta da una coscienza vigile e severa, soprattutto con sé stesso. Una buona lettura del codice farà una buona sentenza, ma solo una lettura del codice illuminata dalla coscienza farà una sentenza giusta. *Giudice onorario

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LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA

di Saverio Loiero* –  La necessità di porre un freno al fenomeno della medicina difensiva è stata ed è il fondamento politico delle recenti vicende normative attinenti alla responsabilità penale del medico. La legge Balduzzi, prima, e la legge Gelli-Bianco, poi, sono state emanate proprio allo scopo di contenere la sempre più dilagante citazione in giudizio dei medici in sede penale, cui ha fatto seguito la crescente manifestazione di pratiche mediche superflue e/o eccessive rispetto al normale iter clinico. Con entrambe le riforme si è tentato di far riacquistare valore e forza normativa all’opinione, fatta propria dalla giurisprudenza formatasi già a partire dalla prima metà degli anni ottanta ed ancorata alla disposizione di cui all’art. 2236 del codice civile, volta a sottolineare la speciale difficoltà dell’arte medica ed a limitare, di conseguenza, la responsabilità del sanitario solo ai casi di imperizia grave, oltre che di negligenza e imprudenza. L’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) prevedeva, infatti, che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». La legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha, invece, inteso introdurre una disposizione ad hoc, l’art. 590 sexies del codice penale, stabilendo, in relazione ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 commessi nell’esercizio della professione sanitaria, che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Sul piano della concreta applicazione, l’ultima novella si è rivelata sin da subito di difficile configurabilità, ponendo non poche questioni di carattere interpretativo: quale fosse l’esatto ambito di applicazione della disposizione; se la stessa rivestisse carattere di causa di non punibilità ovvero di scriminante, con le ovvie conseguenze in tema di risarcimento del danno; se avesse ancora un qualche rilievo il grado della colpa; se fosse applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore o meno. A risolvere il contrasto esistente in materia, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272174, Rv. 272175 e Rv. 272176, fissando alcuni insegnamenti, oggi imprescindibili, nella valutazione della responsabilità del sanitario. L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. In sintesi, affinché l’art. 590 sexies comma 2 c.p. possa trovare applicazione, il giudicante dovrebbe verificare che il sanitario abbia correttamente individuato e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate al caso concreto ma, contestualmente, abbia commesso un errore nel momento esecutivo di esse e che tale errore esecutivo sia riconducibile all’imperizia (essendo negligenza e imprudenza escluse dalla causa di non punibilità) e solo allora dovrebbe procedere ad esaminare la gravità della colpa. È parso, all’indomani dell’intervento nomofilattico, subito evidente che la Suprema Corte abbia inteso recuperare la tradizionale distinzione fra colpa grave e colpa lieve, con notevoli ripercussioni anche in tema di successione di leggi penali nel tempo. L’abrogato articolo 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi integra, a parere delle Sezioni Unite, una parziale abolitio criminis mentre l’art. 590 sexies cod.pen. introduce una causa di non punibilità; la prima disposizione, allora, si pone come norma più favorevole rispetto alla seconda, con conseguente applicabilità a tutti i fatti commessi sino all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per i profili della negligenza o dell’imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto. Di estremo rilievo diviene, dunque, l’individuazione e la valutazione del grado della colpa, non certo di immediata comprensione, non essendo rinvenibile, com’è noto, alcun criterio codicistico utile a siffatta distinzione. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, hanno riacquistato autorevolezza in chiave soggettiva i concetti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nei quali si sostanzia l’accertamento della colpa. Ai fini della misura della colpa, assume nuova centralità l’individuazione della condotta dell’agente modello, quale comportamento alternativo lecito, rectius diligente, di talché il parametro positivo si rivela essere la distanza fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente in concreto e quella che era da attendersi. Può affermarsi, tuttavia, ad ormai sette anni dalla sua entrata in vigore, che la legge Gelli-Bianco non abbia risposto alle istanze della classe medica, soprattutto sotto il profilo penale, vanificando così l’originario intento del legislatore, dettato dalla esigenza, anche sul piano della finanza pubblica, di porre un argine alle pratiche difensive del medico. È proprio in punto di esigibilità concreta della condotta che l’interpretazione restrittiva della legge Gelli-Bianco ha mostrato tutti i suoi limiti, soprattutto nel contesto della insorta emergenza pandemica, imponendo al legislatore ulteriori interventi normativi attraverso l’introduzione del c.d. “scudo penale”. Sono stati, così, ridisegnati i confini della responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica, sancendone la punibilità solo nei casi di colpa grave e positivizzando alcuni criteri guida per il giudicante nell’esclusione della gravità della colpa.  Ebbene, tali interventi normativi hanno, certamente, reso ancor

LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA Leggi tutto »

CITTADINANZA, PARRESIA E AVVOCATURA

di Massimo La Torre* – I. Intendo qui intrattenermi su tre grandi esperienze della storia politica e giuridica occidentale. Si tratta della cittadinanza, della parresia, o libertà radicale di parola, e dell’avvocatura. Inizio dunque con la cittadinanza. Il tema è immenso (invero tutte e tre le nozioni qui messe in gioco sono assai vaste). Di cittadinanza, in genere, si parla in tre significati. (i) La cittadinanza, dal punto di vista del diritto internazionale, si definisce come appartenenza, nazionalità. (ii) Vi è poi una definizione più vicina al diritto costituzionale e più centrale per la filosofia politica e del diritto, che è quella della partecipazione alla decisione sulla legge in una comunità politica. (iii) Vi è infine un terzo approccio alla cittadinanza, più sociologico, in cui la cittadinanza si definisce come appartenenza in termini sociali (gli inglesi parlano a tal proposito di “membership“, o “belonging“) o addirittura come appartenenza attiva, come coinvolgimento all’interno di una comunità dal punto di vista sociale, coinvolgimento relativo alla vita politica, impegno di partito od anche sindacale. Ora, chi sparla ritiene (e crede che la posizione adottata trovi conforto nella storia della nozione e della pratica di questa) che il senso centrale, il cuore della nozione corrisponda al suo significato “politico” o “costituzionale”: la partecipazione come titolarità di diritti politici.             Mi sia consentito argomentare innanzitutto a contrario. La cittadinanza non è mera “titolarità di diritti umani”. Questo è un punto molto importante: la cittadinanza – purtroppo – non è solo appartenenza o titolarità di diritti umani. Non si lascia ridurre a queste due situazioni. Su ciò ha scritto in maniera intensa e radicale una delle filosofe più interessanti del Novecento qual è Hannah Arendt, autrice di uno splendido libro come Le origini del totalitarismo[1]. Arendt riflette sulla grande tragedia del Novecento, ed arriva a questa conclusione: guai ad essere solo titolari di diritti umani. Se si è titolari di soli diritti umani si è persi. Perché? Perché non si ha cittadinanza: ciò che ci offre protezione è la cittadinanza. Ciò che ci protegge è fondamentalmente la comunità politica, la capacità di darsi delle leggi in un contesto istituzionale e di contribuire al darsi delle norme in tale contesto, unitamente alla capacità di poter rendere effettive queste norme. I diritti umani, purtroppo, non offrono nulla di ciò. Lo dà la cittadinanza. Ed ecco perché la cittadinanza viene inclusa tra i diritti umani: l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il diritto alla cittadinanza è un diritto umano fondamentale[2]. Ma se un soggetto è titolare di soli diritti umani e non gli viene concessa la cittadinanza è posto in una situazione di pregiudizio, di grave pericolo. Fondamentalmente è uno stateless, apolide, un “senza patria”. (B) Ora, la cittadinanza non è nemmeno soltanto “capacità giuridica o soggettività giuridica”. Hannah Arendt sbaglia, allorché crede che la soggettività di diritto equivalga alla cittadinanza. Chi ha compiuto gli studi del primo anno di Giurisprudenza sa bene che la soggettività giuridica non equivale – fortunatamente – alla cittadinanza. Anche il non-cittadino è soggetto di pieno diritto: egli può stipulare un contratto, acquisire ed essere titolare di diritti reali, agire in giudizio etc. È possibile una qualche attività giuridica importante ed un riconoscimento della soggettività giuridica anche per il non-cittadino. C’è tuttavia chi non vuole questo, e forse ciò non era del tutto chiaro alla Arendt. La cittadinanza però non è mera “appartenenza”. Ché questa è un criterio spesso definito in termini etnici o comunitaristici, senza che ciò implichi alcuna qualità di soggetto autonomo padrone di un proprio progetto di vita. La sudditanza è anch’essa appartenenza, ma non è ovviamente cittadinanza, che rinvia ad una posizione di autonomia e dignità. Il suddito subisce l’appartenenza, il cittadino decide su di essa. Determinante per la vigenza di uno status proprio di cittadinanza è l’attribuzione di una competenza su competenza, come accade per la sovranità di cui la cittadinanza non è che un’altra faccia. Si è cittadini e v’è cittadinanza, e si è titolari del diritto di contribuire alla produzione ella norma sulla cittadinanza. La cittadinanza non è neppure “partecipazione”, là dove questa si intenda come partecipazione “non qualificata”, nel senso sociologico menzionato prima. Non basta essere membro di un sindacato o di un partito politico, o di un comitato di quartiere per avere cittadinanza: la cittadinanza è titolarità dei diritti politici, della possibilità di contribuire ed avere accesso alla produzione della legge, della norma giuridica. Ciò significa anche che cittadinanza e democrazia sono situazioni intimamente connesse. La cittadinanza è una delle due facce della moneta dell’ordine politico democratico. L’altra faccia è la sovranità, il potere di deliberare e di statuire la norma vincolante per la comunità di riferimento. Giungo pertanto alla mia tesi centrale sulla cittadinanza. La definizione di cittadinanza che adotto non è propriamente “mia”, fa parte di una antica tradizione di pensiero. Questa di séguito ritengo sia la definizione corretta. Il cittadino è membro partecipante di una comunità politica e lo è mediante l’accesso alla produzione delle norme giuridiche, tanto generali quanto individuali, vale a dire alla legislazione e – in particolar modo – anche alla giurisdizione. Questo è un punto chiave per l’idea che qui presento. Il cittadino deve poter accedere anche alla giurisdizione, alla produzione della norma individuale (utilizzando la terminologia kelseniana, adottando pertanto la differenza tra norma generale del legislatore e norma individuale contenuta nella sentenza, nella decisione giudiziale). Il cittadino deve poter accedere a tale produzione di norme su un piede di uguaglianza con gli altri cittadini. Tale uguaglianza si specifica – questo è un punto fondamentale – nella comune libertà di chiedere e dare ragione. La cittadinanza implica il potere, una libertà, di chiedere ragioni e di dare ragioni per ciò che concerne tutti gli atti di autorità che si esige siano applicabili al cittadino stesso. La cittadinanza si inventa in Grecia, fondamentalmente, e ad Atene in particolare. La tradizione politica e culturale degli Antichi, nonostante tutti i salti, i cambiamenti e le fasi di “quiescenza” del Cristianesimo (che sconvolge il mondo classico) e

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GESÙ DEVIANTE E CRIMINALE? DALLA PREDICAZIONE AL PROCESSO

Charlie Barnao* e Domenico Bilotti** –    Gesù deviante universale A partire dal 1970 le scienze sociali hanno avuto un ruolo sempre più importante negli studi sui Vangeli. I primi sforzi si sono concentrati nell’applicazione di specifiche teorie sociologiche agli studi biblici ma, nel tempo, la ricerca ha attinto anche da una gamma più ampia di discipline, tra cui l’antropologia culturale, le scienze politiche, il diritto, l’economia, la psicologia sociale. Il mio lavoro sui Vangeli si inserisce nel filone di studi delle scienze sociali che utilizzano la strumentazione concettuale e teorica della sociologia della cultura e della sociologia della devianza per leggere gli episodi principali che caratterizzano la vita di Gesù nel suo percorso di predicazione e diffusione di un modello culturale e di vita. Gli interrogativi di partenza che mi sono posto, in continuo dialogo con il lavoro di Bilotti che si è occupato in particolare della vicenda giuridica e processuale di Gesù, sono i seguenti. Gesù di Nazaret era davvero un criminale? È davvero questa la ragione principale per cui fu torturato e, quindi, giustiziato dalle autorità del suo tempo? È esistito un legame tra il suo essere “uomo marginale” – ai confini di culture diverse, sempre dalla parte di coloro che occupano le posizioni più basse della gerarchia sociale – e la sua condanna? In che modo il rapporto tra “cultura” e “diritto” ha influenzato la sua sorte? E infine quali sarebbero oggi per lui, dopo oltre duemila anni di diffusione del suo messaggio culturale, gli esiti della sua vicenda? Nel tentativo di dare una (almeno iniziale) risposta a queste domande, si è avviato così un lungo (e, ovviamente, ancora in itinere) percorso di ricerca e riflessione sociologica sul significato culturale dell’azione di Gesù nel suo e nel nostro tempo. Partendo dalla lettura dei Vangeli, in dialogo con la letteratura scientifica sul tema, la riflessione si è avviata ed è stata accompagnata da un confronto su queste tesi, attraverso incontri e dibattiti organizzati ad hoc con gli attori sociali più diversi: studenti universitari, detenuti dell’Alta sicurezza del carcere di Catanzaro, esperti di esercizi spirituali ignaziani, studiosi di molteplici discipline scientifiche, tutti a diverso titolo interessati a discutere sul tema. Le aule universitarie (nel carcere di Catanzaro e nel campus universitario di Germaneto) sono diventate così delle vere e proprie incubatrici in cui maturavano, si criticavano, si re-indirizzavano le idee che emergevano, di volta in volta, dal confronto reciproco in un processo di analisi, interpretazione e attualizzazione sociologica dei Vangeli. Gesù adottava senz’altro una condotta estremamente deviante per il suo tempo e proprio per queste ragioni formali fu condannato ad una pena estrema, rivolta ai criminali peggiori: la morte per crocifissione, fuori dalle mura della città. Ma, al di là degli specifici episodi e degli specifici reati che gli venivano contestati e che lo avrebbero portato alla condanna e alla morte, tutta la vita di Gesù è costellata da azioni devianti. Gesù è un deviante culturale. La cultura proposta da Gesù nel suo percorso di vita era contraria alle norme sociali del suo tempo, divenendo, talvolta, addirittura un modello contrapposto a quello dominante. I comportamenti proposti da Gesù sono spesso talmente “fuori dalla norma” e di rottura con la società che lo circonda che frequentemente non sono stati compresi neanche dagli apostoli e da coloro che erano a lui più vicini. Il tema della devianza di Gesù si presenta così in stretta relazione con il rapporto tra “puro” e “impuro”. Infatti nei Vangeli (come in molte società umane) la riflessione su ciò che è “impuro” talvolta riguarda una riflessione sulle relazioni tra ordine e disordine, tra normale e deviante, tra essere e non essere, tra forma e assenza di forma, tra vita e morte. Ma il modello culturale di devianza che viene formalizzato nei Vangeli non è deviante solo per il mondo in cui Gesù visse. Il modello culturale proposto da Gesù è deviante in modo universale. Se è sottolineato da molti studiosi come Gesù fosse considerato un individuo profondamente deviante in relazione al suo contesto contemporaneo, il suo “modo di procedere”, il suo “modo di essere”, trasmessi ai suoi discepoli e a tutti coloro che con lui entravano in relazione, può essere considerato addirittura deviante in ogni tempo e in ogni luogo, perché mina alle basi alcuni veri e propri universali culturali, elementi presenti e comuni a qualsiasi cultura umana. In particolare il modello culturale proposto da Gesù sembra destabilizzare e relativizzare l’importanza dei legami di sangue (a cominciare dalla famiglia), del sistema di stratificazione sociale (per esempio, le disuguaglianze strutturate in base a classi e ceti), delle tradizioni culturali più rigide e maggiormente riconosciute nella comunità (prima fra tutte la religione). Se il modello culturale proposto da Gesù è universalmente deviante, allora dobbiamo dedurre che sarebbe deviante anche nei confronti del nostro odierno modello culturale dominante. E su questi presupposti, quindi, ci possiamo chiedere: cosa accadrebbe oggi se Gesù si presentasse a noi? Come verrebbe accolto il suo messaggio culturale? In che modo la nostra società giudicherebbe devianti le sue azioni, adattate al contesto culturale dei nostri giorni? È ovviamente difficile rispondere con precisione ad una domanda del genere e certamente sarebbe necessario un lungo lavoro di analisi e di riflessione, che in questa sede non possiamo affrontare. Di sicuro in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi delle democrazie e dal ritorno degli autoritarismi/nazionalismi/ fascismi da una parte e, dall’altra, dal dilagare del populismo penale con conseguente ritorno alla “crudeltà” nel diritto, un messaggio  come quello di Gesù, che si presenta come universalistico, antiautoritario, interclassista e particolarmente deviante verso ogni forma di discriminazione sociale, gerarchia di dominio e ingiustizia sociale, sarebbe molto probabilmente considerato come profondamente sovversivo, pericoloso ed estremamente violento (almeno da un punto di vista simbolico) contro l’ordine costituito. La repressione nei confronti di un attore sociale, Gesù, che attraverso azioni quotidiane e radicali si facesse interprete di un messaggio del genere, sarebbe, con ogni probabilità, estremamente dura e il suo tipo di comportamento deviante verrebbe forse inquadrato

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L’AZIONE COME STRUTTURA DIALETTICA DI UN CONFLITTO

di Domenico Bilotti* –  La più stimolante contraddizione nel vissuto telesiano consiste nella sua afferenza a un mondo di relazioni sociali ancora in gran parte profondamente derivativo, rispetto alla demografia e ai rapporti civili in opera, e nella schietta rivendicazione di un orizzonte di senso meno ipostatizzato e conservatore delle mode del periodo. Ciò certo non fa di Bernardino Telesio un rivoluzionario, sicuramente non nel senso che al lemma hanno attribuito il diritto costituzionale e la dottrina dello Stato negli ultimi due secoli. Ne individua la teoresi, tuttavia, in una interlocuzione critica coi saperi e in una modalità tutta nuova di secondarne la diffusione. Sul piano dell’analisi giuridica serve adesso comprendere se quella spinta controtendenziale abbia avuto, o meno, riflessi empiricamente riscontrabili, nel metodo della discussione giudiziaria e delle sue categorie operative di riferimento. Dal punto di vista redazionale, il De Rerum Natura Iuxta Propria Principia precorre la manualistica dei secoli successivi, anche sul piano della stesura – per altro verso, secondo una modalità di scrittura molto frequente nell’accademia meridionale. Telesio portava con sé una sorta di set di appunti, per le dispute, le lezioni e i dibattiti cui partecipava, e mano a mano certosinamente ingrossava il blocco, conferendogli struttura più rifinita. Il primo libro dell’opera è pubblicato a Roma soltanto nel 1565: da oltre un ventennio, però, era ben nota l’elaborazione telesiana e, almeno dal decennio precedente, sia a Napoli sia in Roma è probabile circolassero appunti e sintesi del più vasto opus telesiano. Che il primo libro monografico dell’A. appaia quando ormai è ultracinquantenne dimostra invero l’ulteriore processo di composizione dell’opera, secondo una sua coerenza interna, ma anche tramite un iter progressivo fatto di revisioni continuative. Il De Rerum Natura è in sostanza (esattamente come per i grandi dottrinari della scienza privatistica nel Novecento) un libro noto quanto ai suoi orientamenti di fondo, ben prima che sia integralmente pubblicato. Probabilmente, anzi, hanno un ruolo a che sia presto edita anche la seconda sezione del volume, solo cinque anni più tardi, a Napoli, le pressioni entusiastiche di un mondo culturale interessato a leggere finalmente a sistema le tesi del filosofo cosentino, non bastando più la singola circostanza oratoria nella quale volta per volta fossero state presentate, nella sede di un dibattito specialistico. È probabile, ancora, che Telesio stesso sia addivenuto a questa decisione per almeno tre ordini di motivi. Il primo, quello più comprensibile agli occhi della posterità, è che avere una fonte ufficiale, scritta e finanche vistata dal suo autore, avrebbe consentito di eliminare interpolazione esterne, garantendo così una più salda e attendibile circolazione della stessa. Su Telesio poi gravavano singolari sospetti per posizioni strutturalmente eterodosse, rispetto alla linea ufficiale del magistero ecclesiastico e alla tradizione teologica che ne sostanziava, nella pratica, la dottrina e il consenso. Da questo punto di vista, come ogni oppositore al sentire comune del suo tempo, che però accetta di non violarne le istituzioni, Telesio è un singolare tipo di umanista, eppure non tanto di nuovo conio. Proviene da una famiglia altolocata, nella quale il rapporto con le autorità ecclesiastiche è sempre stato radicato, risalente e solido. Come si è precedentemente osservato, per quanto non lo fosse in senso stretto, talvolta Telesio era definito dalle fonti un chierico. Se chierico era, tuttavia, lo era soprattutto nel senso storico-etimologico e socio-culturale delle esperienze dei clerici vagantes, a base della nascita del sistema universitario europeo: pensatore itinerante, spirito acceso, di abilità pedagogico-persuasiva. Non invece nel senso strettamente giuscanonistico che ancora modellava lo strumentario intellettuale del giurista di rango, per il tramite dell’utrumque ius nella dottrina privatistica (che a quella straordinaria fase di significazione interordinamentale, tra digesto e corpus, ancora guardava, per formazione, se non per convinzione) e del diritto inquisitoriale nelle procedure criminali. Telesio aveva viepiù prole legittima e una moglie alla quale era affezionatissimo: è lo stato vedovile che rende plausibile la proposta di Pio IV; in assenza di quello, il diritto vigente cinquecentesco avrebbe potuto far qualificare Telesio anche come consigliori ecclesiastico, giammai quale vescovo o porporato. En passant, la tanto vituperata inquisizione, certo esecrabile sul piano delle condanne emesse e delle ragioni giustificative e apologetiche delle medesime, tuttavia fu, alla stregua di quanto oggi notano internazionalisti e processualisti, la prima base per configurare una giurisdizione generale alternativa al primato delle sovranità territoriali. Lì, e ieri, promossa in ragione dell’universalismo teologico; qui, e oggi, legittimata de facto da una governance e da una petizione sui diritti umani non più demandabile alla sola cornice statuale, dove anzi più spesso le violazioni avvengono. Quale che ne sia stato l’impatto, la tardiva pubblicazione del De Rerum Natura è così bilanciamento tra il mantenere una posizione esteriore il più possibile cautelata, rispetto alle rimostranze canoniche, e l’opportunità di rendere però chiaro (senza travisamenti esterni) quanto l’analisi telesiana andava svolgendo e sviluppando. Ed è proponibile un terzo ordine di motivi, per cui finalmente l’inesausto Telesio scelse finalmente di pubblicare i risultati delle sue ricerche e delle sue riflessioni: il fatto, da un lato, che fosse mano a mano più convinto della piattaforma gnoseologica avanzata e che, dall’altro, esistesse ormai sia nell’ambiente partenope, che in quello pontificio un pubblico interessato all’opera. I tempi per la gestazione matura del testo integrale si rivelano, del resto, autenticamente telesiani: il primo volume è del 1565, l’edizione completa è del 1586 – napoletana, e questa è conseguenza biografica. Nel primo periodo romano, la protezione di curia ha un peso; negli ultimi due decenni di vita, sono i nobili Carafa di Nocera a garantire al filosofo favori e consensi. È il periodo nel quale Telesio diventa in un certo senso l’intellettuale di riferimento in un certo tipo di convivi e simposi. Gli sono amici il drammaturgo e numismatico Annibal Caro – nonostante il petrarchista fosse teoreticamente ancora devoto al vetusto verbo aristotelico – e il grande letterato Torquato Tasso, che personalmente consola Telesio per il dramma del figlio ucciso. Perché Telesio non è percepito dalla cultura, prossima, successiva come un fautore del riformismo giuridico? Bisogna ammettere che giurista professionale non è; la sua

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LA SUGGESIONE DI UNO STRAPPO ALLE REGOLE

di Ottavio Porto* – L’evoluzione dei mezzi di comunicazione e lo sviluppo prodigioso della tecnologia hanno – ormai definitivamente – stravolto i modelli culturali, i valori e i gusti, della società. Anche nell’arte, sempre più permeabile rispetto alla tempesta del progresso, il percorso sembra segnato: un coacervo di idee e valori nel quale l’estetica del bello si diverte in improvvise giravolte. Il labor lime che diventa taglio, graffio, movimento netto di chi, al pennello, preferisce la spatola e il taglierino, al colore la colla e all’aggiunta di dettaglio l’asportazione e la lacerazione. Epifania del nuovo genio, un primo “strappo” compiuto nei confronti della pittura tradizionale, sembra poter essere individuato nell’opera del maestro Mimmo Rotella. Scenario degli eventi, quel piccolo gioiello che è la città di Catanzaro alla fine dell’ottocento: il teatro, la villa comunale, lo sviluppo delle attività di artigiani e commercianti venuti da lontano, così come l’implementazione delle vie di comunicazione, ne hanno da poco arricchito e vivacizzato l’offerta culturale. Un trampolino perfetto per il maestro, prima di trasferirsi a Napoli, a Parigi e negli Stati Uniti poi, presso l’Università di Kansan City nella quale avvierà anche la registrazione di poemi fonetici battezzati “epistaltici”, ovvero pieni di parole inventate – proprio come la definizione stessa. Si tratta di esperienze dadaiste, che lo portano a cercare un nuovo linguaggio dell’arte, capace di invadere tutte le forme espressive: nella pittura, nella scultura, nel settore filmico, fino alle nuove tecnologie informatiche, delle quali intravede soltanto l’alba, l’obiettivo è chiaro: stupire, dissacrare, andare oltre. E infatti, Rotella, anche nel quotidiano è un personaggio davvero eccentrico. Tornato dall’America, nel 1953, va in giro per Roma vestito con abiti talmente vistosi, che – qualcuno – lo individua come il modello ispiratore del film “Un Americano a Roma” di Alberto Sordi. Eppure, rimane sempre attaccato alla cultura del sud, al cibo mediterraneo, a quello stile chiaro e semplice nel rappresentare concetti complessi. A gettare una luce su quel passo determinante che proprio in quegli anni lo renderà una icona immortale della pop art italiana, l’incontro diretto coi manifesti pubblicitari, affissi sui muri della città, strappati distrattamente, sovrapposti. Dalla confusione, da quelle immagini stritolate dal passare del tempo, dal mescolamento dei colori, Rotella riscopre una forza particolare, nuove linee dal fascino unico, messaggi che provengono dal caos, ma che contengono forze di comunicazione innovative. È la scintilla del décollage, proposto come “una riflessione distruttiva su cui meditare, su cui riversare la propria attitudine conoscitiva, un universo che seduce ed affascina, coinvolgendo il fruitore in una perdita irriducibile dell’identità individuale” ed in una nuova dimensione lisergica. Il maestro insegue la trasformazione, la vibrazione della carica comunicativa obliqua dei media e dai brandelli genera una pittura nuova, che esplora – attraverso precisi riferimenti cronologici – l’intera frammentarietà del reale, nella provvisorietà di un presente governato dall’effimero, dalle leggi massificanti del consumo, un presente che vede la rapida ed inarrestabile obsolescenza dei propri oggetti. Rotella porta alle estreme conseguenze espressive l’impiego di materiali extrapittorici, da supporto passivo la carta si trasforma in materiale della pittura, si stende sulla superficie del quadro con la versatilità dei pigmenti tradizionali. Il quadro di Rotella cita il manifesto, che rimanda all’immagine-simbolo, a sua volta pareidolia del film, del prodotto commerciale o del personaggio oggetto di culto. Bionde e patinate Marilyn, tigri dei più noti circhi equestri, star e starlette divengono parte integrante del patrimonio culturale che, contemporaneamente, appartiene alla pittura, al cinema, al manifesto. La suggestione è unica: da un lato le accattivanti immagini di divi e simboli consumistici, con la loro carica di “oggetti del desiderio collettivo”, dall’altro il fascino dell’opera manipolata e dell’intervento irripetibile dell’artista. Lavorando ante litteram sui media, il maestro calabrese ha compreso con straordinario anticipo e profonda intelligenza quello che sarebbe avvenuto di lì a poco, ha precorso il ruolo della comunicazione nella società. Lo ha fatto mantenendo intatto un aspetto quasi ludico del fare artistico che nasconde, sotto una maschera quasi dannunziana, una creatività stupendamente “infantile”, nel senso più aulico e imperscrutabile del termine.    *Avvocato e componente della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” (Pubblicato in Ante Litteram n. 0 – dicembre 2023)

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