Oltre la norma

L’«UNICA SOLUZIONE POSSIBILE»… È UN’ALTRA. ANCORA CONTRO LA TORTURA

di Marina Lalatta Costerbosa* – Nel suo libro Salvare una vita si può, il filosofo utilitarista Peter Singer scrive: «Prendiamo come esempio l’argomentazione secondo cui la tortura è una pratica da condannare in qualunque caso. Vista la ben documentata propensione di carcerieri e polizia a compiere atti di violenza sui prigionieri e la bassa probabilità di ottenere informazioni utili per mezzo della tortura, sembra verosimile che condannando in toto tale pratica si raggiungano i risultati migliori. Tuttavia, potrei argomentare che se mi trovassi nella assai improbabile condizione in cui solo torturando un terrorista sarebbe possibile evitare l’esplosione di una bomba atomica nel centro di New York, sarebbe mio dovere torturare il terrorista. A volte il mio dovere di individuo non coincide con ciò che prescrive il migliore dei codici morali»1. In una prospettiva simile incontriamo anche la tesi di Michael Walzer sul politico dalle mani sporche. Walzer, nel suo Political Action: The Problem of Dirty Hands, capovolge le note pagine del saggio Sulla pace perpetua nelle quali Kant ci offriva una visione alta della politica e della filosofia proponendone l’intreccio, sì da favorirne il reciproco sostegno. Come aveva osservato in una sua intensa intervista quasi due secoli dopo Hannah Arendt,  Kant è stato il filosofo anche autenticamente «politico»2. Per Kant il politico, il «politico morale», nulla ha a che fare con il «moralista politico». Il politico “morale” è colui che tenta di costruire e di sostenere la pubblica libertà di espressione e di pensiero per ogni cittadino, la «libertà della penna», al fine di creare quelle condizioni esterne di possibilità (il diritto) in grado di assicurare il rispetto di ciascuno nella sua autonomia. In una sorta di eroicizzazione del politico disposto a «intrare nel male, necessitato», secondo Walzer, il “politico morale” è, al contrario, disposto a ricorrere, ove indispensabile, anche alla spregiudicatezza, persino alla tortura. Anzi, il politico “morale” lo si riconoscerebbe per lui proprio dalle «mani sporche», che denoterebbero non illegittimità, bensì assenza di ipocrisia e assunzione di responsabilità3. A essere così capovolto è il ragionamento kantiano, e pure l’intendimento di Sartre sotteso al dramma teatrale del 1948 «Le mani sporche», in cui veniva sollevato il problema relativo alla possibilità di esercitare il potere in modo innocente. La risposta di Sartre, con riferimento specifico alla tortura, era stata consegnata alla nota introduttiva di Tortura, la testimonianza tristemente toccante del giornalista Henri Alleg, il racconto delle torture da lui subite in Algeria per mano francese4. È un testo prezioso, in cui Sartre denuncia la sistematica e devastante futilità della tortura, «vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori di portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo, se applica la question dovrà sempre ricominciare» 5. Si tortura per torturare, il suo scopo è solo apparentemente legato al contenuto di verità delle informazioni o alla loro utilità. È esibizione tremenda di potere fine a se stessa, destinata a reiterarsi. Nella stessa scia di Walzer, e più di recente di Singer, si era collocato invece in passato Niklas Luhmann. In una conferenza tenuta a Heidelberg nel 1992, il noto sociologo aveva proposto l’ormai consueto scenario tipico dell’argomento della bomba a orologeria, ritraendo una grande quantità di terroristi (di destra e di sinistra) in possesso di diverse bombe atomiche, pronti a usarle6. Su questo sfondo egli arrivava a formulare la domanda cruciale e, dal suo punto di vista, solo retorica, relativa a cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. La conclusione è che accederemmo al terreno della tortura, dimostrando coi fatti che nessuna norma possa più dirsi valida in senso assoluto, neppure quella che vieti il ricorso alla tortura. Evidente qui la doppia fallacia dell’argomentazione: da un lato, la fallacia dell’analogia tra l’individuo privato e lo Stato (di diritto), e dall’altro, la fallacia dello scenario apocalittico, immaginato nella fantasia per trarre conclusioni valide nella realtà.  Come è noto, sono numerosi gli argomenti che nel dibattito internazionale, in corso da più di vent’anni, vengono avanzati per sostenere la compatibilità della tortura con un diritto democratico. Altrettanti e più forti sono però i controargomenti che si possono presentare per confutarne la correttezza e l’ammissibilità, logica e politico-morale7. Tra questi vorrei qui soffermarmi soltanto su due falsi argomenti, forse tra quelli che più di frequente ricorrono, mostrando la loro grande capacità persuasiva; inossidabili nonostante l’intrinseca precarietà teorica. Sono gli stessi falsi argomenti che vengono utilizzati spesso per giustificare le guerre, le presunte guerre “giuste”. Il primo è stato definito «argomento dei danni collaterali». Così lo descrive Ernesto Garzon Valdés nel suo bel saggio Guerra e diritti umani. «L’espressione “danni collaterali” – afferma – è un eufemismo per designare la morte di civili innocenti e la distruzione di obiettivi non militari come scuole, ospedali, musei o fabbriche destinate a una produzione non militare. Il ricorso all’argomento dei “danni collaterali” è una variante dell’argomento del doppio effetto che consente di giustificare un qualsiasi danno, purché l’intenzione del soggetto agente non sia di provocare un danno, bensì quella di perseguire un bene. La debolezza morale di questa argomentazione è nota»8. In questo contesto Garzon Valdés introduce l’argomento per contestarne la validità se usato in particolare per legittimare guerre d’intervento umanitario; la stessa obiezione che avanza per questo caso vale tuttavia senz’altro quando essa viene impiegata a favore della tortura in un contesto democratico. Si tratta di un vecchio argomento, risalente persino all’etica tomista, ma, appunto, in un ambito discorsivo e teorico ben diverso, fondato su presupposti teologici e metafisici. Se trasferito su di un terreno che non può essere né l’una cosa né l’altra, pena l’inattuale uscita da uno scenario politico e giuridico laico e democratico, non può che cedere a fronte dell’obiezione secondo la quale «contro l’’argomento dell’irrilevanza dei danni collaterali‘ si può muovere l’argomento della fallacia morale del “doppio effetto”»9, della sua non pertinenza, giusta la sua implicita, ma costitutiva, relativizzazione

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TORTURA UNO SGUARDO DAL PONTE

di Tullio  Padovani* –  Sommario: 1. La fine del processo ordalico. – 2. L’introduzione della tortura giudiziaria. – 3. La resistenza alla sua eliminazione e forme di sopravvivenza. – 4. La Convenzione internazionale del 1994 e la sua problematica attuazione nell’ordinamento italiano. 1. La tortura è un mostro che ha dominato la scena del processo penale per molti secoli, dopo esservisi introdotta sulla scia di una grande riforma di civiltà: mai forse l’eterogenesi dei fini ebbe modo di esprimersi con più paradossale inversione. Prima che la tortura fagocitasse nel giudizio penale i mezzi di ricerca della prova, la decisione sulla responsabilità o la risoluzione del conflitto giudiziario era infatti basata sul sistema delle ordalie, e cioè su una procedura probatoria il cui esito veniva affidato al “giudizio di Dio”, espresso mediante un giuramento, un duello, oppure sottoponendo una delle parti, o entrambe, ad una situazione di grave pericolo personale. L’esito della prova determinava la risoluzione della controversia e, comunque, il contenuto simmetrico della decisione. Il presupposto dell’ordalia era pertanto costituito da una sorta di “scommessa” religiosa: Dio avrebbe salvato l’innocente, identificando il responsabile. Di qui la necessità di un appropriato rituale che corroborasse la dimensione “religiosa” e ne assicurasse l’efficacia decisoria: il necessario intervento di un chierico, la somministrazione preventiva dell’eucarestia e la benedizione delle armi. Il progresso segnato dalla civiltà dopo l’anno mille consentì di scorgere, con evidenza progressivamente crescente, l’assurdità blasfema di un simile sistema processuale. Il passo decisivo per il suo superamento fu compiuto da papa Innocenzo III, uomo di profonda cultura, con il IV Concilio Lateranense del 1215. Tra le molte decisioni destinate ad avere stabile ripercussione nella struttura della Chiesa (tra le molte il celibato obbligatorio dei preti), il capitolo XVIII delle deliberazioni conciliari sancì anche il divieto tassativo ai chierici di prestare il proprio ministero per lo svolgimento di un rito ordalico, che, in questo modo, veniva privato del sostegno “religioso”. Avrebbe certo potuto sopravvivere ugualmente in gestione “laica”, anche se con minore “dignità”, ma a scongiurare una tale persistenza (probabilmente manifestatasi dopo l’adozione del divieto rivolto ai chierici), intervenne il Concilio di Valladolid, convocato da Giovanni XXII nel 1322, il cui capitolo XVII comminò la scomunica latae sententiae a chiunque avesse preso parte ad un giudizio ordalico. La portata generale del divieto e la sua sanzione da parte della Chiesa nei confronti della totalità dei fedeli schiudeva così le porte della modernità. L’ordalia, riconosciuta come una patente violazione di una prescrizione del decalogo: non nominare il nome di Dio invano, si profilava così in tutta la sua dissennata infondatezza. Non potendo in alcun modo garantire l’intervento di Dio nell’esito della prova, esponeva gli innocenti al rischio di un’ingiusta condanna, mentre offriva ai colpevoli l’opportunità di un arbitrario salvacondotto. Peraltro, la struttura dell’ordalia sopravvisse, sotto diverse spoglie, in quelli che diventeranno gli ordinamenti di common law. La forza soprannaturale sarà sostituita dalla forza dei cittadini riuniti: la giuria, composta da dodici persone, membri della stessa comunità cui appartiene l’imputato (e, quindi, suoi «pari»), chiamati a pronunciare un giudizio unanime, dopo aver assistito ad un “duello” giudiziario da parte di accusa e difesa rispettivamente impegnate nell’esibizione delle prove a carico ed a discarico in presenza e sotto il controllo di un arbitro imparziale: il giudice. Il numero (dodici erano gli apostoli) e l’esito (la convergenza unanime delle opinioni) “assicuravano” la fondatezza del verdetto immotivato, che appariva quindi assunto all’esito di uno scontro che, in termini simbolici, rispecchiava e riproduceva l’originario duello ordalico. 2. Ben diverso fu l’esito dell’abolizione del giudizio ordalico nell’Europa continentale, dove si afferma l’idea che la giustizia si legittima soltanto se il suo fondamento è costituito non da una verità per così dire “stipulativa”, raggiunta all’esito di una contesa giudiziaria attraverso il verdetto unanime della giuria, ma da una verità “materiale” intesa come obiettiva adaequatio intellectus et rei. La sua ricerca viene perciò affidata ad un funzionario pubblico qualificato – il giudice – che la ricercherà secondo un metodo razionale. Il sistema probatorio disponibile appare tuttavia periclitante: le prove dirette non sono sempre disponibili; quelle indirette sono sempre inaffidabili. Il criterio di risoluzione del dubbio si staglia all’orizzonte mediante il recupero di un vetusto istituto già noto al diritto romano, ma progressivamente emarginato dal sistema giudiziario: la tortura probatoria, che si inserisce, se non come esito ineludibile, certo come strumento ritenuto consentaneo all’obiettivo primario assegnato al nascente processo inquisitorio: per l’appunto, la ricerca della verità materiale. Molto rapidamente la tortura entrò dunque a vele spiegate nel processo penale dell’Europa continentale e vi permase sino al XVII secolo, con risultati a dir poco rovinosi. In effetti, la percezione dell’inaffidabilità delle dichiarazioni ottenute attraverso i tormenti apparve chiara anche prima che la riforma illuministica la denunciasse con impeto e vigore, determinando la soppressione dell’odioso istituto. Ma il valore simbolico della confessione, anche se ottenuta all’esito di tormenti reiterati e insopportabili, rintuzzò a lungo le obiezioni razionali opposte a una tale barbarie. In realtà, poiché la tortura avrebbe dovuto essere disposta solo in presenza di indizi qualificati di reità, la sua successiva adozione finiva col costituire, in termini di costruzione dell’accusa, solo una sorta di “conferma”. Ma come ha giustamente rilevato Antoine Garapon (Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, 2007, p. 150), «il processo inquisitorio somiglia a una scommessa progressiva sulla colpevolezza dell’imputato»: ogni sua fase trae fondamento dalla precedente e ne convalida la prospettiva, per cui gli indizi sufficienti a torturare corroborano e convalidano la confessione, pur estorta tra atroci dolori. Sintetizzando le ragioni di fondo della battaglia contro la tortura giudiziaria Cesare Beccaria, nel XVI capitolo Dei delitti e delle pene, scriveva che essa «è un mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti». D’altra parte, l’unanimità della condanna si spezza quando si tratta di valutare la plausibilità di una particolare forma di tortura, compresa nella formula quaestio in caput sociorum, applicata a chi avesse già confessato la propria responsabilità (o fosse raggiunto da prova certa di essa), per indurlo a rivelare i nomi dei complici la

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CORSO E RICORSO DELLA TORTURA: COSA È CAMBIATO

di Leo Pallone* “… Nulla è cambiato. Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze. Il gesto delle mani che proteggono il capo è rimasto però lo stesso. Il corpo si torce, si dimena e divincola, fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, illividisce, si gonfia, sbava e sanguina”. Wisława Szymborska   Parlare di tortura, oggi, sembra anacronistico. Nondimeno, si può nascondere un fenomeno che prepotentemente si fa largo tra passato e presente, l’uso della tortura accompagna da millenni l’umanità, essa ricompare nelle guerre, nelle dittature, nelle carceri e come strumento di lotta al terrorismo internazionale, molteplici circostanze tese a dimostrare l’attualità di un crimine così antico, un fenomeno, dunque, che il tempo non ha logorato.    “Ante litteram”, la nostra rivista, approfitta della disponibilità di illustri studiosi-giuristi per riallacciare i fili di una riflessione e di una discussione che s’inerpica nel solco della storia e lo attraversa sino ai nostri giorni. Un percorso culturale, scientifico e giuridico, un approccio plurale, dinamico e integrato, che scompone i contrasti e le perplessità sulla legittimità e sui limiti di uno strumento crudele che sguazza nel dolore e nella sofferenza, che corrompe ed annulla diritti sociali indivisibili dalla dignità. Un’analisi, che tiene conto dei diversi atteggiamenti ideali, delle numerose fonti prescrittive che sono importantissime nel delineare il concetto di “tortura”. Mi riferisco, in particolare, al Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU, approvato dall’assemblea generale il 13 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia il 25 ottobre 1977;  alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950; alla dichiarazione dell’Assemblea delle nazioni unite del 1975; alla Convenzione del 1984; allo statuto della Corte penale internazionale. Che cosa è la tortura? Voltaire, uno dei padri dell’illuminismo settecentesco, risolse dicendo che “… la tortura è stata inventata da dei ladri che essendo entrati presso un avaro e non trovando il suo tesoro, gli fecero soffrire mille tormenti fino che costui non ebbe svelato il luogo dove il tesoro si trovava”. Ma cinque secoli avanti a lui un re di Castiglia, Alfonso X il saggio, aveva risposto alla medesima domanda asserendo solennemente che “… la tortura è una forma di pena che trovarono gli amanti della giustizia per scoprire e conoscere la verità sui delitti che si commettono nascostamente”. Alfonso, il saggio, esalta la funzione giudiziaria o punitiva della tortura e, così facendo, contribuisce al suo consolidamento; Voltaire, invece, prescinde dalla finalità giudiziaria o punitiva e valorizza il carattere del tormento come fatto comune, al di fuori di qualsiasi contesto giudiziario o punitivo, per screditarla e affrettarne l’inesorabile decadenza. Parecchi secoli dopo, Alan Dershowitz, famoso avvocato penalista, difensore delle garanzie giuridiche e dello stato di diritto, in un suo lavoro Why terrorism works, affrontando problemi legati alle nuove forme di terrorismo, si sofferma anche sulla questione della tortura. Dershowitz, sostiene che si dovrebbe legalizzare la tortura nei confronti dei sospettati di terrorismo. Il noto avvocato vuole scongiurare il pericolo che la tortura possa essere usata fuori dalla legge, senza le garanzie di un sistema legale. Dershowitz, porta ad esempio gli spaventosi fatti dell’11 settembre. Tragici avvenimenti che hanno comportato “scelte drammatiche”. Scelte che lasciavano intendere anche il ricorso alla tortura per ottenere informazioni necessarie a impedire il ripetersi di avvenimenti simili. È possibile trovare limiti giuridici alla tortura? La risposta – come un invisibile filo di Arianna, attraversa i labirinti della storia, una traccia che diventa solco profondo su un tema di grande rilievo in termini di civiltà giuridica – si sagoma attraverso i contributi dei nostri autori. Un focus monografico sulla tortura che “Ante Litteram” ha avuto il privilegio di acquisire e divulgare. Un sentito ringraziamento agli autori dei contributi: Tullio Padovani, Marina Lalatta Costerbosa, Joseph Margulies, Fausto Giunta, Donatella Loprieno. In chiusura, ancora una volta l’attenzione è rivolta a un figlio di questa terra, un calabrese che si è distinto nel “Suo campo operativo” dando lustro alla nostra regione. Nicola Tavano ricorda l’opera straordinaria dell’artista Nik Spatari e del suo sogno di Giacobbe scolpito nel Museo di Santa Barbara (MuSaBa). Uno straordinario dipinto, tridimensionale, di 240 metri quadrati che copre tutto lo spazio della volta e dell’abside della cappella antica dell’abbazia di Santa Barbara – ex monastero situato nel comune di Mammola, in provincia di Reggio Calabria – conosciuta come la “Cappella Sistina calabrese”. *Direttore Ante Litteram (Già pubblicato su Ante Litteram n.3 – dicembre 2024)

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GIANNI VERSACE E LA MODA, SUA UNICA RAGIONE DI VITA

di Angela La Gamma* – Tra i personaggi che hanno dato lustro alla nostra terra una posizione primaria deve certamente essere riconosciuta a Gianni Versace (Giovanni Maria Versace era il suo nome completo) poliedrico stilista, dal carattere schivo, volitivo ma, al contempo, dolce e gentile che ha fatto della moda la sua ragione di vita. Il 2 dicembre 1946, in un’Italia in fase di rinascita, a Reggio Calabria, veniva al mondo quello che può essere definito un uomo dal talento impareggiabile, di quelli che è difficile non notare e che ha portato avanti i valori della cultura e dell’ingegno calabresi e della Magna Graecia, dando lustro all’Italia nel mondo attraverso una genialità difficilmente eguagliabile. Gianni Versace era un ragazzo innamorato della bellezza ed uno stilista che ha saputo innovare la moda del XX secolo grazie alle sue intuizioni: sin da bambino gattonava tra pizzi e merletti nella sartoria della madre Franca (Francesca Olandese) e, appena adolescente, era già il principale collaboratore di quest’ultima, la quale si fidava ciecamente del suo istinto e di quelle che possiamo definire delle vere e proprie premonizioni sulle evoluzioni degli stili in un’Italia dalla ritrovata creatività e vitalità. Nel 1972, a soli 24 anni, Gianni Versace ha disegnato la sua prima collezione da stilista, la Florentine Flowers: un successo clamoroso e, nel 1978, aiutato dall’adorato fratello Santo, ha fondato la casa di  moda che portava il suo nome. Il resto è storia nota. Ciò che mi piacerebbe portare all’attenzione dei lettori di questa rubrica è qualche aneddoto relativo alla vita dello stilista, tratto dalla biografia ufficiale, redatta dal giornalista Tony Di Corcia, che ci dà un quadro di come l’ambizione, il talento, la determinazione siano in grado di superare tutti i confini e raggiungere vette altissime ed insperate. Chi mai, infatti, avrebbe potuto anche solo immaginare che questo ragazzo reggino, nato e cresciuto tra forbici, aghi e stoffe (il padre gestiva il laboratorio di confezione), dalla piccola sartoria di Via Gullì sarebbe arrivato a portare le sue creazioni in giro per il mondo ed a diventare un’icona inconfondibile della moda made in Italy? Di certo non lo avrebbero mai potuto immaginare i maestri ed i professori di Gianni, il quale non potrà, sicuramente, essere ricordato come un amante della scuola e dello studio: sin dalle scuole elementari, infatti, i genitori sono costretti a mandarlo a ripetizioni. Non va meglio alle medie: Gianni veniva accompagnato sin dentro la scuola dal fratello Santo, ma poi usciva dalla finestra per andare ad ammirare i resti del tempio greco, andare in via Marina; qualsiasi cosa pur di non restare seduto dietro ad un banco. Dopo le medie Versace si iscrive al liceo classico Tommaso Campanella: un vero disastro! Da lì passa all’istituto per geometri, dove era bravo solo in agraria ed in costruzioni, ma il suo insegnante sosteneva che avrebbe potuto specializzarsi solo nelle costruzioni rurali e quindi lo faceva esercitare esclusivamente nella progettazione di porcili, stalle e conigliere…non è difficile intuire quale sia stato il suo epilogo formativo: nell’anno scolastico 1967/68 non viene ammesso agli esami di stato e, quindi, tutt’altro che addolorato, Gianni decide di non diplomarsi. Nulla da fare. Il suo habitat è nella sartoria della madre e, poi, nell’atelier: qui si sente a suo agio come “un feto nel liquido amniotico”. Sin da bambino, per esercitarsi nell’imitazione della madre, Gianni si divertiva a realizzare gli abitini per le bambole delle sue amichette, utilizzando ritagli della sartoria; ad 11 anni ha scoperto quanto fosse esaltante cucire, piegare un tessuto, far risplendere una giacca nera grazie a dei bottoni preziosi: le sue mani ancora bambine detestavano l’imprecisione. La sartoria era tutto il mondo di questo fanciullo, affatto interessato a ciò che accadeva fuori, al pallone, alle passeggiate sul lungomare con gli amichetti, ai gelati da Cesare: lui voleva stare con sua madre, con l’adorata sorella Donatella, con l’ago tra le dita. La sua era una passione irrefrenabile, totalizzante: una passione di quelle che induce a vivere tutto ciò che la riguarda in maniera intensa, estatica, forse eccessiva, ma mai sbagliata. Tra stoffe, pizzi e merletti Gianni riconosceva sè stesso e riconosceva anche che i tempi cambiavano rapidamente:  nei primi anni 70, ad esempio, Versace ha intuito che si andava rapidamente affermando la moda confezionata, segno tangibile che il vento di democrazia che soffiava in quel periodo storico si insinuava in ogni settore sociale. La madre assecondava questo figlio geniale, fidandosi ciecamente del suo talento, della sua spiccata intuitività ed è per questo che alla sartoria è stata aggiunta una boutique. Questa, ben presto, è diventata il mondo esclusivo di Gianni: i rappresentanti dovevano rispettare alla lettera le sue richieste, le clienti pendevano dalle sue labbra. Racconta Di Corcia, che una volta entrò in boutique una delle migliori clienti, Raffaella De Carolis, Miss Italia 1962 e moglie di un armatore, alla quale Franca era riuscita a far comprare cinque vestiti tra i più costosi. Improvvisamente entra Gianni. La cliente, appena lo vede cerca il suo consenso e lui, senza alcun indugio, gliene fa restituire due in quanto “non adatti a lei”. Quello che però deve far riflettere e che riflette il fulcro di quello che era il carattere e l’amore che Versace aveva per l’estetica e tutto ciò che ne fosse concernente è stata la risposta data alle, immaginabili e comprensibili, rimostranze della mamma Franca: “Mamma- questa è la risposta tratta dalla biografia di Di Corcia- chiunque veda una persona vestita da noi deve chiedersi: che bello? Dove lo ha preso? Se invece si chiede dove l’ha presa ‘sta roba e storce il muso, tu perdi un cliente. Si vende per amore, non per commercio”. E proprio questo amore assoluto ed incondizionato per la moda ha portato un ancora giovane Gianni Versace a realizzare il suo sogno: disegnare, a soli 24 anni, una collezione, la Florentine Flowers, la quale, debuttata nel 1972, in una Firenze che era diventata il fulcro della moda italiana, immediatamente ha raggiunto un successo planetario. Anche la nascita di questo brand ha una

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PANPENALISMO E TENUTA DEMOCRATICA

di Orlando Sapia*– Aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che si riscontrano nelle innovazioni legislative che, nel corso degli ultimi decenni, hanno riguardato il sistema penale attuale. Chiaramente, queste scelte politiche in materia penale, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale. Un ruolo che sempre più appare dissonante rispetto al sistema di valori cristallizzato dalla Costituzione italiana. Un sistema penale che va in direzione opposta e contraria rispetto al paradigma garantista, il cui principio ordinatore è quello di limitare l’uso della forza, operando in due direzioni: “come sistema di limiti alla libertà selvaggia dei consociati, tramite la proibizione, l’accertamento e la punizione come reati delle offese ai diritti altrui o ad altri beni o interessi stipulati come fondamentali; e come sistema di limiti alla potestà punitiva dello Stato, tramite garanzie penali e processuali, le quali precludono la proibizione delle azioni inoffensive o incolpevoli e la punizione di quelle offensive e colpevoli senza un loro corretto accertamento”1. Il finalismo teleologico è orientato ad assicurare la migliore risposta nel bilanciamento degli interessi dei cittadini e delle vittime rispetto ai diritti dell’indagato/imputato/condannato. L’idea di fondo è quella della riduzione della violenza, anche nella punizione del reo, poiché la pena secondo l’art. 27 Cost. ha l’obiettivo di rieducare/ riaggregare il reo nel consesso sociale, così come chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/19902.  Tuttavia, negli ultimi trenta anni, l’azione legislativa ho prodotto una proliferazione  delle fattispecie di reato e l’innalzamento degli edittali di pena, in alcuni casi proprio dei minimi così sottraendo al giudice di merito la possibilità di realizzare una corretta dosimetria della pena da irrogare3. Sarebbe troppo lungo in questa sede operare una ricostruzione degli svariati “pacchetti sicurezza” che si sono succeduti, ma è di certo possibile ripercorrere quello che è avvenuto, per lo meno, nel corso dell’attuale legislatura. Già al suo incipit la XIX Legislatura si è caratterizzata con l’essere in perfetta continuità con le precedenti, attraverso l’introduzione, di cui non si sentiva la necessità, del reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione. Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina prevedendo  la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 TUI), ma soprattutto l’introduzione del nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis Dlgs. n. 286/98), in cui se all’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persona la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale. Si prosegue con il D.L. n. 123/23 c.d. Decreto Caivano che traendo origine sempre da fatti di cronaca, avvenuti per l’appunto a Caivano, rappresenta un ulteriore di esempio di atto avente forza di legge che viene emanato in via di urgenza, senza nessuna necessità, ma sull’onda delle emozioni di piazza. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene delle norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione. Fortunatamente non sono passate quelle proposte che avrebbero voluto un abbassamento dell’età ai fini dell’imputabilità, che per adesso permane a quattordici anni. Tuttavia, l’effetto è stato immediato, essendo aumentati in maniera esponenziali i minori detenuti negli IPM, proprio a causa del proliferare delle misure cautelari custodiali. 496 minori e giovani adulti detenuti nei 17 istituti penali per minorenni in Italia, al 15 gennaio 2024. Si tratta di un numero record, rende noto l’associazione Antigone nel settimo rapporto sulla giustizia minorile, evidenziando che il decreto “ha introdotto una serie di misure che stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto”4. Infine, annunciato con il comunicato n. 59, il Consiglio dei Ministri, in data 16/11/23, ha approvato un disegno di legge sempre in materia di sicurezza, che è attualmente al vaglio delle competenti commissioni parlamentari, ma che desta preoccupazione essendo informato dalla medesima logica securitaria che ha caratterizzato i precedenti “pacchetti sicurezza”, ovverosia la creazione di fattispecie delittuose nuove e l’aumento degli edittali di pena in relazione ai reati già esistenti. Tra le novità, risalta la norma che renderà da obbligatorio a facoltativo il differimento pena per le donne incinte e le madri con prole fino a un anno, così aprendo le porte degli istituti penitenziari ai bambini, di certo incolpevoli, al seguito delle madri. È di tutta evidenza una normativa pensata nei riguardi delle donne di etnia rom, che rappresenta un esercizio normativo ispirato al diritto penale d’autore. Il D.D.L. prevede, altresì, l’introduzione di due nuove fattispecie di reato finalizzate a mantenere la sicurezza degli istituti penitenziari e delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, punendo gli episodi di rivolta, che possono essere integrati non solo da atti

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INTERVISTA A LUIGI FERRAJOLI

di Leo Pallone* –  Luigi Ferrajoli(1) è certamente da annoverare tra i filosofi del diritto più autorevoli e più  letti nel mondo, il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli. Per i suoi meriti e la sua fama è stato insignito del titolo di “doctor honoris causa” in decine di Università in tutto il mondo. È autore di numerosissimi libri, tradotti in più lingue, tra i quali i recenti Perché una costituzione per la terra? (Giappichelli 2021); Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio (Feltrinelli 2022); Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale (Laterza 2024). Per la rivista  “Ante Litteram” è motivo di orgoglio poter offrire ai propri lettori le riflessioni di un Maestro con una lunga storia nella difesa dei diritti fondamentali. Professore Lei ha ricoperto il ruolo di giudice dal 1967 al 1975, anni che preparano e caratterizzano la contestazione sessantottesca, anni di profonda trasformazione della cultura dei giudici, questa esperienza ha inciso nella sua formazione? Ha influito sulla sua concezione generale del diritto? «I miei anni di giudice – ero Pretore a Prato – hanno influito profondamente sulla mia formazione. La  pratica giudiziaria impostami dall’enorme lavoro – quale giudice civile e insieme penale (tali erano allora, cumulativamente, le competenze pretorili) in una città industriale come Prato – mi fece scendere dal cielo della logica e della teoria alla realtà concreta dell’applicazione del diritto. Ma la ragione più importante del ruolo svolto sulla mia formazione da quella lontana esperienza è un’altra. Sperimentai direttamente, sul piano esistenziale, quella che è poi diventata una delle tesi principali della mia teoria del diritto: la triplice divaricazione deontica che sempre sussiste tra giustizia e diritto positivo, tra costituzione e legislazione e tra legislazione e pratica giuridica, sia essa giudiziaria o poliziesca o amministrativa, e perciò le tante forme di ingiustizia, di invalidità costituzionale e di ineffettività che sempre pesano sul diritto». Lei ha contribuito a fondare Magistratura democratica, un momento importante e straordinario che lasciava intravedere un nuovo modo di essere magistrato, un modello alternativo in polemica con una giustizia che gravitava sostanzialmente nell’orbita del potere. Le rivendicazioni di quella generazione di magistrati, il congresso di Gardone, che cosa hanno lasciato in dote alle nuove generazioni? «L’intera Associazione Nazionale dei magistrati, con il congresso di Gardone del 1965, scoprì l’enorme distanza (la seconda divaricazione cui ho sopra accennato) tra Costituzione e codici fascisti. Magistratura Democratica fu il gruppo, fortemente minoritario, che prese sul serio il carattere rivoluzionario della Costituzione. Ricordo che all’indomani della legge del 1970 che introdusse il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost., arrivammo a promuovere – fu una mia proposta, che avanzai al congresso di Trieste dell’Associazione nazionale, ma che fu accolta solo da M.D. – la raccolta delle firme a sostegno dell’eliminazione dal codice penale dei reati d’opinione. Non riuscimmo a raccogliere le 500.000 firme necessarie (ne raccogliemmo solo 360.000). Ma quell’esperienza – la raccolta delle firme nelle strade, nelle case del popolo e nelle fabbriche – cambiò il nostro rapporto con la società, contraddicendo radicalmente la vecchia figura paludata del giudice tradizionale. Sul piano della giurisprudenza la difesa della Costituzione si manifestò in quella che allora chiamammo “giurisprudenza alternativa” (a quella allora dominante) e che consisteva nella rigorosa interpretazione della legge alla luce dei principi costituzionali e nella massa di eccezioni di incostituzionalità con cui inondammo la Corte costituzionale. Più in generale, la consapevolezza dell’enorme distanza tra Costituzione e codici fascisti informò un nostro atteggiamento radicalmente critico nei confronti del diritto positivo che eravamo tenuti ad applicare e che era ancora prevalentemente di origine fascista. Fu sulla base di quell’atteggiamento critico nei confronti del diritto vigente, e più in generale delle politiche illiberali e antisociali di cui esso era espressione, che maturò l’indipendenza del potere giudiziario quale potere contro-maggioritario. Il valore dell’indipendenza, allora esercitata e rivendicata da una piccola minoranza, divenne, sul nostro esempio, un valore dell’intera magistratura. Purtroppo questa sua espansione è stata accompagnata, talora, da cadute corporative ed anche, purtroppo, da abusi e da arbitrii, cui può porre un freno soltanto la critica pubblica da parte dei giuristi e, soprattutto, degli stessi magistrati». Magistratura Democratica riduce le distanze tra la Costituzione e la legislazione ordinaria. In buona sostanza, sottolineavate la forza della Costituzione come principale fonte di legittimazione sia della legislazione che della giurisdizione. Da una burocratica e acritica applicazione della legge, alla sua interpretazione per mezzo dei principi costituzionali, una necessità ancora attuale e, soprattutto, condivisa? «Sicuramente è una necessità oggi più attuale che mai, certamente più attuale che allora. È passato mezzo secolo da quando ho cessato il mio lavoro di giudice. Da allora, dopo la breve stagione riformatrice degli anni Settanta, il diritto italiano ha subito, soprattutto in questi ultimi 30 anni, una progressiva involuzione, quale riflesso e prodotto, del resto, della più generale regressione intellettuale e morale dell’intera vita pubblica del nostro paese (e non solo del nostro paese). La guerra, benché ripudiata dalla nostra Costituzione, è tornata ad essere il normale strumento di soluzione delle controversie internazionali; con un incredibile capovolgimento del senso delle parole, i pacifisti sono screditati come irresponsabili ed estremisti e i bellicisti sono accreditati come responsabili, moderati e benpensanti. La fine dei partiti quali luoghi di partecipazione e di formazione della volontà popolare, la comunicazione politica non più dal basso verso l’alto ma dall’alto verso il basso, i conseguenti processi di personalizzazione della politica determinati anche dall’abbandono del sistema elettorale proporzionale, la generale passivizzazione e spoliticizzazione della società e il tramonto della Costituzione dall’orizzonte della politica hanno prodotto un pesante abbassamento della nostra vita pubblica e una vera crisi della nostra democrazia. Abbiamo assistito a una sostanziale demolizione del diritto del lavoro e delle garanzie dei diritti dei lavoratori. E si è sviluppata una pesante involuzione del nostro diritto e della nostra giustizia penale, all’insegna della massima disuguaglianza: diritto penale minimo e garantismo del privilegio a favore dei potenti, tramite la formazione negli anni del berlusconismo di un vero e

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“CANNE AL VENTO”: IL DESTINO È PADRONE DELL’UOMO

di Maria Clausi* – Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, nasce in Sardegna nel 1871 da una famiglia benestante, ma, poiché all’epoca alle donne non era permesso di studiare, si ferma alla quarta elementare. Tuttavia, il suo amore per la letteratura non si spegne ed ella, in modo autonomo, si forma attraverso la lettura. Le sue scelte e la sua caparbietà fanno di lei sicuramente una donna rivoluzionaria per quei tempi, una donna che dimostra grande personalità ed indiscutibile spessore umano. Le sue opere dimostrano come l’arte sia un dono di Dio; dunque, nessun uomo può soffocare un talento e ciò fa di questa donna, della sua vita e della sua grande produzione letteraria un esempio da seguire per tutti coloro che inseguono un sogno. Tra le sue opere più conosciute vi è il romanzo “Canne al vento”: un’opera ambientata nella sua Sardegna di fine ottocento. Il romanzo racconta una società che sta cambiando: alla decadenza ed all’impoverimento degli aristocratici si sostituisce il sempre maggiore accumulo di ricchezza da parte di una nuova classe sociale e produttiva che è quella dei mercanti. Nel mondo nuovo che sta nascendo, in questo contesto economico, si insinuano, però, anche figure che la ricchezza la accumulano in maniera disonesta e spietata: gli usurai. Nel romanzo spicca, difatti, la figura di un’usuraia: Kallina che Deledda descrive come ricca anche lei ma in modo misterioso. Kallina in qualche modo si contrappone alle Pintor: tre sorelle di famiglia nobile, ma ridotte quasi in miseria. Le Pintor, con il loro palazzo cadente, sono l’emblema di quella nobiltà incapace di conservare la propria ricchezza e che l’unica cosa che riesce a conservare è lo sdegno, il disprezzo per il popolo! Sicuramente la figura centrale dell’opera è il vecchio Efix: un servo delle Pintor che cura un loro poderetto, dove ha fissato la sua dimora. Efix rimane fedele alle donne fino alla fine e cerca di aiutare il loro nipote Giacinto: figlio di un’altra sorella scappata di casa anni prima e mai tornata. Giacinto, al pari delle zie, è l’emblema della decadenza della nobiltà del tempo: di quella nobiltà che oramai è consapevole di essere stata rimpiazzata dai nuovi ricchi che pure disprezzano. Efix è il custode di un segreto, ossia la morte del padre delle donne: don Zame, ucciso mentre era alla ricerca di quella figlia che era fuggita e che aveva disonorato la famiglia. Efix è, in realtà, l’autore di quel delitto ed è questo peso che porta nel cuore che lo costringe a continuare a servire le tre donne e a cercare, seppure senza successo, a risollevare le loro sorti. Efix è tormentato da quella colpa e cerca di espiarla attraverso la sua fedeltà alle tre donne e attraverso la cura del loro poderetto che nulla gli offre se non povertà, tanto che si indebita con la spietata usuraia. La vita di Efix invita a riflettere su qualcosa su cui spesso gli uomini si interrogano: il destino! Forse nella vita di ciascun essere umano vi è un disegno già ben definito sin dalla sua nascita ed è inutile ogni ribellione contro lo stesso perché è il destino ad essere padrone della sua vita. La figura di Efix invita, altresì, a riflettere su un altro grande tema, ossia gli effetti che un delitto può avere nell’animo di chi lo compie. Spesso siamo abituati a guardare alla sofferenza della vittima e dei suoi familiari che, a volte, sopravvivendo alla stessa sono condannate a condurre una vita fatta di sfortune e di dolore. È questo ciò che accade alle sorelle Pintor: dopo la morte del padre, esse conducono una vita fatta di solitudine e di sempre maggiore impoverimento materiale. La morte di Don Zame è l’inizio del declino di quella famiglia che un tempo aveva conosciuto il prestigio e la ricchezza che gli derivava dal suo essere famiglia nobile. Quel delitto è l’inizio della sofferenza, ma non solo di quella delle figlie, anche di quella del suo assassino. Noi non ci chiediamo forse mai cosa accade nel cuore di chi il delitto lo commette. Ebbene, Efix è la voce della coscienza dell’assassino! Il delitto non può lasciare segni solo nella vita di chi lo subisce; esso necessariamente lascia segni anche nella vita di chi lo compie. Efix ci insegna che chi commette un delitto può vivere nel tormento e nel rimorso; che chi commette un delitto può andare alla ricerca costante di un perdono che si può ricevere anche mettendosi al servizio di chi ha subito le conseguenze del delitto. “Canne al vento” è, dunque, un romanzo sul destino e sulla potenza che questo esercita sulla vita dell’uomo; ma è anche un romanzo sul delitto e sul castigo che ne consegue anche senza una condanna da parte di un tribunale.   *Giudice del Tribunale di Catanzaro  

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POLITICA, CULTURA E FILOSOFIA NELL’OPERA DI CASSIODORO

di Alberto Scerbo* “Cassiodoro è l’uomo più completo del VI secolo, grande uomo politico ma, soprattutto, eroe e restauratore della cultura, della scienza morale e umanistica del suo tempo”1: questa definizione del calabrese Repaci può sembrare esagerata, ma rivela la volontà di esaltare un uomo che in diversi passi dei suoi scritti ha manifestato l’amore per la propria terra2 e che è stato capace di creare nel territorio di Squillace un monastero, il Vivarium, con un tratto di originalità, visto che, al pari di altri, comprende tanto la vita cenobitica quanto quella anacoretica e funziona come scriptorium, ma è l’unico del tempo che ha “il suo centro nella biblioteca”3. Se, quindi, la calabresità può costituire un fattore fuorviante di giudizio, è pur vero che, d’altra parte, su Cassiodoro può pesare una valutazione condizionata dal ruolo rivestito nella storia e dai cambiamenti intervenuti nelle diverse fasi della sua lunga vita. L’opera imponente delle Variae ci restituisce, infatti, la figura del più importante uomo di governo del regno dei Goti e del suo decisivo contributo all’organizzazione dell’amministrazione interna e alla definizione delle fondamentali strategie politiche, ma che si premura di ignorare le vicende pubbliche più controverse e di evitare qualunque riferimento al destino del suo predecessore Severino Boezio. Ciò favorisce l’atteggiamento malevolo di importanti studiosi come Mommsen, che trasmette il ritratto di un personaggio negativo, connotato da doppiezza e inaffidabilità, per giunta nascoste dietro un’inutile verbosità retorica4. A sostegno del suo atteggiamento adulatorio è richiamata poi la Historia Gothorum, redatta su espressa richiesta di Teoderico, con l’intento di ricostruire l’originaria nobiltà dei Goti e di presentarli come i diretti continuatori del popolo romano. Ora, per quanto si possa presumere che Cassiodoro abbia ricostruito la propria azione politica sotto la migliore luce possibile, dal suo lavoro si possono, però, enucleare alcune direttrici di fondo, in forza delle quali rivedere in maniera più equilibrata anche la sua posizione politica, per comprendere come sia il frutto di una precisa visione “filosofica”, che confluisce, con differente metodologia, nello sviluppo della successiva dimensione spirituale. Il programma strettamente politico è tracciato già nella lettera del 508 con cui si aprono le Variae e si può riassumere nella necessità di ottenere una pace stabile, nel riconoscimento di un primato del re Goto rispetto agli altri regni, nel ridimensionamento del potere di Bisanzio in Occidente e nella conseguente apertura ad una opportunità di allargamento del dominio ostrogoto. La realizzazione di questi obiettivi non è perseguita, quindi, attraverso lo strumento bellico, ma per via diplomatica e grazie ad un ben individuato piano culturale, che traspare in modo chiaro tra le righe delle proverbiali digressioni che puntellano i documenti cassiodorei5. Per ottenere il risultato sperato occorre, perciò, tradurre in concreto la linea di continuità tra mondo romano e gotico teorizzata sul piano storico. E il modo migliore non può essere che quello di consolidare la struttura del nuovo Regno sulle radici solide dell’Impero e, quindi, di rivestire di forma la forza del potere: “la custodia della civilitas è l’orizzonte in cui si deve dispiegare l’azione politica del regno goto”6. Il Regno dei Goti si propone, così, come una riproduzione del modello imperiale, sicché la conservazione e acquisizione dei tratti peculiari della civiltà romana consentono l’integrazione tra i popoli e la convivenza tra le religioni7. In questo processo il ruolo centrale è rivestito dall’applicazione del diritto romano, che propone uno schema di composizione delle liti basato sulla prudentia iuris (Romanorum), che diventa, in tal modo, il fondamento della iustitia Gothorum, incentrata sulla virtù della moderazione. I progetti politici finiscono, quindi, per rivelare come nella mente di Cassiodoro sia ben impresso il bisogno di non disperdere le tracce del passato, senza rinunciare alle potenzialità dell’innovazione, principalmente nella prospettiva di perseguire la relazione dialettica tra le diversità, etnica, religiosa e culturale, per recuperare quanto vi è in comune tra esse e procedere ad un rinnovamento dell’ordinamento della convivenza. In questa ottica le due vite di Cassiodoro appaiono meno distanti di quanto si è abitualmente tramandato. Certo, all’esteriorità della politica si sostituisce l’interiorità della religione e le norme giuridiche lasciano posto alle regole monastiche, ma lo spirito che aleggia intorno alle vasche naturali ricche di pesci non distanti dal fiume Pellena rimane quello di un vero rinnovatore, ma saldamente ancorato alla cultura antica. L’opera di mediazione svolta prima per il mantenimento degli equilibri politici si riproduce dopo nel lavoro di conciliazione tra il patrimonio della classicità e le opere della cristianità. L’emblema più significativo è costituito dai due libri delle Institutiones divinarum et saecularium litterarum: il primo con una trattazione approfondita dei più importanti temi sacri e un’analisi dei principali testi biblici, degli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori greci e latini presenti nella biblioteca vivariense, ed un secondo dedicato alle arti liberali, composte, secondo l’indicazione di Boezio, nel trivio, grammatica, retorica, dialettica, e nel quadrivio, aritmetica, musica, geometria e astronomia. Quest’opera costituisce, in realtà, una sorta di programma di recupero, conservazione e trasmissione tanto della letteratura teologica quanto di quella pagana, con la specifica volontà di superare il dualismo tra sacro e profano e di attuare un’autentica integrazione culturale tra antichità e cristianità8. Tale progetto oltrepassa il piano teorico per sedimentarsi nel vivo della pratica del monastero, dove alla preghiera e alla meditazione si accompagna l’importante opera di trascrizione e copiatura dei codici, con particolare attenzione al rispetto delle regole ortografiche e grammaticali, codificate dallo stesso Cassiodoro nell’ultimo scritto, De orthographia9, necessario per riprodurre, con le correzioni e gli emendamenti dovuti, le edizioni originali ed evitare, così, errori concettuali e scorrette interpretazioni. Ma la commistione delle culture è effettuata dallo studioso di Squillace anche attraverso l’unico testo filosofico pervenuto, il De anima. Lo scopo perseguito è certamente di tipo teologico, ma l’approccio utilizzato è più propriamente classico. Il punto di partenza è costituito, infatti, dall’insegnamento socratico del gnóti seautòn, conosci te stesso, ripreso dal frontone del tempio di Apollo a Delfi, ma che, con significati diversi, compare nell’Iliade di Omero10 ed è ripreso da Eschilo nel Prometeo incatenato11. In Socrate acquista un

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I DIRITTI UMANI TRA NATURA E CULTURA, TRA NORMATIVITÀ E GIURIDICITÀ

di Antonio Baudi – È un dato di fatto che nella persona umana, in quanto soggetto giuridico, convergano situazioni giuridiche di vario tipo ed è anche incontestato che si compenetrino in essa una serie di diritti detti per l’appunto della personalità o, in senso generale, diritti umani. Tali diritti sono nel loro insieme i diritti fondamentali dell’essere umano, come tali dovrebbero essere riconosciuti ad ogni persona per il solo fatto di appartenere al genere umano senza distinzione alcuna e senza alcuna necessità di evidenza esterna. Tale enunciato d’esordio, nella sua ineccepibile evidenza, lascia trasparire la sottostante problematica, perché, nel momento in cui si sottolinea la connaturalità di tali diritti con la persona umana, quale che essa sia, purché vivente, se ne invoca il dovere di riconoscimento, come se tale dovere fosse da conseguire e quindi come se sussistesse uno scarto tra essere e dover essere, tra fatto e valore. Il rilievo esplicita questione di fondo: quale sia la reale genesi e natura di tali diritti che si assumono inerenti all’essere umano.    La persona umana, come essere vivente, esiste in fatto dalla nascita fino alla morte, ma, elevandosi dal mero stato fattuale dell’esistere, si erge al di sopra della (mera) sopravvivenza organica e si immerge contestualmente nel piano dei valori con portata basilare, quale centro unitario di molteplici interessi, unitarietà concentrata nell’appellativo della dignità, valore di portata fondamentale ed ormai celebrato ed esaltato a livello planetario ed oggetto di sterminata recente letteratura. La dignità possiede un plusvalore, in quanto è il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il costituzionalismo contemporaneo. La dignità si coniuga con il rispetto dovuto all’essere umano per cui, più che una dote, si identifica con la persona stessa nella sua concretezza: un individuo che sia privato della sua dignità soffre della negazione della sua stessa umanità. Questa affermazione ha come conseguenza logica e giuridica che la dignità, in quanto presupposto assiologico dei diritti fondamentali, ha valenza prioritaria rispetto alla stessa sovranità popolare ed al relativo ordine politico.  Si discute in dottrina se la categoria dei diritti della personalità sia unica (teoria monista) per cui esiste un solo diritto declinato nei suoi contenuti, oppure se sia plurima, (teoria atomistica) come di solito viene esposta e studiata, ma, quale che sia l’impostazione privilegiata, resta comunque il fondamento unitario di tutela, mediante il ricorso ad azione inibitoria o risarcitoria. Tali diritti, inerendo alla persona umana, sono inviolabili, assoluti, essenziali e necessari, indisponibili, intrasmissibili, imprescrittibili, nella loro essenza immateriali e non economici, fatto salvo il risarcimento del danno (morale) in caso di violazione. Usualmente i diritti umani sono classificati in diritti civili, politici e sociali. I diritti civili sono quelli che attengono alla personalità dell’individuo, quale la libertà di pensiero, la libertà personale, di riunione, di religione ed ancora la libertà economica. Invero, nella sfera di questi, all’individuo è garantita un ambito di arbitrio, purché il suo agire non violi i diritti civili degli altri soggetti. Per tal ragione, i diritti civili obbligano gli Stati a un atteggiamento di astensione. I diritti politici sono, invece, quelli che attengono alla formazione dello Stato democratico e comportano una libertà attiva, ossia una partecipazione dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato: tali sono, ad esempio, la libertà di associazione in partiti e i diritti elettorali. Infine, vi sono i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute, ossia i diritti derivanti dalla maturazione di esigenze nuove e nate relativamente allo sviluppo della moderna società industriale. Questi diritti, invece, implicano un comportamento attivo da parte dello Stato, il quale deve garantire ai cittadini una situazione di concretezza e certezza nella tutela degli stessi e nel riconoscimento delle relative garanzie. Nell’ambito del nostro ordinamento tali diritti hanno fondamento normativo e, nello specifico, rilievo costituzionale, comunque sostenuti anche implicitamente da principi. Tanto premesso il quesito di ordine generale che si è posto concerne la loro matrice, problema che coinvolge la stessa qualificazione di essi come diritti. La prima diffusa impostazione di pensiero è che si tratti di diritti naturali. In proposito è nota la tesi giusnaturalistica la quale ritiene che i diritti umani siano diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo e preesistenti ad ogni altra organizzazione sociale, ivi compreso lo Stato, la cui potestà sovrana è naturalmente limitata al punto che lo Stato può e deve unicamente riconoscerli. Si tratta pertanto di diritti esistenti in fatto. La tesi in questione coinvolge il concetto di natura, termine di non univoco significato. In senso generale e totalitario per i materialisti natura ricomprende l’intera realtà, quella dei corpi, sia dei non viventi come dei viventi. Nel senso più ristretto, come per gli spiritualisti, natura coincide con la sola realtà materiale, l’insieme di corpi.   Più diffusa e condivisa è la concezione intermedia: natura non è il tutto reale perché vi si oppone la sfera della cultura. Ed allora si intende per natura non solo il mondo esterno e materiale, l’insieme delle cose esistenti nello spazio e nel tempo, cose che esisterebbero comunque, anche se l’uomo non ci fosse e non ci fosse mai stato, ma anche gli organismi intesi come prodotti naturali, escludendosi, nell’ambito di tutto ciò che esiste, ogni produzione riconducibile all’intervento umano nel reale. La natura, intesa come mondo esterno e materiale, è energia che si spiega nello spazio e nel tempo, anche se ciò che la caratterizza è piuttosto lo spazio che il tempo, dimensione che meglio risalta nella vita interiore della coscienza umana. La più tipica categoria dello spazio è il corpo, stato energetico definibile in modo intuitivo come sostanza, ciò che nel suo interno essenziale (sub) non cambia (stat) anche se può subire modifiche, ma di superficie. Corpi strettamente fisici sono per esempio, una pietra, un cucchiaio, un vaso di cristallo, un blocco di marmo, un tavolo. Questi sono non solo corpi ma, come si suol dire, corpi solidi ove rilevanti forze interne di coesione molecolare ne rafforzano la compattezza. Valorizzando nella realtà esterna la dimensione temporale subentra il dinamismo degli eventi: se i fenomeni spaziali

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UN ARTIGIANO DI GIUSTIZIA: L’EREDITÀ DI PAPA FRANCESCO E IL RUOLO DELL’AVVOCATO

Aldo Truncè* –   Con la scomparsa di Papa Francesco il mondo perde una voce potente e compassionevole, un faro di speranza ed un instancabile difensore della sacralità della persona. Papa Francesco, con la sua inconfondibile empatia, ha sempre guardato alla nostra professione con occhi di comprensione e rispetto, ricordandoci che l’avvocato non è un mero tecnico della legge, ma un artigiano di giustizia, un volto umano di un sistema che, talvolta, rischia di apparire distante e inaccessibile. “Siate difensori dei diritti, specialmente di chi non ha voce”, ci ha esortato il Pontefice.  Un appello che, per noi avvocati penalisti, assume una risonanza particolare.  Siamo sovente investiti della difesa di individui relegati ai confini del tessuto sociale, soggetti stigmatizzati come reietti, che spesso, animati da intrinseca fragilità, pusillanimità e talora da disperazione abissale, compiono scelte aberranti. La nostra missione non si esaurisce nella ricerca della migliore difesa tecnica, ma si dispiega nella tutela indefettibile della dignità intrinseca della persona e nella riaffermazione dell’essenza umana di chi è al centro del processo, o di chi sta già scontando la sua pena. Chi è in cella, isolato dalla società, conduce la sua vita come se fosse ai margini del mondo. Conosciamo bene la realtà del carcere, i volti segnati dalla sofferenza, le storie di umanità ferita. Le esortazioni di Papa Francesco, reiterate e vibranti, che ci hanno incessantemente richiamato all’impegno di schierarci al fianco degli ultimi, degli emarginati, di coloro che la società tende a relegare ai confini, si traducono per noi, avvocati, in un mandato deontologico irrinunciabile. Questo mandato diventa azione quotidiana, una prassi che affronta fragilità, disperazioni silenziose ed ingiustizie striscianti. Il monito del Pontefice “nessuno deve essere abbandonato‘ non è per noi un’astrazione teologica, ma una bussola etica che orienta ogni nostra scelta, ogni nostra strategia difensiva. Esso ci impone di non distogliere lo sguardo dalle periferie esistenziali, di non ignorare le grida di aiuto che si levano dalle celle sovraffollate, dalle aule di tribunale in cui si consumano drammi umani, dalle strade in cui vagano gli esclusi. “Stare dalla parte degli ultimi”, significa per noi, avvocati, essere capaci di ascoltare, comprendere, accogliere. Significa non limitarci alla mera apologia dei nostri assistiti che portiamo avanti quotidianamente nei Tribunali, ma impegnarci in un’opera di ricostruzione della dignità, di riaffermazione della centralità della persona, di riabilitazione sociale. Significa, in ultima analisi, restituire voce a chi non ne ha, speranza a chi l’ha perduta, umanità a chi è stato spogliato di essa. La sua voce si è levata contro l’abuso di potere e la mercificazione della giustizia, ricordandoci che il nostro compito è servire la verità e non gli interessi di parte, stando ben attenti a non piegarci a logiche economiche e del profitto, nell’esercizio della nostra professione. La sua profonda sensibilità per i detenuti ha segnato un’epoca, imprimendo un’impronta indelebile nella coscienza collettiva. “Nessuna cella è tanto isolata da escludere il Signore“, ha affermato Papa Francesco, ricordando con forza che l’inviolabilità della persona, intesa nella sua integralità di corpo e spirito, non può essere calpestata, neanche dietro le sbarre. Quest’affermazione, lungi dall’essere una mera consolazione spirituale, si traduce in un imperativo etico e giuridico: riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere umano, anche di chi ha commesso errori gravi. La sua condanna della pena come strumento di tortura, e la sua definizione dell’ergastolo come “pena di morte nascosta” che annienta la speranza, rivelano una profonda comprensione della dimensione umana del dolore e della sofferenza. In questo contesto, il gesto simbolico della lavanda dei piedi, compiuto ogni Giovedì Santo – ma non, con suo sommo dispiacere, nell’ultima ricorrenza pasquale – assume una rilevanza straordinaria. Questo rito, che rievoca l’atto di umiltà e servizio compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli, trascende la mera dimensione liturgica, per assumere una carica simbolica profonda, soprattutto in ambito penitenziale. La lavanda dei piedi rappresenta un atto di purificazione, di accoglienza, di riconoscimento della fragilità umana e di volontà di redenzione. Nel contesto carcerario, questo gesto assume una valenza ancora più intensa: lavare i piedi dei detenuti significa abbattere le barriere dell’isolamento e della stigmatizzazione, prostrarsi, inchinarsi e genuflettersi a loro, con un simbolismo potentissimo di riscatto. Papa Francesco, con la sua profonda sensibilità, ha saputo cogliere l’energia metaforica di questo gesto, traducendolo in un messaggio di speranza e di misericordia per i reclusi, in armonia con il gesto concreto del lascito di tutti i suoi averi in favore dei detenuti. La sua voce continuerà a risuonare nelle celle e nelle aule di tribunale, ricordandoci che la giustizia, per essere veramente tale, deve essere sempre accompagnata dalla compassione. Sull’eco di queste parole, noi artigiani di giustizia, continueremo il nostro cammino, perché anche nell’ombra più fitta ogni essere umano custodisce la scintilla di una possibile rinascita. *Presidente della Camera Penale di Crotone

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