OGNI MODELLO HA BISOGNO DEL SUO INTERPRETE
di Francesco Petrelli* – Delle diverse argomentazioni utilizzate nel tempo al fine di negare la necessità di separare le carriere – dall’idea del “pm-superpoliziotto”, alla perdita della “cultura della giurisdizione” – ultima in ordine di tempo è quella relativa al numero di assoluzioni e di riforme che statisticamente si riscontrerebbero nei giudizi di merito. Circostanza questa che, secondo i sostenitori dello status quo, dovrebbe dimostrare l’ampio margine di indipendenza del giudice dalla figura del pubblico ministero. L’alto numero di assoluzioni dimostrerebbe che le carriere sono “di fatto” separate in quanto il giudice non asseconda affatto le richieste del pubblico ministero e non ne condivide la cultura. Questa idea si fonda su di una banalizzazione della prospettiva riformatrice e su di una visione del processo e dei suoi soggetti piuttosto azzardata. L’assunto presupporrebbe infatti una sostanziale indifferenza del giudice nei confronti della prova ed una sua libertà valutativa tale da prescindere del tutto dal contenuto dell’evidenza disponibile. Ciò che si propone è l’idea piuttosto bizzarra di un giudice che solo per “amicizia” nei confronti della figura del pubblico ministero condanni degli innocenti. Il che evidentemente non può darsi perché il processo ha una sua oggettiva esistenza e – salvo casi patologici che non devono mai condizionare un giudizio critico – segue un suo percorso razionale. Ciò che piuttosto accade è che laddove la prova sia incerta e la questione, in fatto o in diritto, controversa il giudice non adotta quasi mai la regola del “ragionevole dubbio”. E ciò accade proprio perché quest’ultimo è rimasto legato ad una cultura fortemente promiscua con quella pubblico ministero, lontana da quella “cultura del limite” che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento del giudice terzo. Il fatto che un cospicuo numero di sentenze sia oggetto di riforma in appello, sta a dimostrare che quanto più ci si allontana dalla pressione del pubblico ministero e della sua pretesa punitiva, maggiore è l’indipendenza del giudice dalle posizioni dell’accusa. È tuttavia indubitabile che l’unicità della cultura di giudice e pubblico ministero, sviluppata solo a scapito dell’indipendenza del primo ed a favore dell’egemonia del secondo, si avverte in particolare nella fase fondamentale delle indagini preliminari, nell’ambito della quale il giudice tende a condividere l’impostazione dell’accusa: lo fa adeguandosi alle richieste di proroga delle indagini senza operare alcun serio controllo sui motivi che la giustificano, accogliendo le richieste di autorizzazione delle intercettazioni e le relative richieste di proroga, eludendo con motivazioni prive di autonomia le pur stringenti condizioni previste dalla legge, ed analogamente aderisce alle richieste cautelari sia quanto alla sussistenza dei presupposti probatori che delle esigenze cautelari, facendo larghissimo uso della custodia in carcere anche laddove altre misure potrebbero risultare adeguate. Non può non cogliersi, in questa dinamica, l’intrinseca inefficienza delle cd. “finestre di giurisdizione” (così come incrementate dalla riforma Cartabia) destinate al fallimento anch’esse laddove da quelle finestre non si “affacci” un giudice effettivamente terzo. Ma occorre riconoscere che la forza egemonica del pubblico ministero si esercita con analogo vigore anche nella fase processuale ogni qual volta l’oggetto del processo, superando lo standard degli ordinari affari giudiziari, imponga un qualche particolare impegno delle procure, per via della rilevanza politica del reato o perché l’oggetto implichi un qualche interesse mediatico. In tutti questi casi la terzietà del giudice è evidentemente compromessa, in quanto la posta in gioco spesso trasforma il giudice in un “giudice di scopo”. Il che accade certamente in tutti i processi di doppio binario, ma anche in tutti quei casi nei quali il giudice è chiamato dalle procure procedenti a svolgere una azione di contrasto a questo o a quel fenomeno criminale, ad una presunta nuova mafia locale, ad una corruzione diffusa, ad un grave reato ambientale … In tutti questi casi si avverte indubbiamente il peso di una mancanza della terzietà. Collocati entrambi sul medesimo fronte ed all’interno di una medesima trincea nella quale si combatte il male, giudice e pubblico ministero sono impegnati contro un nemico comune. La terzietà che, a maggior ragione in questi casi nei quali altissima è la posta in gioco dei diritti di libertà e delle garanzie del cittadino, dovrebbe caratterizzare la posizione del giudice, subisce una inevitabile torsione. Tanto ciò è vero che quando in alcuni casi il giudice si sottrae con i propri provvedimenti alla pressione dell’accusa la vicenda finisce con l’assumere addirittura un risalto mediatico. Non è infatti solo la decisione finale che deve essere oggetto di rilievo, in quanto è nel corso del processo, con la gestione delle udienze, con le decisioni sulla ammissione della prova, con i propri interventi nel corso degli esami testimoniali, che il giudice dà modo di far rilevare la mancanza della terzietà. Ed è ovvio che l’esito finale del processo, la sentenza, è il frutto di tali ulteriori decisioni e di questi interventi che condizionano evidentemente la formazione della prova nel corso del dibattimento. Insomma, l’esigenza della terzietà non si misura banalmente con il numero delle assoluzioni, ma attraverso valutazioni più serie, analizzando piuttosto i modi attraverso i quali le decisioni maturano nelle diverse fasi del processo e nelle più complesse cadenze del giudizio, nell’ambito delle quali il cittadino imputato avverte tutta la sperequazione dei modi con i quali il giudice troppo spesso gestisce le udienze. Se, dunque, il recupero del modello accusatorio si pone come una riforma indispensabile ed ineludibile, quest’ultimo risulta a sua volta inattuabile a carriere invariate. Non vi è dubbio, infatti, che se le carriere uniche hanno offerto una base ideologica e culturale del tutto coerente con il processo inquisitorio, le stesse hanno successivamente costituito un insormontabile ostacolo alla effettiva realizzazione del nuovo modello. Ogni modello processuale ha, infatti, bisogno del suo interprete e l’interprete del modello accusatorio è il giudice terzo. Si tratta di un paradigma che sta scritto nella nostra Costituzione e che attende da troppo tempo di trovare attuazione in una compiuta riforma. Senza questo nuovo giudice ogni riforma che voglia restituire coerenza al modello accusatorio resterà una vana speranza. *Presidente Unione Camere Penali Italiane (Da “Editoriale”, pubblicato sul numero 1 di “Ante Litteram”, rivista
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