Oltre la norma

LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA

di Saverio Loiero* –  La necessità di porre un freno al fenomeno della medicina difensiva è stata ed è il fondamento politico delle recenti vicende normative attinenti alla responsabilità penale del medico. La legge Balduzzi, prima, e la legge Gelli-Bianco, poi, sono state emanate proprio allo scopo di contenere la sempre più dilagante citazione in giudizio dei medici in sede penale, cui ha fatto seguito la crescente manifestazione di pratiche mediche superflue e/o eccessive rispetto al normale iter clinico. Con entrambe le riforme si è tentato di far riacquistare valore e forza normativa all’opinione, fatta propria dalla giurisprudenza formatasi già a partire dalla prima metà degli anni ottanta ed ancorata alla disposizione di cui all’art. 2236 del codice civile, volta a sottolineare la speciale difficoltà dell’arte medica ed a limitare, di conseguenza, la responsabilità del sanitario solo ai casi di imperizia grave, oltre che di negligenza e imprudenza. L’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) prevedeva, infatti, che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». La legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha, invece, inteso introdurre una disposizione ad hoc, l’art. 590 sexies del codice penale, stabilendo, in relazione ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 commessi nell’esercizio della professione sanitaria, che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Sul piano della concreta applicazione, l’ultima novella si è rivelata sin da subito di difficile configurabilità, ponendo non poche questioni di carattere interpretativo: quale fosse l’esatto ambito di applicazione della disposizione; se la stessa rivestisse carattere di causa di non punibilità ovvero di scriminante, con le ovvie conseguenze in tema di risarcimento del danno; se avesse ancora un qualche rilievo il grado della colpa; se fosse applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore o meno. A risolvere il contrasto esistente in materia, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272174, Rv. 272175 e Rv. 272176, fissando alcuni insegnamenti, oggi imprescindibili, nella valutazione della responsabilità del sanitario. L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. In sintesi, affinché l’art. 590 sexies comma 2 c.p. possa trovare applicazione, il giudicante dovrebbe verificare che il sanitario abbia correttamente individuato e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate al caso concreto ma, contestualmente, abbia commesso un errore nel momento esecutivo di esse e che tale errore esecutivo sia riconducibile all’imperizia (essendo negligenza e imprudenza escluse dalla causa di non punibilità) e solo allora dovrebbe procedere ad esaminare la gravità della colpa. È parso, all’indomani dell’intervento nomofilattico, subito evidente che la Suprema Corte abbia inteso recuperare la tradizionale distinzione fra colpa grave e colpa lieve, con notevoli ripercussioni anche in tema di successione di leggi penali nel tempo. L’abrogato articolo 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi integra, a parere delle Sezioni Unite, una parziale abolitio criminis mentre l’art. 590 sexies cod.pen. introduce una causa di non punibilità; la prima disposizione, allora, si pone come norma più favorevole rispetto alla seconda, con conseguente applicabilità a tutti i fatti commessi sino all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per i profili della negligenza o dell’imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto. Di estremo rilievo diviene, dunque, l’individuazione e la valutazione del grado della colpa, non certo di immediata comprensione, non essendo rinvenibile, com’è noto, alcun criterio codicistico utile a siffatta distinzione. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, hanno riacquistato autorevolezza in chiave soggettiva i concetti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nei quali si sostanzia l’accertamento della colpa. Ai fini della misura della colpa, assume nuova centralità l’individuazione della condotta dell’agente modello, quale comportamento alternativo lecito, rectius diligente, di talché il parametro positivo si rivela essere la distanza fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente in concreto e quella che era da attendersi. Può affermarsi, tuttavia, ad ormai sette anni dalla sua entrata in vigore, che la legge Gelli-Bianco non abbia risposto alle istanze della classe medica, soprattutto sotto il profilo penale, vanificando così l’originario intento del legislatore, dettato dalla esigenza, anche sul piano della finanza pubblica, di porre un argine alle pratiche difensive del medico. È proprio in punto di esigibilità concreta della condotta che l’interpretazione restrittiva della legge Gelli-Bianco ha mostrato tutti i suoi limiti, soprattutto nel contesto della insorta emergenza pandemica, imponendo al legislatore ulteriori interventi normativi attraverso l’introduzione del c.d. “scudo penale”. Sono stati, così, ridisegnati i confini della responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica, sancendone la punibilità solo nei casi di colpa grave e positivizzando alcuni criteri guida per il giudicante nell’esclusione della gravità della colpa.  Ebbene, tali interventi normativi hanno, certamente, reso ancor

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CITTADINANZA, PARRESIA E AVVOCATURA

di Massimo La Torre* – I. Intendo qui intrattenermi su tre grandi esperienze della storia politica e giuridica occidentale. Si tratta della cittadinanza, della parresia, o libertà radicale di parola, e dell’avvocatura. Inizio dunque con la cittadinanza. Il tema è immenso (invero tutte e tre le nozioni qui messe in gioco sono assai vaste). Di cittadinanza, in genere, si parla in tre significati. (i) La cittadinanza, dal punto di vista del diritto internazionale, si definisce come appartenenza, nazionalità. (ii) Vi è poi una definizione più vicina al diritto costituzionale e più centrale per la filosofia politica e del diritto, che è quella della partecipazione alla decisione sulla legge in una comunità politica. (iii) Vi è infine un terzo approccio alla cittadinanza, più sociologico, in cui la cittadinanza si definisce come appartenenza in termini sociali (gli inglesi parlano a tal proposito di “membership“, o “belonging“) o addirittura come appartenenza attiva, come coinvolgimento all’interno di una comunità dal punto di vista sociale, coinvolgimento relativo alla vita politica, impegno di partito od anche sindacale. Ora, chi sparla ritiene (e crede che la posizione adottata trovi conforto nella storia della nozione e della pratica di questa) che il senso centrale, il cuore della nozione corrisponda al suo significato “politico” o “costituzionale”: la partecipazione come titolarità di diritti politici.             Mi sia consentito argomentare innanzitutto a contrario. La cittadinanza non è mera “titolarità di diritti umani”. Questo è un punto molto importante: la cittadinanza – purtroppo – non è solo appartenenza o titolarità di diritti umani. Non si lascia ridurre a queste due situazioni. Su ciò ha scritto in maniera intensa e radicale una delle filosofe più interessanti del Novecento qual è Hannah Arendt, autrice di uno splendido libro come Le origini del totalitarismo[1]. Arendt riflette sulla grande tragedia del Novecento, ed arriva a questa conclusione: guai ad essere solo titolari di diritti umani. Se si è titolari di soli diritti umani si è persi. Perché? Perché non si ha cittadinanza: ciò che ci offre protezione è la cittadinanza. Ciò che ci protegge è fondamentalmente la comunità politica, la capacità di darsi delle leggi in un contesto istituzionale e di contribuire al darsi delle norme in tale contesto, unitamente alla capacità di poter rendere effettive queste norme. I diritti umani, purtroppo, non offrono nulla di ciò. Lo dà la cittadinanza. Ed ecco perché la cittadinanza viene inclusa tra i diritti umani: l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il diritto alla cittadinanza è un diritto umano fondamentale[2]. Ma se un soggetto è titolare di soli diritti umani e non gli viene concessa la cittadinanza è posto in una situazione di pregiudizio, di grave pericolo. Fondamentalmente è uno stateless, apolide, un “senza patria”. (B) Ora, la cittadinanza non è nemmeno soltanto “capacità giuridica o soggettività giuridica”. Hannah Arendt sbaglia, allorché crede che la soggettività di diritto equivalga alla cittadinanza. Chi ha compiuto gli studi del primo anno di Giurisprudenza sa bene che la soggettività giuridica non equivale – fortunatamente – alla cittadinanza. Anche il non-cittadino è soggetto di pieno diritto: egli può stipulare un contratto, acquisire ed essere titolare di diritti reali, agire in giudizio etc. È possibile una qualche attività giuridica importante ed un riconoscimento della soggettività giuridica anche per il non-cittadino. C’è tuttavia chi non vuole questo, e forse ciò non era del tutto chiaro alla Arendt. La cittadinanza però non è mera “appartenenza”. Ché questa è un criterio spesso definito in termini etnici o comunitaristici, senza che ciò implichi alcuna qualità di soggetto autonomo padrone di un proprio progetto di vita. La sudditanza è anch’essa appartenenza, ma non è ovviamente cittadinanza, che rinvia ad una posizione di autonomia e dignità. Il suddito subisce l’appartenenza, il cittadino decide su di essa. Determinante per la vigenza di uno status proprio di cittadinanza è l’attribuzione di una competenza su competenza, come accade per la sovranità di cui la cittadinanza non è che un’altra faccia. Si è cittadini e v’è cittadinanza, e si è titolari del diritto di contribuire alla produzione ella norma sulla cittadinanza. La cittadinanza non è neppure “partecipazione”, là dove questa si intenda come partecipazione “non qualificata”, nel senso sociologico menzionato prima. Non basta essere membro di un sindacato o di un partito politico, o di un comitato di quartiere per avere cittadinanza: la cittadinanza è titolarità dei diritti politici, della possibilità di contribuire ed avere accesso alla produzione della legge, della norma giuridica. Ciò significa anche che cittadinanza e democrazia sono situazioni intimamente connesse. La cittadinanza è una delle due facce della moneta dell’ordine politico democratico. L’altra faccia è la sovranità, il potere di deliberare e di statuire la norma vincolante per la comunità di riferimento. Giungo pertanto alla mia tesi centrale sulla cittadinanza. La definizione di cittadinanza che adotto non è propriamente “mia”, fa parte di una antica tradizione di pensiero. Questa di séguito ritengo sia la definizione corretta. Il cittadino è membro partecipante di una comunità politica e lo è mediante l’accesso alla produzione delle norme giuridiche, tanto generali quanto individuali, vale a dire alla legislazione e – in particolar modo – anche alla giurisdizione. Questo è un punto chiave per l’idea che qui presento. Il cittadino deve poter accedere anche alla giurisdizione, alla produzione della norma individuale (utilizzando la terminologia kelseniana, adottando pertanto la differenza tra norma generale del legislatore e norma individuale contenuta nella sentenza, nella decisione giudiziale). Il cittadino deve poter accedere a tale produzione di norme su un piede di uguaglianza con gli altri cittadini. Tale uguaglianza si specifica – questo è un punto fondamentale – nella comune libertà di chiedere e dare ragione. La cittadinanza implica il potere, una libertà, di chiedere ragioni e di dare ragioni per ciò che concerne tutti gli atti di autorità che si esige siano applicabili al cittadino stesso. La cittadinanza si inventa in Grecia, fondamentalmente, e ad Atene in particolare. La tradizione politica e culturale degli Antichi, nonostante tutti i salti, i cambiamenti e le fasi di “quiescenza” del Cristianesimo (che sconvolge il mondo classico) e

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GESÙ DEVIANTE E CRIMINALE? DALLA PREDICAZIONE AL PROCESSO

Charlie Barnao* e Domenico Bilotti** –    Gesù deviante universale A partire dal 1970 le scienze sociali hanno avuto un ruolo sempre più importante negli studi sui Vangeli. I primi sforzi si sono concentrati nell’applicazione di specifiche teorie sociologiche agli studi biblici ma, nel tempo, la ricerca ha attinto anche da una gamma più ampia di discipline, tra cui l’antropologia culturale, le scienze politiche, il diritto, l’economia, la psicologia sociale. Il mio lavoro sui Vangeli si inserisce nel filone di studi delle scienze sociali che utilizzano la strumentazione concettuale e teorica della sociologia della cultura e della sociologia della devianza per leggere gli episodi principali che caratterizzano la vita di Gesù nel suo percorso di predicazione e diffusione di un modello culturale e di vita. Gli interrogativi di partenza che mi sono posto, in continuo dialogo con il lavoro di Bilotti che si è occupato in particolare della vicenda giuridica e processuale di Gesù, sono i seguenti. Gesù di Nazaret era davvero un criminale? È davvero questa la ragione principale per cui fu torturato e, quindi, giustiziato dalle autorità del suo tempo? È esistito un legame tra il suo essere “uomo marginale” – ai confini di culture diverse, sempre dalla parte di coloro che occupano le posizioni più basse della gerarchia sociale – e la sua condanna? In che modo il rapporto tra “cultura” e “diritto” ha influenzato la sua sorte? E infine quali sarebbero oggi per lui, dopo oltre duemila anni di diffusione del suo messaggio culturale, gli esiti della sua vicenda? Nel tentativo di dare una (almeno iniziale) risposta a queste domande, si è avviato così un lungo (e, ovviamente, ancora in itinere) percorso di ricerca e riflessione sociologica sul significato culturale dell’azione di Gesù nel suo e nel nostro tempo. Partendo dalla lettura dei Vangeli, in dialogo con la letteratura scientifica sul tema, la riflessione si è avviata ed è stata accompagnata da un confronto su queste tesi, attraverso incontri e dibattiti organizzati ad hoc con gli attori sociali più diversi: studenti universitari, detenuti dell’Alta sicurezza del carcere di Catanzaro, esperti di esercizi spirituali ignaziani, studiosi di molteplici discipline scientifiche, tutti a diverso titolo interessati a discutere sul tema. Le aule universitarie (nel carcere di Catanzaro e nel campus universitario di Germaneto) sono diventate così delle vere e proprie incubatrici in cui maturavano, si criticavano, si re-indirizzavano le idee che emergevano, di volta in volta, dal confronto reciproco in un processo di analisi, interpretazione e attualizzazione sociologica dei Vangeli. Gesù adottava senz’altro una condotta estremamente deviante per il suo tempo e proprio per queste ragioni formali fu condannato ad una pena estrema, rivolta ai criminali peggiori: la morte per crocifissione, fuori dalle mura della città. Ma, al di là degli specifici episodi e degli specifici reati che gli venivano contestati e che lo avrebbero portato alla condanna e alla morte, tutta la vita di Gesù è costellata da azioni devianti. Gesù è un deviante culturale. La cultura proposta da Gesù nel suo percorso di vita era contraria alle norme sociali del suo tempo, divenendo, talvolta, addirittura un modello contrapposto a quello dominante. I comportamenti proposti da Gesù sono spesso talmente “fuori dalla norma” e di rottura con la società che lo circonda che frequentemente non sono stati compresi neanche dagli apostoli e da coloro che erano a lui più vicini. Il tema della devianza di Gesù si presenta così in stretta relazione con il rapporto tra “puro” e “impuro”. Infatti nei Vangeli (come in molte società umane) la riflessione su ciò che è “impuro” talvolta riguarda una riflessione sulle relazioni tra ordine e disordine, tra normale e deviante, tra essere e non essere, tra forma e assenza di forma, tra vita e morte. Ma il modello culturale di devianza che viene formalizzato nei Vangeli non è deviante solo per il mondo in cui Gesù visse. Il modello culturale proposto da Gesù è deviante in modo universale. Se è sottolineato da molti studiosi come Gesù fosse considerato un individuo profondamente deviante in relazione al suo contesto contemporaneo, il suo “modo di procedere”, il suo “modo di essere”, trasmessi ai suoi discepoli e a tutti coloro che con lui entravano in relazione, può essere considerato addirittura deviante in ogni tempo e in ogni luogo, perché mina alle basi alcuni veri e propri universali culturali, elementi presenti e comuni a qualsiasi cultura umana. In particolare il modello culturale proposto da Gesù sembra destabilizzare e relativizzare l’importanza dei legami di sangue (a cominciare dalla famiglia), del sistema di stratificazione sociale (per esempio, le disuguaglianze strutturate in base a classi e ceti), delle tradizioni culturali più rigide e maggiormente riconosciute nella comunità (prima fra tutte la religione). Se il modello culturale proposto da Gesù è universalmente deviante, allora dobbiamo dedurre che sarebbe deviante anche nei confronti del nostro odierno modello culturale dominante. E su questi presupposti, quindi, ci possiamo chiedere: cosa accadrebbe oggi se Gesù si presentasse a noi? Come verrebbe accolto il suo messaggio culturale? In che modo la nostra società giudicherebbe devianti le sue azioni, adattate al contesto culturale dei nostri giorni? È ovviamente difficile rispondere con precisione ad una domanda del genere e certamente sarebbe necessario un lungo lavoro di analisi e di riflessione, che in questa sede non possiamo affrontare. Di sicuro in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi delle democrazie e dal ritorno degli autoritarismi/nazionalismi/ fascismi da una parte e, dall’altra, dal dilagare del populismo penale con conseguente ritorno alla “crudeltà” nel diritto, un messaggio  come quello di Gesù, che si presenta come universalistico, antiautoritario, interclassista e particolarmente deviante verso ogni forma di discriminazione sociale, gerarchia di dominio e ingiustizia sociale, sarebbe molto probabilmente considerato come profondamente sovversivo, pericoloso ed estremamente violento (almeno da un punto di vista simbolico) contro l’ordine costituito. La repressione nei confronti di un attore sociale, Gesù, che attraverso azioni quotidiane e radicali si facesse interprete di un messaggio del genere, sarebbe, con ogni probabilità, estremamente dura e il suo tipo di comportamento deviante verrebbe forse inquadrato

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L’AZIONE COME STRUTTURA DIALETTICA DI UN CONFLITTO

di Domenico Bilotti* –  La più stimolante contraddizione nel vissuto telesiano consiste nella sua afferenza a un mondo di relazioni sociali ancora in gran parte profondamente derivativo, rispetto alla demografia e ai rapporti civili in opera, e nella schietta rivendicazione di un orizzonte di senso meno ipostatizzato e conservatore delle mode del periodo. Ciò certo non fa di Bernardino Telesio un rivoluzionario, sicuramente non nel senso che al lemma hanno attribuito il diritto costituzionale e la dottrina dello Stato negli ultimi due secoli. Ne individua la teoresi, tuttavia, in una interlocuzione critica coi saperi e in una modalità tutta nuova di secondarne la diffusione. Sul piano dell’analisi giuridica serve adesso comprendere se quella spinta controtendenziale abbia avuto, o meno, riflessi empiricamente riscontrabili, nel metodo della discussione giudiziaria e delle sue categorie operative di riferimento. Dal punto di vista redazionale, il De Rerum Natura Iuxta Propria Principia precorre la manualistica dei secoli successivi, anche sul piano della stesura – per altro verso, secondo una modalità di scrittura molto frequente nell’accademia meridionale. Telesio portava con sé una sorta di set di appunti, per le dispute, le lezioni e i dibattiti cui partecipava, e mano a mano certosinamente ingrossava il blocco, conferendogli struttura più rifinita. Il primo libro dell’opera è pubblicato a Roma soltanto nel 1565: da oltre un ventennio, però, era ben nota l’elaborazione telesiana e, almeno dal decennio precedente, sia a Napoli sia in Roma è probabile circolassero appunti e sintesi del più vasto opus telesiano. Che il primo libro monografico dell’A. appaia quando ormai è ultracinquantenne dimostra invero l’ulteriore processo di composizione dell’opera, secondo una sua coerenza interna, ma anche tramite un iter progressivo fatto di revisioni continuative. Il De Rerum Natura è in sostanza (esattamente come per i grandi dottrinari della scienza privatistica nel Novecento) un libro noto quanto ai suoi orientamenti di fondo, ben prima che sia integralmente pubblicato. Probabilmente, anzi, hanno un ruolo a che sia presto edita anche la seconda sezione del volume, solo cinque anni più tardi, a Napoli, le pressioni entusiastiche di un mondo culturale interessato a leggere finalmente a sistema le tesi del filosofo cosentino, non bastando più la singola circostanza oratoria nella quale volta per volta fossero state presentate, nella sede di un dibattito specialistico. È probabile, ancora, che Telesio stesso sia addivenuto a questa decisione per almeno tre ordini di motivi. Il primo, quello più comprensibile agli occhi della posterità, è che avere una fonte ufficiale, scritta e finanche vistata dal suo autore, avrebbe consentito di eliminare interpolazione esterne, garantendo così una più salda e attendibile circolazione della stessa. Su Telesio poi gravavano singolari sospetti per posizioni strutturalmente eterodosse, rispetto alla linea ufficiale del magistero ecclesiastico e alla tradizione teologica che ne sostanziava, nella pratica, la dottrina e il consenso. Da questo punto di vista, come ogni oppositore al sentire comune del suo tempo, che però accetta di non violarne le istituzioni, Telesio è un singolare tipo di umanista, eppure non tanto di nuovo conio. Proviene da una famiglia altolocata, nella quale il rapporto con le autorità ecclesiastiche è sempre stato radicato, risalente e solido. Come si è precedentemente osservato, per quanto non lo fosse in senso stretto, talvolta Telesio era definito dalle fonti un chierico. Se chierico era, tuttavia, lo era soprattutto nel senso storico-etimologico e socio-culturale delle esperienze dei clerici vagantes, a base della nascita del sistema universitario europeo: pensatore itinerante, spirito acceso, di abilità pedagogico-persuasiva. Non invece nel senso strettamente giuscanonistico che ancora modellava lo strumentario intellettuale del giurista di rango, per il tramite dell’utrumque ius nella dottrina privatistica (che a quella straordinaria fase di significazione interordinamentale, tra digesto e corpus, ancora guardava, per formazione, se non per convinzione) e del diritto inquisitoriale nelle procedure criminali. Telesio aveva viepiù prole legittima e una moglie alla quale era affezionatissimo: è lo stato vedovile che rende plausibile la proposta di Pio IV; in assenza di quello, il diritto vigente cinquecentesco avrebbe potuto far qualificare Telesio anche come consigliori ecclesiastico, giammai quale vescovo o porporato. En passant, la tanto vituperata inquisizione, certo esecrabile sul piano delle condanne emesse e delle ragioni giustificative e apologetiche delle medesime, tuttavia fu, alla stregua di quanto oggi notano internazionalisti e processualisti, la prima base per configurare una giurisdizione generale alternativa al primato delle sovranità territoriali. Lì, e ieri, promossa in ragione dell’universalismo teologico; qui, e oggi, legittimata de facto da una governance e da una petizione sui diritti umani non più demandabile alla sola cornice statuale, dove anzi più spesso le violazioni avvengono. Quale che ne sia stato l’impatto, la tardiva pubblicazione del De Rerum Natura è così bilanciamento tra il mantenere una posizione esteriore il più possibile cautelata, rispetto alle rimostranze canoniche, e l’opportunità di rendere però chiaro (senza travisamenti esterni) quanto l’analisi telesiana andava svolgendo e sviluppando. Ed è proponibile un terzo ordine di motivi, per cui finalmente l’inesausto Telesio scelse finalmente di pubblicare i risultati delle sue ricerche e delle sue riflessioni: il fatto, da un lato, che fosse mano a mano più convinto della piattaforma gnoseologica avanzata e che, dall’altro, esistesse ormai sia nell’ambiente partenope, che in quello pontificio un pubblico interessato all’opera. I tempi per la gestazione matura del testo integrale si rivelano, del resto, autenticamente telesiani: il primo volume è del 1565, l’edizione completa è del 1586 – napoletana, e questa è conseguenza biografica. Nel primo periodo romano, la protezione di curia ha un peso; negli ultimi due decenni di vita, sono i nobili Carafa di Nocera a garantire al filosofo favori e consensi. È il periodo nel quale Telesio diventa in un certo senso l’intellettuale di riferimento in un certo tipo di convivi e simposi. Gli sono amici il drammaturgo e numismatico Annibal Caro – nonostante il petrarchista fosse teoreticamente ancora devoto al vetusto verbo aristotelico – e il grande letterato Torquato Tasso, che personalmente consola Telesio per il dramma del figlio ucciso. Perché Telesio non è percepito dalla cultura, prossima, successiva come un fautore del riformismo giuridico? Bisogna ammettere che giurista professionale non è; la sua

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LA DIFESA NON È UNA QUESTIONE DI GENERE

di Giulia Boccassi* Quanto accaduto nei giorni scorsi avanti alla Corte di Appello di Firenze, ove quattro avvocati al termine di un’udienza durante la quale erano stati impegnati nella difesa di due imputati per il reato di violenza sessuale, sono stati destinatari di offese e minacce (tanto da dover uscire da una porta secondaria del Palazzo di Giustizia) per il fatto stesso di aver assunto quel mandato, mostra la gravità del pensiero dominante in tema di diritto di difesa. È infatti sempre più evidente il pregiudizio che accomuna l’attività difensiva alla difesa del reato stesso; questo è il frutto di una cultura populista e demagogica che ignora i principi costituzionali secondo i quali il diritto di difesa è tra quelli fondamentali del cittadino. Ma l’attacco al ruolo del difensore è stato in questo caso, ancora più odioso perché rivolto anche ad una avvocata “colpevole”, in quanto donna, di aver assunto la difesa di un presunto violentatore. Non si tratta purtroppo di un caso isolato. Troppe sono le colleghe che vengono aggredite e minacciate per aver semplicemente assolto al loro ruolo di difensori. È assurdo e paradossale in una società che si dice evoluta ritenere poco etico che una donna possa difendere un uomo accusato di particolari reati. Purtroppo, la cronaca ci pone sempre più spesso difronte a manifestazioni di quel dominante populismo giudiziario che ha in odio le garanzie e i diritti a maggior ragione se ad esserne portatrici sono le avvocate che divengono così vittime di esecrabili attacchi social e non solo, come nel caso di Firenze, per aver assunto la difesa di un accusato di violenza sessuale, quasi fosse un tradimento al genere femminile. Questi esecrabili episodi sono emblematici di un modo di pensare infarcito di stereotipi e che rappresentano sempre più le avvocate, in quanto donne e madri, investite per elezione del ruolo di difensori della vittima e quindi “per natura” distanti dalla possibilità di difendere uomini accusati di particolari reati. La gogna mediatica che troppo spesso identifica l’accusa con la certezza della responsabilità dell’indagato e che condanna ancor prima che sia emessa una sentenza alimenta quotidianamente l’insofferenza, che spesso sfocia in violenza, nei confronti di tutte quelle avvocate che assolvono al loro ruolo di difensori con la medesima professionalità e il medesimo impegno sia che tutelino imputati o vittime, nella convinzione che non ci siano interessi più meritevoli rispetto ad altri. È incredibile che simili posizioni, tipiche della vulgata populista, siano condivise anche da qualche magistrato che vorrebbe dividere gli avvocati in base agli interessi che tutelano: le avvocate buone stanno con i centri antiviolenza, mentre le avvocate delle camere penali difendono i presunti violentatori. La realtà è che la difesa non è mai una questione di genere e il diritto di difesa non consente differenze di genere e di categorie. Si è avvocati a prescindere dal sesso, a prescindere dal titolo del reato e a prescindere dal cliente che si assiste, sia esso imputato o persona offesa. Si è avvocati e basta. D’altro canto, non è questo il modo di affrontare il fenomeno ingravescente come quello della violenza sulle donne che ha radici sociali e culturali profonde e che non ha certo trovato argine nei recenti interventi legislativi, securitari ed emergenziali.     La convinzione che nessun processo per nessun titolo di reato giustifichi manifestazioni di insofferenza nei confronti dei principi costituzionali e delle garanzie processuali proprie dello Stato di diritto, è il pilastro del ragionamento intorno all’idea di parità in cui le avvocate UCPI credono e si riconoscono, respingendo ogni deplorevole attacco al diritto di difesa. D’altro canto, l’UCPI è sempre stata, e sempre lo sarà, a fianco delle avvocate e delle donne nella convinzione che pari opportunità significa tutela dei diritti fondamentali, diritti che debbono essere garantiti sempre a tutte e a tutti. Ed il garantismo non è mai una questione di genere, così come la difesa non è una questione di genere. Il ruolo e la dignità dell’avvocato non hanno dunque alcuna connotazione di genere e devono essere riconosciuti e tutelati come previsto dal nostro sistema penale e dalla Costituzione perché gli avvocati e le avvocate rappresentano l’ultimo baluardo in difesa dei diritti di tutti i consociati. Occorre dunque rivendicare con forza che si è difensori senza se e senza ma, rifuggendo la facile semplificazione che vuole le avvocate relegate a ruoli di difesa delle persone offese e più inclini alla tutela di questo tipo di interessi. Da sempre le avvocate in Italia e nel mondo sono in prima linea nella battaglia per il riconoscimento dei diritti degli ultimi, degli oppressi, e anche di quelli che nessuno vuole difendere, e lo fanno sempre allo stesso modo con la stessa passione e la stessa determinazione, non lasciandosi mai intimidire.   *Componente di Giunta dell UCPI

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LA BIOGRAFIA DI BERNARDINO TELESIO: APPUNTI PER LA NASCITA DELL’EPISTEMOLOGIA PROBATORIA

Vicissitudini, opera, pensiero di Pantaleone Pallone* –  Il filosofo cosentino Bernardino Telesio (1509-1588) è indubitabilmente tra i grandi pensatori del XVI secolo europeo. È il secolo nel quale il diritto, la cultura e la politica scoprono in anticipo sui tempi la contemporaneità, allungandosi fino alla critica del potere e della legislazione che nei duecento anni successivi sfoceranno nelle rivoluzioni borghesi sul piano socio-economico e nelle codificazioni, su quello delle fonti giuridiche in senso stretto. Per il giurista il Cinquecento, che Telesio percorre fino in fondo, è contemporaneamente il periodo più maturo del consolidato metodo consuetudinario-compilativo (nel 1582 la Chiesa riorganizzerà la possente tradizione del diritto canonico in un Corpus Iuris che sistematizza le norme delle epoche precedenti) e la fase delle grandi transizioni, che dimostrano i limiti e i problemi del vecchio regime. A reclamare questa svolta è in primo luogo la giurisprudenza dei tribunali. Parallelamente alle autonomie comunali e statutarie che avevano segnato l’esperienza pratica del contenzioso, almeno dal Duecento in avanti – col ruolo delle università, dei mestieri, delle corti locali – la giurisdizione si era data i rudimenti di una vivace organizzazione periferica, basata sul principio della competenza territoriale. Quando nel XVII secolo i poteri mondani si rinsaldano, accentrandosi, gran parte di quel reticolato di usi, di prassi giudiziarie, di stylus iudicandi, andrà perduta: non così, però, le infrastrutture culturali immateriali che avevano forgiato l’esperienza del diritto e la cassetta degli attrezzi di una rinnovata professione forense. L’alluvionale produzione normativa locale è quella dell’Azzeccagarbugli di circa cent’anni dopo: un affastellamento disorganico di fonti, dove la scaltrezza dell’avvocato (un misto di capacità selettiva e rinvenimento delle norme opportune) deve drammaticamente tenere giunte esigenze pratiche e malversazioni decentrate, conflitto religioso – decisivo nelle controversie in materia di status – e affermazione di una dinamica mercatoria basata, mano a mano, sugli investimenti e sui rapporti di debito-credito. Da questo punto di vista, Telesio e la sua famiglia sono, come molti esponenti della società meridionale culta, ancora espressivi dei rapporti patrimoniali preesistenti: nobili di lignaggio, legati ancora alla civiltà dei titoli accordati dal potere regio o da quello ecclesiastico, non dalle obbligazioni o dall’amministrazione fondiaria produttiva. I fratelli del pensatore cosentino attraverseranno per intero questa articolata vicenda di contesto. Nel 1564, a dar ragione alla storiografia più accreditata, Pio IV offre a Telesio stesso l’arcivescovado di Cosenza: avrebbe voluto dire, per l’A., rinunciare all’attività di conferenze, dissertazioni e pubblici confronti che da decenni contraddistingueva l’esercizio della sua notevole capacità dialettica. Guardava al (ri)nascente mondo delle accademie, entità non riconducibili alla poi stantia dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato, e invece imbevute di aspetti dell’uno e dell’altro emisfero. Nate su impulso di un associazionismo privatistico meglio formato dello stesso ceto di governo, però in grado di svolgere una funzione almeno lato sensu collettiva, che da Napoli in giù dà vita a una brillante geografia politica di intervento culturale. Rispetto a questo scenario di grandi confronti su scala continentale, per Telesio scegliere la via curiale sarebbe stata una grande comodità, ma anche una dorata prigionia. Non va dimenticato che il Nostro nel 1554 è documentatamente sindaco dei nobili, il ceto locale vagamente cortigiano, che tuttavia non riesce a difendere il proprio lucro e ciò che resta del proprio feudo (qui inteso formalmente come organizzazione proprietaria nei regni meridionali). Quanto a spirito lucrativo, del resto, è il meno abile di tutti: aspetto non da poco anche per l’amministrazione ecclesiastica. Più avveduto, invece, nell’arte diplomatica, dal momento che lo sappiamo impegnato in missioni pontificie nel Napoletano già dagli anni Trenta: il suo rifiuto verso l’episcopato non è perciò visto con ostilità, spianando invece la strada al fratello Tommaso. Un altro fratello è ucciso dopo una sommossa dei vassalli nel 1579: accusato come luterano, sfiduciato dal suo più prossimo entourage, sarà uno dei tanti lutti nella vita di Bernardino Telesio. Un bagaglio di sofferenza di cui non si riviene traccia immediata nella sua opera più celebre, di contenuto prevalentemente scientifico-pistemico (De Rerum Natura Iuxta Propria Principia), ma che ha tanti capitoli dolorosi al proprio indice: la morte della moglie nel 1561, nonché l’omicidio dell’adorato primogenito Prospero nel 1576 (in cui Telesio stesso rivedeva probabilmente il sé nobile del mezzo secolo precedente). La famiglia Telesio subisce la temperie sociale del tempo in modo quasi barometrico: è un mondo che va sfaldandosi, pur godendo ancora di taluni privilegi (Telesio aveva preso gli ordini minori, al punto che in alcuni documenti è indicato come “chierico”), e proprio per questo diffusamente avversato dagli altri attori sociali. Una plebe crescentemente ostile, disagiata, sfruttabile, facile alle sirene dei disordini – nasce più o meno in questo periodo la figura dell’arruffapopolo, del sedizioso d’occasione che approfitta dell’onda lunga di scontri e malcontenti – e una alta borghesia alleata con quella parte del notabilato di nascita che impone la riforma del governo cittadino. La vita di Telesio trova nel suo percorso teorico-speculativo una singolare forma di simmetrica conferma: scontatamente testimonianza di un certo frazionismo e declino nobiliare la prima, pionieristico di una nuova effervescenza metodologica il secondo. Lo svecchiamento epistemologico che i grandi pensatori come Bruno, Campanella e Telesio impongono al dibattito europeo ne decreta la fortuna nell’utilitarismo, nell’empirismo, di lì a breve nel pensiero illuministico (non solo anglofono). Si è obiettato che a Telesio, rispetto ai filoni intellettuali che lo eleggono a modello e a riferimento (in primo luogo, Bacone), mancherebbe il profilo di una specifica presa di posizione in senso politico. In realtà, la questione politica nel pensiero telesiano è meno collaterale di quanto appaia, attestandosi a un’analisi quantitativa delle proposizioni dedicate al governo della città e al sistema preferibile di amministrazione. Innanzitutto, il Nostro è testimone, piuttosto precoce, di un evento che segnerà nell’immaginario collettivo in profondità tutto il secolo: il sacco dei Lanzichenecchi nel 1527, in cui è il filosofo stesso a venire catturato. Nella mentalità diffusa, quel sacco ricorda l’omologo del 410, così fondativo nell’opera di Sant’Agostino e, in particolar modo, nel De Civitate Dei. Politica tuttavia è anche la postura intellettuale telesiana. Una critica avversativa che

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LA GIUSTIZIA PREDITTIVA TRA MITO E REALTÀ

di Roberto Staro* –    Premessa: La dottrina già da diverso tempo si confronta sul tema dell’intelligenza artificiale e della sua interazione con il settore giuridico, in particolare ponendo attenzione sull’attuale primordiale gestazione di un panorama normativo di riferimento – sia a livello comunitario che nazionale – e sui risvolti già presenti nella pratica, anche in ambiente giurisprudenziale. Invero, nonostante per alcuni sia considerato di improvvisa attualità a causa dell’ormai degenerante invasione nella realtà quotidiana di svariate forme di IA, la comunità dei giuristi e degli operatori del diritto sta ormai maturando la consapevolezza che, più di altri settori della vita e della quotidianità, la rivoluzione tecnologica dell’IA coinvolgerà, fino a stravolgere, non solo le dinamiche della vita privata ma, ancor più, la formazione del libero pensiero e finanche l’autonomia decisionale propria del ragionamento umano. La tentazione di affidare ad una macchina – rectius, ad un algoritmo – la “fatica” di una decisione ovvero la sintesi tra molteplici fattori e soluzioni (scegliendo, come si vedrà infra, su un calcolo probabilistico ma vincolato alle informazioni di partenza) è sempre più evidente e, nel volgere di pochi anni, apparirà inevitabile laddove non si riuscirà a vincolarla a parametri rigidi nei quali l’esperienza umana e la maturità di ragionamento dovranno essere tutelati. Orbene, il presente articolo si propone di seguire le linee direttrici già tracciate su questa Rivista[1] e, si spera, di offrire nuovi spunti di riflessione, ponendo tuttavia l’accento tra la velocità della dinamica evolutiva di questa nuova tecnologia, e della conseguente sempre maggiore interazione con ogni settore del diritto e della applicazione pratica dello stesso, ed il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento e della centralità del valore dell’uomo. Non v’è dubbio, del resto, che l’accesso così facilitato ad una tecnologia di tipo predittivo (ossia capace di generare pensieri autonomi o di eseguire ragionamenti deduttivi e non soltanto algebrici) sia assai rischiosa ove posta a confronto con la necessaria evoluzione positiva del diritto, e cioè con la capacità di quest’ultimo di modificarsi secondo le diverse esperienze dell’uomo ma sul presupposto del rispetto dei diritti fondamentali. Laddove poi questo tipo di ragionamento sia diretto a valutare i vantaggi ed i rischi, se così si può dire, dell’utilizzo dell’IA nel processo penale, si comprende con plastica evidenza quanto tale argomento sia delicato e non possa perciò cedersi ad una brusca abdicazione del ragionamento cognitivo e deduttivo ove vi sia pericolo per la salvaguardia del bene più prezioso: la libertà individuale.   L’IA come un oracolo? La possibilità di predire il futuro è un desiderio con il quale l’uomo ha combattuto da sempre perché è intimamente connesso alla curiosità di conoscere ciò che l’aspetta ed il timore di non saperlo affrontare. Nel passato, tale debolezza umana trovava il suo compimento nell’oracolo a cui chiunque, dal più forte al più debole, affidava le proprie scelte e sul quale misurava le proprie azioni. Nella mitologia, tuttavia, il vaticinio era per lo più connesso alla sventura e, lungi dal prevedere il futuro, condizionava esso stesso l’agire di chi vi si rivolgeva, con il paradosso di non predire ma di indirizzare. È di questo tipo, ad esempio, l’interpretazione proposta da Cassese delle tragedie di Edipo e Antigone[2]; è la conoscenza del futuro, prima che esso accada, ad innescare il corso di azioni che condurrà alla hybris tanto del padre quanto del figlio che, così facendo, per evitare il vaticinio metteranno in opera una serie di azioni che lo realizzeranno. Il desiderio di conoscere il futuro, e per certi versi di governarlo, è un’angoscia che non ha abbandonato l’uomo il quale, seppur con formule di volta in volta più nuove, continua la ricerca di una soluzione a tale istinto primordiale. A differenza dell’oracolo, la moderna IA contiene in sé il simulacro della razionalità e, quindi, potrebbe apparire più rispondente alle esigenze umane rispetto alla “magia” di un essere dotato di poteri di chiaroveggenza. Il dubbio amletico è se la logica quantistica ed il principio di autodeterminazione dell’IA possano sostituire l’uomo nelle sue scelte, tanto rispetto al proprio di futuro quanto a quello degli altri. Il comportamento umano, le sue scelte e decisioni, tuttavia, non sono determinabili con le stesse leggi con le quali si comprendono i fenomeni fisici o chimici o con cui rispondono le regole matematiche; alla possibilità di predire con esattezza il comportamento umano si è sempre opposta una caratteristica tipica dell’evoluzione dell’uomo: la libertà (intesa anche come imprevedibilità ed eccezione rispetto al binomio causa-effetto). L’essere umano non è mai soltanto il prodotto deterministico delle sue stimolazioni biochimiche o neurofisiologiche, né tantomeno il risultato necessario delle condizioni socio-economiche o ambientali in cui vive. Oggi non sarebbe possibile tollerale che una scelta venga affidata ad un oracolo il quale, per definizione della mitologia, ha sempre ragione pur non dando mai ragioni. Eppure, si è disposti con facilità a cedere all’agio di una decisione operata da un algoritmo predittivo al quale sono attribuiti (sbagliando, come si vedrà infra) i requisiti di terzietà, imparzialità e predeterminazione.   IA e Costituzione: Proprio sulla scorta dei principi da ultimo richiamati, la necessaria premessa di ogni ragionamento circa l’applicabilità dell’IA alla sfera dell’esercizio della giustizia non può prescindere dalla corrispondenza di tale tecnologia con il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti nella Costituzione. Non v’è dubbio che l’argomento sia così vasto da non poter essere sviluppato sufficientemente in questo breve articolo. Ci si limiterà pertanto a proporre le tre principali aree di rischio maggiormente di interesse nella connessione tra utilizzo dell’IA e amministrazione della giustizia: il principio della sovranità popolare (art. 1): la matrice democratica su cui si base la nostra architettura costituzionale, come è noto, non si può ridurre semplicisticamente al concetto di moltitudine e di rispetto della volontà popolare (intesa alla stregua di maggioranza da contrapporsi al potere dispotico di uno soltanto o di pochi), bensì contiene in sé un significato più penetrante al quale appartiene, tra l’altro, il rispetto per le minoranze e la cultura delle diversità. Al fine di comprendere la portata potenzialmente deflagrante dell’IA

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ANCORA QUALCHE RIFLESSIONE SU PRINCIPI DEL DIRITTO PENALE LIBERALE E ATTUALE SISTEMA PUNITIVO.

  di Nicola Mazzacuva* –  Risulta del tutto agevole avvertire oggi, nella materia penale, un singolare ‘distacco’ tra i principi fondamentali frutto di una secolare elaborazione scientifica e l’attuale sistema punitivo. Costituisce, invero, criterio generalmente riconosciuto quello che porta ad orientare la disciplina giuridica di ogni attività di rilievo sociale sulla base del sapere scientifico via via affermatosi nei singoli settori di riferimento. Le indicazioni di volta in volta fornite dagli esperti rappresentano, invero, il fondamento primario di ogni intervento normativo affidato al legislatore ovvero al soggetto istituzionale comunque deputato ad occuparsi delle più diverse regolamentazioni positive in attuazione dei canoni elaborati in ambito scientifico. Si può convenire che anche nel settore penale il pensiero degli studiosi abbia orientato (quantomeno da Beccaria in poi) le scelte del legislatore nella costruzione di un ordinamento rispettoso di taluni basilari principi delimitativi della potestà punitiva. I valori e i postulati del “diritto penale liberale“ vengono a coincidere, sostanzialmente, con quelli del “garantismo”, che può essere considerato un’evoluzione e un precipitato tecnico dell’ideologia liberale applicata al diritto penale. Persino nel periodo dello Stato autoritario il nuovo codice penale (espressione del regime appena affermatosi) conteneva, proprio nello sue norme di parte generale, ben note previsioni di limitazione e garanzia a tutela del “suddito”, nonché la disciplina di istituti (ad. es., amnistia, indulto e prescrizione) comunque orientati ad una possibile eliminazione ovvero riduzione delle conseguenze penali di un fatto (pur) previsto come reato. E, dopo la caduta di quel regime, la dottrina penalistica italiana dell’epoca rivendicò la propria opera svolta a salvaguardia dei principi fondamentali, riconosciuti appunto ormai come assolutamente basilari in ambito scientifico (v, per tutti, G. LEONE, La scienza giuridica penale nell’ultimo ventennio, Aerch. pen., 1945, p. 23 ss.). Principi affermati, poi, nella Carta fondamentale rappresentando, così, esito davvero significativo della prima approfondita lettura costituzionalmente orientata del diritto penale quello volto a segnalare la “superiore” esigenza di una limitazione dell’ordinamento punitivo (F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., 1973, p. 7-93). Successive indagini hanno puntualmente sottolineato che proprio nell’apparente «insufficienza» sta «la vera “forza” del diritto penale, il suo irrinunciabile ancoraggio garantista» completato «dal collegamento con la dogmatica del bene giuridico: tutela selettiva di beni individuali protetti soltanto da modalità di lesioni “qualificate”, “tipiche” e   “tassative”», denunciandosi già da tempo l’ipertrofia del diritto penale e la necessità di una decriminalizzazione dei reati bagatellari (C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova 1985: il brano citato si trova a p. 161). Secondo quanto veniva, poi, declinato da altra autorevole dottrina «l’obiettivo politico principale dell’approccio costituzionalistico» consisteva «nella riduzione dell’area penalmente rilevante in vista dell’attuazione del principio di extrema ratio: tutti i vincoli che esso ha inteso porre all’attività del Parlamento – pericolo concreto, beni di rilevanza costituzionale, tassatività, riserva assoluta di  legge, colpevolezza, abolizione delle contravvenzioni – erano fondati sull’esigenza di giustificare il principio di sussidiarietà, di rendere operativo quel disegno politico» (M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004 p. 72). Così, un diritto penale costituzionalmente orientato può, in effetti, essere considerato «un diritto penale razionale» in quanto «si radica nell’esigenza di una delimitazione ‘critica’ dell’autorità punitiva» (CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale, Bologna, 2017, p. 40). Considerando, però, la situazione attuale della ‘legalità penale’ si può senz’altro convenire sul fatto che il nostro sistema positivo risulta sempre più sommerso da un’incontrollabile moltitudine di norme incriminatrici – evidenziando, così, un singolare (e netto) contrasto con le diverse acquisizioni/indicazioni scientifiche del tutto dominanti –  che rende impossibile non solo conoscere tutti i reati “legalmente” previsti, ma financo calcolarne l’esatto numero. Mi riferisco, appunto, all’enorme quantità di figure criminose che connota ormai l’immensa (neppure precisamente “quantificabile”: il che risulta davvero incredibile e allarmante) parte speciale del diritto penale. Davvero molto interessante ed approfondita risulta, da ultimo, un’ampia e documentata indagine, dal titolo immediatamente “provocatorio” (A. CADOPPI, Il “Reato penale”, Napoli, 2022), ove si esaminano puntualmente gli esiti attuali del processo definito di “overcriminalization”: esiti che non è possibile qui (neppure sinteticamente) riassumere. Anche e proprio per il suo “gigantismo” può essere ribadito che, in effetti, la parte speciale rappresenta il “vero e proprio diritto penale”: tutt’altro che minimo; tutt’altro che extrema ratio. Soluzioni orientate ad una maggiore punizione contraddistinguono ormai anche il diritto penale applicato nel momento di commisurazione della pena. Del resto, l’ampliata possibilità di applicazione di una “pena carceraria” costituisce il (quasi obbligato) esito di interventi legislativi aventi ad oggetto spesso soltanto l’incremento del trattamento sanzionatorio ovvero comunque finalizzati ad impedire l’applicazione di misure alternative al carcere. Un diffuso aumento delle pene edittali connota, invero, le più recenti novelle legislative in materia penale allo scopo dichiarato di ottenere (quasi soltanto) per questa via consenso “popolare”. Ed i nuovi (più elevati) moduli sanzionatori – le (così definite)  “pene elettorali” – provocano necessariamente ulteriori applicazioni di detenzione carceraria: sia in fase cautelare, sia quale pena definitiva. E così si perviene ad un singolare esito neppure immaginabile nello sviluppo “scientifico” del diritto penale liberale (poi anche) orientato ai valori e ai principi costituzionali. Lungi dal muoversi nella prospettiva del diritto penale minimo (ovvero – se si vuole – della riserva di codice), l’attuale fase ben si può definire come quella del “diritto penale massimo”. Le odierne politiche penali populiste non si preoccupano di eventuali garanzie per il reo (altro che diritto penale come “Magna Charta del reo” come voleva von Liszt), ma tendono proprio a sacralizzare la vittima. Lo stato non si sostituisce più alle vittime, ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il reo; mentre proprio il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico è avvenuto proprio attraverso la cd. “neutralizzazione” della vittima. Occorre, inoltre, sempre rimarcare il totale abbandono di ogni prospettiva di una (invece assolutamente necessaria) lettura ‘integrata’ dal diritto penale, coniugato, appunto, con gli altri saperi (anzitutto quelli criminologici e sociologici) che trattano la ‘questione criminale’. Così la criminalità «non è [più] oggetto di conoscenza in una prospettiva causale e quindi, alla fine, cessa di

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OGNI MODELLO HA BISOGNO DEL SUO INTERPRETE

di Francesco Petrelli* –  Delle diverse argomentazioni utilizzate nel tempo al fine di negare la necessità di separare le carriere – dall’idea del “pm-superpoliziotto”, alla perdita della “cultura della giurisdizione” – ultima in ordine di tempo è quella relativa al numero di assoluzioni e di riforme che statisticamente si riscontrerebbero nei giudizi di merito. Circostanza questa che, secondo i sostenitori dello status quo, dovrebbe dimostrare l’ampio margine di indipendenza del giudice dalla figura del pubblico ministero. L’alto numero di assoluzioni dimostrerebbe che le carriere sono “di fatto” separate in quanto il giudice non asseconda affatto le richieste del pubblico ministero e non ne condivide la cultura. Questa idea si fonda su di una banalizzazione della prospettiva riformatrice e su di una visione del processo e dei suoi soggetti piuttosto azzardata. L’assunto presupporrebbe infatti una sostanziale indifferenza del giudice nei confronti della prova ed una sua libertà valutativa tale da prescindere del tutto dal contenuto dell’evidenza disponibile.  Ciò che si propone è l’idea piuttosto bizzarra di un giudice che solo per “amicizia” nei confronti della figura del pubblico ministero condanni degli innocenti. Il che evidentemente non può darsi perché il processo ha una sua oggettiva esistenza e – salvo casi patologici che non devono mai condizionare un giudizio critico – segue un suo percorso razionale. Ciò che piuttosto accade è che laddove la prova sia incerta e la questione, in fatto o in diritto, controversa il giudice non adotta quasi mai la regola del “ragionevole dubbio”. E ciò accade proprio perché quest’ultimo è rimasto legato ad una cultura fortemente promiscua con quella pubblico ministero, lontana da quella “cultura del limite” che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento del giudice terzo.   Il fatto che un cospicuo numero di sentenze sia oggetto di riforma in appello, sta a dimostrare che quanto più ci si allontana dalla pressione del pubblico ministero e della sua pretesa punitiva, maggiore è l’indipendenza del giudice dalle posizioni dell’accusa.   È tuttavia indubitabile  che l’unicità della cultura di giudice e pubblico ministero, sviluppata solo a scapito dell’indipendenza del primo ed a favore dell’egemonia del secondo, si avverte in particolare nella fase fondamentale delle indagini preliminari, nell’ambito della quale il giudice tende a condividere l’impostazione dell’accusa: lo fa adeguandosi alle richieste di proroga delle indagini senza operare alcun serio controllo sui motivi che la giustificano, accogliendo le richieste di autorizzazione delle intercettazioni e le relative richieste di proroga, eludendo con motivazioni prive di autonomia le pur stringenti condizioni previste dalla legge, ed analogamente aderisce alle richieste cautelari sia quanto alla sussistenza dei presupposti probatori che delle esigenze cautelari, facendo larghissimo uso della custodia in carcere anche laddove altre misure potrebbero risultare adeguate. Non può non cogliersi, in questa dinamica, l’intrinseca inefficienza delle cd. “finestre di giurisdizione” (così come incrementate dalla riforma Cartabia) destinate al fallimento anch’esse laddove da quelle finestre non si “affacci” un giudice effettivamente terzo. Ma occorre riconoscere che la forza egemonica del pubblico ministero si esercita con analogo vigore anche nella fase processuale ogni qual volta l’oggetto del processo, superando lo standard degli ordinari affari giudiziari, imponga un qualche particolare impegno delle procure, per via della rilevanza politica del reato o perché l’oggetto implichi un qualche interesse mediatico. In tutti questi casi la terzietà del giudice è evidentemente compromessa, in quanto la posta in gioco spesso trasforma il giudice in un “giudice di scopo”. Il che accade certamente in tutti i processi di doppio binario, ma anche in tutti quei casi nei quali il giudice è chiamato dalle procure procedenti a svolgere una azione di contrasto a questo o a quel fenomeno criminale, ad una presunta nuova mafia locale, ad una corruzione diffusa, ad un grave reato ambientale … In tutti questi casi si avverte indubbiamente il peso di una mancanza della terzietà. Collocati entrambi sul medesimo fronte ed all’interno di una medesima trincea nella quale si combatte il male, giudice e pubblico ministero sono impegnati contro un nemico comune. La terzietà che, a maggior ragione in questi casi nei quali altissima è la posta in gioco dei diritti di libertà e delle garanzie del cittadino, dovrebbe caratterizzare la posizione del giudice, subisce una inevitabile torsione. Tanto ciò è vero che quando in alcuni casi il giudice si sottrae con i propri provvedimenti alla pressione dell’accusa la vicenda finisce con l’assumere addirittura un risalto mediatico. Non è infatti solo la decisione finale che deve essere oggetto di rilievo, in quanto è nel corso del processo, con la gestione delle udienze, con le decisioni sulla ammissione della prova, con i propri interventi nel corso degli esami testimoniali, che il giudice dà modo di far rilevare la mancanza della terzietà. Ed è ovvio che l’esito finale del processo, la sentenza, è il frutto di tali ulteriori decisioni e di questi interventi che condizionano evidentemente la formazione della prova nel corso del dibattimento. Insomma, l’esigenza della terzietà non si misura banalmente con il numero delle assoluzioni, ma attraverso valutazioni più serie, analizzando piuttosto i modi attraverso i quali le decisioni maturano nelle diverse fasi del processo e nelle più complesse cadenze del giudizio, nell’ambito delle quali il cittadino imputato avverte tutta la sperequazione dei modi con i quali il giudice troppo spesso gestisce le udienze. Se, dunque, il recupero del modello accusatorio si pone come una riforma indispensabile ed ineludibile, quest’ultimo risulta a sua volta inattuabile a carriere invariate. Non vi è dubbio, infatti, che se le carriere uniche hanno offerto una base ideologica e culturale del tutto coerente con il processo inquisitorio, le stesse hanno successivamente costituito un insormontabile ostacolo alla effettiva realizzazione del nuovo modello.  Ogni modello processuale ha, infatti, bisogno del suo interprete e l’interprete del modello accusatorio è il giudice terzo. Si tratta di un paradigma che sta scritto nella nostra Costituzione e che attende da troppo tempo di trovare attuazione in una compiuta riforma. Senza questo nuovo giudice ogni riforma che voglia restituire coerenza al modello accusatorio resterà una vana speranza. *Presidente Unione Camere Penali Italiane (Da “Editoriale”, pubblicato sul numero 1 di “Ante Litteram”, rivista

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LA GOGNA

di Alessandro Barbano* Perché la giustizia in Italia non cambia mai? Perché gli errori si ripetono, i ritardi incancreniscono, le riforme saltano o, quando pure si fanno, risultano irrilevanti? Per questa domanda ci sono due risposte collegate tra loro. La prima riguarda la distanza dei cittadini dal problema. La giustizia è percepita come una cosa di altri, salvo poi scoprirne l’insostenibile prezzo quando se ne viene direttamente a contatto. La seconda dipende dal modo con cui la giustizia viene amministrata, e cioè dal suo arroccamento in un fortino dove si consolidano regole e logiche diverse e talvolta opposte a quelle della vita, e dove tutto può accadere senza che nessuno sappia, o piuttosto venendosi a sapere l’opposto di ciò che è accaduto. È il caso che qui si narra e si analizza: il complotto dell’Hotel Champagne, la storia di un gruppo di magistrati e politici che vuole mettere le mani sulla Procura di Roma, di un’inchiesta giudiziaria che smaschera i congiurati, di una magistratura che mette alla gogna ed espelle, ripristinando l’onore perduto. Sennonché questa versione non sta in piedi. Troppi segnali dicono che lo scandalo non è nella realtà, ma nel suo racconto rovesciato. Perché pretoriani e congiurati altro non sono che due fazioni l’una contro l’altra armate. Ed è una lotta senza risparmio di colpi, dietro la quale si mostrano tutte le incompiutezze legislative, gli azzardi investigativi, le forzature istituzionali, le ipocrisie giudiziarie che un potere malato può produrre. Se una simile storia è potuta accadere, è perché si è svolta in una zona mal sorvegliata della democrazia, nell’inconsapevolezza e nel disinteresse dei cittadini, e dietro il racconto falso di uno scandalo. Non è la prima volta che capita nella storia repubblicana. Quando l’Italia è stata vicina a toccare il fondo, è scattata spesso nel discorso pubblico la tentazione di rimuovere la verità, di ridurla, di ribaltarla nel suo contrario. È accaduto con il sequestro di Aldo Moro e con l’idea di una fermezza che liquidò come insensato l’appello alla trattativa dello statista dal- la prigione delle brigate rosse. Si è ripetuto con il deragliare del finanziamento pubblico ai partiti e con l’illusione di regolarlo assoggettando la politica alla magistratura di Mani Pulite. È proseguito con le stragi di Falcone e Borsellino e con la ricerca di una verità ritagliata sulle bugiarde rivelazioni del pentito Scarantino. Non si sottrae a questa tentazione mistificatrice la crisi più acuta della giustizia, il complotto nel cuore del Consiglio superiore della magistratura, culminato nella rimozione di Luca Palamara. Quando il meccanismo che governa le lottizzazioni tra le toghe si inceppa e rivela la sua insostenibilità, il racconto dello scandalo del Csm serve a giustificare il ripristino dell’equilibrio perduto. E tutto sembra cambiare perché tutto torni come prima. I quattro casi qui citati hanno tempi, contesti, cause e conseguenze diverse, per natura e per gravità. Ma hanno un elemento in comune: dietro queste apparenti rivoluzioni di sistema c’è, in controluce, un cambio di potere o una restaurazione. O tutte e due. Vuol dire che la democrazia finge uno scatto in avanti, ma in realtà fa un passo indietro o, nel migliore dei casi, resta immobile. Con l’analisi di una vicenda estrema, questo libro vuol dimostrare che cosa si può arrivare a fare nel nostro Paese con un’inchiesta giudiziaria, e quanto un racconto che divorzia dalla realtà può allontanarsi da ciò che pure chiamiamo «giustizia». *giornalista, saggista (Pubblicato sul n.0 – “Ante Litteram” – dicembre 2023)

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