L’evoluzione gattopardiana delle misure di prevenzione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

  di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (Avvocato del Foro di Torino) Con la consueta ed eccelsa sapienza giuridica Marcello Fattore, in un articolo pubblicato su Il Dubbio del 5 aprile scorso, ricorda che le misure di prevenzione hanno origini remote, sono da sempre limitative della libertà personale e, destinate a fronteggiare situazioni apparentemente eccezionali, hanno finito con essere stabilizzate dal potere statuale di turno: un sistema degno della peggiore inquisizione che, nei secoli, ha fatto una strage di diritti e ancora oggi conserva evidenti connotati repressivi. Conoscerne le origini è necessario, per smascherare l’ipocrisia di chi, pur di difenderle e non potendo altrimenti giustificarne la eccentricità rispetto ai principi generali dell’ordinamento, ne colloca la genesi quale risposta alla eversione terroristica o alla criminalità mafiosa. In realtà, un sistema punitivo/preventivo era già presente nel Regno di Sardegna: tra le “regie patenti” alcune erano destinate agli “individui dediti alle osterie e all’ozio a tutti i vizi che ne derivano e che troppo sovente riescono ad eludere l’azione della giustizia”, che si ritenevano, pur in assenza di prove, essere autori di furti nelle campagne e che venivano raggiunti anche dalle misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Seguirono la legge Galvagno nel 1852, la legge Pica contro il brigantaggio nelle province meridionali e contro gli anarchici che “costituiscono turbamento” (ogni riferimento alla attualità è puramente casuale…). Nella produzione legislativa, vi fu una breve pausa fino all’avvento del fascismo, regime in cui le misure di prevenzione furono il maggiore strumento contro il dissenso politico. In quella stessa epoca, furono varate le prime misure di prevenzione antimafia, per conferire poteri speciali al prefetto. Con la Costituzione, la mancata previsione delle misure di prevenzione indusse il Legislatore ad una prima giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, prevedendo l’intervento di un giudice, ma senza tuttavia modificare il contenuto della legge: attribuire ad un soggetto diverso da quello esecutivo un potere tanto esteso pareva sufficiente a conferire alle misure di prevenzione dignità e rispondenza al dettato costituzionale. Ma, come contraltare, la proliferazione legislativa di nuovi soggetti passibili e l’introduzione massiccia di misure di prevenzione patrimoniali proseguì incessantemente, estendendo la normativa antimafia ai soggetti considerati pericolosi comuni (legge Reale del 1975), e prevedendo, nel 2009, la applicazione disgiunta di misure personali e patrimoniali per tutti, mafiosi e non, in base ad una semplice sproporzione rispetto ai redditi dichiarati. Nel 2011 l’operazione di “fagocitazione” dei pericolosi comuni tra i soggetti passibili di prevenzione si è completata anche dal punto di vista formale, con il varo del decreto legislativo 159 che passerà alla storia, significativamente, come il Codice Antimafia. In questi ultimi anni, la platea degli assoggettabili a misure di prevenzione si è arricchita ed oggi i destinatari sono anche persone (e patrimoni) che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso (gli stalker, gli evasori fiscali, i corrotti ad esempio). Un sistema così perverso che ha fatto dell’eccezione la regola, dell’emergenza l’ordinario, sacrificando diritti costituzionalmente garantiti, non poteva passare inosservato a livello europeo, al punto che con la nota sentenza del 2017 De Tommaso c/ Italia la CEDU rilevò un deficit di tassativizzazione nella normativa italiana in materia di misure di prevenzione. La Corte costituzionale, con una indubbia capacità di equilibrismo giuridico e un uso disinvolto della semantica, ha ritenuto che le misure di prevenzione pur avendo una dimensione afflittiva non hanno scopi punitivi, non possono essere assimilate alle pene, ma hanno come unico scopo il controllo della pericolosità sociale. Per usare le parole del professor Tullio Padovani, la distinzione operata dalla Corte costituzionale tra afflizione e punizione “corrisponde alla distinzione tra operazioni militari speciali e guerra”. Vane sono state le voci che, da parte della dottrina più illuminata e dalla avvocatura sono arrivate per denunciare l’incostituzionalità dell’intero sistema di prevenzione, che deve la sua sopravvivenza, si diceva, all’ipocrisia dei suoi falsi natali antimafia. E nel nome dell’antimafia, storicamente, è tutto consentito. Ecco che, allora, il presente e il futuro sono in realtà un ritorno al passato. Infatti, dalle “regie misure di prevenzione” del monarca per gli oziosi e vagabondi (in letteratura, quelle del principe per i “bravi” delle grida manzoniane, posti alla corda “ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno…” ), siamo arrivati alle misure di prevenzione di competenza del Prefetto e del Questore, quali le interdittive antimafia nei confronti delle imprese e, per quanto riguarda i singoli, l’avviso orale qualificato (“salvato” dal denunciato profilo di illegittimità costituzionale anche con l’ultima sentenza della Consulta del 20 dicembre 2022): misura di prevenzione di tipo amministrativo “a vita” poiché, non ha una durata predeterminata (è l’ergastolo in versione preventiva…). Anche l’istituto del 41 bis è stato considerato dalla Corte di Cassazione una misura di prevenzione ibrida, che presenta “profili di differenza quanto a presupposti e funzioni” con le misure di prevenzione in senso stretto ma, nel contempo, singolari similitudini, in quanto collegato alla pericolosità dell’autore (e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa). Chi pensa, allora, che con qualche correttivo, o interpretazione “tassativizzante”, il sistema di prevenzione possa rendersi rispondente ai principi basilari dell’ordinamento, è come il medico che pensa di curare un tumore con medicine omeopatiche. La loro lunga storia ci dice che tutte le riforme, anche quelle presentate come nuove codificazioni, hanno solo scalfito la superficie di quella che si presenta come la peggiore delle “terribilità” statuali. Per dirla con le parole, ancora una volta condivisibili, di Marcello Fattore “la prevenzione è asistematica,” come tale inemendabile: l’obiettivo dell’avvocatura penale non può che essere la cancellazione dall’ordinamento di un sistema che “tutti ci invidiano” ma che (chissà come mai…) nessuno ci copia.

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