Prevenzione

ANCHE L’INTERDITTIVA ANTIMAFIA AL VAGLIO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* –  Anche le interdittive antimafia sono finite al vaglio della CEDU. Nei prossimi mesi, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sarà chiamata a pronunciarsi sulla rispondenza ai principi convenzionali non solo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ablative, disposte dalla Autorità Giudiziaria, ma anche di quelle amministrative, quale è l’informativa interdettiva antimafia. Un’altra peculiarità della prevenzione, infatti, è di non essere presidiata pienamente dalla riserva di giurisdizione, con conseguenti asimmetrie nella valutazione dei presupposti applicativi delle misure. L’interdittiva, in particolare, viene emessa dal Prefetto quando questi abbia sospetti di “tentativi” di infiltrazioni mafiose nell’impresa, al fine di inibire all’imprenditore ogni contratto ed ogni contatto con la Pubblica amministrazione. Gli effetti sono però più ampi, determinando usualmente la revoca degli affidamenti bancari e, di conseguenza, la cessazione dell’impresa. Limitato è poi il sindacato del TAR, giudice competente a decidere sui ricorsi avverso l’interdittiva, il quale, pur disponendo in questa materia di un sindacato di merito, spesso si arresta a quello di legittimità proprio della valutazione dei vizi dell’atto amministrativo, senza affrontare la congruità logico-ricostruttiva della motivazione dello stesso. Ora, finalmente, i Giudici convenzionali pongono al Governo Italiano dei quesiti ai quali sarà difficile dare una risposta convincente sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione e sulla rispondenza del procedimento  ai canoni del giusto processo. Vogliono sapere, innanzitutto, se i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di sottoporre le loro contestazioni a un “tribunale” con “piena giurisdizione” ai sensi della giurisprudenza sviluppata dalla Corte in relazione all’articolo 6§1 della Convenzione e se le norme applicate nel caso di specie, contenute nel decreto legislativo n. 159 del 2011, costituiscano una base giuridica sufficientemente accessibile, chiara e prevedibile, secondo le autorevoli indicazioni contenute nella nota sentenza De Tommaso. Ma, soprattutto, chiedono all’Italia se l’ingerenza nella attività dell’impresa sia proporzionata, alla luce della interpretazione dei giudici nazionali dell’articolo 86 del D.L.vo 159/ 2011, stante la tendenzialmente illimitata durata nel tempo di questa  misura di prevenzione, non a torto definita un “ergastolo imprenditoriale”. La Corte EDU ha colto evidenti profili di contrasto della normativa nazionale con i principi convenzionali, stante la indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere il provvedimento interdittivo, che, incidendo sulla libertà di iniziativa economica (garantita dall’art. 41 della Costituzione), dovrebbe invece essere ancorato a basi legali chiare, precise, predeterminate e prevedibili. La norma nazionale, invece, fa riferimento a “tentativi di infiltrazioni mafiosa”. Espressione del tutto generica ed oscura, idonea a consentire (come difatti avviene) una tale anticipazione della soglia di intervento statale, da consentire l’aggressione non solo degli imprenditori “compiacenti”, ma anche di quello “soggiacenti”, vittime, cioè della pervasività criminale mafiosa. Ma, i giudici di Strasburgo si domandano anche se l’interdetto goda di un diritto di difesa effettivo, che possa essere esplicato avanti ad un giudice dotato di pieni poteri di cognizione. Il riferimento a principi quali “precisione” e “prevedibilità (corollari della legalità formale), “effettività della difesa” e, soprattutto, “proporzionalità” è, nella sostanza, un refrain rispetto alle ordinanze interlocutorie rese nei procedimenti Cavallotti e Macagnino+27, in tema, rispettivamente, di pericolosità sociale qualificata e generica.Si tratta di principi – la proporzionalità, in particolare – che evocano il concetto di sanzione penale. Il sospetto che la CEDU sembra nutrire sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione pare essere proprio questo: se esse abbiano davvero natura amministrativa, ovvero possano e debbano essere considerate “pena”. Le domande poste al Governo Italiano sembrano convergere verso una decisione che, a differenza di quanto accaduto in passato, potrebbe riconoscere carattere punitivo alle misure di prevenzione, con conseguente loro assoggettamento a tutte le regole della “materia penale”, sostanziale e processuale. Fino ad oggi, il riconoscimento di un carattere non penale e la affermazione di finalità preventive hanno fatto passare in secondo piano l’enorme grado di afflittività che contraddistingue le misure di prevenzione.I dubbi espressi nelle ordinanze interlocutorie, tuttavia, fanno sperare che la Corte EDU non si accontenti più, come in passato, della “lettura” dello strumento di prevenzione elaborato dalla giurisprudenza nazionale, ma intenda invece studiarne e valorizzarne la sostanza e gli effetti, per denunciarne il versante più marcatamente punitivo, denunciando queste misure nella loro reale dimensione di pene senza condanna.   *Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione Camere Penali Italiane

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Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione

Di Giuseppe Amarelli* –  Il controllo giudiziario volontario è stato introdotto nel sistema della prevenzione antimafia con il duplice obiettivo di mitigare l’indiretta ma draconiana portata afflittiva delle interdittive e di differenziare l’entità dell’intervento prefettizio a seconda della gravità delle situazioni sintomatiche di contagio mafioso, evitando l’irragionevole assurdo di assimilarle quoad incapacitatem e di adottare il medesimo provvedimento inabilitante sia nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso, che della vittima di un’estorsione mafiosa. Nei casi di infiltrazione mafiosa solamente occasionale si è così concessa la possibilità all’impresa destinataria di un’interdittiva di richiedere, previa impugnazione al TAR, l’attivazione da parte del tribunale di prevenzione di un periodo di monitoraggio della durata da uno a tre anni per consentire l’eventuale bonifica e sospendere gli effetti incapacitanti. Questo istituto, sebbene sia nato per incidere a valle del sistema della prevenzione amministrativa antimafia, lenendone gli eccessi rigoristici, in realtà, ha segnato un radicale cambio di paradigma nelle politiche di contrasto all’ingerenza mafiosa nelle imprese, più in sintonia con gli assetti valoriali di uno Stato costituzionale democratico, in cui queste prioritarie esigenze pubblico-collettive devono sempre tenere nel giusto conto i contrapposti interessi sia dei destinatari diretti, che dei destinatari indiretti, come i lavoratori dipendenti e gli stakeholders. Grazie al controllo volontario, si è abbandonata la pregressa strategia imperniata su un approccio retrospettivo-stigmatizzante e su misure istantanee immediatamente inibitrici dei rapporti con la pubblica amministrazione e si è inaugurata una del tutto nuova, incentrata su un approccio prospettico-cooperativo e su misure dialogiche di lunga durata, inclusive e recuperatorie, in cui lo Stato non ostracizza subito l’impresa contaminata “colpevolizzandola”, ma, al contrario, le si affianca in un articolato processo di self cleaning. Purtroppo, ad oggi, nonostante le buone intenzioni, il bilancio sullo stato di salute del controllo volontario è ancora chiaroscurale, presentando alcune luci e non poche ombre. Per un verso, è sicuramente apprezzabile l’estensione delle sue potenzialità applicative ottenuta tramite: la tendenziale polarizzazione del giudizio per la sua concessione sulla prognosi di futura bonificabilità; l’interpretazione del concetto di occasionalità come ‘non stabilità’; l’esclusione del Prefetto dal novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento di ammissione; il riconoscimento della sua adottabilità anche rispetto al diniego di iscrizione nelle white list. Per altro verso, generano non poche perplessità: la sua applicazione ancora fortemente a “geografia variabile”, essendo pochi i tribunali di prevenzione che ne hanno colto la straordinaria utilità per l’intero sistema; il mancato coordinamento dell’esito positivo con la misura interdittiva “a margine” della quale è stato concesso; e, soprattutto, il contrasto interpretativo circa i presupposti applicativi. A tale ultimo riguardo, convivono in giurisprudenza due orientamenti opposti, uno maggiormente garantista che, per evitare esiti irragionevoli, ritiene possibile applicare la misura anche quando il g.o. accerti con i suoi diversi standard probatori l’insussistenza dell’infiltrazione mafiosa posta alla base dell’interdittiva, ritenendo ancor più probabile in questo caso la recuperabilità dell’impresa; ed un altro più rigoroso che, invece, facendo leva sull’autonomia di giudizio del giudice della prevenzione rispetto al giudice amministrativo, esclude tale possibilità, innescando un paradosso per il quale l’impresa infiltrata occasionalmente può mitigare gli effetti dell’interdittiva, mentre quella non infiltrata deve continuare a scontarli. Sul funzionamento del controllo volontario grava poi un’altra ipoteca iscritta dalla misura amministrativa della prevenzione collaborativa introdotta nel 2021 sulla sua falsariga. Questa, infatti, sembra voler accentrare nelle mani del Prefetto il contrasto ai tentativi di ingerenza mafiosa nelle imprese, evitando conflitti con il potere giudiziario che, oggi, invece, nei casi di ammissione al controllo, sembrano sorgere. Nell’attesa (vana?) di una più organica riforma della prevenzione amministrativa antimafia che la traghetti sul piano della prevenzione giurisdizionale, declassando il Prefetto ad organo pubblico deputato a proporre ad un giudice terzo le misure dell’interdittiva e del controllo, si deve confidare in una valorizzazione del controllo volontario da parte dell’autorità giudiziaria. Diversamente da quanto possa apparire prima facie, questo non rappresenta un mero favor per il destinatario che indebolisce l’apparato di contrasto alle mafie. All’opposto, costituisce uno strumento giuridico dotato di una pluralità di funzioni eterogenee ma complementari, tendendo a: equo-contemperare meglio i contrapposti interessi in gioco, evitando di sbilanciare il rapporto autorità-individuo in modo antitetico con la natura democratica del nostro ordinamento; tutelare i diritti dei terzi estranei esposti a serio rischio dalle interdittive, in primis quelli dei lavoratori dipendenti; e, last but not the least, offrire un bagaglio informativo più completo e attendibile all’autorità competente per la valutazione del livello di infiltrazione mafiosa e, quindi, per la scelta della misura più idonea da adottare.   *Professore Ordinario di Diritto Penale

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Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo

Silia Gardini* e Crescenzio Santuori** – La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato negli ultimi decenni una rilevanza sempre più ampia per il diritto amministrativo. In questo contesto, il pericolo di inquinamento criminoso è fronteggiato dal legislatore attraverso la predisposizione di un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “all’origine” i contatti della Pubblica amministrazione con soggetti ritenuti potenzialmente sensibili a infiltrazioni mafiose, anche indirette. L’articolo 84, comma 1, del Codice Antimafia, D. lgs. n. 159/2011 – con l’intento di realizzare la massima anticipazione della soglia di tutela – attribuisce al Prefetto competenza al rilascio di provvedimenti amministrativi di natura cautelare e preventiva, che determinano in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la p.a. (e non solo): la comunicazione antimafia e l’informazione (o informativa) antimafia. Entrambi i provvedimenti hanno l’obiettivo di evidenziare alla Pubblica Amministrazione situazioni ostative al rilascio di atti o alla stipula contratti; il loro contenuto è, invece, significativamente differente. Se la comunicazione ha contenuto vincolato e funzione accertativa di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto indicate dall’art. 67 dello stesso Codice antimafia (applicazione di una misura di prevenzione personale, di una condanna con sentenza definiva o confermata in grado di appello, per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), l’informativa presenta un contenuto più complesso, poiché è volta a certificare – oltre a quanto già previsto in tema di comunicazione – anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, capaci di condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese interessate. Quel che caratterizza spiccatamente le informative – e rende problematico il contesto applicativo dell’istituto – è il fatto che esse si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si traduce nell’amplissima discrezionalità riconosciuta alle Prefetture in merito a questioni fisiologicamente opinabili, attinenti all’apprezzamento, attraverso elementi sintomatici e indiziari, di un rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento di una effettiva sussistenza di eventi o responsabilità. La valutazione amministrativa, in questi casi, è condotta attraverso un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio” (tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza (sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti: il Codice antimafia ne tipizza alcuni, ma non vincola l’amministrazione nella valutazione), sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. In altre parole, l’informativa antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Il quadro risulta ancor più problematico se si considera che i procedimenti amministrativi in materia – in quanto preordinati all’emanazione di “atti necessitati”, per i quali l’urgenza di agire giustifica modificazioni strutturali derivate ai fini della tutela dell’interesse pubblico – risultano slegati dal puntuale rispetto delle garanzie procedimentali, partecipative e motivazionali previste in via generale dall’ordinamento. A fronte di un fondamento essenzialmente probabilistico, gli effetti prodotti dall’istituto in capo agli operatori economici possono essere molto invasivi, al punto da indurre qualcuno a parlare a più riprese di “ergastolo imprenditoriale”. Al di là dell’espressione che si intenda utilizzare, è innegabile che la tendenza del sistema, nel difficile e complesso bilanciamento tra l’interesse pubblico e i diritti privati su cui il potere interdittivo incide, sia quella di massimizzare oltremodo la “ragion pubblica” a discapito delle imprese e delle loro prerogative costituzionalmente garantite. Tale impostazione, al netto delle nobili intenzioni del legislatore, finisce spesso per determinare effetti gravemente distorsivi, anche sul mercato e anche in capo a operatori economici (successivamente riconosciuti) virtuosi. L’informazione interdittiva antimafia, infatti, malgrado la sua formale natura provvisoria, produce sempre effetti irreparabili e definitivi sull’impresa che ne è destinataria, salvo che si riesca ad ottenere in sede giudiziaria un provvedimento sospensivo ovvero il “passaggio” allo strumento del controllo giudiziario. Ciò perché l’operatore interdetto non ha “soltanto” preclusa la possibilità di partecipare alle procedure di gara e di sottoscrivere contratti pubblici, ma si vede di fatto negato l’avvio di qualsivoglia attività economica. Il che lo espone facilmente a dissesto o fallimento, anche laddove all’esito di giudizi amministrativi e penali eventualmente avviati a propria difesa, il contestato rischio di infiltrazione mafiosa dovesse poi rivelarsi insussistente o, quantomeno, evitabile attraverso la sottoposizione a misure meno radicali e meno invasive.  Appare, dunque, evidente che – ferme restando le primarie e imprescindibili esigenze di tutela sottese alla lotta alla criminalità organizzata – l’istituto dell’informativa antimafia necessiti di essere circondato da maggiori cautele. Le distorsioni che emergono dalla prassi applicativa andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria. In questa direzione, sia pure a fronte di alcune recenti e apprezzabili aperture da parte della giurisprudenza amministrativa (in particolare in tema di istruttoria e contraddittorio procedimentale), la strada da percorrere appare ancora lunga e tortuosa. E, nelle more, le imprese muoiono.   * Avvocato amministrativista e Ricercatrice di Diritto amministrativo ** Avvocato amministrativista

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Interdittive e controllo di azienda l’arretramento schiacciante della linea di tutela

di Francesco Iacopino e Giuseppe Belcastro –  Nel 2019 i penalisti italiani e buona parte dell’accademia, preso atto del “lungo processo degenerativo dei fondamentali dello Stato di diritto e (del)la conseguente crisi del garantismo penale”, accentuata dalla inarrestabile deriva giustizialista, hanno inteso lanciare un “grido di allarme” licenziando il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. In quel pamphlet, i punti 34 e 35 sono stati specificamente dedicati alle misure di prevenzione. Misure “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti” – si legge al punto 34 – (poveri, oziosi, vagabondi) e diventate, col tempo, “un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”. Chi conosce i meccanismi di funzionamento di queste misure del sospetto, fondate su fattispecie di pericolosità dai contorni indefiniti, destinati a sbiadirsi ancor di più nelle fasi di accertamento giudiziale, sa bene che esse, seppur notoriamente estranee ai principii e al corredo assiologico sul quale è edificato il nostro patto sociale, sono storicamente basate su un presupposto indefettibile: la pericolosità concreta del proposto, non più necessariamente attuale, ma quantomeno manifestatasi in una determinata forbice temporale, sì da giustificare “in differita” l’ablazione patrimoniale dell’accumulo illecito di ricchezza.  In altri termini, nel bilanciamento degli interessi in campo, la tutela dei diritti individuali cede significativamente il passo alle esigenze di sicurezza sociale, stimandosi prevalente il controllo sociale ed economico del soggetto (ritenuto) pericoloso rispetto al livello di garanzie proprie di un sistema liberale di cui lo stesso è (rectius: dovrebbe essere) portatore. In questo quadro generale, si inserisce il “sotto-sistema” normativo che ruota intorno alle c.d. interdittive antimafia e al controllo giudiziario delle aziende. Il legislatore ha esteso le maglie della prevenzione, rivolgendo l’attenzione anche agli imprenditori sani con lo scopo di proteggerli – questo nelle intenzioni – dai tentativi di infiltrazione mafiosa e di sostenerli, in ipotesi di contaminazione occasionale, nel processo di disinquinamento. Nella prassi applicativa, però, questo complesso sistema, pur ispirato in astratto a una logica aziendalistica, continua a presentare forti criticità, traducendosi troppo spesso in uno strumento di isolamento delle aziende lecite e di desertificazione dell’economia legale. L’imprenditore sano può essere destinatario di una informazione interdittiva, con tutto ciò che essa comporta in termini di incapacitazione a contrarre con la Pubblica amministrazione, per il solo “rischio” (letteralmente “eventuali tentativi”) di infiltrazione mafiosa, seppur non ancora concretizzatosi. A ciò si aggiunga che la valutazione del rischio e il potere di interdire sono affidati al Prefetto, al quale il Codice antimafia accorda margini di discrezionalità così ampi da determinare una sostanziale inutilità delle impugnazioni davanti al Giudice amministrativo, complice anche un criterio probabilistico di valutazione – quello del “più probabile che non” – che nei fatti sterilizza ogni tentativo di difesa. All’imprenditore interdetto, per sospendere gli effetti dell’interdittiva, non resta che “consegnarsi” al giudice della prevenzione e presentare domanda di controllo giudiziario. Ma è qui che si realizza il paradosso. Interdittive antimafia e controllo giudiziario operano su piani diversi e si nutrono di presupposti differenti. Per applicare la prima è sufficiente il solo rischio di infiltrazione mafiosa, per ottenere il secondo è necessario, almeno seguendo la lettera della legge, una agevolazione occasionale dell’associazione mafiosa. Nella prassi si è formato un orientamento giurisprudenziale che, adagiandosi rigidamente su un criterio letterale, non concede all’imprenditore interdetto il controllo giudiziario se non è accertata previamente l’agevolazione occasionale, difettando altrimenti il formale presupposto normativo. Ecco l’assurdo: all’imprenditore contagiato che abbia occasionalmente agevolato la criminalità organizzata (si pensi all’assunzione di un lavoratore controindicato o a una fornitura equivoca) si concede il controllo nominato dal Tribunale e di rimanere sul mercato, seppur vigilato dal controllore giudiziario. All’imprenditore che, invece, sia solo a “rischio” (magari perché riuscito a resistere al) contagio, si nega il controllo giudiziario per mancanza del presupposto dell’agevolazione occasionale. Insomma: chi è più sano rimane interdetto dallo Stato ed è destinato a morire, chi è contagiato entra nel circuito terapeutico della prevenzione e può salvarsi. Una autentica eterogenesi dei fini, frutto del profondo “divario” – per dirla con Norberto Bobbio – “tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere”, tra “effettività” e “normatività”, law in the book e law in action. Un sistema così, non solo si rivela incapace di generare alleanza tra lo Stato e il mondo sano dell’imprenditoria, nella lotta al crimine, ma genera la desertificazione dell’economia legale finendo paradossalmente per aprire spazi di mercato proprio a quelle realtà criminali che pretende di combattere. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico

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Nelle repliche inviate alla Corte Europea l’Avvocatura dello Stato sostiene che la confisca dei beni a un innocente non costituisce pena……

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo Che cos’è la confisca di prevenzione? A giudicare dal nome e dalla sua collocazione normativa, verrebbe naturale rispondere che si tratta di una misura di prevenzione. Ma la prevenzione è, storicamente, destinata ad operare nel futuro del soggetto inciso, così da evitare che egli reiteri le proprie manifestazioni di pericolosità sociale. Ma se quel soggetto non è più pericoloso, se non si può pronosticare la sua prossima trasgressione alle Leggi, se è stato assolto nei procedimenti penali che lo hanno visto imputato o se, nel frattempo, è passato a miglior vita, la confisca di prevenzione non dovrebbe essere disposta. Eppure lo è… Legittimo, quindi, che la Corte Europea, nell’ormai ben noto caso Cavallotti/Italia, rivolga al nostro Governo la domanda con la quale abbiamo aperto questo scritto, ma declinata in modo più diretto e suggestivo: non sarà, la confisca di prevenzione, una pena, visto che da tale categoria mutua la propria funzione ed i propri effetti? Se fosse una pena, dovrebbe essere soggetta al principio di legalità (e, quindi, ai corollari di tassatività, determinatezza, irretroattività, riserva di legge, riserva di giurisdizione), che la prevenzione nazionale non rispetta. Garanzie che il Governo non intende riconoscere, perché verrebbe meno il principale strumento di coercizione di libertà individuali altrimenti incoercibili. Ecco allora che inizia il “gioco delle parole”, con il lessico finalizzato ad eludere le risposte che la CEDU richiede. Rifacendosi alla giurisprudenza nazionale, il Governo, attenzione, non si limita ad escludere che la confisca di prevenzione sia una pena, ma giunge perfino a concludere che essa non sia neanche una misura di prevenzione “in senso stretto”, definizione che calzerebbe solo al sequestro di cui all’art. 20 del Testo Unico Antimafia. Nonostante il Legislatore l’abbia espressamente inserita tra le misure di prevenzione patrimoniali e nonostante la confisca sia destinata a stabilizzare, confermandolo, gli effetti del sequestro (che è una misura cautelare di prevenzione destinata a perdere efficacia al decorrere del termine previsto dall’art. 24 del Codice), secondo i nostri rappresentanti la prima non è prevenzione ed il secondo si. Ragionamento che potrebbe anche essere convincente, se alla confisca si attribuisse natura di pena, rispetto ad un provvedimento provvisorio che potrebbe essere di prevenzione. Invece, il “trasformismo semantico” è solo all’inizio: la confisca, secondo il Governo (che cita precedenti di legittimità), è una sanzione amministrativa a contenuto ablatorio/ripristinatorio e, per questo motivo, assoggettate alla disciplina delle misure di sicurezza quanto a divieto di irretroattività e destinate a colpire, senza prognosi di pericolosità, i patrimoni di sospetta accumulazione illecita. Dimentica, l’Avvocatura Generale che la confisca di prevenzione è stata introdotta dalla Legge Rognoni-La Torre (L 646/82) come sanzione penale – tanto che, fino alla modifica del 1990 che abrogò l’art. 24 della Legge, poteva essere irrogata dal giudice penale, all’interno del procedimento penale con equiparazione tra la sentenza ed il decreto di confisca – per come emerge dai lavori preparatori nei quali si parla espressamente di “duplicazione” delle pene nei confronti degli appartenenti alla mafia. Dimentica, ancora, che, per superare i dubbi di costituzionalità, che emergevano già dalle relazioni parlamentari alla Legge del 1982 (nelle quali si dichiara di “accettare il rischio di incostituzionalità”, data la applicazione territorialmente limitata alla Sicilia della Legge), la Corte Costituzionale, con ripetute pronunce ha escluso che il fine della confisca di prevenzione fosse quello di colpire beni di origine illecita in quanto tali, ma piuttosto impedire che la persona pericolosa ne potesse disporre per commettere reati (ordinanza 177/88, sentenza 335/96, sentenza 21/2012). Dimentica, pure, che la Corte di Cassazione, con la sentenza Occhipinti (10044/12), a seguito della introduzione della confisca disgiunta, aveva riconosciuto natura oggettivamente sanzionatoria alla ablazione di prevenzione, poiché ormai anche formalmente sganciata dal requisito della attuale pericolosità sociale del proposto. Il Governo ricorda, invece, che, in altra occasione, la Suprema Corte (sentenza Ferrara, 24272/13) l’aveva definita una misura di sicurezza, obliterando, da parte sua, che tale equiparazione dovrebbe condurre a riconoscere le medesime basi applicative, cioè una sentenza di condanna o, in caso di proscioglimento, l’accertamento sostanziale del fatto secondo gli standard probatori e valutativi del giusto processo. Quanti nomi per definire un solo istituto: pena, misura di prevenzione, misura di sicurezza, sanzione amministrativa. Tra tutti, l’Avvocatura ha scelto di sostenere quello che, a suo avviso, consentirà alla prevenzione di sopravvivere al ricorso, sfuggendo ai “contra” che ogni altra definizione reca con sé. E propone un parallelo tra la confisca di prevenzione e la confisca urbanistica, citando il caso GIEM/Italia, deciso dalla Corte EDU. Non si avvede, tuttavia, che mentre la giurisprudenza nazionale considera la confisca urbanistica come una sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, quella europea, proprio nel caso citato (così come nelle due sentenze Sud Fondi/Italia), la ritiene pena! Come nel gioco dell’oca, il governo cerca di salvare la prevenzione ma ha tirato male i dadi, finendo nella casella sbagliata e tornando al punto di partenza. Come non pensare  al soldato di Samarcanda che pensa di scappare dal proprio destino e che, invece, gli corre incontro… (pubblicata su Il Dubbio – 6 gennaio 2024)

Nelle repliche inviate alla Corte Europea l’Avvocatura dello Stato sostiene che la confisca dei beni a un innocente non costituisce pena…… Leggi tutto »

Ma è possibile considerare le vittime della mafia un pericolo per la collettività, com’è successo ai Cavallotti?

  Di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con i quesiti posti al governo italiano, dimostra le perplessità nei confronti del  nostro sistema di prevenzione. I giudici europei pongono richieste precise che avrebbero meritato  risposte altrettanto precise. Ma, non potendo fornirle, il governo è costretto a rischiosissime spigolature che denotano spiccate tendenze solipsistiche ed una certa predisposizione al masochismo. C’è un quesito, in particolare, che mette l’Italia con le spalle al muro: come è possibile che, nel nostro Paese, si possano confiscare i beni di chi è stato assolto? Già. Come è possibile? Siamo ai limiti della domanda retorica, tanto la risposta dovrebbe essere scontata: “non è possibile, scusateci”. Ma non per i nostri rappresentanti, che provano a rispondere mediante il consueto armamentario retorico, dialettico e lessicale, facendo leva su due cardini in particolare. L’autonomia e la differenza funzionale tra il procedimento penale e quello di prevenzione. Le sentenze assolutorie, dunque, non rappresenterebbero un ostacolo alla adozione di misure prevenzionali (né, in ciò, la parte pubblica vede la negazione della presunzione di innocenza), dal momento che il procedimento di prevenzione non si fonda sulle prove contenute nel fascicolo penale, né è destinato a concludersi con un accertamento di colpevolezza, quanto di mera pericolosità. La prima affermazione è una bugia sesquipedale (e noi non possiamo più accettare le bugie dette sulla pelle delle persone); sulla seconda bisogna intendersi. Anche il Governo sa che, in Europa, la presunzione di innocenza ha una latitudine diversa, rispetto alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 della Costituzione. L’art. 6 della Convenzione EDU, infatti, tutela anche la “percezione pubblica” dell’individuo, cioè la sua sfera reputazionale, assicurando che, anche al di fuori o dopo la chiusura del procedimento penale, in assenza di un formale accertamento di colpevolezza, egli non possa essere ritenuto colpevole di un qualche crimine. Così che, una volta che l’individuo sia stato assolto, non è possibile una rivalutazione dei fatti oggetto del procedimento penale, pur se in sede diversa, perché ciò determinerebbe una violazione della sentenza di assoluzione incompatibile con le garanzie del giusto processo. Numerose sono, sul punto, le precedenti pronunce europee. A fronte di tale aporia, l’Italia obietta che l’autonomia tra procedimenti assicura che quello di prevenzione non si basi sugli stessi fatti o sulle stesse prove di quello penale. La verità, che ci ostiniamo a nascondere all’Europa, è invece esattamente il contrario. Quello di prevenzione, nell’assoluta maggioranza (prossima alla totalità) dei casi prende origine da un procedimento penale, con il quale condivide la base probatoria. Nel senso che il fascicolo delle indagini preliminari diventa, nella sostanza, il fascicolo del Tribunale di prevenzione. Sostenere il contrario non è serio. Sostenerlo nel caso Cavallotti, nel quale i decreti di confisca sono espressamente motivati con l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali, è semplicemente uno spergiuro. Sostenerlo dopo l’introduzione dell’art. 578-ter del codice di rito penale, che prevede espressamente l’ambulatorietà dell’azione pubblica dal processo penale a quello di prevenzione (e, quindi, sancisce per Legge che i due procedimenti sono interconnessi tra loro), è da doppelganger: il Governo si è inconsapevolmente sdoppiato, proiettando in Europa una differente – e più malvagia – versione di sé. All’Europa, spieghiamo magari anche “dove va” la prevenzione, non solo “da dove viene”. Sull’autonomia, intesa come l’intende la giurisprudenza convenzionale, non c’è davvero altro da dire. Sulla diversità di funzione, invece, si. Formalmente, infatti, le misure di prevenzione patrimoniale da pericolosità “qualificata” (nel caso dei Cavallotti, viene in rilievo una presunta contiguità mafiosa) hanno natura praeter delictum, cioè al di là della commissione (e, quindi, dell’accertamento) di un fatto costituente reato. Il Tribunale, infatti, deve rendere un giudizio di pericolosità e non di colpevolezza. Questo prevede il Testo Unico antimafia che, se la Corte Edu dovesse qualificare la confisca come sanzione penale, non sarebbe parte più conforme a Costituzione. Il problema, in questo caso, è tuttavia di merito. Il governo, tramite l’avvocatura, cerca di tracciare un impalpabile confine tra i concetti di partecipazione (rilevante nel processo penale) ed appartenenza (rilevante nel procedimento di prevenzione) mafiosa, così come tra quelli di “contiguità” e “soggiacenza”. Immaginiamo quale possa essere lo stupore dei Giudici europei a recepire questi distinguo, frutto di una semantica costituita da vocaboli pensati con il solo fine di spiazzare chi legge le risposte del governo e, soprattutto, usati per “non farsi intendere”. Ma, nelle risposte ai quesiti posti dalla Corte EDU. Il Governo omette di riferire la circostanza più importante: all’esito dei vari gradi del procedimento penale, i Cavallotti sono stati ritenuti VITTIME della mafia. Possono allora, le vittime della mafia essere considerate pericolose per la collettività e, in quanto tali, diventare vittime anche dello Stato? Copyright (c)2024 Il Dubbio, Edition Il Dubbio

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Le teorie fragili esposte alla Cedu per difendere l’ingiustizia suprema delle confische agli assolti

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo La tautologia è quel procedimento logico per il quale un fatto si assume essere vero “per definizione”, spesso in base a riflessioni circolari o autoreferenziali. È il modo di ragionare dei bambini, dei matti e dei tiranni, i quali hanno ragione perché, per svariati motivi, non accettano o non comprendono mai di avere torto. Con questo spirito sembra che il Governo italiano abbia deciso di rispondere ai quesiti che la Corte EDU gli ha rivolto nel caso che vede il nostro Stato contrapposto ai signori Cavallotti, imprenditori siciliani assolti in via definitiva dal delitto di partecipazione mafiosa e, anzi, ritenuti vittime di estorsione da parte di quei soggetti che il Pubblico Ministero ipotizzava, invece, essere loro sodali. E che, nonostante l’assoluzione, sono diventati ancora vittime: questa volta, dell’onnivorismo della prevenzione che non segue i sofistici distinguo del diritto penale sostanziale (ad esempio, quella spigolatura, da raffinato giurista, tra imprenditore “soggiacente” e “compiacente”), ma divora tutto quello che le si offre, come la più spietata divinità precolombiana. Così, ai Giudici europei che chiedevano come ciò sia possibile ed erano curiosi di conoscere se le nostre Leggi in materia di prevenzione siano accessibili nel precetto e prevedibili nella sanzione, se la confisca di prevenzione sia o meno considerabile sanzione penale, se l’irrogazione di una confisca senza un formale accertamento di responsabilità violi la presunzione di innocenza, se il procedimento – anche a causa dell’inversione dell’onere della prova circa la legittima acquisizione dei beni – offra sufficienti garanzie difensive, il governo, tramite l’avvocatura dello Stato, ha risposto con ben 121 pagine per tentare di spiegare che la nostra prevenzione (“nostra”, perché con queste caratteristiche, nel mondo, ce l’abbiamo solo noi) è conforme alla Costituzione repubblicana ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come assicura proprio la giurisprudenza della Corte di Cassazione. Come i bambini, i matti ed i tiranni, dopo lunghe cogitazioni e richieste di rinvio, rassicuriamo l’Europa che “abbiamo ragione, perché lo diciamo noi”. Cioè ( giusto per chiarire), mentre da Strasburgo ci indicano la Luna e ci dicono che la nostra Legge sembra dissonante rispetto ai cardini del diritto punitivo ( legalità, tipicità, precisione, irretroattività in malam partem, tassatività, determinatezza, extrema ratio, proporzionalità, rieducazione, divieto di analogia in malam partem), a Roma guardano il dito e rispondono che i nostri Giudici quella Legge la applicano proprio bene. Se diverse migliaia di cittadini italiani non ci rimettessero, ogni anno, il lavoro, la casa o la vita, ci sarebbe da fare spallucce e sorridere, proprio come si fa, appunto, con i bambini ed i matti. Ma, come avvisava Nietzsche, “a questa stregua uno può avere sempre torto e prendersi sempre la ragione e diventare alla fine con la migliore coscienza del mondo il più insopportabile tiranno”. E allora, qualcosa in proposito la dobbiamo dire, perché “l’ingiustizia suprema che è il sistema delle misure di prevenzione” (come lo ha definito, su queste pagine, Valerio Spigarelli) non debba continuare a proliferare sul nostro colpevole silenzio e sulle bugie che ancora andiamo raccontando in Europa. Non è un’analisi che può essere contenuta in un solo intervento, ma vogliamo almeno avviare il dibattito, perché il rischio da scongiurare non è tanto che la prevenzione “sopravviva” a Cavallotti, ma che diventi, definitivamente, il modello di punizione patrimoniale, sostituendo la sanzione penale e, quel più conta, il processo penale accusatorio, le sue garanzie, i suoi standard probatori. La prima osservazione è di metodo. Il primo quesito che la Corte Europea pone al governo è chiaro: i decreti di confisca emessi a carico dei ricorrenti presuppongono l’opinione che essi siano colpevoli, nonostante l’assenza di una formale affermazione di colpevolezza? La “formale affermazione di colpevolezza”, che è lemma mutuato dall’art. 6 comma 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo (non a caso, richiamato espressamente dal quesito), presuppone la celebrazione di un giudizio “giusto”, caratterizzato dalle garanzie previste dal successivo comma 3, e, quindi, di un processo penale che, secondo il nostro ordinamento, è l’unico strumento per il formale accertamento della colpevolezza. Il quesito, allora, è se sia possibile una confisca senza condanna. Il governo, evidentemente ritiene scontato che ciò sia possibile, e, con molta abilità, elude la domanda e la interpreta come rivolta a chiarire la compatibilità tra provvedimento di confisca e precedente sentenza di assoluzione, così eludendo il tema proposto e argomentando sulla autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, con affermazioni sulle quali converrà tornare in futuro, tanto sono internamente contraddittorie. Quel che è certo, per ora, è che le risposte fornite all’Europa, il cui tenore era ampiamente prevedibile, non solo non convincono, ma suonano come il disperato tentativo di giustificare un fenomeno che “tutti ci invidiano, ma, chissà perché, nessuno ci copia”. (Pubblicato su “Il Dubbio” il 13-12-2023)

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Di interdittive antimafia si muore: “io devo andare perché voi siate liberi”. Intervista a Francesco Greco, figlio di Rocco Greco

  di Francesco Iacopino Gela. Rocco Greco si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia. È l’alba del 27 febbraio 2019. Aveva denunciato i suoi estortori, facendoli condannare. Per ritorsione fu accusato di avere rapporti con la mafia. Assolto dal Tribunale con formula piena, la Prefettura lo “interdice”. È l’Italia delle misure di prevenzione. Quel marchio di “interdetto” non lo sopporta, lo considera un’ipoteca negativa, un’infamia da cancellare dall’asse ereditario dei suoi figli. E lo fa nel modo più drammatico: “io devo andare perché voi siate liberi”. Un anno e mezzo dopo, la famiglia vincerà la battaglia giudiziaria. La sua impresa era “pulita”. E lo era anche lui.   Francesco sono trascorsi quasi cinque anni da quel tragico giorno. Nell’immediatezza dei fatti ha detto: “facciamo sì che vicende così non accadano più”. Cosa è cambiato? Nulla. Il sistema continua amaramente ad essere inefficiente e cancerogeno. A distanza di anni, nessun imprenditore percepisce le interdittive come la mano tesa dello Stato, l’alleanza con il tessuto economico sano per combattere “insieme” la mafia. Al contrario, i provvedimenti prefettizi, “inflitti” sulla base del sospetto, mortificano chi fa impresa, specie al sud. E così, si è schiacciati, da un lato dall’arroganza della criminalità e, dall’altro, dalla burocrazia dello Stato. È in atto la desertificazione dell’economia legale del meridione.   Da come si esprime, sembra che in materia di “prevenzione” l’Italia sia divisa in due. È la realtà. Al sud la macchina delle interdittive alimenta la quotidiana “guerra dei poveri”. Nei territori economicamente depressi una burocrazia lenta e deresponsabilizzata finisce per “schiacciare” le aziende e disincentivare gli investimenti. Molti imprenditori, per sopravvivere, si trasferiscono al nord. Fare impresa oggi nel meridione è un miracolo. All’esito dei processi, suo padre è stato riconosciuto innocente, mentre i suoi estortori sono stati definitivamente condannati. Lo Stato ha riparato all’errore? Purtroppo no. Esiste un fondo di rotazione per le vittime di mafia e, sebbene il Tribunale abbia accolto la nostra richiesta, il Prefetto ci ha negato il risarcimento dovuto. Siamo al paradosso. Il Giudice lo dichiara vittima. Il Prefetto se ne infischia. Per superare l’empasse, dovremmo intentare un’altra causa. Siamo molto stanchi e delusi dalla solitudine e dal peso, insopportabile, che il sacrificio di mio padre, in fondo, possa non essere servito a nulla. Dove trova la forza per andare avanti? Nella compattezza della mia famiglia. L’eredità di mio padre. Nonostante il dolore lacerante, mia mamma Enza si è caricata da subito il peso di supplire alla mancanza paterna, moltiplicando i sacrifici e gli sforzi. I miei fratelli, Andrea e Paola, si sono rimboccati le maniche e sono diventati la ragione del mio impegno quotidiano. Osservo la loro dedizione, l’amore e la passione per il lavoro e rivedo i valori che ci ha trasmesso papà. Certo, non è facile. Mamma, ancora oggi, ogni 27 del mese si sveglia alle 4 del mattino. Precede di un’ora l’orario in cui mio padre, quel fatidico 27 febbraio, è uscito di casa per non farvi più rientro. Ma non molliamo. Questo coraggio vi fa onore. Cosa si aspetta dal futuro. Che il sistema cambi. Il 27 febbraio del 2019 abbiamo dovuto affrontare una nuova vita, che non ci siamo scelti. Abbiamo deciso di canalizzare tutta la nostra sofferenza in una battaglia di civiltà, perché il sacrificio di mio padre non risultasse vano. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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Misure di prevenzione: l’Italia ridotta a fare melina di fronte ai dubbi della Cedu

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   Caso Cavallotti, Strasburgo stupita dalla confusione tra prove e sospetti Potrebbe sembrare una boutade oppure uno scherzo e invece è vero: il Governo italiano ha chiesto una proroga dei termini per rispondere ai quesiti posti dalla Corte EDU nello scorso mese di agosto, nel caso Cavallotti/Italia.Avevamo già segnalato che le domande, che indubbiamente svelano all’interrogato le idee dell’interrogante, anticipano una decisione che potrebbe essere epocale, per il futuro delle misure di prevenzione. Prudentemente, dunque, l’Italia fa quello che le riesce meglio, sin dai tempi della discesa di Annibale attraverso le Alpi: temporeggia. Eppure, la sensazione è che, questa volta, la truffa delle etichette abbia i giorni contati. Già la sentenza della Grande Camera EDU, sul caso De Tommaso/Italia, aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione è nell’alveo della legalità formale. In quella pronuncia, il tema era solo parzialmente quello della natura delle misure di prevenzione. Eppure, i Giudici convenzionali avevano invocato i principi di accessibilità della norma e di prevedibilità della sanzione. Cioè, avevano denunciato il difetto di tassatività e determinatezza, quali corollari della legalità. Ma avevano anche richiamato il terzo pilastro della legalità, cioè l’irretroattività, con un obiter dictum tanto chiaro, quanto sfuggito a molti.Ora, invece, l’ordinanza della Corte EDU investe frontalmente le misure di prevenzione, con domande che riguardano proprio la loro natura di sanzione, la “qualità della Legge” che le prevede, i diritti riconosciuti alle parti private nel procedimento applicativo, gli effetti.Un ritorno evidente alla legalità formale, segno che a Strasburgo le misure di prevenzione italiane sono viste come “sanzioni criminali”, cioè materia penale. La giurisprudenza europea svela dunque ciò che quella italiana si ostina a nascondere con virtuosismi semantici: non si può ulteriormente giustificare un sistema sanzionatorio che, come quello di prevenzione, è sovrapponibile al penale negli effetti, ma presenta delle peculiarità – come la retroattività, la instabilità del giudicato, la inquisitorietà – che lo rendono un terribile strumento (né di prevenzione, né di punizione, ma) di controllo sociale, grazie alla continua implementazione delle categorie di destinatari. E non è previsto come istituto, a differenza delle pene e delle misure di sicurezza, dalla nostra Costituzione, che fissa i casi ed i limiti di compromissione delle libertà fondamentali. Un arnese da “doppio stato” che il potere costituito decide, in modo sostanzialmente discrezionale, a chi applicare ed a chi no (non essendovi – né potendovi essere, per la labilità dei suoi confini normativi – obbligatorietà dell’azione di prevenzione), a seconda della opportunità o della necessità del momento. Come si è visto nel recente parossismo legislativo: a ciascuno la sua prevenzione! Senza accertamento di responsabilità su di un fatto costituente reato; spesso senza responsabilità tout court; a volte persino in presenza di sentenze assolutorie, come per i Cavallotti. Un ritorno al “re taumaturgo”, che decideva, con l’imposizione delle mani ed a proprio insondabile arbitrio, chi far vivere, chi far morire. Senza alcuna forma di controllo e coercizione. “Il re ti tocca, Dio ti guarisce”. O, nel caso della prevenzione, “ti uccide”. E troppi sono morti davvero, perché “toccati dal re”. Come Riccardo Greco, imprenditore di Gela, suicida per dare un futuro ai figli, ai quali rivolse un insolito biglietto di addio: “io devo andare, perché voi siate liberi”. Frasi rispetto alle quali i tentennamenti del Governo davanti alla CEDU suonano come una ennesima beffa, se non come un insulto alla memoria. Come il leggendario Hiroo Onoda, soldato giapponese che si arrese agli americani solo nel 1974 e solo perché aveva finito le munizioni, la politica prende tempo per difendere ciò che non è più difendibile: quel sistema che ha reso la prevenzione il terreno sul quale, più che nella giurisdizione penale, si misura oggi la pretesa punitiva pubblica in una congerie di ipotesi che il legislatore del 1956, ancora permeato dai valori della Costituzione, mai avrebbe potuto immaginare. E intanto, di prevenzione si muore ancora. (Articolo pubblicato su Il Dubbio)

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