Prevenzione

TAR CALABRIA: QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

di Francesco Iacopino* – Controllo giudiziario volontario. Esito positivo. Procedimento di aggiornamento prefettizio. Riespansione degli effetti dell’interdittiva antimafia. Corto circuito normativo. Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Sezione distaccata reggina, con ordinanza n. 646/2024 Reg.Prov.Coll. del 28 ottobre scorso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, «nella parte in cui non prevede che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all’ammissione al controllo giudiziario perduri anche con riferimento al tempo, successivo alla sua cessazione, occorrente per la definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia». Nella vicenda oggetto di scrutinio, la società ricorrente si era vista risolvere il contratto di appalto stipulato con ANAS s.p.a., a causa della automatica reviviscenza degli effetti pregiudizievoli dell’interdittiva dopo la cessazione, con esito positivo, del controllo giudiziario. Una riespansione causata, com’è noto, della mancata previsione nell’ordinamento di una disciplina che regolamenti in modo puntuale tale peculiare profilo inerente alla fase terminale dei rapporti tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario c.d. volontario, sino alla definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia. Nel ricorso introduttivo del giudizio la difesa aveva prospettato una ricostruzione interpretativa costituzionalmente orientata, sollecitando una lettura elastica della norma (i.e.: l’art. 34-bis, c. 7, del C.A.M.) che consentisse -dopo la cessazione, con esito positivo, del controllo giudiziario- di affermare la protrazione della sospensione degli effetti dell’interdittiva sino alla definizione da parte della Prefettura del richiamato procedimento di aggiornamento. Di diverso avviso i Giudici territoriali, i quali «ha(nno) ritenuto che la lettura prospettata da parte ricorrente in ordine alle disposizioni del codice antimafia rilevanti nella presente vicenda sia sprovvista di un valido addentellato positivo, mancando, appunto, nel codice antimafia […] una previsione che regolamenti in modo espresso gli effetti dell’interdittiva nel tempo intercorrente tra la cessazione del controllo giudiziario e l’aggiornamento della stessa ad opera della competente Prefettura. Il dato testuale espresso dal co. 7 dell’art. 34-bis d.lgs. n. 159/2011, là dove stabilisce che “[i]l provvedimento che dispone … il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende … gli effetti di cui all’articolo 94”, appare, in definitiva, ad avviso del Collegio, insuperabile, ricollegando l’effetto tipico che consegue al decreto di ammissione al controllo giudiziario (cioè, la sospensione dell’incapacità a contrattare) alla sua vigenza. Ne risulta, allora, preclusa in nuce qualsiasi diversa interpretazione che, pur nell’ottica di correggere le vistose distorsioni applicative denunciate dalla società ricorrente, tenda a dilatare temporalmente l’effetto in questione oltre il momento di cessazione della misura prescrittiva». In tale prospettiva, i Giudici calabresi richiamano anche due decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nn. 7 e 8 del 2023) nelle quali «il piano dei rapporti per così dire ‘terminali’ tra quest’ultimo e la pregressa interdittiva, (sono) ricostruiti secondo un ormai consolidato indirizzo interpretativo nel senso di escludere che l’esito favorevole del controllo giudiziario possa determinare, ex se, il superamento dell’interdittiva. Chiamata, infatti, a delineare il ‘ciclo di possibili relazioni’ intercorrenti tra controllo giudiziario conclusosi favorevolmente e valutazioni successivamente effettuate dal Prefetto in sede di aggiornamento dell’informativa (che abbia, evidentemente, conservato la sua validità a seguito della conferma in sede giurisdizionale nelle more della pendenza del controllo), la giurisprudenza amministrativa, muovendo proprio dalla considerazione delle diverse funzioni e dei differenti campi d’azione dei due istituti, ha condivisibilmente ritenuto che “[l]e favorevoli conclusioni dell’amministratore giudiziario, e la conseguente chiusura del ‘controllo giudiziario’ non sono … assimilabili ad un giudicato di accertamento”, non modificando, in sostanza, “il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa, che è pertanto rimesso al Prefetto, il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario”». In ultima analisi, «la pacifica ‘sopravvivenza’ dell’informazione interdittiva antimafia alla conclusione favorevole del controllo giudiziario (che da essa abbia preso, a domanda di parte, innesco), se pur obbligatoriamente necessitante di una rivalutazione da parte del Prefetto ai sensi dell’art. 91, co. 5, cod. antimafia […], in una alla mancanza di una previsione normativa espressa che ne regolamenti gli effetti nella pendenza di questo specifico frangente temporale, rendono, allora, impraticabile la lettura costituzionalmente orientata delle norme qui rilevanti suggerita da parte ricorrente». De iure condito, dunque, i giudici territoriali hanno ritenuto che la scadenza del controllo, ancorché favorevolmente conclusosi, non possa che determinare in via automatica la reviviscenza degli effetti dell’interdittiva. Due altre considerazioni vengono in rilievo, nell’ordinanza di rimessione, prima dell’esame dei profili di contrasto della norma censurata con i principii costituzionali e sovranazionali. La prima, riguarda la tempistica di evasione delle istanze di aggiornamento, quale fattore idoneo ad accentuare le criticità, tenuto conto che la casistica applicativa ha rivelato l’esistenza di prassi non condivisibili delle Prefetture. La seconda, riguardante le gravosissime conseguenze applicative proprio nel settore degli appalti pubblici, determinando, la reviviscenza dell’interdittiva, «una soluzione di continuità nel possesso dei requisiti di gara, i cui effetti non potrebbero, peraltro, essere retroattivamente neutralizzati né da un’eventuale informazione liberatoria emessa a valle del procedimento di riesame né, a fortiori, nel caso di sospensione cautelare della nuova interdittiva, non potendo in tale ultimo caso l’efficacia ex tunc della misura cautelare estendersi sino a coprire in via retroattiva anche il periodo di ripristino dell’efficacia della pregressa inibitoria». Alla luce delle superiori considerazioni il TAR Calabria ha ritenuto che «il co. 7 dell’art. 34-bis d.lgs. n. 159/2011, nell’impossibilità di una diversa lettura che ne consenta una dilatazione della relativa portata temporale nei sensi suggeriti da parte ricorrente, sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale». Stante la pluralità dei motivi di contrasto, di seguito si indicheranno sinteticamente i singoli profili di doglianza. Quanto al contrasto con l’art. 3 della Costituzione, ad avviso del TAR l’immediata ed automatica riespansione degli effetti pregiudizievoli conseguenti all’interdittiva,

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PER UN SUPERAMENTO DELLA TRUFFA DELLE ETICHETTE

  di Fabrizio Costarella* –  Per affrontare oggi, in modo sistematico, la prevenzione abbiamo bisogno di cambiare prospettiva di studio. Il più grande problema che affrontiamo, come operatori del Diritto, nell’inquadramento sistematico della materia è che continuiamo a “leggerla” secondo le categorie penalistiche del “diritto dei galantuomini”, per usare l’espressione con la quale il Prof. Vincenzo Maiello definisce il Diritto Penale. E questo determina, in gran parte, quella che definiamo “truffa delle etichette” e che, invece, è spesso solo la pretesa, destinata a rimanere delusa, di vedere la prevenzione presidiata dalle medesime garanzie che innervano quella materia. L’equivoco è evidente, se consideriamo che, nel nostro sforzo di “nobilitazione” della prevenzione, vediamo le garanzie del giusto processo e del Diritto Penale liberale applicate “per sottrazione” e, in qualche modo, sminuite. Dal quadro complessivo del Diritto Penale, nel quale perseveriamo ad immaginare che la prevenzione debba essere inquadrata, togliamo qualche tessera, per far sì che quel che riteniamo giusto e quel che invece è possano in qualche modo sovrapporsi. Così, ad esempio, accettiamo che il Diritto Penale conosca la riserva di Legge, mentre la prevenzione consenta, in qualche misura, l’integrazione giurisprudenziale del dato normativo. Che per l’irrogazione delle pene valga la riserva di giurisdizione, mentre alcune misure di prevenzione (personali, patrimoniali non ablative ed amministrative) possano essere irrogate dal potere esecutivo. Che il Diritto Penale conosca la retroattività in bonam partem, mentre la prevenzione patrimoniale deve assicurare – così si legge nei lavori preparatori del Testo Unico – la definitività della confisca, a salvaguardia della stabilità dei rapporti giuridici, di matrice propriamente civilistica. Che il processo penale conosca l’intangibilità del giudicato assolutorio e la rimovibilità di quello di condanna, mentre lo statuto della prevenzione non preveda limiti quantitativi alla riproposizione dell’istanza di parte pubblica e ponga, invece, non pochi ostacoli alla revocazione ad istanza del proposto. Che il Diritto Penale si fondi sui pilastri della tassatività, tipicità e determinatezza, mentre la normativa di prevenzione sia ancora vaga, al punto da consentire una deformalizzazione dei casi e dei modi di intervento. Che la sanzione penale trovi limite nel principio di proporzionalità, mentre la prevenzione, specie quella patrimoniale ablativa, non lo riconosca. La prevenzione, dunque, si sottrae, in tutto o in parte, a tutti i costituti del Diritto Penale. Immaginare la prevenzione nel milieu del Diritto Penale, dunque, significa interpretarla in chiave di eccezione. E questo conduce a due evidenti problemi che potrebbero essere affrontati solo con ragionamento trasversale. Da un primo punto di vista, l’eccezione si giustificherebbe solo se fosse limitata nel tempo; se fosse destinata a fronteggiare una situazione straordinaria; se la sua disciplina fosse di stretta interpretazione. A proposito dello stato di eccezione, Carl Schmidt aveva coniato i termini di “dittatura commissaria” e “dittatura sovrana”. La prima, di espressione comunque democratica, destinata ad una gestione provvisoria della cosa pubblica, con la sospensione di alcune delle garanzie costituzionali, in ragione di un interesse superiore temporaneamente aggredito (si pensi alla Legislazione speciale per il tempo di guerra). La “sovrana”, invece, sostitutiva del potere democratico e temporalmente indefinita quale rovesciamento dell’ordine costituito. Nel parallelismo con la prevenzione, come espressione di uno stato di eccezione, è facile osservare che questa è nata per contrastare il pericolo sociale della inurbazione di masse popolari durante la rivoluzione industriale; è passata al contrasto delle mafie, altro fenomeno eccezionale; negli ultimi quindici anni è stata utilizzata per il contrasto generalizzato alla criminalità da profitto, ai reati contro la PA, le fasce deboli, l’ordine pubblico ed oggi anche contro la “colpa organizzativa” di impresa. Possiamo ancora dire che tale stato di eccezione sia giustificato? O, tornando al paradosso, siamo scivolati nella dittatura sovrana senza rendercene conto? E questo porta ad affrontare il secondo problema, che chiude un ragionamento che vorrebbe essere “circolare”. La dittatura cerca legittimazione e consenso, per essere accettata. La prevenzione li ha cercati nel “diritto dei galantuomini”, mediante alcune progressive concessioni agli stilemi del giusto processo in tema di prova e terzietà del Giudice, ad esempio. Rendere comunicanti il sistema penale e quello di prevenzione, però, non nobiliterà il secondo ma corromperà il primo. Il precedente è sotto gli occhi di tutti, con il “doppio binario” per i reati (inizialmente) “di mafia”. Bastano due esempi: il principio di immediatezza era, in origine, un valore assoluto come corollario del principio di oralità del processo; poi è stata esclusa per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis cpp; poi per quelli di cui all’art. 407 cpp; poi quei cataloghi sono stati implementanti a dismisura; infine sono intervenute le Sezioni Unite Bajrami. Oggi, l’immediatezza è diventata l’eccezione. Il secondo esempio: in origine, non esistevano presunzioni di adeguatezza nella scelta delle misure cautelari; poi è stata inserita quella della misura cautelare inframuraria, per il solo delitto di cui all’art. 416-bis; oggi le fattispecie di reato per le quali vige la presunzione sono discretamente numerose; forse domani sarà la regola. È dunque l’eccezionale a prendere il sopravvento sull’ordinario, mai il contrario! Si capisce, allora come portare la prevenzione sui binari della materia penale ed invocare – con ampie eccezioni – le tutele di matrice penalistica, sia un rischio enorme. Quale potrebbe essere, allora, l’approccio corretto, quel ragionamento trasversale che potrebbe aiutare a superare la truffa delle etichette? La risposta potrebbe essere in una lettura sinottica della sentenza della Grande Camera CEDU De Tommaso/Italia e della sentenza n. 24/19 della Corte Costituzionale. Se la prevenzione è formalmente fuori dalla materia penale, essa tuttavia costituisce un sistema sanzionatorio che comporta significative restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti. Restrizioni che ormai si fondano sempre sulla constatazione di un reato, sia nella pericolosità qualificata (per la quale, il Testo Unico fa sempre riferimento alla categoria degli “indiziati” di un delitto), sia per la pericolosità semplice, a seguito della tassativizzazione conclusa con la sentenza costituzionale n. 24/19 e che pretende la constatazione della commissione di più delitti lucrogenetici. Ciò comporta importanti ricadute in ottica convenzionale e, di conseguenza, anche domestica. Da un primo punto di vista, infatti, la constatazione incidentale di condotte delittuose richiama l’applicazione dell’intero

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LA NUOVA FRONTIERA DELLA PREVENZIONE: LA PERICOLOSITÀ D’IMPRESA “COLPOSA”

  di Luigi Petrillo* e Federico Papa** –    I – Il caso “Banca Progetto” ed i suoi precedenti Le cronache giudiziarie hanno dato, di recente, grande risalto al provvedimento, assunto dalla sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano, con il quale è stata disposta, ai sensi dell’art.34 del Codice dell’Antimafia, l’amministrazione giudiziaria nei confronti di un importante istituto di credito di rilievo nazionale. La misura è stata adottata, su richiesta della locale Procura della Repubblica, alla luce della rappresentazione da parte del requirente di un modus operandi della banca “opaco e discutibile” che avrebbe sostanzialmente agevolato la concessione di finanziamenti – garantiti dallo Stato – ad imprese e persone fisiche collegate a soggetti indagati per reati tributari, fallimentari, aggravati ex art. 416 bis 1 c.p.. Nel provvedimento in rassegna, dopo essersi escluso il coinvolgimento degli esponenti dell’istituto di credito nelle attività delittuose dei percipienti i finanziamenti, l’adozione della misura viene concepita allo scopo di risanare sia il modello organizzativo che – par di comprendere – di business dell’azienda creando i presupposti per un’attività di impresa virtuosa, che impedisca l’infiltrazione illegale, grazie all’intervento sinergico del Tribunale e dell’amministratore giudiziario in funzione del “ridisegno” di adeguati strumenti di governance. Il decreto si iscrive a pieno titolo e, anzi, rivendica come fonte di ispirazione tecnico-giuridica, la giurisprudenza formatasi presso la medesima sezione meneghina a partire dal giugno del 2016, che ha prefigurato la coerenza dell’istituto dell’amministrazione giudiziaria, dei suoi presupposti applicativi e delle sue finalità, rispetto a fenomeni di infiltrazione criminale in importanti comparti dell’economia, quali, tempo per tempo, la fieristica, la sicurezza privata, la manifattura: in ciascuna di tali occasioni, il Giudice della prevenzione è intervenuto disponendo l’amministrazione giudiziaria delle imprese, che risultavano avere, nella prospettazione dell’autorità proponente, di fatto agevolato soggetti indagati di delitti rientranti nel catalogo di cui al co.1 dell’art. 34, ora affidando appalti in modo chiaramente irregolare, ora non impedendo che le commesse venissero eseguite sfruttando lavoro minorile o caporalato, ora impropriamente finanziando soggetti terzi indagati in procedimenti di criminalità organizzata. In tutti tali casi, alle persone giuridiche raggiunte dal decreto applicativo della misura di cui all’art. 34 Cam è stata rimproverata una condotta negligente in conseguenza della quale, nella inconsapevolezza della agevolazione dell’attività criminosa dei terzi impropriamente appaltati e/o finanziati, sono state violate le norme e le buone pratiche vigenti nei rispettivi settori economici di operatività, alimentando, di fatto, il rischio di infiltrazione delinquenziale nei medesimi comparti.   II. La “colpa di prevenzione” e la soglia probatoria della pericolosità Snodo essenziale dell’argomentare del Tribunale appare essere la convinzione secondo la quale l’istituto dell’amministrazione giudiziaria possa trovare applicazione – anche – nei confronti dei beni organizzati in azienda non solo quando l’attività economica risulti direttamente o indirettamente sottoposta alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art. 416 bis del codice penale e quando il libero esercizio dell’attività agevoli i proposti per l’applicazione di misura di prevenzione ovvero gli indagati dei delitti di cui all’art.4 del, co.1, lett. a), b) e i-bis) del D.Lgs.159/2011, ovvero dei delitti di cui agli artt. 603 bis, 629, 644, 648 bis e ter c.p., ma anche quando l’impresa, attraverso chi ne esercita la funzione di direzione e controllo, ponga in essere una condotta oggettivamente agevolatrice, ancorché non soggettivamente sorretta dall’intenzionalità. Il Tribunale chiarisce, infatti, che ove il rimprovero mosso all’agevolatore afferisse condotte eccedenti il perimetro della colpa, allora troverebbero applicazione sul piano penale gli istituti concorsuali e, su quello della prevenzione, quelli del sequestro e della successiva confisca. Non è certo la prima volta che sul variegatissimo proscenio della prevenzione vengano valorizzate fattispecie di origine colposa: basti pensare alla disciplina di cui agli artt. 52 e ss. del codice dell’antimafia in tema di riconoscimento della buona fede del terzo creditore munito di garanzia reale sui beni del proposto ed alla copiosa giurisprudenza di legittimità su di essa formatasi, che ha da tempo svincolato l’ablazione del bene-credito dall’accertamento della contiguità dolosa tra creditore e prenditore, assai discutibilmente subordinandola anche solo alla dimostrazione della violazione colposa delle norme disciplinanti l’esercizio del credito. Ma non è chi non veda che, mentre nella disciplina appena richiamata il parametro colposo viene in rilievo in relazione ad un subprocedimento di matrice fallimentare funzionale al discrimine delle aspettative recuperatorie del terzo (tendenzialmente nella fase successiva all’esaurimento della fase di cognizione), con il provvedimento in rassegna si incide, invece, in modo assai invasivo sulla libertà di impresa del terzo, quando le indagini relative agli “agevolati” non si sono ancora definite, quando non pare essere nemmeno iniziato il procedimento di prevenzione nei confronti degli stessi e, dunque, quando lo stigma criminale di costoro non sia stato ancora giudizialmente accertato. Il provvedimento in rassegna pare rivendicare legittimità, richiamando la risalente pronunzia della Corte Costituzionale n. 487/1995 che aveva “salvato” l’istituto diretto predecessore di quello prefigurato dal vigente art. 34 Cam, ovvero la “sospensione temporanea” di cui agli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), inseriti dall’art. 24 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 1992, n. 356. Tuttavia, non può non osservarsi che in tale occasione il Giudice delle leggi, investito della questione di legittimità costituzionale della norma, che il remittente denunziava per violazione dell’art. 27, laddove assoggettava al provvedimento ablatorio persone “sostanzialmente incolpevoli”, ovvero soggetti per i quali “non ricorrevano i presupposti per l’applicazione né di una misura di prevenzione personale né di una misura di prevenzione patrimoniale, osservava che la misura in argomento, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi, era stata pensata per colpire i “terzi” che consentivano un circuito ed una commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuivano a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio; sempre che se ne accertasse la consapevolezza delle conseguenze che da tali comportamenti potessero derivare. Insomma,

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PUNIRE SENZA ACCERTARE

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* –  Le misure di prevenzione sono “vecchi arnesi” di controllo sociale, sopravvissuti alla Costituzione ed agli interventi del Giudice delle Leggi, grazie alla forza evocativa della “emergenza”, che si voleva di volta in volta contrastare, o della “sicurezza”, che si voleva assicurare. Retorica ed ipocrisia, che hanno consentito alla prevenzione, riforma dopo riforma, di sottrarsi alla legalità, nelle sue varie declinazioni di tipicità e determinatezza, tassatività ed irretroattività, divieto di analogia in malam parte, riserva di Legge. Misure di “bando”, di esclusione, pensate per garantire l’ordine dei centri urbani, all’alba della rivoluzione industriale e delle sue masse di lumpenproletariat disagiato, sono così diventate lo strumento per affrontare molte delle emergenze (reali o percepite) che hanno segnato la storia del nostro Paese. Grazie alla loro elasticità e deformalizzazione, sono state dapprima “ripescate” per combattere le mafie, salvo poi essere estese a tutti i fenomeni di vera o presunta pericolosità sociale. Mutando obiettivi, hanno progressivamente mutato natura. L’enorme distanza che separa la prevenzione dalla punizione è stata colmata nel volgere di pochi decenni. Le leggi che, nel 2008/2009, hanno introdotto la possibilità di applicazione disgiunta delle misure di prevenzione patrimoniali, rispetto a quelle personali, e la possibilità della confisca per equivalente sono l’emblema di tale trasformazione, che ha inaugurato un sistema repressivo/predittivo, privo delle garanzie tipiche del giusto processo. Oggi, le misure di prevenzione – non più il processo – sono il terreno sul quale si concentra la pretesa punitiva, specie patrimoniale, dello Stato. La nuova frontiera della sanzione penale, in cui il proposto è presunto colpevole. Il procedimento di prevenzione, infatti, consente di “punire senza accertare”: un ossimoro che fa rabbrividire chi è cresciuto al lume delle garanzie illuministiche del processo. Uno strumento che, per dirla con Tullio Padovani, rappresenta “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile, assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”. Ma, secondo la giurisprudenza italiana, la prevenzione non è riconducibile alla “materia penale” ed alla nozione di “pena” e, pertanto, deve rispettare solo i principi del giusto processo che si applicano alle controversie in materia di diritti e doveri civili. Nel 2017, decidendo sul caso De Tommaso/Italia, la Corte EDU aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione sarebbe stato nell’alveo della legalità formale. I giudici di Strasburgo avevano ritenuto che, pur non avendo natura penale, le misure di prevenzione hanno matrice sanzionatoria e devono soggiacere a criteri di accessibilità e prevedibilità della reazione ordinamentale. In molti avevano salutato quella decisione come un approdo iniziale, ma decisivo, nel percorso di allineamento delle misure di prevenzione agli statuti costituzionali e convenzionali delle pene, secondo una assimilazione concettuale che si presentava ineludibile. Ma le aspettative sono andate deluse. I principi enunciati dalla CEDU sono stati “sterilizzati” dalla sentenza 24/2019 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto alla giurisprudenza un ruolo integrativo e “sanante” del precetto di prevenzione non accessibile, avallando una sorta di “diritto dei giudici” al di fuori della legalità formale e della riserva di legge. La soluzione della Consulta è stata, evidentemente, dettata dalla Ragion di Stato: dichiarare tout court l’incostituzionalità delle norme che definiscono la pericolosità generica e, per conseguenza diretta, quella qualificata, avrebbe significato demolire un certo modo di esercitare il Potere, che si regge su tutte quelle asistematicità che fanno delle misure di prevenzione uno strumento al tempo stesso “doppio” ed “unico”. Un sistema che danna coloro che vi incappano in un girone fatto di imprescrittibilità, di presunzioni, di probatio diabolica, di negazione del contraddittorio, di retroattività sfavorevole. Dove ogni parola nasconde un inganno dalle mille interpretazioni. Un luogo di sofismi e di distinguo, a metà strada tra l’Inquisizione ed i processi celebrati da Roland Freisler. Forse per questo nessuno ha il coraggio di metterci mano. In Parlamento giacciono da mesi, all’esame delle Commissioni, progetti di legge che vorrebbero modificare la struttura del procedimento, in particolare impedendo la confisca nei confronti degli assolti ed innalzando lo standard probatorio per il proponente. Proposte coraggiose che non riescono a superare l’ostracismo di chi ritiene che tutte le garanzie possano essere sacrificate, quando si evocano concetti come sicurezza e il pericolo. E ci si accontenta, allora, di ampliare – di poco – il termine per le impugnazioni. Era allora inevitabile che la Corte EDU ponesse nuovamente la lente d’ingrandimento sulle misure di prevenzione italiane. Dapprima con il ricorso della famiglia Cavallotti e poi con una pioggia di ricorsi, oggi pendenti, che attengono non solo alla pericolosità qualificata ma anche a quella generica, attualmente raggruppati davanti alla prima sezione della Corte EDU e definiti casi pilota. Il tema della pericolosità generica impedirà al Governo Italiano di invocare, almeno in questo caso, la necessità di mantenimento di misure che, pur contrarie all’assetto costituzionale e non compatibili con i principi del diritto penale, sono necessarie per contrastare la mafia. Senza poter agitare lo spauracchio del crimine organizzato, l’Italia dovrà difendersi in diritto e senza far ricorso agli stereotipati registri comunicativi dell’emergenza. Ed allora dovrà rispondere ai quesiti che la Corte Edu ha posto alle parti. Se la confisca, per i suoi effetti e le sue caratteristiche, sia da considerare una sanzione penale; se la prevenzione abbia una sufficiente base legale e sia contenuta in leggi prevedibili; se sia compatibile, per le modalità ricostruttive dei presupposti applicativi, alla presunzione di non colpevolezza; se l’inversione dell’onere della prova non sia eccessiva per il cittadino e non si traduca in una violazione di quel  medesimo principio di non colpevolezza.Sono quesiti che lasciano intendere quali aspetti del sistema di prevenzione italiano la Corte EDU voglia analizzare. In particolare, i Giudici di Strasburgo sono interessati a comprendere se gli indizi di pericolosità sociale, anche non qualificata, si risolvano nell’addebito di una “accusa penale” e se, quindi, il relativo procedimento debba essere corredato da quelle garanzie che sovrintendono all’esercizio dell’azione penale. I precipitati di tale preliminare analisi sono molteplici e tutti idonei a scardinare, finalmente, la “frode delle etichette”. Le garanzie penali, infatti, invocano innanzitutto il divieto di

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ANCHE L’INTERDITTIVA ANTIMAFIA AL VAGLIO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* –  Anche le interdittive antimafia sono finite al vaglio della CEDU. Nei prossimi mesi, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sarà chiamata a pronunciarsi sulla rispondenza ai principi convenzionali non solo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ablative, disposte dalla Autorità Giudiziaria, ma anche di quelle amministrative, quale è l’informativa interdettiva antimafia. Un’altra peculiarità della prevenzione, infatti, è di non essere presidiata pienamente dalla riserva di giurisdizione, con conseguenti asimmetrie nella valutazione dei presupposti applicativi delle misure. L’interdittiva, in particolare, viene emessa dal Prefetto quando questi abbia sospetti di “tentativi” di infiltrazioni mafiose nell’impresa, al fine di inibire all’imprenditore ogni contratto ed ogni contatto con la Pubblica amministrazione. Gli effetti sono però più ampi, determinando usualmente la revoca degli affidamenti bancari e, di conseguenza, la cessazione dell’impresa. Limitato è poi il sindacato del TAR, giudice competente a decidere sui ricorsi avverso l’interdittiva, il quale, pur disponendo in questa materia di un sindacato di merito, spesso si arresta a quello di legittimità proprio della valutazione dei vizi dell’atto amministrativo, senza affrontare la congruità logico-ricostruttiva della motivazione dello stesso. Ora, finalmente, i Giudici convenzionali pongono al Governo Italiano dei quesiti ai quali sarà difficile dare una risposta convincente sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione e sulla rispondenza del procedimento  ai canoni del giusto processo. Vogliono sapere, innanzitutto, se i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di sottoporre le loro contestazioni a un “tribunale” con “piena giurisdizione” ai sensi della giurisprudenza sviluppata dalla Corte in relazione all’articolo 6§1 della Convenzione e se le norme applicate nel caso di specie, contenute nel decreto legislativo n. 159 del 2011, costituiscano una base giuridica sufficientemente accessibile, chiara e prevedibile, secondo le autorevoli indicazioni contenute nella nota sentenza De Tommaso. Ma, soprattutto, chiedono all’Italia se l’ingerenza nella attività dell’impresa sia proporzionata, alla luce della interpretazione dei giudici nazionali dell’articolo 86 del D.L.vo 159/ 2011, stante la tendenzialmente illimitata durata nel tempo di questa  misura di prevenzione, non a torto definita un “ergastolo imprenditoriale”. La Corte EDU ha colto evidenti profili di contrasto della normativa nazionale con i principi convenzionali, stante la indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere il provvedimento interdittivo, che, incidendo sulla libertà di iniziativa economica (garantita dall’art. 41 della Costituzione), dovrebbe invece essere ancorato a basi legali chiare, precise, predeterminate e prevedibili. La norma nazionale, invece, fa riferimento a “tentativi di infiltrazioni mafiosa”. Espressione del tutto generica ed oscura, idonea a consentire (come difatti avviene) una tale anticipazione della soglia di intervento statale, da consentire l’aggressione non solo degli imprenditori “compiacenti”, ma anche di quello “soggiacenti”, vittime, cioè della pervasività criminale mafiosa. Ma, i giudici di Strasburgo si domandano anche se l’interdetto goda di un diritto di difesa effettivo, che possa essere esplicato avanti ad un giudice dotato di pieni poteri di cognizione. Il riferimento a principi quali “precisione” e “prevedibilità (corollari della legalità formale), “effettività della difesa” e, soprattutto, “proporzionalità” è, nella sostanza, un refrain rispetto alle ordinanze interlocutorie rese nei procedimenti Cavallotti e Macagnino+27, in tema, rispettivamente, di pericolosità sociale qualificata e generica.Si tratta di principi – la proporzionalità, in particolare – che evocano il concetto di sanzione penale. Il sospetto che la CEDU sembra nutrire sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione pare essere proprio questo: se esse abbiano davvero natura amministrativa, ovvero possano e debbano essere considerate “pena”. Le domande poste al Governo Italiano sembrano convergere verso una decisione che, a differenza di quanto accaduto in passato, potrebbe riconoscere carattere punitivo alle misure di prevenzione, con conseguente loro assoggettamento a tutte le regole della “materia penale”, sostanziale e processuale. Fino ad oggi, il riconoscimento di un carattere non penale e la affermazione di finalità preventive hanno fatto passare in secondo piano l’enorme grado di afflittività che contraddistingue le misure di prevenzione.I dubbi espressi nelle ordinanze interlocutorie, tuttavia, fanno sperare che la Corte EDU non si accontenti più, come in passato, della “lettura” dello strumento di prevenzione elaborato dalla giurisprudenza nazionale, ma intenda invece studiarne e valorizzarne la sostanza e gli effetti, per denunciarne il versante più marcatamente punitivo, denunciando queste misure nella loro reale dimensione di pene senza condanna.   *Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione Camere Penali Italiane

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Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione

Di Giuseppe Amarelli* –  Il controllo giudiziario volontario è stato introdotto nel sistema della prevenzione antimafia con il duplice obiettivo di mitigare l’indiretta ma draconiana portata afflittiva delle interdittive e di differenziare l’entità dell’intervento prefettizio a seconda della gravità delle situazioni sintomatiche di contagio mafioso, evitando l’irragionevole assurdo di assimilarle quoad incapacitatem e di adottare il medesimo provvedimento inabilitante sia nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso, che della vittima di un’estorsione mafiosa. Nei casi di infiltrazione mafiosa solamente occasionale si è così concessa la possibilità all’impresa destinataria di un’interdittiva di richiedere, previa impugnazione al TAR, l’attivazione da parte del tribunale di prevenzione di un periodo di monitoraggio della durata da uno a tre anni per consentire l’eventuale bonifica e sospendere gli effetti incapacitanti. Questo istituto, sebbene sia nato per incidere a valle del sistema della prevenzione amministrativa antimafia, lenendone gli eccessi rigoristici, in realtà, ha segnato un radicale cambio di paradigma nelle politiche di contrasto all’ingerenza mafiosa nelle imprese, più in sintonia con gli assetti valoriali di uno Stato costituzionale democratico, in cui queste prioritarie esigenze pubblico-collettive devono sempre tenere nel giusto conto i contrapposti interessi sia dei destinatari diretti, che dei destinatari indiretti, come i lavoratori dipendenti e gli stakeholders. Grazie al controllo volontario, si è abbandonata la pregressa strategia imperniata su un approccio retrospettivo-stigmatizzante e su misure istantanee immediatamente inibitrici dei rapporti con la pubblica amministrazione e si è inaugurata una del tutto nuova, incentrata su un approccio prospettico-cooperativo e su misure dialogiche di lunga durata, inclusive e recuperatorie, in cui lo Stato non ostracizza subito l’impresa contaminata “colpevolizzandola”, ma, al contrario, le si affianca in un articolato processo di self cleaning. Purtroppo, ad oggi, nonostante le buone intenzioni, il bilancio sullo stato di salute del controllo volontario è ancora chiaroscurale, presentando alcune luci e non poche ombre. Per un verso, è sicuramente apprezzabile l’estensione delle sue potenzialità applicative ottenuta tramite: la tendenziale polarizzazione del giudizio per la sua concessione sulla prognosi di futura bonificabilità; l’interpretazione del concetto di occasionalità come ‘non stabilità’; l’esclusione del Prefetto dal novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento di ammissione; il riconoscimento della sua adottabilità anche rispetto al diniego di iscrizione nelle white list. Per altro verso, generano non poche perplessità: la sua applicazione ancora fortemente a “geografia variabile”, essendo pochi i tribunali di prevenzione che ne hanno colto la straordinaria utilità per l’intero sistema; il mancato coordinamento dell’esito positivo con la misura interdittiva “a margine” della quale è stato concesso; e, soprattutto, il contrasto interpretativo circa i presupposti applicativi. A tale ultimo riguardo, convivono in giurisprudenza due orientamenti opposti, uno maggiormente garantista che, per evitare esiti irragionevoli, ritiene possibile applicare la misura anche quando il g.o. accerti con i suoi diversi standard probatori l’insussistenza dell’infiltrazione mafiosa posta alla base dell’interdittiva, ritenendo ancor più probabile in questo caso la recuperabilità dell’impresa; ed un altro più rigoroso che, invece, facendo leva sull’autonomia di giudizio del giudice della prevenzione rispetto al giudice amministrativo, esclude tale possibilità, innescando un paradosso per il quale l’impresa infiltrata occasionalmente può mitigare gli effetti dell’interdittiva, mentre quella non infiltrata deve continuare a scontarli. Sul funzionamento del controllo volontario grava poi un’altra ipoteca iscritta dalla misura amministrativa della prevenzione collaborativa introdotta nel 2021 sulla sua falsariga. Questa, infatti, sembra voler accentrare nelle mani del Prefetto il contrasto ai tentativi di ingerenza mafiosa nelle imprese, evitando conflitti con il potere giudiziario che, oggi, invece, nei casi di ammissione al controllo, sembrano sorgere. Nell’attesa (vana?) di una più organica riforma della prevenzione amministrativa antimafia che la traghetti sul piano della prevenzione giurisdizionale, declassando il Prefetto ad organo pubblico deputato a proporre ad un giudice terzo le misure dell’interdittiva e del controllo, si deve confidare in una valorizzazione del controllo volontario da parte dell’autorità giudiziaria. Diversamente da quanto possa apparire prima facie, questo non rappresenta un mero favor per il destinatario che indebolisce l’apparato di contrasto alle mafie. All’opposto, costituisce uno strumento giuridico dotato di una pluralità di funzioni eterogenee ma complementari, tendendo a: equo-contemperare meglio i contrapposti interessi in gioco, evitando di sbilanciare il rapporto autorità-individuo in modo antitetico con la natura democratica del nostro ordinamento; tutelare i diritti dei terzi estranei esposti a serio rischio dalle interdittive, in primis quelli dei lavoratori dipendenti; e, last but not the least, offrire un bagaglio informativo più completo e attendibile all’autorità competente per la valutazione del livello di infiltrazione mafiosa e, quindi, per la scelta della misura più idonea da adottare.   *Professore Ordinario di Diritto Penale

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Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo

Silia Gardini* e Crescenzio Santuori** – La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato negli ultimi decenni una rilevanza sempre più ampia per il diritto amministrativo. In questo contesto, il pericolo di inquinamento criminoso è fronteggiato dal legislatore attraverso la predisposizione di un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “all’origine” i contatti della Pubblica amministrazione con soggetti ritenuti potenzialmente sensibili a infiltrazioni mafiose, anche indirette. L’articolo 84, comma 1, del Codice Antimafia, D. lgs. n. 159/2011 – con l’intento di realizzare la massima anticipazione della soglia di tutela – attribuisce al Prefetto competenza al rilascio di provvedimenti amministrativi di natura cautelare e preventiva, che determinano in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la p.a. (e non solo): la comunicazione antimafia e l’informazione (o informativa) antimafia. Entrambi i provvedimenti hanno l’obiettivo di evidenziare alla Pubblica Amministrazione situazioni ostative al rilascio di atti o alla stipula contratti; il loro contenuto è, invece, significativamente differente. Se la comunicazione ha contenuto vincolato e funzione accertativa di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto indicate dall’art. 67 dello stesso Codice antimafia (applicazione di una misura di prevenzione personale, di una condanna con sentenza definiva o confermata in grado di appello, per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), l’informativa presenta un contenuto più complesso, poiché è volta a certificare – oltre a quanto già previsto in tema di comunicazione – anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, capaci di condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese interessate. Quel che caratterizza spiccatamente le informative – e rende problematico il contesto applicativo dell’istituto – è il fatto che esse si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si traduce nell’amplissima discrezionalità riconosciuta alle Prefetture in merito a questioni fisiologicamente opinabili, attinenti all’apprezzamento, attraverso elementi sintomatici e indiziari, di un rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento di una effettiva sussistenza di eventi o responsabilità. La valutazione amministrativa, in questi casi, è condotta attraverso un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio” (tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza (sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti: il Codice antimafia ne tipizza alcuni, ma non vincola l’amministrazione nella valutazione), sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. In altre parole, l’informativa antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Il quadro risulta ancor più problematico se si considera che i procedimenti amministrativi in materia – in quanto preordinati all’emanazione di “atti necessitati”, per i quali l’urgenza di agire giustifica modificazioni strutturali derivate ai fini della tutela dell’interesse pubblico – risultano slegati dal puntuale rispetto delle garanzie procedimentali, partecipative e motivazionali previste in via generale dall’ordinamento. A fronte di un fondamento essenzialmente probabilistico, gli effetti prodotti dall’istituto in capo agli operatori economici possono essere molto invasivi, al punto da indurre qualcuno a parlare a più riprese di “ergastolo imprenditoriale”. Al di là dell’espressione che si intenda utilizzare, è innegabile che la tendenza del sistema, nel difficile e complesso bilanciamento tra l’interesse pubblico e i diritti privati su cui il potere interdittivo incide, sia quella di massimizzare oltremodo la “ragion pubblica” a discapito delle imprese e delle loro prerogative costituzionalmente garantite. Tale impostazione, al netto delle nobili intenzioni del legislatore, finisce spesso per determinare effetti gravemente distorsivi, anche sul mercato e anche in capo a operatori economici (successivamente riconosciuti) virtuosi. L’informazione interdittiva antimafia, infatti, malgrado la sua formale natura provvisoria, produce sempre effetti irreparabili e definitivi sull’impresa che ne è destinataria, salvo che si riesca ad ottenere in sede giudiziaria un provvedimento sospensivo ovvero il “passaggio” allo strumento del controllo giudiziario. Ciò perché l’operatore interdetto non ha “soltanto” preclusa la possibilità di partecipare alle procedure di gara e di sottoscrivere contratti pubblici, ma si vede di fatto negato l’avvio di qualsivoglia attività economica. Il che lo espone facilmente a dissesto o fallimento, anche laddove all’esito di giudizi amministrativi e penali eventualmente avviati a propria difesa, il contestato rischio di infiltrazione mafiosa dovesse poi rivelarsi insussistente o, quantomeno, evitabile attraverso la sottoposizione a misure meno radicali e meno invasive.  Appare, dunque, evidente che – ferme restando le primarie e imprescindibili esigenze di tutela sottese alla lotta alla criminalità organizzata – l’istituto dell’informativa antimafia necessiti di essere circondato da maggiori cautele. Le distorsioni che emergono dalla prassi applicativa andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria. In questa direzione, sia pure a fronte di alcune recenti e apprezzabili aperture da parte della giurisprudenza amministrativa (in particolare in tema di istruttoria e contraddittorio procedimentale), la strada da percorrere appare ancora lunga e tortuosa. E, nelle more, le imprese muoiono.   * Avvocato amministrativista e Ricercatrice di Diritto amministrativo ** Avvocato amministrativista

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Interdittive e controllo di azienda l’arretramento schiacciante della linea di tutela

di Francesco Iacopino e Giuseppe Belcastro –  Nel 2019 i penalisti italiani e buona parte dell’accademia, preso atto del “lungo processo degenerativo dei fondamentali dello Stato di diritto e (del)la conseguente crisi del garantismo penale”, accentuata dalla inarrestabile deriva giustizialista, hanno inteso lanciare un “grido di allarme” licenziando il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. In quel pamphlet, i punti 34 e 35 sono stati specificamente dedicati alle misure di prevenzione. Misure “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti” – si legge al punto 34 – (poveri, oziosi, vagabondi) e diventate, col tempo, “un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”. Chi conosce i meccanismi di funzionamento di queste misure del sospetto, fondate su fattispecie di pericolosità dai contorni indefiniti, destinati a sbiadirsi ancor di più nelle fasi di accertamento giudiziale, sa bene che esse, seppur notoriamente estranee ai principii e al corredo assiologico sul quale è edificato il nostro patto sociale, sono storicamente basate su un presupposto indefettibile: la pericolosità concreta del proposto, non più necessariamente attuale, ma quantomeno manifestatasi in una determinata forbice temporale, sì da giustificare “in differita” l’ablazione patrimoniale dell’accumulo illecito di ricchezza.  In altri termini, nel bilanciamento degli interessi in campo, la tutela dei diritti individuali cede significativamente il passo alle esigenze di sicurezza sociale, stimandosi prevalente il controllo sociale ed economico del soggetto (ritenuto) pericoloso rispetto al livello di garanzie proprie di un sistema liberale di cui lo stesso è (rectius: dovrebbe essere) portatore. In questo quadro generale, si inserisce il “sotto-sistema” normativo che ruota intorno alle c.d. interdittive antimafia e al controllo giudiziario delle aziende. Il legislatore ha esteso le maglie della prevenzione, rivolgendo l’attenzione anche agli imprenditori sani con lo scopo di proteggerli – questo nelle intenzioni – dai tentativi di infiltrazione mafiosa e di sostenerli, in ipotesi di contaminazione occasionale, nel processo di disinquinamento. Nella prassi applicativa, però, questo complesso sistema, pur ispirato in astratto a una logica aziendalistica, continua a presentare forti criticità, traducendosi troppo spesso in uno strumento di isolamento delle aziende lecite e di desertificazione dell’economia legale. L’imprenditore sano può essere destinatario di una informazione interdittiva, con tutto ciò che essa comporta in termini di incapacitazione a contrarre con la Pubblica amministrazione, per il solo “rischio” (letteralmente “eventuali tentativi”) di infiltrazione mafiosa, seppur non ancora concretizzatosi. A ciò si aggiunga che la valutazione del rischio e il potere di interdire sono affidati al Prefetto, al quale il Codice antimafia accorda margini di discrezionalità così ampi da determinare una sostanziale inutilità delle impugnazioni davanti al Giudice amministrativo, complice anche un criterio probabilistico di valutazione – quello del “più probabile che non” – che nei fatti sterilizza ogni tentativo di difesa. All’imprenditore interdetto, per sospendere gli effetti dell’interdittiva, non resta che “consegnarsi” al giudice della prevenzione e presentare domanda di controllo giudiziario. Ma è qui che si realizza il paradosso. Interdittive antimafia e controllo giudiziario operano su piani diversi e si nutrono di presupposti differenti. Per applicare la prima è sufficiente il solo rischio di infiltrazione mafiosa, per ottenere il secondo è necessario, almeno seguendo la lettera della legge, una agevolazione occasionale dell’associazione mafiosa. Nella prassi si è formato un orientamento giurisprudenziale che, adagiandosi rigidamente su un criterio letterale, non concede all’imprenditore interdetto il controllo giudiziario se non è accertata previamente l’agevolazione occasionale, difettando altrimenti il formale presupposto normativo. Ecco l’assurdo: all’imprenditore contagiato che abbia occasionalmente agevolato la criminalità organizzata (si pensi all’assunzione di un lavoratore controindicato o a una fornitura equivoca) si concede il controllo nominato dal Tribunale e di rimanere sul mercato, seppur vigilato dal controllore giudiziario. All’imprenditore che, invece, sia solo a “rischio” (magari perché riuscito a resistere al) contagio, si nega il controllo giudiziario per mancanza del presupposto dell’agevolazione occasionale. Insomma: chi è più sano rimane interdetto dallo Stato ed è destinato a morire, chi è contagiato entra nel circuito terapeutico della prevenzione e può salvarsi. Una autentica eterogenesi dei fini, frutto del profondo “divario” – per dirla con Norberto Bobbio – “tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere”, tra “effettività” e “normatività”, law in the book e law in action. Un sistema così, non solo si rivela incapace di generare alleanza tra lo Stato e il mondo sano dell’imprenditoria, nella lotta al crimine, ma genera la desertificazione dell’economia legale finendo paradossalmente per aprire spazi di mercato proprio a quelle realtà criminali che pretende di combattere. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico

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Nelle repliche inviate alla Corte Europea l’Avvocatura dello Stato sostiene che la confisca dei beni a un innocente non costituisce pena……

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo Che cos’è la confisca di prevenzione? A giudicare dal nome e dalla sua collocazione normativa, verrebbe naturale rispondere che si tratta di una misura di prevenzione. Ma la prevenzione è, storicamente, destinata ad operare nel futuro del soggetto inciso, così da evitare che egli reiteri le proprie manifestazioni di pericolosità sociale. Ma se quel soggetto non è più pericoloso, se non si può pronosticare la sua prossima trasgressione alle Leggi, se è stato assolto nei procedimenti penali che lo hanno visto imputato o se, nel frattempo, è passato a miglior vita, la confisca di prevenzione non dovrebbe essere disposta. Eppure lo è… Legittimo, quindi, che la Corte Europea, nell’ormai ben noto caso Cavallotti/Italia, rivolga al nostro Governo la domanda con la quale abbiamo aperto questo scritto, ma declinata in modo più diretto e suggestivo: non sarà, la confisca di prevenzione, una pena, visto che da tale categoria mutua la propria funzione ed i propri effetti? Se fosse una pena, dovrebbe essere soggetta al principio di legalità (e, quindi, ai corollari di tassatività, determinatezza, irretroattività, riserva di legge, riserva di giurisdizione), che la prevenzione nazionale non rispetta. Garanzie che il Governo non intende riconoscere, perché verrebbe meno il principale strumento di coercizione di libertà individuali altrimenti incoercibili. Ecco allora che inizia il “gioco delle parole”, con il lessico finalizzato ad eludere le risposte che la CEDU richiede. Rifacendosi alla giurisprudenza nazionale, il Governo, attenzione, non si limita ad escludere che la confisca di prevenzione sia una pena, ma giunge perfino a concludere che essa non sia neanche una misura di prevenzione “in senso stretto”, definizione che calzerebbe solo al sequestro di cui all’art. 20 del Testo Unico Antimafia. Nonostante il Legislatore l’abbia espressamente inserita tra le misure di prevenzione patrimoniali e nonostante la confisca sia destinata a stabilizzare, confermandolo, gli effetti del sequestro (che è una misura cautelare di prevenzione destinata a perdere efficacia al decorrere del termine previsto dall’art. 24 del Codice), secondo i nostri rappresentanti la prima non è prevenzione ed il secondo si. Ragionamento che potrebbe anche essere convincente, se alla confisca si attribuisse natura di pena, rispetto ad un provvedimento provvisorio che potrebbe essere di prevenzione. Invece, il “trasformismo semantico” è solo all’inizio: la confisca, secondo il Governo (che cita precedenti di legittimità), è una sanzione amministrativa a contenuto ablatorio/ripristinatorio e, per questo motivo, assoggettate alla disciplina delle misure di sicurezza quanto a divieto di irretroattività e destinate a colpire, senza prognosi di pericolosità, i patrimoni di sospetta accumulazione illecita. Dimentica, l’Avvocatura Generale che la confisca di prevenzione è stata introdotta dalla Legge Rognoni-La Torre (L 646/82) come sanzione penale – tanto che, fino alla modifica del 1990 che abrogò l’art. 24 della Legge, poteva essere irrogata dal giudice penale, all’interno del procedimento penale con equiparazione tra la sentenza ed il decreto di confisca – per come emerge dai lavori preparatori nei quali si parla espressamente di “duplicazione” delle pene nei confronti degli appartenenti alla mafia. Dimentica, ancora, che, per superare i dubbi di costituzionalità, che emergevano già dalle relazioni parlamentari alla Legge del 1982 (nelle quali si dichiara di “accettare il rischio di incostituzionalità”, data la applicazione territorialmente limitata alla Sicilia della Legge), la Corte Costituzionale, con ripetute pronunce ha escluso che il fine della confisca di prevenzione fosse quello di colpire beni di origine illecita in quanto tali, ma piuttosto impedire che la persona pericolosa ne potesse disporre per commettere reati (ordinanza 177/88, sentenza 335/96, sentenza 21/2012). Dimentica, pure, che la Corte di Cassazione, con la sentenza Occhipinti (10044/12), a seguito della introduzione della confisca disgiunta, aveva riconosciuto natura oggettivamente sanzionatoria alla ablazione di prevenzione, poiché ormai anche formalmente sganciata dal requisito della attuale pericolosità sociale del proposto. Il Governo ricorda, invece, che, in altra occasione, la Suprema Corte (sentenza Ferrara, 24272/13) l’aveva definita una misura di sicurezza, obliterando, da parte sua, che tale equiparazione dovrebbe condurre a riconoscere le medesime basi applicative, cioè una sentenza di condanna o, in caso di proscioglimento, l’accertamento sostanziale del fatto secondo gli standard probatori e valutativi del giusto processo. Quanti nomi per definire un solo istituto: pena, misura di prevenzione, misura di sicurezza, sanzione amministrativa. Tra tutti, l’Avvocatura ha scelto di sostenere quello che, a suo avviso, consentirà alla prevenzione di sopravvivere al ricorso, sfuggendo ai “contra” che ogni altra definizione reca con sé. E propone un parallelo tra la confisca di prevenzione e la confisca urbanistica, citando il caso GIEM/Italia, deciso dalla Corte EDU. Non si avvede, tuttavia, che mentre la giurisprudenza nazionale considera la confisca urbanistica come una sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, quella europea, proprio nel caso citato (così come nelle due sentenze Sud Fondi/Italia), la ritiene pena! Come nel gioco dell’oca, il governo cerca di salvare la prevenzione ma ha tirato male i dadi, finendo nella casella sbagliata e tornando al punto di partenza. Come non pensare  al soldato di Samarcanda che pensa di scappare dal proprio destino e che, invece, gli corre incontro… (pubblicata su Il Dubbio – 6 gennaio 2024)

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