Diritto Sostanziale

LA GRAVITÀ INDIZIARIA DI COLPEVOLEZZA QUALE PRESUPPOSTO PER L’APPLICAZIONE DI UNA MISURA CAUTELARE PERSONALE

di Antonio Baudi –  1.Il dato esperenziale. Si immagini, ma con rispettoso senso della realtà effettuale, un dialogo tra un cautelando e il giudice competente per il provvedimento cautelare: “Mi ascolti. Il mio compito è di eseguire il precetto di legge in materia per cui le faccio rilevare che, in base agli elementi probatori addotti dal PM, lei ha commesso il reato che l’inquirente, allo stato delle indagini, le ascrive; inoltre tale giudizio la esporrebbe a condanna comportante la irrogazione di una pena reclusiva; orbene, in attesa ed in vista del processo, se e quando arriverà, lei è anche un soggetto pericoloso perché (a) può sottrarsi al giudizio finale dandosi alla fuga, perché (b) può inquinare la genuinità delle prove da acquisire, perché (c) può commettere altri reati di un certo rilievo; ne consegue, che, poiché l’ordinamento esige che tutto questo non avvenga, lo sottopongo ad una misura cautelare”. Due immediate considerazioni: a) Il discorso del giudice rispecchia fedelmente il senso della legge nella sua fase applicativa e dunque chiarisce la reale natura del provvedimento cautelare, la cui fattispecie fondante è comprensiva di due requisiti nominati rispettivamente, per tradizione civilistica, il “fumus bini iuris” e il “periculum in mora”. b) In realtà il dialogo è inventato posto che non esiste, e non è comunque consentito dal sistema, un preliminare incontro/interrogatorio tra giudice e cautelando. L’interlocuzione avviene tra PM che chiede la misura e allega gli elementi indiziari a sostegno e giudice che deve provvedere, inaudita et altera parte. È notorio che tale incidente giurisdizionale si inserisce nella fase delle indagini preliminari, garantite da segretezza sul punto, come è notorio che esso prelude all’esercizio dell’azione penale, sicché lo spazio probatorio residuo è riservato alle contro-ragioni difensive. Ferma la regola generale per cui, ex art. 192.2 c.p.p., “a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio”  nell’ordinanza cautelare siano esposti gli “indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza” solo sulla carta vale il disposto di cui alla lettera c-bis dello stesso comma che richiede che siano esposti i “motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa”. Poiché nella prassi non è praticato alcun contraddittorio e la misura applicata si esegue all’insaputa del sottoposto, l’incontro con il cautelato avviene dopo, in sede di interrogatorio di garanzia espletato dallo stesso giudice cautelante in tempi brevi: in tale sede l’interrogato, ove decida di avvalersi della facoltà di non rispondere, espone quanto ritiene in sua difesa eventualmente producendo documentati elementi di prova contrari, in concreto di difficile efficacia se quel giudice non eserciti la (per vero doverosa) autocritica, revisionando quanto deciso. 2. La situazione effettuale e l’analisi critica della disciplina. Si utilizza l’aggettivo “critica” in senso costruttivo al fine di evidenziare, anche confutando tesi di portata diversa, la corretta interpretazione delle disposizioni legislative e la ponderata considerazione dei valori sostanziali incidenti.     2.1 Innanzi tutto quanto ai rapporti tra giudizio cautelare e giudizio finale. Il problema si pone in quanto il principio accusatorio esige che il giudizio avvenga davanti al giudice del processo e che, prima della fase giurisdizionale, esistano solo investigazioni finalizzate all’esercizio dell’azione penale, nel cui ambito il legislatore usa una terminologia differenziata in tema di prova. Non va ignorato però che, nella realtà, lo scopo degli inquirenti è quello di acquisire elementi di prova sul fatto di reato finalizzati a sostenere l’accusa, sicché, se la prova si forma dialetticamente in dibattimento o comunque nel successivo giudizio, nella sostanza gli elementi acquisiti in fase investigativa rilevano per valutare la consistenza della ipotesi delittuosa. Del resto, la terminologia è chiaramente sostanziale: compito della P.G. è quello di acquisire notizie di “reato” e le investigazioni mirano ad acquisire elementi che avvalorino la sussistenza di un illecito penale, tali da legittimare l’esercizio dell’azione in vista della condanna. Se il processo penale si evolve in funzione dell’accusa formulata dal PM mediante l’esercizio dell’azione penale e sulla base della valutazione delle prove acquisite per cui, per regola, la ricostruzione compiuta del fatto nei suoi profili rilevanti avviene dialetticamente, mediante il metodo della conferma e della confutazione dell’accusa tramite una rigorosa articolazione ed argomentazione retta dal principio del contraddittorio, è anche indubitabile che non esiste solo la valutazione espressa nel giudizio finale e che anzi la fase processuale del giudizio è preceduta da quella investigativa ove la complessità dell’accertamento sul fatto di reato è caratterizzata da una pluralità di valutazioni incidentali operanti nel corso di essa, i più importanti dei quali sono il giudizio preliminare sulla introducibilità in giudizio dell’azione penale e, prima ancora, quella relativa all’applicazione di misure cautelari la cui operatività avviene notoriamente quando ancora non è stata esercitata l’azione penale. È dato statistico che detta ultima valutazione si pone usualmente nel corso delle indagini preliminari ove non esiste alcun contraddittorio tra le parti, il che accentua il doveroso controllo imparziale e garantistico del giudice. Preme in questa sede sottolineare che tale constatazione non deve compromettere il necessario rapporto strumentale tra cautela e merito finale e che invece, ferma la sempre incombente presunzione di innocenza, occorre sia rispettato il valore della persona del cautelando, che risulta concretamente leso nelle sue libertà, fino a quella personale, la più rilevante. Ribadito che la valutazione dei dati offerti dal PM è indiscutibilmente riferita al fatto che si ascrive al cautelando, quindi al tema investigativo per cui si procede, condizione necessaria per comprimere, sotto diversi profili, ed in via di eccezione, le libertà del destinatario fino, in via estrema, mediante una misura restrittiva, occorre censurare orientamenti indulgenti e apportare argomenti che confortino la tesi secondo la quale la valutazione del giudice è attinente al merito in fase cautelare. In generale il lemma merito è polisemico: riguarda la questione di fatto in contrapposizione alla questione di diritto; riguarda la questione di diritto sostanziale in contrapposizione a quella di diritto processuale; riguarda la questione di sostanza in contrapposizione a quella di forma. E necessita aggiungere che merito non è termine riservato al solo giudizio finale, configurandosi nel sistema sia un merito

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RIFLESSIONI IN TEMA DI GIURISPRUDENZA “CREATIVA”

  di Antonio Baudi –  Giurisprudenza è termine dall’etimo composto: deriva da “ius-iuris” e “prudentia”. “Jus” significa diritto, termine che a mio avviso va preferito a quello di “directum” (che evoca l’unidirezionalità del diritto) non fosse altro perché è la radice di giuridicità, di giurisdizione, di giudice. Quanto a “prudentia”, cioè prudenza, termine che usualmente evoca cautela e moderazione, essa, nel suo significato autentico, quello proprio della prima delle quattro virtù cardinali, esprime nel contempo sapienza, nel saper comprendere gli avvenimenti con realismo e concretezza, e saggezza, nel discernere responsabilmente e valutare le conseguenze dell’agire. Giurisprudenza è l’attività del giurista ma anche il suo prodotto e quindi l’insieme dei discorsi sul diritto anche se, di solito, si distingue la giurisprudenza giudiziaria, dei giudici, e la giurisprudenza dottrinale, degli studiosi del diritto. In questa sede, escluso che la dottrina giuridica possa mai produrre diritto, stante il suo valore puramente teorico, il quesito ha riguardo alle decisioni assunte in sede giurisdizionale, nella specie della materia penale. Così delimitato il campo d’indagine il quesito posto è se la pronuncia dei giudici sia solo atto di conoscenza o anche modifica e creazione del diritto, quindi, come suol dirsi in senso metaforico, se sia fonte di norme giuridiche. Il quesito pare improponibile nel nostro sistema e potrebbe essere risolto negativamente sol che si rifletta sul disposto dell’art. 1 delle “preleggi” per il quale sono fonti del diritto, nell’ordine, le leggi, i regolamenti e gli usi, quindi senza alcun riferimento alla giurisprudenza. Del resto, tale soluzione è tradizionalmente consolidata. Ma, a causa di recenti e più meditate riflessioni nonché, combinatamente, di esperienze sopravvenute, negli ultimi tempi il quesito si è posto, e si tratta di quesito di rilievo generale, attenendo all’assetto normativo del sistema. La risposta tende ad essere affermativa nell’ambito della scienza civilistica, avuto riguardo a pronunce innovative rispetto alla disciplina positiva, mentre, ed è quello che interessa in questa sede, è problematica in materia penale ove si scontra con il principio di legalità penale e con il dettato costituzionale che, nel rispetto della divisione di poteri, vuole la giurisdizione soggetta (soltanto) alla legge. Il problema, occorre notarlo, consegue anche alla sopravvenuta interferenza culturale della normativa di genesi extrastatale, sia di matrice europea, tramite gli atti con efficacia diretta ed indiretta di fonte UE, come vincolativamente interpretati dalle decisioni della Corte di giustizia (CGUE), con sede in Lussemburgo, sia di matrice internazionale, prima tra tutte quella facente capo alla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) come operante attraverso le decisioni, pur esse vincolanti, della Corte EDU, con sede in Strasburgo. In proposito occorre, per quel che concerne la pertinente tematica delle fonti del diritto, soffermarsi sull’impatto del sistema di common law nel nostro sistema di civil law, tanto perché il diritto extraordinamentale in questione non solo vincola le decisioni dei giudici italiani in virtù del principio di supremazia, quanto ancora perché impone il rispetto delle interpretazioni fornite dalle due Corti che, si noti, decidono, jus dicunt, come organi giurisdizionali secondo quel sistema. In generale, per il sistema di common law, la giurisprudenza è intesa come la principale fonte del diritto, con un ridotto intervento del diritto di matrice legislativa. In proposito va rammentato che il common law, sistema ordinamentale originatosi nell’Inghilterra medievale e successivamente diffusosi nei Paesi anglosassoni e negli Stati del Commonwealth, è basato sul principio dello stare decisis, vale a dire sulla efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali, a differenza dei sistemi di civil law, che, derivanti culturalmente dal diritto romano, si sono consolidati all’interno di ordinamenti statali, prima dominati dalla centralità assoluta della volontà del sovrano, poi ispirati ai principi democratici di portata illuministica della sovranità popolare e della separazione dei poteri. Quanto al concetto di precedente giudiziario basti in questa sede precisare che con tale termine si intende una pronuncia resa su un determinato caso e divenuta ormai definitiva ed immutabile. Si può quindi identificare l’insieme dei precedenti con le pronunce rese nel tempo e dunque con l’orientamento giurisprudenziale formatosi rispetto ad una determinata fattispecie. Per incidens, un rilievo di portata concreta: i giudici di common law per decidere devono disporre di immani raccolte di precedenti, il che, da un lato, privilegia il nostro utilizzo di regole scritte e di codici tematici e, dall’altro lato, rende difficile comprendere come ne sia garantita la conoscenza e la stessa certezza giuridica, che appare complicata, oltre che nella individuazione del precedente pertinente al caso da giudicare, prima ancora nel momento di individuazione della somiglianza casistica, condizione che attiva la determinazione del precedente e quindi l’obbligo della vincolatività. Fermo restando l’effetto vincolante delle sentenze dei giudici europei nel nostro ordinamento, effetto derivante dagli obblighi assunti e tale da subordinare l’efficacia di una regola interna alla conformità con la disciplina europea autenticamente interpretata da quelle Corti, ci si è chiesti se sentenze nostrane, in quanto atti giurisprudenziali, siano nel nostro sistema di pari portata vincolante e tali da qualificarsi come “fonti” di diritto in presenza di pronunce di portata “innovativa”. Va subito notato che ogni sentenza ha un preciso ambito decisorio, soggettivo, rispetto alle parti in causa, ed oggettivo, delimitato dal caso deciso sicché, sotto tali profili, ha efficacia particolare, oltretutto condizionata dal tema su cui decidere, sicché non si riesce a comprendere come la pronuncia, certamente vincolante tra le parti, possa assumere efficacia generale ed astratta, sì da trascendere la specificità della soluzione giudiziaria. Ed invece l’ostacolo si sormonta avuto riguardo, da un lato, al carattere tipico del caso, e, dall’altro lato, alla regola normativa utilizzata come guida per la risoluzione della vicenda. Siffatto profilo, ove, a fronte della rilevanza del caso da giudicare, la regola sostenuta sia “nuova”, coinvolge il principio di legalità penale, il quale, se pur modernizzato, impone che ogni norma sia desunta da un testo di genesi parlamentare, comunque formalizzato in una regola scritta. Ne resta coinvolto il termine legge, il quale è notoriamente polisemico designando a volte l’atto normativo, come suggerisce in generale il principio di legalità, ed altre volte la regola e, in questo senso, ha riguardo o al testo oppure alla sua portata normativa che

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LE ESIMENTI COME CAUSE DI NON PUNIBILITÀ

                      di Antonio Baudi –     1.Il tema ed il movente. Il tema evocato nel titolo ha per oggetto le cause di giustificazione, argomento problematico, particolarmente discusso nella dottrina penalistica, sia sostanziale che processuale: è discusso sul piano sostanziale perché concernente l’inquadramento dell’istituto nella struttura dell’illecito penale; ed è discusso sul piano procedurale perché concernente la formula corretta da adottare nel dispositivo della sentenza. Il movente del presente studio si riconduce al precedente scritto nel quale sono stati trattati i casi giudiziari di Giorgio Welby e di Marco Cappato, i cui rispettivi giudicabili, imputati, nel primo caso, per il delitto di omicidio del consenziente (ex art. 579 c.p.) e, nel secondo caso, per istigazione al suicidio (ex art. 580 c.p.), hanno conseguito un risultato processuale favorevole proprio in virtù della ritenuta incidenza di una esimente. I relativi esiti vanno rievocati in sintesi. Quanto al caso Welby il giudizio, proseguito davanti al giudice per l’udienza preliminare, si concluse nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato, il dott. Mario Riccio, perché “non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento del dovere” in quanto la condotta tenuta rientrava nella causa di non punibilità di cui all’articolo 51 del codice penale. Il giudicante ha ritenuto di affrontare in via preliminare il giudizio di responsabilità penale esplicitando che il delitto sarebbe stato configurabile in tutti i suoi elementi, sia oggettivo che soggettivo, se non fosse intervenuta l’esimente dell’adempimento del dovere, qualificata come “causa di non punibilità”. Pertanto la decisione mostra di aderire all’orientamento dottrinario secondo il quale: • la valutazione di globale illiceità del fatto commesso è pregiudiziale rispetto all’operatività della causa di giustificazione; • in particolare non avrebbe senso giustificare un fatto che non è colpevole perché commesso senza dolo e senza colpa. Secondo tale impostazione di pensiero si richiede che prima sia compiuto il giudizio sulla sussistenza del reato e sulla potenziale responsabilità, solo in seguito occorrendo valutare la rilevanza, oppositiva, dell’esimente, nel caso di specie identificata nell’adempimento del dovere. Ne deriva che le esimenti, inquadrate tra le cause di non punibilità, sono esterne rispetto al giudizio sul fatto di reato, la cui illiceità è comprovata oggettivamente e soggettivamente. Quanto al caso Cappato, va rammentato che per effetto della nota sentenza della Corte costituzionale il disposto dell’art. 580 cod. pen. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Alla luce di tale pronuncia la Corte di Assise di Milano, con la sentenza 23 dicembre 2019 n. 8, ha definito il processo a carico di Marco Cappato con assoluzione piena per l’imputato “perché il fatto non sussiste”. Interessante la motivazione che, per quel che interessa in questa sede, si riporta testualmente: “Ritiene la Corte di non poter ignorare gli argomenti prospettati dalle parti in ordine alla formula assolutoria da adottare, pur non ritenendo di svolgere sul punto una trattazione teorica che esulerebbe dai limiti della sentenza. La pronuncia della Corte Costituzionale non ha definito in modo esplicito se l’area di non punibilità necessaria per escludere l’applicazione di una sanzione penale per le condotte di aiuto al suicidio che presentano i requisiti più volte richiamati, debba intendersi come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice, riducendone la portata, ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante. Ritiene la Corte di aderire all’orientamento espresso dalla pubblica accusa e da uno dei difensori dell’imputato, secondo il quale la pronuncia di incostituzionalità riduce sotto il profilo oggettivo la fattispecie, escludendo che configuri reato la condotta di agevolazione al suicidio che presenti le caratteristiche descritte. È il meccanismo di riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie. In definitiva, il discorso sugli effetti dell’intervento della Corte interessa più gli studiosi del diritto penale che pubblici ministeri, avvocati e giudici, perché l’affermazione di non punibilità è elemento che incide in ogni caso sul piano oggettivo anche con riguardo alle cause di giustificazione (ritenute dalla dottrina elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo). Tanto ciò è vero che, secondo l’orientamento tripartito della fattispecie penale, la formula assolutoria è quella della insussistenza del fatto. La corte giudicante, a prescindere dal chiaro refuso riguardante l’ultimo riferimento alla concezione tripartita, mostra di intendere la “causa di non punibilità”, così qualificata dalla Consulta, come riferita al fatto, ritenuto insussistente perché non tipico e comunque giustificato. Pare necessario chiarire il significato del termine “fatto” utilizzato in sentenza. Se il termine si riferisce al fatto storico, esso, chiaramente ricostruito come commesso dall’imputato, non può dirsi “insussistente”. Se invece, ferma restando la ricostruzione e descrizione  del caso concreto, il termine è stato riferito alla fattispecie penale, come delimitata a seguito della pronuncia di incostituzionalità, ne consegue che, certamente escluso il richiamo alle  condotte di determinazione ed istigazione, occorre chiarire come la corte giudicante abbia inteso il terzo profilo della condotta descritta dalla norma, cioè l’aiuto strumentalmente commesso in favore del suicida: tale comportamento penalmente resta illecito e punibile salvo che non ricorrano in concreto le condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto secondo la valutazione della Consulta “non è punibile”. Ricorrendo tale situazione che integra la sussistenza storica del fatto che la Consulta ha sottratto dalla sfera delittuosa della previsione normativa

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LE INSIDIE DELLA VITTIMA IN COSTITUZIONE

Enrico Amati* – 1.Il testo unificato di quattro disegni di legge di modifica costituzionale prevede l’inserimento all’interno dell’art. 111 Costituzione, dopo il quinto comma, del principio secondo cui «La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate». La prospettata riforma appare, da un alto, superflua, posto che l’istanza di tutela della vittima è implicita nella stessa potestà punitiva dello Stato e che le posizioni di debolezza sono già tutelate in termini generali agli artt. 2 e 3 Cost.; dall’altro lato, potrebbe alterare gli equilibri del sistema penale. 2. Occorre, invero, ricordare che il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico avviene proprio attraverso la ‘neutralizzazione’ della vittima. Di più: «senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe nemmeno lo Stato moderno. La neutralizzazione della vittima del reato comporta infatti niente meno che il monopolio della violenza da parte dello Stato nell’amministrazione della giustizia penale»[1]. Di qui il rischio che l’accentuazione del ruolo della vittima nell’ambito del “giusto processo” possa accentuare quel c.d. paradigma vittimario[2] sintomatico dell’attuale egemonia del linguaggio e della logica del penale[3]. In particolare, il riferimento alle vittime all’interno dell’art. 111 Cost. rischia di legittimare il passaggio da un modello processuale “binario”, che vede contrapporsi l’imputato e la parte pubblica, ad un modello “triadico”, nel quale si veicola l’idea che l’esito del processo debba soddisfare le attese della parte lesa: da processo a garanzia dell’accusato a processo per la vittima[4]. Le vittime devono certamente essere tutelate nella misura massima fuori dal processo, mediante adeguate forme di assistenza sociale e di riparazione; è invece necessaria estrema cautela riguardo alla  tutela della vittima all’interno del processo, poiché si rischia di alterare il sistema delle garanzie[5]. Come noto, se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono, appunto, le leggi del più debole[6]. A questo principio si ispira, peraltro, il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo dell’UCPI, allorché si precisa che «la funzione stessa del diritto processuale penale è quella di proteggere i diritti fondamentali di chi subisce l’”attacco” del potere pubblico, così da consentirgli di difendersi nel modo migliore possibile […]» (canone n. 22). 3. L’approccio basato sulla centralità della vittima può, inoltre, produrre “effetti perversi” sul piano della produzione normativa, su quello dell’interpretazione e sulle logiche punitive. L’ipervalorizzazione della vittima avalla, invero, una produzione penale compulsiva orientata al diritto penale “massimo”[7], con inevitabili ricadute sulla coerenza e sull’efficienza del sistema penale nel suo complesso e sulle garanzie. Un diritto penale vittimocentrico è, infatti, insofferente alle garanzie tipiche del diritto penale liberale (tassatività e determinatezza del precetto, offensività, proporzionalità della pena, etc), poiché nell’ottica della vittima “giustizia è fatta se condanna è emessa”. Tutto ciò si riflette sulla qualità della produzione normativa, che può accentuare la produzione di norme prive del requisito della precisione, da sperimentare attraverso l’applicazione pratica e l’esperienza giudiziale, con il rischio che, in sede applicativa, si tenda a privilegiare l’effetto utile e lo scopo dell’incriminazione rispetto a letture tassativizzanti e tipizzanti. Sul versante delle logiche punitive, inoltre, la centralità della vittima potrebbe aprire le porte a quelle teorizzazioni deteriori che fanno leva sul right to punishment, secondo cui la punizione del reo non deve contenere solo la condanna del suo comportamento da parte della società, ma anche una manifestazione di solidarietà verso la vittima, che si estrinseca mediante l’inflizione effettiva di una sofferenza all’autore[8]. In generale, l’approccio vittimocentrico “filtra” ed altera il diritto penale classico, e a farne le spese sono i principi fondamentali della tradizione liberale scolpiti nella Carta costituzionale: la potestà punitiva statale; l’imparzialità del giudice, etichettato come “cattivo punitore”[9] se non soddisfa le esigenze della (presunta) vittima; la presunzione d’innocenza; il diritto di difesa.   4.In conclusione, la prospettata modifica costituzionale, in apparenza senza dire nulla di nuovo, se da un lato si colloca in quel percorso di ascesa del c.d. paradigma vittimario che legittima un processo penale “offensivo”, dall’altro lato si presterebbe ad alimentare la “crudele illusione” che – soprattutto nei casi con “vittime diffuse” – il processo penale sia lo strumento ideale per vedere riconosciute le proprie pretese risarcitorie e punitive. In altre parole, si rischia di accentuare non solo il panpenalismo ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima[10], posto che l’unica riparazione giuridicamente possibile all’interno del processo penale è il risarcimento del danno, che ovviamente nei casi gravi non ripara nulla[11]. *Presidente della Camera Penale di Rimini e Professore associato di Diritto penale all’Università di Udine   [1]W. Hassemer, Perché punire è necessario, trad. it., Bologna, 2012, p. 233 s. [2] D. Giglioli, Critica della vittima, Milano, 2024. [3] T. Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitivista, Torino, 2022. [4] In termini problematici, M. Buchard-F. Fiorentin, La giustizia riparativa, Milano, 2024, p. 457 s. [5] L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale , Roma-Bari, 2024, p. 285. [6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989. [7] N. Mazzacuva, La clemenza collettiva nell’epoca del ‘diritto penale massimo’, in Dir. pen. cont., 2018, p .192 s. [8] G. Fornasari, “Right to punishment” e principi penalistici. Un critica della retorica anti impunità, Napoli, 2023. [9] N. Mazzacuva, Se la pena fa ancora spettacolo: talune riflessioni “fuori dal coro”, in A. Valenti (a cura di), L’inarrestabile spettacolo della giustizia penale, Persiani ed., 2013, p. 73 s. [10] T. Pitch, Il Protagonismo della vittima, in disCrimen, 20.2.2019. [11] L. Ferrajoli, Giustizia e politica. cit., p. 285.

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IL DIRITTO PENALE VITTIMOCENTRICO VS. DIRITTO PENALE REOCENTRICO

di Cecilia Bandiera* e Pasquale Longobucco** –  Nel settembre del 2019, la Camera Penale Ferrarese ospitò un convegno strutturato in due giornate, dal titolo “La difesa delle garanzie liberali nella stagione della giustizia penale euro-vittimocentrica”. Il convegno prevedeva due sessioni: la prima dal titolo “Nessuno contraddica Abele”, la seconda, “Caino non abbia diritti”. Si stava vivendo la stagione del populismo giudiziario nella sua massima espressione. Era entrata in vigore la legge che di fatto eliminava la prescrizione, istituto di civiltà giuridica, che aveva in qualche modo svolto, fino a quel momento, la funzione regolatrice del potere punitivo dello Stato. Avendolo vissuto in prima persona, possiamo dire che è stato un convegno che ha stimolato un dibattito tra studiosi ed operatori del diritto, il cui auspicio era di riuscire a condizionarne proficuamente la prassi applicativa. Un dibattito che, col senno di poi, ha, in parte, anticipato i tempi e di cui non si è saputo coglierne gli spunti. Oggi, possiamo dire che siamo nel pieno della stagione del diritto penale vittimocentrico con la conseguente soccombenza del diritto penale reocentrico. Si intenda, l’erosione dei principi di un diritto penale minimo, che veda come sue epicentro l’accusato, è iniziata da tempo. Oggi, però, siamo in una fase di svolta cruciale, più evoluta, che trova la sua massima espressione nella volontà del legislatore di voler introdurre la “vittima” in Costituzione. Come noto è infatti, all’esame della Commissione Affari Costituzionali del Senato, il testo del disegno di legge (trattasi di un articolato che ne contiene quattro) di modifica costituzionale, che prevede l’inserimento all’art. 111 Cost. del seguente comma: “ La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate”. La ratio di tale intervento costituzionale, come si legge dalle relazioni illustrative ai disegni di legge, sarebbe quella di tutelare maggiormente il soggetto ritenuto più debole, all’interno anche del giusto processo. Non solo. Si vuole far assumere alla “persona offesa” sempre più un ruolo centrale anche nelle dinamiche repressive (sul punto la relazione illustrativa del ddl n. 888, non sembra lasciare dubbi). Ebbene, non possono sfuggire, a chi ha applaudito alla stesura ed al varo ufficiale del “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto processo” delle Unioni delle Camere Penali Italiane, le evidenti incongruenze ed i rischi che si annidano in una modifica di tal fatta, per la tenuta dello Stato di Diritto. In primo luogo, si evidenzia come, nel corso dei decenni, la vittima del reato abbia trovato ampia tutela attraverso i vari interventi del legislatore. Basti pensare al cd Codice Rosso, all’introduzione delle fattispecie di omicidio e di lesioni stradali, ma anche alla disciplina della giustizia riparativa. Tutti interventi che vedono, come fulcro ispiratore, la tutela della vittima del reato, verrebbe da dire “senza se e senza ma!” In altre parole, nel corso degli anni, il paradigma vittimocentrico ha rappresentato una fonte per l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Nell’illusione che, interventi come quelli appena citati, fossero in grado di eliminare l’impunità dello stupratore o del pirata della strada. Non curandosi, invece, attraverso una perenne propaganda a basso costo che solletica gli istinti più primordiali, di scaricare nel penale semplicemente pulsioni di vendetta, travestite da senso di giustizia. Queste prime considerazioni possono tranquillamente portarci a concludere che non esiste una concreta necessità di tutelare ulteriormente la vittima del reato, attraverso l’espressa previsione in Costituzione. Ma c’è dell’altro. Come già ritenuto da autorevoli studiosi, l’introduzione della vittima in Costituzione rischia di alterare fortemente gli equilibri processuali, con il concreto rischio che si passi ad un riconoscimento di fatto della giustizia privata, con conseguente erosione del principi fondanti lo Stato di Diritto. Non può non rilevarsi, infatti, come in tale prospettiva forte sia il rischio di affidare la gestione dei conflitti derivanti da reato alla vittima, con il conseguente arretramento del diritto penale moderno, caratterizzato da quel connotato di civiltà secondo cui detti conflitti debbano essere di competenza statale. Non va dimenticato che il diritto penale è la cd Magna Carta del reo e rappresenta lo strumento di accertamento della responsabilità attraverso il rispetto delle garanzie per l’accusato, proprio per frenare aspirazioni vendicative della vittima. D’altra parte soggetto debole della macchina repressiva dello Stato rimane pur sempre l’accusato. Pertanto, la modifica costituzionale in parola porterebbe con sé il forte rischio di una visione privatizzata della giustizia penale, esponendo il giudice ad una forte carica emotiva. Va, inoltre, evidenziato che l’introduzione della “vittima in costituzione”, attraverso la modifica dell’art. 111, finirebbe per indebolire la portata precettiva della norma costituzionale, la cui riforma del 1999 aveva come ratio quella di riaffermare in Costituzione i principi del modello accusatorio del giusto processo. Ebbene, una modifica così come ipotizzata, metterebbe in discussione proprio quei principi per i quali la norma costituzionale era stata ripensata. Infatti, parlare di “vittima” – prima che vi sia stato un regolare processo finalizzato all’accertamento del reato e delle responsabilità – significa inevitabilmente parlare anche di colpevole. In altre parole, nel processo l’accusato entra già con la veste di colpevole e ciò non può non suscitare preoccupazioni in punto di presunzione di non colpevolezza. Tirando le fila di questa nostra riflessione, possiamo dire che la riformulazione costituzionale sia superflua. Oggi la vittima trova nel nostro ordinamento ampia tutela, senza che vi sia la necessità di un intervento costituzionale. Intervento che rappresenta solo una mossa propagandistica e semplicistica che però potrebbe avere conseguenze nefaste per l’architettura del nostro sistema penale e delle sue garanzie, già claudicante. Il rischio è anche quello di identificare l’accusato come il carnefice ed il giudice come un buono o un cattivo giudicante a seconda se sia stato o meno in grado di soddisfare le aspettative private. Da qui, al ritorno alla legge del taglione, il passo potrebbe essere breve.    *Presidente Camera Penale Ferrarese “Avv. Franco. Romani” **Responsabile Scuola Territoriale Camera Penale Ferrarese; Responsabile Osservatorio Deontologia UCPI

IL DIRITTO PENALE VITTIMOCENTRICO VS. DIRITTO PENALE REOCENTRICO Leggi tutto »

BREVE NOTA A CASSAZIONE 1 OTTOBRE 2024, N. 36531: IMPUTABILITÀ E DISTURBO BIPOLARE, I PRINCIPI DELLA “RASO”

  di Marta Staiano* –  La recente sentenza della Corte di Cassazione, in quota di interesse, accoglie il ricorso dell’imputata dichiarata responsabile per il reato di molestie, confermando il principio di diritto per il quale «il giudice è tenuto ad accertare la capacità di intendere e di volere dell’imputato anche d’ufficio, quando vi siano elementi che facciano dubitare della sua imputabilità». La Corte è nuovamente chiamata a pronunciarsi su una tematica di estrema complessità, quale l’ampiezza dell’infermità mentale riferita all’esclusione dell’imputabilità, nonché il novero indiziario di dati che obbligano il giudice al suo accertamento. S’offre il destro a brevi puntualizzazioni sul tema. Già da tempo si afferma in dottrina che l’imputabilità è al tempo stesso nozione empirica e normativa[1]: in tal senso, pur avendo il legislatore previsto parametri predeterminati questi sono da ancorarsi ai progressi scientifici in tema di eziogenesi e manifestazione della patologia psichiatrica, dovendo il giudice soffermarsi con precipuo scrutinio del tema ogni qual volta ricorrano elementi da cui potenzialmente desumere una “deficienza” mentale, purché ne sia dimostrato il nesso eziologico con il fatto di reato. Risemantizzare è il luogo di costruzione dell’ermeneutica. In tal senso, le Sezioni Unite del 2005 – ricorrente Raso – con sentenza n. 9163, depositata in data 8 marzo 2005, si esprimevano compiutamente sui confini del concetto di infermità, ampliandone sensibilmente la portata: «anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa». «Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche i disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona – corpo, ma la persona – psiche». Nella evenienza sottoposta per individuazione di principio di diritto, le Sezioni Unite hanno annullato con rinvio la sentenza censurata: aveva erroneamente escluso il vizio parziale di mente sul rilievo che il disturbo paranoide dal quale, secondo le indicazioni della perizia psichiatrica, risultava affetto l’autore dell’omicidio, non rientrava tra le alterazioni patologiche clinicamente accertabili, corrispondenti al quadro di una determinata malattia psichica, per cui, in quanto semplice “disturbo della personalità”, non integrava quella nozione di “infermità” presa in considerazione dal codice penale. Al contrario la Corte, annullando con rinvio la sentenza impugnata, apriva la strada alla considerazione dei disturbi di personalità in materia di imputabilità, ripudiando la tradizionale concezione mono-causale di malattia. Per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le “anomalie caratteriali” o “disarmonie della personalità”, nonché gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di inesione alla capacità di autodeterminazione del soggetto agente[2]. L’approdo convincente è in un “paradigma integrato” di malattia mentale – già da tempo sostenuto dalla scienza psichiatrica – che affianca alla diagnosi nosografica altri moduli interpretativi: viene inoltre riconosciuta la natura di “infermità”, rilevante in termini giuridici, anche ai disturbi dell’affettività e ai disturbi di personalità[3], sempre che essi abbiano influito in maniera significativa sulla funzionalità dei procedimenti intellettivi e volitivi del soggetto agente. Si riconosce, in altri termini, l’influenza sulla malattia mentale tanto di variabili biologiche, quanto di fattori extrabiologici, così recependosi la multifattorialità sia con riguardo alla genesi che al decorso della patologia[4]. È d’uopo precisare che, sebbene la sentenza Raso abbia ridisegnato i confini dell’infermità mentale oltre i tradizionali parametri organicistici, estendendone la portata anche ai disturbi di personalità (et altro) non inquadrabili nei rigidi margini della nosografia, la stessa Corte si mantiene ferma nel puntualizzare che questi debbano essere di gravità e intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere: si dice di «disturbo idoneo a provocare una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile […] che renda l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente autodeterminarsi»[5]. Gravità e intensità diventano quindi per la Corte parametri di riferimento per tracciare una linea di confine, quindi discernere tra i disturbi che influenzano le capacità dell’individuo e quelli che rimangono irrilevanti in tema di imputabilità: così la “Raso” indica una terza via oltre le due antecedenti contrastanti visioni del disturbo di personalità e dell’affettività: l’una volta a ricondurre i disturbi in questione nell’alveo delle patologie della mente, l’altra nell’opposto perimetro delle c.d. anomalie non patologiche della personalità. Epperò, la sentenza in esordio significata riceve l’attenzione del giurista per tre ordini di ragioni: poiché aderisce al noto principio di diritto antecedentemente richiamato (cioè a dire la considerazione in termini di imputabilità dei disturbi dell’affettività e di personalità), indicando la condizione di variabilità dell’umore implicata da disturbo bipolare come potenzialmente escludente o diminuente la capacità di intendere e volere. A tal fine la difesa, censurando la mancata applicazione dell’art. 88 c.p., «richiama tanto le dichiarazioni di VR tanto quelle di AR che, pur non sapendo rispondere alle domande su eventuali patologie sofferte dalla F, hanno riferito di circostanze indicative di disagio psicologico (il primo parla di interventi dell’ASL con la camicia di forza, la seconda riferisce che le condizioni del figlio della donna la mettono in “queste condizioni”)». Nondimeno la sentenza in esame, in ossequio all’insegnamento del Supremo Collegio in merito all’incidenza in termini di infermità dei disturbi dell’affettività, ne rafforza la portata sul versante processuale, statuendo la sufficienza della certificazione Asl – nella specie di disturbo affettivo maggiore di tipo bipolare accompagnato a scompenso psicopatologico – quale indizio idoneo a far dubitare della imputabilità dell’imputato, così “obbligando” il giudicante a svolgere indagini «sull’incidenza che l’accertata patologia poteva avere sui comportamenti tenuti in occasione degli episodi descritti in imputazione». In mancanza di tale doveroso accertamento, la «lacuna inficia la decisione e impone il suo annullamento con rinvio perché si svolga nuovo giudizio al fine di approfondire, con piena libertà valutativa ma con ogni ausilio tecnico di

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ALCUNE CONSIDERAZIONI SU DIRITTO PENALE E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

di Tommaso Guerini Il rapporto tra Intelligenza Artificiale e Diritto penale è destinato a rappresentare uno dei topoi del nostro futuro prossimo. Senza scomodare alcuni suggestivi riferimenti letterari – penso in particolare al gustoso libriccino di Jacques Charpentier[1] – l’avvento di quella che Luciano Floridi ha lucidamente definito come la Quarta Rivoluzione[2] pone tutti noi di fronte alle sensazioni tipiche di chi si trova a vivere un’era di forti trasformazioni. In questo caso, oltre allo spaesamento e al senso di perdita e abbandono che assieme alla speranza di un futuro migliore accompagnano ogni cambiamento radicale nella società umana, dobbiamo però fare i conti con le conseguenze di quella che Antoine Garapon e Julian Lassegue hanno definito una rottura antropologica[3], dovuta al passaggio da un linguaggio alfabetico a quello numerico utilizzato dalle Intelligenze Artificiali e dai codici che le governano. Il linguaggio binario degli algoritmi è quindi destinato a sostituire sempre di più il linguaggio degli uomini, sempre più spettatori di fenomeni che non comprendono, se non in termini minimi, così come avveniva nei tempi antichi, quando i sacerdoti compivano i loro gesti magici. I sacerdoti della contemporaneità, i custodi del vero sapere sono i matematici, i fisici e gli ingegneri: creatori e addestratori di forme di Intelligenza non umane, secondo alcuni destinate a superare nel medio-breve periodo quella di chi le ha progettate. Del resto, come osservava già al tramonto dello scorso secolo Lawrence Lessig: code is law[4]. E le considerazioni amare di Filippo Sgubbi, che poco prima della pandemia che ha determinato la definitiva migrazione del genere umano nell’Infosfera ci ammoniscono sui rischi che il formante digitale produce sulla tenuta dei principi di garanzia elaborati in materia penale a partire dall’Illuminismo[5].   È in questa prospettiva o, per richiamare Leonardo Sciascia, in questo contesto che vogliamo declinare, sia pure per sommi capi, il sotto-tema del rapporto tra diritto penale e manipolazione digitale del consenso, particolarmente sentito in un momento storico nel quale la tutela della libertà di manifestazione del pensiero – vera e propria pietra angolare della democrazia – viene sempre più spesso messa in discussione dal proliferare di fake news e deepfake, la cui diffusione ha raggiunto da tempo una dimensione ‘epidemica’. Nella nostra prospettiva di studio[6] fake news e i deepfake sono strumenti di manipolazione del consenso tecnologicamente evoluti per far fronte alle esigenze sorte con la rivoluzione digitale, nella quale non è più sufficiente indirizzare la vita analogica dei cittadini, quanto piuttosto condizionare il loro comportamento in quella che si suole ormai definire come Infosfera[7], che rappresenta il brodo di coltura del fenomeno che stiamo osservando. D’altra parte, è vero che la manipolazione – dei singoli, delle masse – è sempre stata uno strumento estremamente efficace di lotta politica[8], al quale tanto i regimi autoritari, quanto le democrazie – autoritarie e non – non hanno mai saputo rinunciare e la cui evoluzione si accompagna sia a quella dei sistemi politici e sociali, sia a quella delle tecnologie disponibili per amplificarne gli effetti, ma allo stesso tempo è altrettanto evidente che a rendere profondamente diverso il presente dal passato anche più recente contribuisce l’interazione tra due fenomeni di recente insorgenza. Da un lato, sul piano economico prima ancora che politico, il modello occidentale di democrazia viene apertamente messo in discussione dalle cd. democrazie illiberali[9], su tutte Russia e Cina, ma anche, nel nostro continente, da Polonia e Ungheria e, ahimè, per certi versi oggi anche dall’Italia.; dall’altro lato, il campo di scontro tra i diversi modelli politico-economici si è già spostato dal mondo degli atomi a quello del bit – con particolare attenzione ai temi della Artificial Intelligence[10] – e la tendenza, anche in ragione del potenziamento delle infrastrutture legato alla migrazione di un numero sempre maggiore di attività dall’universo analogico a quello digitale, pare ormai inarrestabile, rendendo sempre più centrale il ruolo delle reti sociali in ogni ambito della vita umana[11]. Così, un numero sempre maggiore di cittadini è esposto, senza possedere adeguate difese, a contenuti ingannatori sempre più raffinati, come nel caso dei cd. deepfake, termine nato dalla crasi tra deeplearning (riferito alla capacità di apprendimento di una Intelligenza Artificiale) e fake[12]. Sviluppatosi nell’ambito dell’industria della pornografia on line[13] e rapidamente diffusosi all’intero World Wide Web, attraverso l’utilizzo di algoritmi particolarmente precisi, il deep fake permette di sostituire i volti di due persone (c.d. face swapping), realizzando dei video nei quali è possibile far dire a chiunque qualsiasi cosa, sincronizzando in modo perfetto anche il labiale. La potenzialità offensiva di questo tipo di strumenti è notevolmente superiore a quella di qualsiasi altro prodotto informativo fasullo, in quanto l’alterazione di un documento audiovisuale ha una attitudine ingannatoria estremamente elevata, ponendo l’utente di fronte a qualcosa che egli vede accadere davanti ai suoi occhi, senza avere strumenti per confutarne la veridicità. È evidente come i pericoli connessi all’uso di questa tecnologia siano immediatamente apprezzabili, soprattutto in ambito politico-elettorale[14]. I rischi per la corretta allocazione del consenso in ambito politico-elettorale ci sembrano infatti particolarmente concerti, sia in ragione del continuo perfezionamento dei programmi che consentono di realizzare questi contenuti – ormai tecnicamente molto precisi, salvo alcune imperfezioni nel doppiaggio, difficilmente percepibili da un utente non particolarmente attento –, sia in ragione della politica scarsamente repressiva posta in essere dalle aziende che gestiscono i principali siti di diffusione di video[15]. Di fronte a una sistematica attività organizzata e imprenditorialmente strutturata di produzione e diffusione di contenuti ingannatori, realizzati mediante la raccolta non sempre trasparente di dati personali, trattati mediante l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale, appare quasi automatico interrogarsi su quali possano essere i profili di rilevanza penale. Eppure – e può apparire un paradosso nell’epoca dell’ipertrofia del diritto penale, non a caso definito “massimo” da autorevole dottrina[16] – di fronte a questi fenomeni, per loro natura immateriali e transnazionali, il diritto penale si scopre inerme. Le tradizionali fattispecie poste a presidio della legislazione elettorale e della libertà di stampa – ormai vetuste – non offrono alcuno strumento efficace di tutela, così come avviene, sul piano dell’offesa individuale, prendendo

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DELL’INFANTICIDIO. CRONACA RECENTE DI UN DELITTO ANTICO

di Vittoria Aversa –  [..] Maria Farrar, nata in aprile, defunta nelle carceri di Meissen, ragazza madre, condannata, vuole mostrare a tutti quanto siamo fragili. Voi, che partorite comode in un letto e il vostro grembo gravido chiamate «benedetto», contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema. Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena. Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.1 Così si conclude una delle poesie più strazianti di Bertolt Brecht, dedicata all’infanticida Maria Farrar, rinchiusa in carcere per il suo crimine e lì uccisa da altre detenute. La storia di Maria è simile a quella di molte altre donne che, vittime della propria condizione, compiono un atto che indigna la società. Sgomento è il sentimento dominante. Sgomento è la parola che si ripete con frequenza anche nel comunicato stampa rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma in relazione all’ultimo di tali delitti che ha scosso gli animi del nostro Paese. L’uccisione del neonato ad opera della madre è e resta un gesto inconcepibile per le coscienze dei più; il figlio ucciso è percepito come figlio di tutti e la richiesta di vendetta, per l’atto intollerabile compiuto dalla donna degenere, diviene collettiva, informando di sé il processo penale che ne consegue. Storicamente, tale riprovazione sociale trova una definizione compiuta nei codici penali a partire dal Cinquecento, ove l’omicidio dell’infante è punito con pene severe poiché considerato omicidio aggravato dalla presunzione della premeditazione e dal vincolo di sangue. È il dibattito giuridico di orientamento positivista a dare impulso alla mitigazione del trattamento sanzionatorio dell’infanticidio, ricavando gli elementi di specialità rispetto all’omicidio che, in quel momento storico, si incentrano su due condizioni essenziali e strettamente correlate al ruolo sociale della donna: la illegittimità del concepimento e la causa d’onore. La causa d’onore è, in realtà, elemento costitutivo del reato anche nel nostro codice penale fino al 1981; l’art. 578 c.p., sino a quella data vigente, prevede infatti la pena della reclusione da tre a dieci anni per chiunque cagioni la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto. È solo con la L. 5 agosto 1981 n. 442 che cambia la formulazione della norma incriminatrice attraverso l’eliminazione della rilevanza penale della causa d’onore, il mutamento della qualità del soggetto agente, che è “la madre” e non più “chiunque”, e l’introduzione di due elementi specializzanti rispetto all’omicidio: il dato cronologico (il fatto deve essere commesso “durante” o “immediatamente dopo” il parto) e le condizioni di “abbandono materiale e morale” della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione. Pur essendo pacifico che le condizioni di abbandono materiale e morale debbano sussistere oggettivamente e congiuntamente e debbano essere connesse al parto, si è a lungo dibattuto sull’interpretazione della nozione di “abbandono materiale e morale”. Come sempre accade, l’esegesi dei concetti muta al mutare del sentire comune. La giurisprudenza formatasi nel primo decennio successivo alla novella legislativa richiedeva per la configurabilità della situazione di abbandono che fosse in concreto verificato uno stato di derelizione, di solitudine, di emarginazione, di carenza di mezzi e di rapporti socio- economici oltre che affettivi2, sussistente qualora la madre si venga a trovare isolata nel seno della propria famiglia e privata dell’affetto e delle cure dell’uomo con il quale abbia concepito il neonato3, uno stato di isolamento assoluto considerato non ontologicamente compatibile con la presenza nel territorio di strutture socio-sanitarie, sempre che l’agente si trovi nelle condizioni sociali e culturali di utilizzare tali presidi4. L’opzione ermeneutica più recente e prevalsa nella giurisprudenza di legittimità ritiene, invece, che la concreta situazione di abbandono non debba rivestire il carattere dell’assolutezza e costituisca un requisito della fattispecie oggettiva da leggere tuttavia “in chiave soggettiva” o comunque in senso “individualizzante”.5 La valutazione del requisito obiettivo deve pertanto essere “individualizzata” sulla peculiare situazione della partoriente, come da lei percepita, prescindendo dall’oggettiva presenza, nel contesto territoriale di appartenenza, di adeguate strutture e presidi sanitari, ricorrendo il concetto di abbandono laddove la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna, determinata anche da un ambiente familiare non comunicativo e totalmente incapace di cogliere l’evidenza del suo stato e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno necessari al dramma da lei vissuto, le impedisca tuttavia di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione6. Divengono, quindi, indicatori della condizione di abbandono non solo i casi di gravidanza nascosta oppure osteggiata con conseguente solitudine materiale e affettiva, la povertà estrema, il contesto sociale degradato, ma anche l’insufficiente maturità culturale della gestante o comunque una condizione psicologica individuale gravemente alterata dall’esperienza emotiva e mentale che accompagna la gravidanza ed il parto.7 È la percezione della donna a diventare il fulcro della valutazione del giudicante. Non v’è chi non s’avveda della complessità – ai fini della qualificazione giuridica del fatto in termini di infanticidio ovvero di omicidio – dell’accertamento concreto, sul piano probatorio, della componente soggettiva dell’abbandono, della peculiare solitudine esistenziale della madre partoriente in un contesto in cui la solitudine esistenziale si atteggia a male generale del nostro tempo ed è, allora, esclusivamente ad esso, nella solennità dell’aula, che deve lasciar spazio, anche nei più recenti casi di cronaca, lo sgomento. Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.   1 “Della infanticida Marie Farrar”, Libro di devozioni domestiche. Brecht Bertolt. Traduzione di Roberto Fertonani. Einaudi, 1997.  2 Cass. Sez I n. 1007/87. 3 Cass. Sez. I n. 3326/88. 4 Cass. Sez I n. 8489/91. 5 Così Cass. Sez. 1, n. 40993 del 7 ottobre 2010, Grieco, Rv. 248934 – 01; Sez. 1, n. 26663 del 23 maggio 2013, Bonito, Rv.256037 – 01 Sez. 1, n. 28252 del 22 gennaio 2021, Izzo, Rv. 281673 – 01. 6 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2267 del 03/12/2013 – dep. 2014, Fynn, non mass. 7 Cass. Sez. I, 3 maggio 2022, dep. 30 giugno 2022 n. 24949.

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Il sistema penale e i suoi nemici

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –  L’approccio critico al sistema penale ha lo scopo di valorizzare la “ideologia della libertà, dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione che è consustanziale, “necessaria” all’ esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere”[1]. Ciò significa che l’attenzione del giurista deve essere indirizzata a contrastare la deriva autoritaria e la passione punitiva dei poteri pubblici e, al contrario, a valorizzare la costruzione di un sistema di limiti e a preservare e rafforzare il complesso delle libertà e dei diritti fondamentali.   Queste finalità, semplici, ma vitali, sono state purtroppo contraddette dall’indirizzo costantemente adottato dalle istituzioni di procedere nei termini di un rafforzamento dei poteri “di polizia” e di un’accentuazione delle istanze repressive, in accordo con l’attuazione di una legislazione “emergenziale” senza fine. Una prospettiva che, con il tempo, si è posta come un connotato strutturale, quasi qualificante, dell’ordinamento giuridico, alimentato da sempre nuove, e differenti, emergenze, che ha prodotto una moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, invadendo in modo incisivo i più diversi ambiti dell’esistenza. In verità, si è assistito ad un progressivo arretramento dello Stato in tema di aiuto ed intervento in favore dei soggetti più svantaggiati e alla graduale contrazione delle politiche sociali a tutti i livelli, sicché le scelte del potere politico si sono orientate verso un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. A specifico supporto dei programmi nebulosi, spesso improvvisati, di politica criminale, ma in piena aderenza alle pretese emotive sostenute dalla collettività, il più delle volte indotte dalle grida “propagandistiche” di una classe dirigente interessata a mascherare gli autentici problemi economici e sociali dietro il velo immaginario della paura. E con la precisa volontà di precostituirsi sacche di consenso politico, affidandosi alla risposta “irrazionale” della pancia della collettività[2]. Si è prodotto, così, un autentico mutamento di paradigma, che ha maggiormente ridotto lo spazio operativo del mondo dei giuristi e della società libera finalizzato a restringere i confini di manovra della forza dello Stato[3]. E ha fatto esplodere l’idea che alla materia penalistica vada affidato un compito eminentemente repressivo, quasi espressivo di un sentimento vendicativo, capace di svolgere un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, “le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing”[4], in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Un sistema in cui “l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assunto a religione di massa”[5], sicché l’aspetto rilevante non è dato tanto dalla ricerca della verità o dalla realizzazione della giustizia, quanto dalla sacralizzazione dell’azione punitiva, che ottunde la riflessione e neutralizza i problemi sociali, che permangono, ma vengono celati tra le pieghe delle punizioni. Le forme finiscono in tal modo a prevalere sui contenuti, di modo che si soprassiede sugli effetti perversi di un sistema penale che si sostiene sull’accanimento repressivo, ma finge di ignorare le lungaggini processuali causate da un fenomeno di overload del contenzioso, e i conseguenti e(o)rrori giudiziari, che non appaiono più effetti fisiologici dell’ordinamento, ma ormai patologici, in ragione dei numeri spropositati. Senza dimenticare le questioni spinose collegate all’esecuzione penale e alle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Chiaramente, queste scelte politiche, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale, che appare sempre più dissonante rispetto alla tavola di valori cristallizzata dalla Costituzione italiana, dove sono fissati i punti fondamentali di un modello garantista di stretta legalità, in cui l’esercizio del potere punitivo è improntato ad un paradigma che ha la finalità di garantire quell’insieme di diritti propri dell’uomo indagato, imputato e eventualmente condannato nelle fasi che via via si possono susseguire. E che mira ad una riduzione delle fattispecie penali, da una parte, e ad una previsione proporzionale ed equilibrata delle pene, dall’altra, in considerazione della loro essenziale finalità rieducativa, secondo quanto disposto dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1990[6]. Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione certamente tardiva, laddove le riforme sono intervenute, mentre per altri aspetti risulta completamente assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354, il nuovo codice di procedura penale è stato varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930, che si è tentato, con scarsi risultati, di rendere costituzionalmente orientato. Inoltre, il legislatore, a partire dagli anni novanta del secolo passato, ha realizzato una legislazione complessivamente repressiva, nella quale la strettoia delle garanzie si è andata progressivamente assottigliando. Uno sguardo rapido, a titolo esemplificativo, agli ultimi interventi riformatori può essere utile per focalizzare il percorso compiuto dal legislatore italiano. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo (art. 624 bis c.p.), per la rapina (art. 628 c.p.) e per l’estorsione (art. 629 c.p.). Il dato che colpisce è che le modifiche realizzate hanno riguardato i minimi edittali delle pene, con ciò enfatizzando la furia repressiva statale e avvalorando l’idea di pubblici ministeri e giudici considerati alla stregua di “magistrati di scopo”, chiamati alla più severa determinazione delle pene in concreto. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018 convertito dalla Legge n. 132 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici”, fino ad un massimo di sei anni di reclusione. È stata, inoltre, data nuova linfa vitale al reato di mendicità, abrogato con i provvedimenti di depenalizzazione del 1999, e reintrodotto quale “esercizio molesto di accattonaggio”, art. 669 bis c.p. Analoga operazione è stata realizzata con il reato

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ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA

di Manuel Curcio –   Nell’ordinamento italiano determinate categorie di professionisti sono soggette a particolari condizioni nell’esercizio della propria attività e ciò in quanto gli stessi possono incorrere in situazioni potenzialmente rischiose in termini di legalità, soprattutto in ragione della natura della clientela con la quale si interfacciano. L’Italia, attualmente, rispetto il fenomeno del riciclaggio, ha dunque previsto un sistema basato su un vero e proprio doppio binario corrispondente a due diverse esigenze, sia di carattere sistematico che di tipo sanzionatorio. Infatti, se da un lato il legislatore nazionale ha previsto la rilevanza codicistica delle condotte sostanziatesi negli illeciti di cui agli artt. 648bis (riciclaggio) e 648ter (autoriciclaggio) c.p., riconoscendo in tal senso una punibilità secondo i canoni tipici del diritto criminale, dall’altro versante, invece, soprattutto per via dei numerosi impulsi di matrice sovranazionale[1], l’Italia si è dovuta munire di un sistema a carattere per lo più amministrativo con l’intento non soltanto di reprimere determinati comportamenti ma bensì di prevenirli, anticipando, quindi, la soglia di rilevanza della singola condotta. In particolare, mediante l’introduzione del D.lgs 321/2007, il legislatore ha voluto porre in essere un sistema di protezione dell’integrità dei sistemi economici e finanziari da ingerenze criminose, con una spiccata attenzione al fenomeno del riciclaggio[2], soprattutto per quel che attiene il finanziamento del terrorismo. Volendolo definire genericamente, è stato instaurato un meccanismo di controllo e di verifica ex ante in modo tale che, determinate categorie di soggetti professionali e qualificati, considerati maggiormente a rischio per via dell’intrinseca natura dell’attività in concreto esperita, potessero sottostare ad un regime preventivo differenziato.   I soggetti destinatari del D.lgs 231/2007 sono indicati dal Capo III del decreto e coinvolgono sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Soffermandoci maggiormente sulla categoria dei professionisti, l’art. 12 sancisce come debbano intendersi in tal senso: a) ragionieri, commercialisti, consulenti del lavoro e coloro i quali siano iscritti nell’albo dei periti commerciali, b) qualsiasi altro soggetto che renda i servizi forniti da periti, consulenti e altri individui che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi(da intendersi compresi anche le associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e patronati) c) i notai e gli avvocati soltanto nel caso in cui, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare ovvero nell’ambito di assistenza nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; nonché la gestione di denaro, strumenti finanziari o di altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione   di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi; d) i prestatori di servizi relativi a società e trust ad esclusione dei soggetti rientranti nelle categorie poc’anzi esplicate. Rispetto ai suddetti soggetti, la legge impone una serie di obblighi volti alla verifica della clientela di riferimento. In tal senso il fine preventivo del decreto si manifesta nell’obbligo di esercizio di un’attività prodromica con la quale il legislatore delimita l’ambito di rischio di alcune operazioni economiche maggiormente esposte al pericolo di contaminazione criminosa. Parlando concretamente, si prevedono due macro categorie di adempimenti a carico dei professionisti, in primis, come già anticipato, l’art. 16 del D.lgs 231/2007 richiede l’adeguata verifica della clientela e dell’effettivo titolare del bene ovvero del servizio: qualora la prestazione professionale in questione abbia ad oggetto mezzi di pagamento, beni od utilità di valore pari o superiore a 15.000 euro; quando vengono eseguite prestazioni professionali occasionali consistenti nella trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che siano effettuate con un’operazione unica o con più operazioni che appaiono collegate o frazionate tra loro; tutte le volte che l’operazione sia di valore indeterminato o non determinabile. A tali fini, la costituzione, gestione o amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi integrano, a priori, un’operazione di valore non determinabile. In ogni caso poi, la norma ad esame, come vera e propria clausola di chiusura, sancisce l’obbligo di adeguata verifica ogni qual volta vi sia un sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile; ovvero quando sorgano dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente ottenuti ai fini dell’identificazione di un cliente. Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica è disciplinato dall’art. 18 del D.lgs 231/2007, il quale dispone come il singolo professionista sia chiamato a svolgere: l’identificazione del cliente secondo parametri oggettivi e riconoscibili e quindi ricavabili sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo con annessa verifica circa l’identità del medesimo; l’ottenimento d’informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale; lo svolgimento di un controllo periodico e costante nel corso del rapporto continuativo o nello svolgimento della prestazione professionale. In questo contesto, l’ulteriore macro insieme di adempimenti relativi alla normativa sull’antiriciclaggio attiene ai profili di registrazione[3] e segnalazione[4] delle varie operazioni effettuate. Nel primo caso si impone al professionista una vera e propria rendicontazione intesa non soltanto con riguardo alle operazioni in quanto tali, ma bensì anche rispetto al proprio sistema di verifica all’epoca esperito rispetto quello specifico cliente; mentre, per quel che attiene le segnalazioni, il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione all’UIF (Unità di informazione finanziaria Italia) ovvero all’ordine professionale competente ogni qualvolta vi sia il dubbio o il ragionevole motivo di  sospettare che siano in corso o che siano state compiute, o quantomeno tentate, operazioni di riciclaggio ovvero di finanziamento del terrorismo, o che comunque i fondi oggetto delle operazioni, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. In merito alle sanzioni, si sottolinea come l’art. 55 del D.lgs 231/2007 ha introdotto una serie di illeciti, sia di natura penale che meramente amministrativa, relazionati alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto in questione. Sul fronte del diritto penale, si segnala l’instaurazione di una

ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA Leggi tutto »

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