2-3-1… FALSA PARTENZA E INCERTO ARRIVO
Vittore D’Acquarone* – Azione penale Molto si è detto e scritto sulla natura della responsabilità degli enti, molto meno sulla obbligatorietà o meno dell’azione penale, rispetto alla quale converge, pur nell’eterogenesi dei fini, un generale riserbo: la magistratura per conveniente governo dei procedimenti e la dottrina per evitare di intestarsi soluzioni impopolari. L’esperienza giudiziaria, ormai prossima ad un quarto di secolo, ha peraltro attestato che l’applicazione del d.lgs. 231/2001 è affidata alle private preferenze di ciascun organo inquirente. Ammettiamo di essere convinti che la responsabilità sia penale e l’azione, purtroppo, obbligatoria, ma in questa sede accenneremo ad altre considerazioni. In un ordinamento che si vanta dell’idolo della obbligatorietà, benché noncurante della collaudata ipocrisia, era evidente che la clamorosa e simbolica attrazione della persona giuridica nell’orbita del diritto penale avrebbe imposto una esplicita previsione e sorprende, o dovrebbe, che il legislatore abbia affidato il tema all’interprete, ornando inoltre il testo normativo, probabilmente per irrisolti pudori costituzionali, del riferimento letterale alla “responsabilità amministrativa”, che ne accresce e non dissolve l’ambiguità. Il dilemma era, quindi, originario, e si è progressivamente amplificato, se non altro per la inarrestabile moltiplicazione dei reati presupposto, e tuttavia nell’insistente silenzio del legislatore e, appunto, anche nella tollerata indifferenza della magistratura. Circostanze entrambi preoccupanti, se si considera che la sollecitazione europea per l’allineamento dell’ordinamento italiano a quelli internazionali, in particolare di common law, rispondeva soprattutto ad esigenze di regolamentazione concorrenziale e a contenere migrazioni e vantaggi imprenditoriali orientati dall’impunità. Non meno problemi si spostano dal piano generale a quello specifico. L’impianto normativo poggia, più in teoria che in pratica, sulla prospettiva premiale dell’ente che adotta e attua un modello idoneo prima del fatto o, comunque, prima dell’apertura del dibattimento. Il premio promesso ha l’apice nell’esimente e digrada nella dosimetria delle sanzioni, ma sottintende, qui più in concreto che in astratto, la tutela reputazionale: prima si esce dalla gogna dell’indagine e meglio è. Non già solo per i costumi giustizialsensazionalistici della cronaca giudiziaria, bensì anche e soprattutto per le misure di compliance che tendono alla prematura emarginazione dell’ente sospettato di irregolarità. La certezza su tempi e modi dello sviluppo cronologico della incolpazione all’ente scandisce, quindi, le principali opportunità difensive e rappresenta la premessa ontologicamente fondamentale per l’efficienza dell’intero sistema. All’estremo opposto si colloca invece la consuetudine prevalente: la contestazione del reato presupposto alla persona fisica apre per l’ente la fase dell’incertezza per i più avveduti e della inconsapevolezza per gli altri. Rispetto ai secondi il senso della norma è di fatto abrogato, mentre per i primi s’avvia una scommessa sulle abitudini dell’inquirente, il cui esito spesso si rivela con la conclusione delle indagini preliminari e in termini che non giustificano se non formalisticamente le ragioni della scelta. E qui ad essere abrogato è il diritto di difesa. Sono, infatti, piuttosto frequenti gli avvisi ex art. 415-bis c.p.p. che inaugurano l’avvio del procedimento all’ente e che laconicamente rimproverano l’inidoneità del modello. Inquadramento del sistema Il d.lgs. 231/2001 ha introdotto – e in ciò era ed è la epocale innovazione – la responsabilità penale per le persone giuridiche, il cui protagonismo è stato tuttavia sopraffatto dalla previsione, invece strumentale e subordinata, di un paradigma esimente per l’ipotesi in cui, e solo per l’ipotesi in cui, il reato presupposto fosse il prodotto, occasionale e non endemico, di una difettosa gestione dei rischi per fini di profitto e non già di una scelta consapevole e deliberata dell’ente stesso. L’ente meritevole di esonerarsi dalle sanzioni è, infatti, esclusivamente quello che dimostra di aver riconosciuto e adeguatamente mitigato i rischi caratteristici, ancorché rimanendo fisiologicamente esposto a condotte delittuose, in particolare dei suoi vertici, che devono però connotarsi in termini di misurabile ed individuale antagonismo rispetto alla verificabile volontà collettiva virtuosa. In gergo laico, si potrebbe riassumere che l’ente non risponde se prova di essere stato vittima di un tradimento qualificato. Il congegno normativo, invero, dato l’accertamento dei requisiti oggettivi, coniuga una presunzione di colpevolezza sul piano soggettivo, superabile con l’inversione dell’onere probatorio e l’imposta concorrenza di predefiniti requisiti organizzativi (cfr. Relazione governativa, par. 3.4 e art. 6 d.lgs. 231/2001). L’operatività difensiva del modello organizzativo si rivolge, già in premessa e sul piano fenomenico, ad una specifica categoria di illeciti, che rappresenta una frazione del panorama complessivo della criminalità d’impresa. Se ne ha prova nell’art. 16 comma 3, piuttosto trascurato dai commentatori e dalla prassi: “Se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività e non si applicano le disposizioni previste dall’articolo 17”. Il modello, quindi, non può difendere l’ente davanti alla dimostrazione del reato eletto a mezzo abituale di profitto, bensì resistere solo quando la sua accidentale verificazione attenga l’inadeguato governo del rischio come sviluppo prevedibile dell’attività di impresa. Il confine è assai sofisticato sul versante empirico e criminologico, nonché complesso su quello investigativo e probatorio, ma solido concettualmente e in linea di principio, sicché le difficoltà applicative non dovrebbero torcere le coordinate costitutive del sistema punitivo sino a deformarle. La previsione normativa stigmatizza il prototipo più pericoloso d’impresa e, in termini coerenti con lo spirito della legge, le promette una sanzione definitiva e inevitabile. Ma, soprattutto, per conferirle effettività, induce a ritenere che, dati il reato presupposto e i requisiti oggettivi, all’organo dell’accusa competa, già in fase di indagini e al codificato fine di precludere perfino la prospettiva premiale dell’art. 17, l’accertamento supplettivo sulla abitualità, come tema ulteriore e specifico e che pretende un contributo positivo d’incolpazione, non certamente surrogabile per mezzo della sola censura alle prospettazioni difensive sulla idoneità del modello. Si può, dunque, affermare che, almeno in termini circoscritti alla fattispecie più grave di responsabilità dell’ente, la valutazione sulle caratteristiche organizzative e le presunte debolezze teleologicamente orientate alla indulgenza delittuosa fosse immancabilmente nel perimetro investigativo dell’accusa. E, se così è, come si crede, anche obbligatorio individuare gli addebiti con chiarezza e precisione nella contestazione dedicata alla persona giuridica. Magari attraverso l’ampliamento del
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