Comunicato

“I CIMITERI DEI VIVI” E L’ULTIMO DEI MOLTI SENZA RESPIRO. SUICIDIO N. 81. CRONACA DI MORTI ANNUNCIATE

Soltanto pochi giorni fa un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita nella casa di reclusione di Catanzaro. La notizia, diffusa dalla stampa, suscita tristezza e rinnova il sentimento di sgomento, ci tocca da vicino, perché si tratta di un suicidio avvenuto nelle carceri cittadine e perché questo estremo gesto di disperazione denuncia ancora una volta, ove ve ne fosse la necessità, le gravi inadeguatezze che accompagnano la detenzione. Non si tratta soltanto di rimarcare le condizioni di sovraffollamento, con le ricadute sulla salubrità dei luoghi, sull’assistenza sanitaria, sulla sicurezza e sui percorsi rieducativi, che non sono carenze di poco momento, ma di prendere coscienza che in carcere sono detenuti anche cittadini estremamente fragili, per condizioni di dipendenza dalle sostanze stupefacenti o per via di patologie psichiatriche. È’ il caso del giovane che ha deciso di togliersi la vita a Catanzaro, il quale sommava in sé le due fragilità e che aveva chiesto di poter essere allocato in una struttura più prossima alla residenza dei familiari e la fruizione di cure psichiatriche aggiuntive, a quanto pare senza esito, per come riportato dalla stampa. Sono note le molte iniziative assunte dalla società civile e dalle associazioni impegnate in questo campo, tra cui – in prima linea – l’Unione delle Camere Penali Italiane e le Camere penali territoriali che, ormai da lungo tempo, denunciano le difficili ed inaccettabili condizioni della detenzione nelle carceri italiane. Tuttavia, l’impegno profuso, pur alimentando il dibattito nel discorso pubblico e sollecitando la coscienza sociale ad occuparsi delle drammatiche condizioni dei “cimiteri dei vivi” (come li definì Filippo Turati in un Suo celebre discorso), non riesce a scuotere i palazzi della politica, nei quali il tema è volontariamente trascurato, chiusi, come sono, in una sorda indifferenza. A rendere più amara la distanza dalla vita reale, la presa d’atto che al Governo si è piuttosto impegnati a compiacersi del disagio, se non anche della sofferenza inferta ai detenuti nei trasferimenti sui blindati della Polizia Penitenziaria; o, ancora, si avverte il senso della sconfitta solo a ipotizzare l’adozione di procedure premiali che, senza automatismi e con adeguate garanzie, potrebbero nel breve periodo ridurre la popolazione carceraria, determinando così il miglioramento  delle condizioni di vita all’interno degli Istituti di pena e la fruizione di percorsi di risocializzazione e sanitari almeno sufficienti, se non anche efficaci. Senza entrare nel merito della vicenda particolare e lontano dall’esprimere giudizi che non competono, si tratta però e una volta per tutte di prendere coscienza che lo Stato, quando assume la custodia dei cittadini detenuti, ha degli obblighi che non può disattendere, così come nessuno di noi può tollerare che le condizioni di vita nelle carceri possano incidere sulla scelta di smettere di vivere. Non si pensi, allora, che l’Ultimo dei Molti che si sono tolti la vita era un tossicodipendente o un paziente psichiatrico e che l’epilogo era inevitabile,  perché l’Ultimo ed i Molti hanno smesso di vivere mentre erano in carcere e non altrove, in una condizione nella quale lo Stato se ne era assunto la custodia, e per cui era tenuto a curarli e a salvaguardarli anche da se stessi. Rinnoviamo la nostra denuncia auspicando “se non ora quando” che la Politica nazionale voglia farsi carico dell’adempimento dei doveri dello Stato verso i cittadini detenuti e tra questi con priorità verso i più fragili.    Il Consiglio Direttivo e l’Osservatorio Carcere  

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AGGIORNATO IL PROTOCOLLO D’INTESA PER IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

Siglato oggi, 8 ottobre 2024, l’aggiornamento del Protocollo d’intesa stipulato nel 2017 fra il Tribunale di Catanzaro, l’Ordine degli Avvocati di Catanzaro e la Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” per la liquidazione degli onorari dei difensori dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato e dei difensori d’ufficio degli irreperibili, in materia penale. La modifica licenziata in data odierna, resasi necessaria a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 147/2022 e del rincaro della vita nel periodo post pandemico, contribuirà al raggiungimento degli obiettivi posti a giustificazione del Protocollo: agevolare l’accesso all’istituto del patrocinio a spese dello Stato ai soggetti non abbienti, garantire valutazioni omogenee e rispettose del decoro e della professione forense, individuare parametri di liquidazione dei compensi tali da rendere effettiva, rapida ed agevole la loro determinazione e ridurre il numero delle opposizioni nel settore delle liquidazioni poste a carico dell’Erario. Un ringraziamento particolare all’Osservatorio sul patrocinio a spese dello Stato della Camera Penale per il generoso impegno, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, in persona del suo Presidente avv. Vincenza Matacera, per la proficua collaborazione, e al Presidente del Tribunale di Catanzaro, dott. Rodolfo Palermo, per il decisivo contributo professionale e la grande sensibilità dimostrata anche in questa occasione. Il Consiglio Direttivo www.ordineavvocati.cz.it: https://lc.cx/JdmchV Consulta il documento originale https://www.camerapenalecatanzaro.it/documenti/

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IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO

I comunicati di ANM – nazionale e territoriale – che censurano la ruvidezza dei toni usati nel documento licenziato dal Coordinamento regionale, all’indomani dell’assoluzione dell’Avvocato Armando Veneto, meritano una attenta e seria analisi. Entriamo subito in medias res: comprendiamo la replica di ANM per il registro comunicativo scelto dall’avvocatura. Due le riflessioni. La prima, di contesto. Abbiamo sofferto a fianco di Armando Veneto per 4 lunghissimi anni, registrando quanto male egli abbia patito per una accusa infamante che è lontana anni luce dalla Sua storia personale e professionale. L’esito liberatorio – un esito che ha il merito di avere riallineato la verità processuale a quella “storica” e all’evidenza della prova – ha suscitato emozioni forti, intense, che, da un lato, sono alla base del registro del comunicativo espresso da chi si sente “figlio” di quella Scuola penalistica che vede in Armando Veneto l’indiscusso Maestro; dall’altro lato, hanno stimolato riflessioni indifferibili e urgenti sulla cifra non tollerabile di ingiustizia del sistema. Una cifra ben conosciuta dall’avvocatura, costretta a misurarsi sempre più spesso con la quota insopportabile, semmai ve ne possa essere una, di sofferenza marchiata a fuoco sulla pelle viva del cittadino esposto alla nuova fisionomia assunta dal moderno diritto penale di lotta. La seconda, di prospettiva. ANM legge nelle parole – più precisamente negli aggettivi e nelle metafore usate – un attacco a specifici (ma non precisati) magistrati ai quali esprime pertanto solidarietà. Non è così. Se così fosse, infatti, saremmo tutti sollevati dal pensiero che le distorsioni denunciate negli anni dall’avvocatura, da nord a sud, dipendano dai limiti di pochi e non, per come in effetti riteniamo, da sbilanciamenti di sistema che incrementano i rischi per tutti, non solo per i sovraesposti in ragione della categoria o del profilo di appartenenza. Emblematico, al riguardo, è anche il caso di Torre Annunziata, in cui l’intervento di un avvocato (un grande Avvocato…) davanti una platea gremita di studenti è stato bollato da quella sezione di ANM, come nocivo per la gioventù immatura. Ci sia consentito di dissentire. Vorremmo che ANM ascoltasse il grido di dolore proveniente dall’avvocatura tutta: interrogare la coscienza di chi detiene il potere e riflettere sui costi inaccettabili di un esercizio dell’autorità sbilanciato dagli accenti punitivi. Vorremmo che non venisse trascurato il merito delle posizioni critiche provenienti dal mondo in fermento dell’assise organizzata dei penalisti. Quello rimane ancora sul tappeto. Da parte nostra c’è la ferma volontà di leggere il buono del messaggio che ANM diffonde – un invito alla pacatezza – e l’auspicio che, da parte di tutti, si abbia il coraggio di fermare l’attenzione su ciò che i casi esemplari imporrebbero di inserire nell’agenda di chi è interessato al funzionamento del processo penale. Per ridurre le distanze tra noi, è sufficiente rivolgere l’attenzione sui moderni effetti prodotti dal più terribile dei poteri, e sulla piaga degli innocenti precipitati nel processo ed estratti in pezzi dopo anni di patimenti. Ha ragione ANM, serve un certo grado di dissennatezza per spingere gli avvocati a denunciare le anomalie del sistema, piuttosto che assennatamente accomodarsi al riparo di banali luoghi comuni che raccomandano di limitarsi ad esprimere soddisfazione perché giustizia è fatta. Sia consentito: assennati sì, ma non fino al punto di rinunciare ad occuparci delle dinamiche dell’accertamento giudiziario che generano inique spirali e danni incalcolabili. Perché molto assennatamente tradiremmo il senso della nostra funzione. A fine febbraio, il 27 per la precisione, le Camere Calabresi hanno trovato chiuse le porte dei Tribunali, nonostante avessero espressamente chiesto l’autorizzazione a ricordare, nelle aule di Udienza, la ricorrenza del V anniversario del suicidio di Rocco Greco, vittima di (in)giustizia. Ci è stato spiegato che parlare in pubblica udienza dell’errore giudiziario e delle sue cause deprime la fiducia dei cittadini nella Giustizia; e fuor di luogo sarebbe manifestare nei luoghi in cui si amministra giustizia dubbi sulla costituzionalità di norme che alimentano il rischio dell’errore. Ci è stato richiesto di preservare il cittadino e di ricercare piuttosto il confronto tra addetti ai lavori. Crediamo che il Tribunale debba essere (anche) il luogo in cui discutere dei “limiti” del sistema giustizia. Ad ogni modo, rinnoviamo la nostra disponibilità al confronto franco e leale con la magistratura, specie sui temi difficili. Un confronto aperto alla società civile, perché il tema della libertà impegna, per primi, i cittadini. Dobbiamo esser disposti a riflettere sulle concrete dinamiche dell’errore giudiziario e dei danni del processo, che riguarda tutti, nessuno escluso. Dobbiamo interrogarci sul ribaltamento (anche culturale) della presunzione di innocenza, sulle sue cause, sulla sua contagiosa diffusività, sulla permeabilità di un sistema inefficace quando si tratta di prevenire l’errore ovvero di riconoscerlo e porvi rimedio. Insomma, dovremmo essere pronti tutti a comprendere che il confronto utile è quello scomodo. Auspichiamo disponibilità a questo genere di confronto.   Scarica il comunicato da noi sottoscritto: IL CONFRONTO UTILE È QUELLO SCOMODO Rassegna stampa: https://shorturl.at/bcBVX https://shorturl.at/krN03

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FERMARE I SUICIDI IN CARCERE. NON C’È PIÙ TEMPO!

  La Camera Penale di Catanzaro aderisce all’astensione nazionale di giorno 20 marzo, proclamata dall’UCPI, per chiedere a Governo e Parlamento un intervento urgente per porre fine al sovraffollamento carcerario e al dramma dei suicidi in carcere. Le politiche in materia di sicurezza realizzate dallo Stato italiano negli ultimi decenni sono la causa del fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario e delle conseguenze inumane e degradanti dello stato di detenzione, certificate persino da pronunce di condanna da parte della CEDU nei confronti della Repubblica Italiana; fra le tante si ricorda la sentenza “pilota” emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia, nel 2013. Sono passati oltre dieci anni da questa storica pronuncia e, nonostante l’indice di commissione dei reati sia in costante calo, la situazione all’interno degli istituti di pena non è mutata: il numero di detenuti è superiore alle 60.000 unità e, con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, a breve raggiungerà il livello che valse la condanna internazionale nell’anno 2013. La verità è che, a seguito di un costante quanto immotivato aumento degli edittali di pena e di una creazione spropositata di fattispecie delittuose, promulgate in esclusiva ottica di raccolta del consenso elettorale, è oggi molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne, visto il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative o l’uso eccessivo della leva cautelare, soprattutto alle nostre latitudini. Il risultato è uno Stato che con frequenza sistemica è obbligato a indennizzare i propri cittadini a causa degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro (dati tratti da Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati di B. Lattanzi e V. Maimone). Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I cittadini detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, sono venticinque i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni. È necessario che il Governo e il Parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni che possono essere immediatamente adottate e consentire l’equilibrio del sistema penitenziario sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza. Queste le ragioni dell’astensione nazionale proclamata dall’UCPI per il 20 marzo, a cui la Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro aderisce, affinché il tempo della pena sia un tempo utile a realizzare l’integrazione sociale del reo e non conduca più alla morte per pena. Catanzaro, 15 marzo 2024 Il Consiglio Direttivo   Rassegna stampa: https://shorturl.at/eEIMU https://shorturl.at/dmuDL  

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PER ARMANDO VENETO NEL GIORNO DELLA SUA ASSOLUZIONE

Armando Veneto, vessillo e guida dell’avvocatura calabrese e nazionale, è stato assolto dalla Corte di appello di Catanzaro. È dunque arrivato anche il riconoscimento del sistema che si era attivato per strappargli la toga e l’onore del grande avvocato. È un giorno fausto per tutti noi. E per i molti altri che non hanno mai pensato che servisse una sentenza per sapere dell’estraneità all’accusa infamante rivolta ad un uomo di impareggiabili qualità umane, intellettuali, professionali. I penalisti italiani non gli hanno mai fatto mancare il calore e la vicinanza e il sostegno durante i quattro anni di calvario trascorsi nell’attesa che la macchina infernale del processo all’innocente si inceppasse finalmente e si svelasse insulsa, indecifrabile, ciecamente violenta. Vergognosa in una parola. Ma la sentenza di oggi non cancella la condanna del processo ingiustamente inflitta, quella che non ha rimedio, che colpisce e umilia ancor più intensamente quando, come nel caso di Armando Veneto, è certo che un processo non poteva nemmeno essere iniziato. È però accaduto che un uomo degno per virtù ed opere ma scomodo per passione civile irriducibile e coraggio, abbia avuto in sorte di incrociare la miseria etica del pregiudizio, del fanatismo belligerante che ottenebra menti devastate dal cancro del sospetto. Così come infinite volte lui, campione nella contesa per il cittadino accusato, l’Avvocato Veneto ha avuto a fianco difensori valorosi e tenaci che hanno saputo misurarsi con le insidie del pre-potere capace di imbastire un processo senza prove ma con un bersaglio preciso; ed hanno saputo arginare la spinta pre- potente verso un risultato che suonasse da monito per tutti noi. A loro va nostra gratitudine. È un giorno fausto ma i nostri pugni sono serrati e la tensione non si scioglie. Non dimentichiamo, non possiamo dimenticare. Non dimenticheremo. Comunicato: Per Armando Veneto nel giorno della sua assoluzione

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GIORNATA IN RICORDO DELLE VITTIME DELL’ERRORE GIUDIZIARIO

“Io devo andare perché voi siate liberi” – Rocco Greco (m. 27.02.2019) Prevenzione dall’errore giudiziario NELLA RICORRRENZA DEL V ANNIVERSARIO DALLA MORTE DI ROCCO GRECO 27 FEBBRAIO 2019 – 27 FEBBRAIO 2024 È l’alba del 27 febbraio 2019. Rocco Greco, imprenditore di Gela, simbolo della lotta alla mafia, si toglie la vita all’interno della sua azienda, la Cosiam s.r.l., dopo aver letto l’ordinanza del Tar di Palermo con cui viene confermata una seconda interdittiva antimafia che paralizza l’impresa e, ancor più, l’Uomo. Insostenibile il peso di un sistema che, in nome dello Stato, fagocita sospette vittime compiacenti della mafia, sulla scorta di elementi la cui infondatezza è già stata conclamata dall’autorità giudiziaria con sentenza passata in giudicato. Un “artificio manifestamente infondato”, così si esprimeva la Suprema Corte già nel 2013 sulle calunniose propalazioni accusatorie mosse dagli estorsori di Rocco Greco nel tentativo di macchiarne l’integrità, per cui l’imprenditore è stato successivamente imputato e assolto dal processo penale, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno e in seguito, sulle medesime circostanze, irrimediabilmente “condannato” dal sistema di prevenzione. Perché, con ogni evidenza, di condanna si tratta se si guarda alle drammatiche ripercussioni di tali misure sulla vita di chi ne viene travolto, oltre che sul tessuto economico-sociale in special modo delle aree più depresse del Paese. Purtroppo, a distanza di cinque anni, ci rendiamo conto di quanto la prevenzione patrimoniale continui a “far male” e coinvolga l’intero sistema giustizia. Ma non basta. Il recente caso di Beniamino Zuncheddu, vittima innocente dello Stato, condannato all’ergastolo per un terribile delitto e assolto dalla Corte d’Appello di Roma lo scorso 26 gennaio, all’esito del processo di revisione, dopo trentatré anni di privazione della libertà, ci impone di fermarci e riflettere dinanzi al tema, delicato e complesso, dell’errore giudiziario. Un caso emblematico di eccezionale gravità, tutt’altro che isolato. Basti pensare che dal 1992 al 2022 sono stati registrati in Italia, ogni anno, oltre 985 casi di innocenti catturati, incarcerati, e comunque privati della libertà, in forza di provvedimenti restrittivi successivamente obliterati da sentenze di assoluzione e seguiti da indennizzi per ingiusta detenzione per oltre 800 milioni di euro. Tale stato di cose, coinvolge significativamente anche la nostra regione, a lungo in cima alle classifiche. Questo dato, ci responsabilizza ancor di più, perché il tema dell’errore giudiziario non riguarda – e non può riguardare – solo l’Avvocatura, ma coinvolge tutto il Sistema giustizia, poiché unica è la funzione di tutela per i diritti: la Toga, espressione di democrazia e indipendenza. Attenzione da rivolgere in ogni sede, dentro e fuori i Palazzi di Giustizia, perché a tutti noi sta a cuore assicurare il giusto processo penale e il giusto procedimento di prevenzione, per ridurre le aree di rischio ed evitare gli inciampi e gli strappi che si consumano ogni qual volta si concretizza il dramma dell’errore giudiziario. Siamo ben consapevoli che senza uomini e mezzi, con riforme a costo zero e organici ridotti, non si può garantire una risposta soddisfacente alla crescente domanda di giustizia. Perché è inevitabile, proseguendo ostinatamente la corsa su questo binario cieco, che l’eccesso quantitativo degli affari da smaltire si riverberi sul dato qualitativo del risultato da offrire. Ma al tempo stesso siamo convinti che non possa avere diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento un sistema, come quello della prevenzione personale e patrimoniale, con un difetto d’origine che lo rende fonte inesauribile di errori giudiziari irrimediabili. Perché l’idea che la sommarietà dei procedimenti applicativi della pena del sospetto possa legittimarsi in virtù della rilevanza secondaria dei diritti incisi dal sistema della prevenzione e, cioè, il patrimonio ed il lavoro degli uomini, contrasta coi principi basilari che cementano il senso di comunità e che la Costituzione come tali riconosce nella sua prima parte. Ed è offensiva della memoria e delle sofferenze degli uomini che, come Rocco Greco, ne hanno patito le indiscriminate conseguenze. È il momento, allora, di tracciare il percorso comune della prevenzione dall’errore giudiziario. La memoria di tutte le vittime della giustizia – per ricordarne alcuni Enzo Tortora, Antonino Spanò, Daniele Barillà, Aldo Marongiu, Giuseppe Gulotta, Rocco Greco, Beniamino Zuncheddu – deve spingerci tutti a fermarci e a riflettere sullo stato di cose, diventando protagonisti di percorsi di cambiamento che possano migliorare la qualità della risposta che ogni giorno siamo chiamati a fornire a chi è in attesa di giustizia. Ecco perché tutte le Camere penali della Calabria avvertono l’esigenza di lanciare l’iniziativa del 27 febbraio prossimo e di sostenere la proposta dell’UCPI di indire una giornata nazionale in memoria delle vittime dell’errore giudiziario e delle misure di prevenzione. Ecco perché tutte le Camere penali della Calabria avvertono l’esigenza di lanciare l’iniziativa del 27 febbraio prossimo – di osservare alle ore 9:30, simultaneamente, in tutte le aule di udienza dei tribunali e delle corti di appello della Calabria, un minuto di silenzio, seguito dalla lettura del presente documento del Coordinamento regionale delle Camere penali della Calabria – e di sostenere la proposta dell’UCPI di indire una giornata nazionale in memoria delle vittime dell’errore giudiziario e delle misure di prevenzione.   Documento originale a cura del Coordinamento Camere Penali Calabresi Comunicato del 27.02.2024 LINK rassegna stampa: https://shorturl.at/nqzN5 https://shorturl.at/etX01

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La giustizia del governo e il governo della giustizia. Riflessioni a margine dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani.

di Francesco Iacopino –  Si è conclusa sabato scorso l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, dedicata al “processo come ostacolo” e al “carcere come destino”. Abbiamo affrontato il tema della ‘fabbrica dei reati’ e della dimensione “carcerocentrica della pena”, confrontandoci anche con il Ministro della Giustizia e la classe politica, in una sessione specificamente dedicata al “governo della giustizia” e alla “giustizia del governo”. Il “governo della giustizia” dovrebbe trovare fonte di ispirazione e alimentare la “giustizia sociale” e non delegare la soluzione delle disuguaglianze e delle povertà del nostro tempo alla “giustizia penale”. E, invece, il fallimento o, meglio, la bancarotta fraudolenta della politica sociale è “coperta” sempre di più dalla truffa continuata dell’espansione penale. In una democrazia emotiva, qual è quella nella quale viviamo, alla domanda di sicurezza collettiva si risponde bulimicamente con l’aumento “dei delitti e delle pene”. Si ignorano ostinatamente le conseguenze tossiche prodotte dal sovradosaggio del diritto penale (oramai “totale”) e si insiste demagogicamente nella folle corsa alla produzione dei reati, all’inasprimento delle sanzioni, alla somministrazione sempre maggiore di sofferenza carceraria. Una risposta illusoria, inadatta, una mal practice che alimenta il disagio individuale e l’insicurezza collettiva. Un circolo vizioso e disumano produttivo di sovraffollamento, disperazione, suicidi (negli ultimi 30 anni la popolazione carceraria è raddoppiata e, nel 2024, si sono tolti la vita ben 17 detenuti: uno ogni due giorni). Ad aggravare il carico di dolore, i centri di permanenza per il rimpatrio: carceri mascherate, fatiscenti, scandalose, che certificano l’esistenza di esseri umani di “serie b”, portatori di “diritti di scarto”, di “libertà (non) fondamentali”, “violabili”. Se rimuoviamo il velo dell’ipocrisia ci affacciamo su luoghi di “detenzione amministrativa”, vere e proprie galere per extracomunitari irregolari che (non hanno commesso reati, ma) pagano con la libertà il prezzo di un titolo di soggiorno mai avuto. Discariche per rifiuti non pericolosi, centri di raccolta dei moderni disperati della storia. A inchiodarci al muro delle nostre responsabilità ancora una volta una morte tragica, quella di Ousmane Sylla, il 22enne della nuova Guinea impiccatosi – lasciando un biglietto straziante – nel CPR di Ponte Galeria! Dovremmo fermarci e sostare davanti a tanto dolore. Arrestare la folle corsa ossessivo-punitiva. Trovare il coraggio di ribellarci a un sistema pan-penalistico che ha alterato gli equilibri del rapporto tra autorità e libertà. Smascherare le pubblicità ingannevoli che hanno anestetizzato quotidianamente il nostro senso di umanità. Perché è disumano, oltre che illusorio, pensare che le tossicodipendenze, le malattie psichiatriche, i soggiorni irregolari dei migranti economici che fuggono dalla miseria, le povertà materiali e la solitudine esistenziale possano trovare soluzioni e garantire sicurezza alle nostre vite comode e borghesi, scaricandone il peso sull’istituzione penitenziaria o, peggio, buttando via le chiavi! Non è questa la civiltà del diritto che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Non è questo – un diritto penale onnivoro, vendicativo, spietato – quello che hanno immaginato i nostri padri costituenti quando ne hanno disegnato l’architettura nella nostra costituzione. E, allora, dopo due giorni intensi, ritorniamo alla quotidianità del ministero difensivo con la rinnovata consapevolezza di essere, gli Avvocati, l’ultimo baluardo, l’ultimo argine possibile alla deriva punitiva che ha dato l’abbrivio a un sistema che pretende di regolare le disuguaglianze e gli scarti sociali con la leva penale e di utilizzare il carcere come centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali. Dopo momenti alti di confronto e di formazione, che hanno irrobustito l’orgoglio di essere Avvocati, e Avvocati penalisti in particolare, ritorniamo nelle nostre trincee ancora più motivati e consapevoli del significato profondo, autentico della nostra missione e della nostra funzione, chiamati come siamo a assumere la difesa dell’uomo e delle sue libertà e, al contempo, a essere sentinelle e custodi del corredo assiologico che ha dato vita al moderno diritto penale liberale e al giusto processo.   Rassegna stampa: https://shorturl.at/bfRV6 https://shorturl.at/wxL08 https://shorturl.at/eBISV http://tinyurl.com/ymn4232e https://t.ly/8O86K  

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“Liberi” di amare? – Breve nota alla pronuncia della Corte Costituzionale, n.10/2024, in tema di affettività in carcere.

Osservatorio Carcere – Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” – In data 26 gennaio 2024 la Corte Costituzionale con Sentenza n. 10/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 per la mancata previsione di modalità per l’esercizio dell’affettività tra il detenuto ed il coniuge o il convivente. La questione sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale ha abbrivio dall’ordinanza di rimessione n. 2023/23 del Tribunale di Sorveglianza di Spoleto emessa a seguito del reclamo presentato da un detenuto presso la Casa Circondariale di Terni. Costui ha evidenziato di essere ristretto in esecuzione di ordine di carcerazione dal 11.07.2019 con fine pena previsto per il 10.04.2026, di non poter beneficiare, a causa di alcune infrazioni, di permessi premio di un programma di trattamento in suo favore e per tali ragioni lamentava le difficoltà nel mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni familiari, potendo svolgere unicamente colloqui visivi con la propria compagna e con la figlia minore di anni tre. Il detenuto, invero, rappresentava che in occasione di tali colloqui non aveva modo di esercitare il proprio diritto all’affettività, non potendo usufruire di spazi adeguati ed essendovi un controllo a vista da parte del personale della Polizia Penitenziaria. Ciò determinava un serio pregiudizio per il sereno sviluppo della relazione di coppia e per la tutela del diritto alla genitorialità a cui il reclamante attribuiva particolare rilievo in funzione del futuro reinserimento sociale. Effettivamente il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nella propria ordinanza di rimessione ha accertato che la condizione detentiva  si traduceva in un vero e proprio divieto all’esercizio dell’affettività in una dimensione riservata ed in particolare della sessualità con il partner anche perché i colloqui visivi con i familiari sono svolti con il controllo a vista del personale dell’istituto di detenzione, così come previsto dall’art. 18 comma 3 dell’ordinamento penitenziario. Previsione, quella del controllo visivo, del tutto inidonea ad assicurare l’esercizio dell’affettività, compresa la sessualità, nel rispetto della riservatezza da riconoscere anche nel contesto della detenzione carceraria. Peraltro, il Tribunale di sorveglianza di Spoleto, nel sollevare la questione di illegittimità Costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 4, 27 comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117 comma 1 della Costituzione, ha evidenziato che già in passato la Corte Costituzionale si era occupata di analoga doglianza avanzata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze ed in tale occasione si era pronunciata dichiarandone l’inammissibilità (sentenza n. 301 del 2012) ritenendo che il diritto alla sessualità poteva essere garantito attraverso la concessione di permessi premio, ravvisando che l’esigenza prospettata era da considerare “reale e fortemente avvertita”, tanto da  invitare il Legislatore, rimasto inerte, ad intervenire, anche alla luce di indirizzi giurisprudenziali derivati dalle fonti sovranazionali. In realtà il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nell’ordinanza di rimessione ha precisato che la circostanza di poter usufruire di permessi premio in realtà non affronta la problematica sottesa, quanto piuttosto determina uno spostamento dell’esercizio di un diritto fondamentale della persona verso l’orizzonte della premialità, che rappresenta carattere di eccezionalità rispetto al diritto alla sessualità, il cui effettivo esercizio non può essere neppure garantito con l’istituto del permesso per gravi motivi di cui all’art. 30 dell’ordinamento penitenziario, concedibile soltanto in casi stringenti ed eccezionali che non prevedono l’esercizio della sessualità. Ha rappresentato, dunque, il Tribunale di Sorveglianza che nel caso specifico l’interessato era un soggetto ristretto in media sicurezza, che non ha commesso reati che lo descrivano come collegato ad organizzazioni criminali, non era sottoposto a controllo visivo e auditivo, la sua corrispondenza non era controllata e, dunque, si è ravvisato che inibizione dei contatti intimi con la compagna non poteva incidere, aumentandolo, sul livello di sicurezza per la collettività. Alquanto diverso dall’ipotesi del detenuto sottoposto al 41-bis O.P.  per il quale le limitazioni all’esercizio del diritto all’affettività sono rese necessarie proprio per scongiurare il pericolo della veicolazione di messaggi illeciti o direttive verso l’esterno, tanto da richiedere la video registrazione dei colloqui con evidente compressione nell’esercizio della sfera di riservatezza. Consegue che l’indifferenziato divieto di svolgere colloqui intimi è da intendere in contrasto sia con la protezione della famiglia pregiudicando i rapporti di coppia, perché compromette il diritto alla genitorialità, vanifica l’attuazione effettiva del principio di rieducazione prescritto dall’art. 27 della Costituzione e contrasta con la tutela dei diritti fondamentali della persona per come riconosciuti dall’art. 8 del CEDU, secondo il quale ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare attuato in molti paesi europei, anche, attraverso le visite coniugali ai detenuti. D’altra parte il Tribunale di Sorveglianza  nella sua ordinanza ha denotato lo stringente contrasto con la normativa prevista dall’ordinamento penitenziario minorile che favorisce le relazioni affettive, garantendo visite prolungate in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, in grado di riprodurre, per quanto possibile un ambiente familiare, tanto da ravvisare una irragionevole disparità di trattamento tra quanto attuato negli istituti penitenziari minorili ed in quelli per gli adulti.   La valenza dell’articolato tessuto normativo, giurisprudenziale e argomentativo  espresso dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto è stato riconosciuto totalmente fondato, tanto da indurre la Corte Costituzionale, con una sentenza storica per il nostro Ordinamento,  a dichiarare   “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Motiva al riguardo la Consulta che lo stato di detenzione non può annullare l’esercizio della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto e che la prescrizione del controllo visivo durante lo svolgimento dei colloqui con le persone legate al detenuto da stabile relazione affettiva, si risolve in una compressione sproporzionata ed in un sacrificio irragionevole della dignità della persona in violazione dell’art. 3 della Costituzione che si ripercuote, anche, sui familiari non

“Liberi” di amare? – Breve nota alla pronuncia della Corte Costituzionale, n.10/2024, in tema di affettività in carcere. Leggi tutto »

Il giornalista Paolo Orofino spiato col trojan. Attacco degli apparati investigativi e silenzio stampa, (quasi) totale. Chi imbavaglia, per davvero, la libertà di informazione?

Si levano scudi ogni qualvolta si denunzia l’abuso delle intercettazioni e si invoca la necessaria “separazione delle carriere” tra Uffici di Procura e mezzi di informazione. Un munitissimo blocco di potere dispone di tanta forza da essere capace anche di manipolare il dibattito pubblico sull’argomento, demonizzando l’opinione critica e anche addirittura attribuendo ad una maggioranza di governo – della cui ispirazione autoritaria nessuno in buona fede potrebbe dubitare – l’intento di smantellare la lotta al crimine. Certa stampa che campa di veline, ça va sans dire, si presta a sostenere simili incredibili paradossi. Non è sorprendente, allora, che passino (quasi) inosservati gli abusi dell’autorità inquirente contro la libertà di informazione. Sembra non interessare agli agiografi della democratura giudiziaria il fatto che un giornalista, nella specie Paolo Orofino de Il Quotidiano del Sud, nell’esercizio della sua professione e a motivo del suo lavoro, venga intercettato con il più potente, invasivo, indiscriminato strumento di spionaggio che la tecnologia militare ha messo a disposizione della lotta contro il Male della società. Non interessa scoprire che “la bomba atomica dell’investigazione” possa attivarsi nei confronti di soggetto estraneo all’indagine (Orofino non è mai stato mai indagato nel procedimento in questione, che riguardava un Magistrato, ma è stato “spiato” solo per aver “dialogato” con lui) e sulla base di ipotesi di reato tanto evanescente da essere considerata manifestamente infondata all’esito dell’indagine esplorativa. Nemmeno interessa la rilevanza dei diritti fondamentali soppressi da tale uso esplorativo/preventivo dell’intercettazione: la libertà e segretezza delle comunicazioni, la riservatezza della vita privata e la libertà dell’informazione che non tollerano controlli preventivi o censure. Nemmeno quando siano in gioco tali valori fondativi della democrazia liberale preoccupa l’uso di uno strumento che non risparmia alcun aspetto della vita dello spiato, relazioni personali, lavoro, opinioni, affetti, sentimenti, emozioni. Un patrimonio di dati sensibilissimi di cui il bersaglio dell’indagine viene espropriato e del quale nemmeno potrà controllare l’uso che l’autorità vorrà a farne. Perché l’apparato sarà libero di attingervi e impedire l’accesso allo stesso titolare del diritto violato. Di fronte a uno strappo così forte con la libertà e le stesse fondamenta della democrazia, ci si sarebbe attesi una reazione immediata, istintiva, corale, un’insurrezione dei colleghi giornalisti e della stampa in difesa della libertà di tutti, messa in discussione dalle modalità insidiose e invasive con le quali è stata schiacciata e compressa quella del singolo, in questo caso di Orofino. E, invece, questa reazione (caratteristica di ogni paese civile) non è arrivata. Anzi. È accaduto il contrario. Il silenzio è stato (quasi) assordante. Abbiamo così compreso che ci sono bavagli finti, sui quali si strilla, per non modificare il comodo status quo (sul cui altare un collega può ben essere sacrificato), e bavagli veri, che invece funzionano bene, e fanno paura. Eccome. E allora occorre uno scatto di orgoglio, un richiamo alla verità del nostro tempo e alla serietà delle nostre funzioni. Se all’Avvocatura compete il ruolo di “sentinella dei diritti”, ai Giornalisti è assegnato il compito di essere il “cane da guardia della democrazia”. Avremmo dovuto (e voluto) sentire ringhiare. Speriamo, ancora, in un colpo di reni e che ciò accada. Altrimenti avremo consentito un ulteriore stato di avanzamento nel percorso di “tolleranza autoritaria” che la nostra società civile (?) sta indifferentemente consentendo. Non è ancora persa l’occasione per confrontarsi su questi temi. Anche i più ostinati alfieri dell’autoritarismo repressivo, quelli che proprio non riescono a volgere lo sguardo verso le macerie prodotte dalla visione massimalista della giustizia penale di lotta, potrebbero cogliere l’occasione, e lo speriamo davvero, per una pausa di riflessione. Rassegna stampa:  https://shorturl.at/FJL49 https://shorturl.at/afgyU   Camera Penale di Castrovillari Il Presidente – Avv. Michele Donadio Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” Il Presidente – Avv. Francesco Iacopino Camera Penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo” Il Presidente – Avv. Roberto Le Pera Camera Penale di Crotone “G. Scola” Il Presidente – Avv. Romualdo Truncè Camera Penale di Lamezia Terme “Avvocato Felice Manfredi” Il Presidente – Avv. Renzo Andricciola Camera Penale di Locri “G. Simonetti” Il Presidente – Avv. Antonio Alvaro Camera Penale di Palmi “V. Silipigni” Il Presidente – Avv. Giuseppe Milicia Camera Penale di Paola “E. Lo Giudice” Il Presidente – Avv. Massimo Zicarelli Camera Penale di Reggio Calabria “G. Sardiello” Il Presidente – Avv. Pasquale Foti Camera Penale di Rossano Il Presidente – Avv. Giovanni Zagarese Camera Penale di Vibo Valentia “F. Casuscelli” Il Presidente – Avv. Giuseppe Mario Aloi Il Coordinatore delle Camere Penali Calabresi Avv. Giuseppe Milicia

Il giornalista Paolo Orofino spiato col trojan. Attacco degli apparati investigativi e silenzio stampa, (quasi) totale. Chi imbavaglia, per davvero, la libertà di informazione? Leggi tutto »

Inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa

Un PM milanese apre un’indagine a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio è in corso. Abbiamo appreso con sconcerto la notizia dell’indagine aperta da un PM milanese a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio era in corso davanti alla Corte di Assise. Si è successivamente appreso che uno dei due PM, che sostenevano l’accusa nel processo a carico di Alessia Pifferi, tenendo il collega all’oscuro della sua iniziativa, ha ritenuto di indagare l’avvocata Pontenani, difensore dell’imputata, per il solo fatto di aver utilizzato le relazioni redatte da due psicologhe del carcere nel quale la Pifferi si trova ristretta, indagate a loro volta per il reato di falso, al fine di sostenere l’esistenza di un deficit di sviluppo intellettivo a carico della propria assistita e chiederne la sottoposizione a perizia psichiatrica. Perizia che è stata successivamente disposta dalla Corte d’Assise e che è attualmente in corso. Secondo l’ipotesi accusatoria, le relazioni delle psicologhe conterrebbero infatti false attestazioni sulle condizioni mentali della detenuta strumentalmente volte ad ottenere una perizia psichiatrica ed è per tale ragione che nel corso delle indagini sarebbero state disposte, nei loro confronti, intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché la perquisizione delle abitazioni delle stesse. È notizia della stampa di oggi che, mentre una dei due PM titolare dell’accusa, in quanto tenuta all’oscuro della iniziativa in questione, ha deciso di rinunciare all’assegnazione del fascicolo, nell’ambito del processo pendente davanti alla Corte d’Assise il difensore dell’imputata ha dichiarato di non voler rinunciare alla difesa sebbene oggetto di iscrizione su iniziativa della stessa PM a lei contrapposta in quel processo. Non possiamo non considerare che questa indagine, inserita clamorosamente all’interno di un dibattimento in corso, finisca con l’alterare gli ordinari equilibri del processo e con il compromettere la serenità di chi, giudici e perito, dovranno esprimere le proprie valutazioni, facendo emergere come, ancora una volta, la funzione difensiva e chi la esercita appaiano delegittimati dalla stessa unilaterale iniziativa del PM, volta ad affermare l’esistenza di un concorso del difensore nelle ipotizzate condotte illecite di terzi, il che evidenzia, se ancora ve ne fosse bisogno, non solo la disparità processuale tra accusa e difesa, ma anche la sostanziale confusione fra la posizione e il ruolo del difensore e la figura dell’assistito. Per queste ragioni, pur senza voler entrare nel merito della vicenda processuale, dobbiamo stigmatizzare quanto accaduto e sottolineare come sia inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito comunque essa sia perseguita, dentro e fuori il processo. Sorveglieremo per comprendere cosa ha in particolare giustificato l’iscrizione della collega nel registro degli indagati e infine in che contesto tali iniziative sono maturate, perché, se questo è ciò che attende il processo del futuro con una parte, il PM, che indaga l’altra parte a dibattimento aperto, sulla sola base di una incontrollata ipotesi investigativa, possiamo celebrare il requiem non solo del rito accusatorio, ma della giustizia in quanto tale. Unione delle Camere Penali Italiane Il documento della Giunta https://shorturl.at/oxAEM

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