Giustizia

Intervista al presidente dell’Ordine dei Giornalisti Calabria, Giuseppe Soluri

di Antonio Strongoli –  Nel convegno del 24 novembre 2023, dal titolo “Cronaca e critica – linee guide per un’informazione corretta e senza rischi”, organizzato dall’Ordine dei giornalisti, dalla Camera Penale di Catanzaro, dal COA di Catanzaro e dal Movimento Forense, si è generato un acceso ed interessante dibattito sul problema che riguarda la cronaca giudiziaria. Con particolare riferimento al bilanciamento tra il diritto di cronaca, e dunque il diritto del cittadino di avere contezza dei provvedimenti emessi dalla magistratura nelle inchieste di maggiore rilevanza sociale e la presunzione di innocenza, da cui consegue il diritto dell’indagato di non essere sottoposto alla gogna mediatica in assenza di una sentenza di condanna, quanto meno, di primo grado. Da qui l’idea di realizzare un’intervista col presidente dell’OdG Calabria, Giuseppe Soluri. Presidente Soluri, in occasione del convegno del 24 novembre, lei aveva puntualmente indicato come l’operato del giornalista dovesse rispettare i tre principi fondamentali: veridicità della notizia, continenza del linguaggio e rilevanza pubblica della stessa. Il giornalista deve, quindi, operare al fine di consentire una corretta diffusione della notizia lasciando comunque comprendere al lettore come l’inchiesta sia in una fase embrionale, quando si tratta, ad esempio, di ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.i.p. e dunque come le circostanze riportate siano meri indizi di reità e non fatti accertati. Un appello, mi sento di dire, al senso di responsabilità dei giornalisti, che non deve mancare mai, soprattutto in questo momento storico, in cui anche i social tendono a candidarsi quali nuovi mezzi di informazione. A distanza di un mese circa, poi, è approdato in Parlamento l’emendamento Costa. Cosa ne pensava all’epoca? «Dal mio punto di vista, l’emendamento Costa, in linea di principio, era un emendamento che ci poteva stare. Nel senso che è stato sicuramente concepito con l’obiettivo di salvaguardare quel principio di non colpevolezza, di cui si parlava prima, e quindi per impedire che vengano pubblicati spezzoni di intercettazioni o atti giudiziari in cui siano presenti degli elementi marginali per dell’inchiesta, ma assai rilevanti ai fini dell’immagine esterna delle persone indagate. È chiaro che questo rappresenta in qualche misura un vulnus per i giornalisti che sono impossibilitati, nel momento in cui interviene questo emendamento, a pubblicare stralci di intercettazioni che, invece, per altro verso, possono anche avere una rilevanza informativa notevole. Sebbene comprendiamo che, da un lato, vi sia l’esigenza di salvaguardare il citato principio di non colpevolezza, dall’altro, non bisogna dimenticare però la necessità di tutelare il principio della libertà di informazione e, conseguentemente, la necessità che il giornalista informi e che il cittadino venga informato correttamente». Presidente Soluri, si aspettava che un emendamento proposto da un parlamentare di opposizione – ricordiamo che l’On. Costa appartiene ad Azione – potesse riscontrare una tale condivisione da non soggiacere alle solite dinamiche ostruzionistiche dell’opposta fazione politica? Secondo lei, ciò è sintomatico di un’esigenza condivisa circa la necessità di intervenire onde garantire una maggiore tutela dei soggetti indagati? «Partiamo dal presupposto che l’On. Costa, al di là del partito di appartenenza, si è sempre distinto come uno dei rappresentanti del parlamento maggiormente sensibili alla tematica del garantismo. A mio avviso, quando si affrontano questi argomenti il problema nasce dal fatto che si sono create due tifoserie: una c.d. “garantista” ed una c.d. “giustizialista”. Riportare tutto a queste due categorie di “tifosi” è sbagliato, poiché non consente di cogliere altre (e diverse) posizioni, le quali, sebbene affini alle due principali correnti di pensiero, presentano altre sfumature. Vi sono sensibilità garantiste all’interno sia di partiti che hanno sempre portato avanti battaglie di questo tipo, ma anche in partiti che oggi sono all’opposizione e che sono stati al Governo in passato. Mi riferisco, in particolare, al PD. Nel PD ci sono ampi settori che hanno una visione, diciamo così, garantista e Azione non è altro che una costola fuoriuscita dal Partito Democratico. L’Onorevole Costa, poi, essendo stato militante di Forza Italia si porta dietro anche antiche battaglie del suo ex partito. La sensibilità su tale tematica è in qualche modo abbastanza diffusa nelle forze politiche, in maniera trasversale.Ritengo sia difficile ragionare su questo tema se non si prende coscienza della sua importanza; un tema che riguarda tutti i cittadini, la corretta gestione dell’attività giudiziaria, penale e civile che sia, è fondamentale per la vita di un Paese. Fin quando la giustizia non funzionerà a dovere, riducendo anche il margine di errori, il Paese avrà sempre problematiche di questo tipo, che quasi certamente si trasferiscono nelle aule parlamentari, diventando così strumenti su cui battagliare, perdendo di vista i problemi reali e la necessità di affrontarli in maniera corretta, salvaguardando tutti gli interessi in gioco. È questo uno dei motivi per cui non si riesce mai ad arrivare ad una riforma complessiva della giustizia, che abbia un suo raziocinio e riesca effettivamente a garantire una giustizia, non solo giusta, ma efficiente e rapida».  Nel 2017, quando l’incarico di guardasigilli era ricoperto dall’onorevole Andrea Orlando, vi fu una modifica dell’art. 114 del codice di procedura penale, al fine di consentire alle testate giornalistiche la pubblicazione, finanche integrale, delle ordinanze di custodia cautelare. L’emendamento Costa va, sostanzialmente, ad incidere su questo specifico aspetto, con il dichiarato obiettivo di far venire meno tale facoltà. Siffatta modifica, ad avviso dell’Avvocatura, oltre che essere in linea con il principio di cui all’art. 27 della Carta Costituzionale, potrebbe contribuire a responsabilizzare il giornalista, al quale non sarebbe inibito il diritto di riferire i fatti oggetto di indagine, ma semplicemente la possibilità di riportare interi passaggi del provvedimento cautelare. È di tutta evidenza come l’obbligo per il giornalista di “rielaborare” il contenuto delle ordinanze – non potendo far ricorso al virgolettato – lo esporrebbe a possibili querele da parte dei soggetti coinvolti, laddove i fatti non fossero riportati correttamente. «Si, il senso è proprio questo: fare in modo che il giornalista sia responsabile di quello che scrive. Sebbene i giornalisti quando sbagliano vengono sempre “puniti”, in un modo o nell’altro, mentre gli altri attori delle vicende processuali non sempre vengono sanzionati quando commettono errori. Credo

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Controllo volontario: una risorsa in attesa di valorizzazione

Di Giuseppe Amarelli* –  Il controllo giudiziario volontario è stato introdotto nel sistema della prevenzione antimafia con il duplice obiettivo di mitigare l’indiretta ma draconiana portata afflittiva delle interdittive e di differenziare l’entità dell’intervento prefettizio a seconda della gravità delle situazioni sintomatiche di contagio mafioso, evitando l’irragionevole assurdo di assimilarle quoad incapacitatem e di adottare il medesimo provvedimento inabilitante sia nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso, che della vittima di un’estorsione mafiosa. Nei casi di infiltrazione mafiosa solamente occasionale si è così concessa la possibilità all’impresa destinataria di un’interdittiva di richiedere, previa impugnazione al TAR, l’attivazione da parte del tribunale di prevenzione di un periodo di monitoraggio della durata da uno a tre anni per consentire l’eventuale bonifica e sospendere gli effetti incapacitanti. Questo istituto, sebbene sia nato per incidere a valle del sistema della prevenzione amministrativa antimafia, lenendone gli eccessi rigoristici, in realtà, ha segnato un radicale cambio di paradigma nelle politiche di contrasto all’ingerenza mafiosa nelle imprese, più in sintonia con gli assetti valoriali di uno Stato costituzionale democratico, in cui queste prioritarie esigenze pubblico-collettive devono sempre tenere nel giusto conto i contrapposti interessi sia dei destinatari diretti, che dei destinatari indiretti, come i lavoratori dipendenti e gli stakeholders. Grazie al controllo volontario, si è abbandonata la pregressa strategia imperniata su un approccio retrospettivo-stigmatizzante e su misure istantanee immediatamente inibitrici dei rapporti con la pubblica amministrazione e si è inaugurata una del tutto nuova, incentrata su un approccio prospettico-cooperativo e su misure dialogiche di lunga durata, inclusive e recuperatorie, in cui lo Stato non ostracizza subito l’impresa contaminata “colpevolizzandola”, ma, al contrario, le si affianca in un articolato processo di self cleaning. Purtroppo, ad oggi, nonostante le buone intenzioni, il bilancio sullo stato di salute del controllo volontario è ancora chiaroscurale, presentando alcune luci e non poche ombre. Per un verso, è sicuramente apprezzabile l’estensione delle sue potenzialità applicative ottenuta tramite: la tendenziale polarizzazione del giudizio per la sua concessione sulla prognosi di futura bonificabilità; l’interpretazione del concetto di occasionalità come ‘non stabilità’; l’esclusione del Prefetto dal novero dei soggetti legittimati ad opporsi al provvedimento di ammissione; il riconoscimento della sua adottabilità anche rispetto al diniego di iscrizione nelle white list. Per altro verso, generano non poche perplessità: la sua applicazione ancora fortemente a “geografia variabile”, essendo pochi i tribunali di prevenzione che ne hanno colto la straordinaria utilità per l’intero sistema; il mancato coordinamento dell’esito positivo con la misura interdittiva “a margine” della quale è stato concesso; e, soprattutto, il contrasto interpretativo circa i presupposti applicativi. A tale ultimo riguardo, convivono in giurisprudenza due orientamenti opposti, uno maggiormente garantista che, per evitare esiti irragionevoli, ritiene possibile applicare la misura anche quando il g.o. accerti con i suoi diversi standard probatori l’insussistenza dell’infiltrazione mafiosa posta alla base dell’interdittiva, ritenendo ancor più probabile in questo caso la recuperabilità dell’impresa; ed un altro più rigoroso che, invece, facendo leva sull’autonomia di giudizio del giudice della prevenzione rispetto al giudice amministrativo, esclude tale possibilità, innescando un paradosso per il quale l’impresa infiltrata occasionalmente può mitigare gli effetti dell’interdittiva, mentre quella non infiltrata deve continuare a scontarli. Sul funzionamento del controllo volontario grava poi un’altra ipoteca iscritta dalla misura amministrativa della prevenzione collaborativa introdotta nel 2021 sulla sua falsariga. Questa, infatti, sembra voler accentrare nelle mani del Prefetto il contrasto ai tentativi di ingerenza mafiosa nelle imprese, evitando conflitti con il potere giudiziario che, oggi, invece, nei casi di ammissione al controllo, sembrano sorgere. Nell’attesa (vana?) di una più organica riforma della prevenzione amministrativa antimafia che la traghetti sul piano della prevenzione giurisdizionale, declassando il Prefetto ad organo pubblico deputato a proporre ad un giudice terzo le misure dell’interdittiva e del controllo, si deve confidare in una valorizzazione del controllo volontario da parte dell’autorità giudiziaria. Diversamente da quanto possa apparire prima facie, questo non rappresenta un mero favor per il destinatario che indebolisce l’apparato di contrasto alle mafie. All’opposto, costituisce uno strumento giuridico dotato di una pluralità di funzioni eterogenee ma complementari, tendendo a: equo-contemperare meglio i contrapposti interessi in gioco, evitando di sbilanciare il rapporto autorità-individuo in modo antitetico con la natura democratica del nostro ordinamento; tutelare i diritti dei terzi estranei esposti a serio rischio dalle interdittive, in primis quelli dei lavoratori dipendenti; e, last but not the least, offrire un bagaglio informativo più completo e attendibile all’autorità competente per la valutazione del livello di infiltrazione mafiosa e, quindi, per la scelta della misura più idonea da adottare.   *Professore Ordinario di Diritto Penale

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Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo

Silia Gardini* e Crescenzio Santuori** – La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato negli ultimi decenni una rilevanza sempre più ampia per il diritto amministrativo. In questo contesto, il pericolo di inquinamento criminoso è fronteggiato dal legislatore attraverso la predisposizione di un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “all’origine” i contatti della Pubblica amministrazione con soggetti ritenuti potenzialmente sensibili a infiltrazioni mafiose, anche indirette. L’articolo 84, comma 1, del Codice Antimafia, D. lgs. n. 159/2011 – con l’intento di realizzare la massima anticipazione della soglia di tutela – attribuisce al Prefetto competenza al rilascio di provvedimenti amministrativi di natura cautelare e preventiva, che determinano in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la p.a. (e non solo): la comunicazione antimafia e l’informazione (o informativa) antimafia. Entrambi i provvedimenti hanno l’obiettivo di evidenziare alla Pubblica Amministrazione situazioni ostative al rilascio di atti o alla stipula contratti; il loro contenuto è, invece, significativamente differente. Se la comunicazione ha contenuto vincolato e funzione accertativa di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto indicate dall’art. 67 dello stesso Codice antimafia (applicazione di una misura di prevenzione personale, di una condanna con sentenza definiva o confermata in grado di appello, per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), l’informativa presenta un contenuto più complesso, poiché è volta a certificare – oltre a quanto già previsto in tema di comunicazione – anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, capaci di condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese interessate. Quel che caratterizza spiccatamente le informative – e rende problematico il contesto applicativo dell’istituto – è il fatto che esse si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si traduce nell’amplissima discrezionalità riconosciuta alle Prefetture in merito a questioni fisiologicamente opinabili, attinenti all’apprezzamento, attraverso elementi sintomatici e indiziari, di un rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento di una effettiva sussistenza di eventi o responsabilità. La valutazione amministrativa, in questi casi, è condotta attraverso un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio” (tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza (sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti: il Codice antimafia ne tipizza alcuni, ma non vincola l’amministrazione nella valutazione), sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. In altre parole, l’informativa antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Il quadro risulta ancor più problematico se si considera che i procedimenti amministrativi in materia – in quanto preordinati all’emanazione di “atti necessitati”, per i quali l’urgenza di agire giustifica modificazioni strutturali derivate ai fini della tutela dell’interesse pubblico – risultano slegati dal puntuale rispetto delle garanzie procedimentali, partecipative e motivazionali previste in via generale dall’ordinamento. A fronte di un fondamento essenzialmente probabilistico, gli effetti prodotti dall’istituto in capo agli operatori economici possono essere molto invasivi, al punto da indurre qualcuno a parlare a più riprese di “ergastolo imprenditoriale”. Al di là dell’espressione che si intenda utilizzare, è innegabile che la tendenza del sistema, nel difficile e complesso bilanciamento tra l’interesse pubblico e i diritti privati su cui il potere interdittivo incide, sia quella di massimizzare oltremodo la “ragion pubblica” a discapito delle imprese e delle loro prerogative costituzionalmente garantite. Tale impostazione, al netto delle nobili intenzioni del legislatore, finisce spesso per determinare effetti gravemente distorsivi, anche sul mercato e anche in capo a operatori economici (successivamente riconosciuti) virtuosi. L’informazione interdittiva antimafia, infatti, malgrado la sua formale natura provvisoria, produce sempre effetti irreparabili e definitivi sull’impresa che ne è destinataria, salvo che si riesca ad ottenere in sede giudiziaria un provvedimento sospensivo ovvero il “passaggio” allo strumento del controllo giudiziario. Ciò perché l’operatore interdetto non ha “soltanto” preclusa la possibilità di partecipare alle procedure di gara e di sottoscrivere contratti pubblici, ma si vede di fatto negato l’avvio di qualsivoglia attività economica. Il che lo espone facilmente a dissesto o fallimento, anche laddove all’esito di giudizi amministrativi e penali eventualmente avviati a propria difesa, il contestato rischio di infiltrazione mafiosa dovesse poi rivelarsi insussistente o, quantomeno, evitabile attraverso la sottoposizione a misure meno radicali e meno invasive.  Appare, dunque, evidente che – ferme restando le primarie e imprescindibili esigenze di tutela sottese alla lotta alla criminalità organizzata – l’istituto dell’informativa antimafia necessiti di essere circondato da maggiori cautele. Le distorsioni che emergono dalla prassi applicativa andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria. In questa direzione, sia pure a fronte di alcune recenti e apprezzabili aperture da parte della giurisprudenza amministrativa (in particolare in tema di istruttoria e contraddittorio procedimentale), la strada da percorrere appare ancora lunga e tortuosa. E, nelle more, le imprese muoiono.   * Avvocato amministrativista e Ricercatrice di Diritto amministrativo ** Avvocato amministrativista

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UNA PIOGGIA DI SUICIDI IN CARCERE E UN SILENZIO SENZA DIGNITÀ

In questi giorni, ma possiamo ben dire in queste ore, si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari. Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto… L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Allignato su scarti, debolezze, ipocrisie. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Gli orologi, infatti, servono per misurare il tempo che ci separa dalla prossima morte tra le sbarre. Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura  l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese. Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare (un tempo era da intendersi quale carcerazione preventiva e tale, purtroppo, è rimasta). Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio. Presso i lavori preparatorii della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria (quando ogni altra misura risultasse inidonea). Ebbene, questa regola civile viene ignorata, derisa, vilipesa, da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio. Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante (dunque con un giudizio prognostico positivo); che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati (agli arresti domestici) con un braccialetto elettronico… Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò. Egli “DEVE” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti. Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità. Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici, assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’ iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie. Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Una edilizia da ripensare tout court.  Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici (spesso tardivi) soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso. Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la frustrazione, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e con i difensori andrebbero rafforzate e disciplinate con prospettive moderne e recuperative. L’orizzonte politico, su tutto ciò, è muto; incapace di esprimersi, a meno che non sia coinvolto.  Una sola cosa è certa;  l’uomo entrò in custodia presso lo Stato ma ne uscì fuori (da una custodia). Morto. Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature; e ciò per ogni singolo suicidio. Che si metta mano, finalmente, ad un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione. Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e quelli sociali.  L’orologio continua a ticchettare; è il solo rumore percepibile; perché il silenzio di chi dovrebbe dire è assoluto; è il silenzio ipocrita di chi dovrebbe parlare, forte e chiaro, affinché ogni uomo sia giustamente rispettato e non già gettato via come un rifiuto. Ebbene, questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile.   Dobbiamo ricordare che il tema dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti Italiani 2024 faceva espresso riferimento alla odierna scottante tematica. Il 20 marzo l’astensione nazionale indetta dall’UCPI comprende tutto ciò e vuole fare uscire dall’ombra quel carcere oscuro di cui oggi parliamo con amarezza e contestuali propositi di impegno. Da domani, fino alla prossima notte dei tempi. Se non verrà scongiurata.   Catania, marzo 2024 A cura del Direttivo della Camera Penale di Catania “Serafino Famà”

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Avvocati democratici e separazione delle carriere: quale risorgimento?

di Alessandro Brùstia* – In un articolo recentemente apparso sul quotidiano La Stampa, Donatella Stasio, voce importante e autorevole del panorama giustizia (è stata a lungo responsabile dell’ufficio stampa della Corte Costituzionale), ha preso netta posizione contro la separazione delle carriere dei magistrati, paventando una deriva autoritaria connaturata – a suo dire – alla riforma. Non solo, la prestigiosa giornalista ha invocato anche una sorta di Risorgimento degli “avvocati democratici”, qualsiasi cosa voglia dire, chiedendo loro di contrapporsi ai penalisti dell’Unione Camere Penali e schierarsi contro la riforma, in difesa della democrazia del paese. Il sorprendente attacco ha trovato una ferma risposta dall’interno dell’Unione Camere Penali, ma ci dà ancora il destro per una riflessione sul ruolo degli avvocati penalisti nella società e per coglierne il grado di “democraticità” (seguendo sul punto la brutale semplificazione operata dalla giornalista). C’è stato chi ha acutamente sostenuto che non sono necessarie particolari dichiarazioni di fede in quanto un penalista è di per sé stesso implicitamente democratico. Infatti qualsiasi penalista, difendendo un imprenditore milionario così come l’ultimo degli ultimi nel più disperso dei tribunali italiani, difende al contempo valori e principi strettamente riconnessi a diritti umani garantiti dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali. È una posizione interessante e che non manca di affascinare, nella sua nuda semplicità: si è democratici per il mero ruolo che si ricopre e per la funzione sociale evidentemente legata alla professione svolta. Quanto poi all’Unione delle Camere Penali è davvero difficile dubitare che le battaglie dei penalisti, tutte riconducibili alla salvaguardia di principi di rango eminentemente costituzionale (diritto di difesa, presunzione di non colpevolezza, divieto di pene contrarie al senso di umanità, giusto processo…), possano non essere assistite da un marchio di democraticità doc. Quello dell’avvocatura penalistica – intesa sia a livello di singoli che di associazione – è, insomma, un impegno sociale forte, lontano da spinte corporativistiche (e, si badi, totalmente disinteressato dal punto di vista economico), che però non ha mai suggerito di escludere i relativi interlocutori politici dal novero dei democratici. Non l’abbiamo mai fatto, nemmeno nelle occasioni in cui abbiamo invano cercato alleati nella politica o tra le fila della magistratura associata rispetto a battaglie così strettamente legate ai diritti civili e umani e talmente autoevidenti da rendere francamente sorprendente una mancata condivisione. Così è stato, per esempio, per la battaglia contro la scellerata abolizione della prescrizione (fummo completamente soli in quell’occasione); così è, al momento attuale, in relazione al tentativo di smuovere le coscienze contro l’ignobile strage dei suicidi in carcere (è di questi giorni la notizia che ANM si è rifiutata di sottoscrivere un documento sul quale UCPI chiedeva la convergenza su temi così banalmente “oggettivi” come il carcere quale extrema ratio) o, ancora, la battaglia contro l’applicazione indiscriminata e barbara del 41 bis, tale da avere creato nelle relative sezioni delle carceri italiani delle autentiche enclave della Repubblica in cui i più scontati diritti sono sospesi. Bene, nemmeno di fronte a chi non concorda – e anzi osteggia – queste battaglie ci siamo mai sognati di dare, o togliere, la patente di democraticità che Donatella Stasio vorrebbe distribuire a questa o quella parte dell’avvocatura. E bene abbiamo fatto, dacché la scelta arbitraria su chi sia degno dell’interlocuzione politica, oltre che operazione di scarsa tenuta logica, è anche controproducente: chi, come i penalisti italiani, può confidare nella forza delle proprie idee non può temere (anzi, ha interesse!) che sulle stesse si apra un dibattito dalla dialettica anche aspra, ma su un piano di parità, di reciproco riconoscimento e reciproca legittimazione politica. Autoposizionarsi dalla parte dei buoni, dei genuini democratici, e additare infantilmente negli altri una devianza patologica di stampo illiberale, è esercizio che denota – questo sì – un approccio manicheo, semplicistico e drammaticamente immaturo dal punto di vista democratico. In fin dei conti delegittimare l’avversario significa solo una cosa: temere il confronto. Che, a pensarci bene, è esattamente quanto accade, da anni, per la riforma in tema di separazione delle carriere. *Presidente Camera Penale di Novara

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FERMARE I SUICIDI IN CARCERE. NON C’È PIÙ TEMPO!

  La Camera Penale di Catanzaro aderisce all’astensione nazionale di giorno 20 marzo, proclamata dall’UCPI, per chiedere a Governo e Parlamento un intervento urgente per porre fine al sovraffollamento carcerario e al dramma dei suicidi in carcere. Le politiche in materia di sicurezza realizzate dallo Stato italiano negli ultimi decenni sono la causa del fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario e delle conseguenze inumane e degradanti dello stato di detenzione, certificate persino da pronunce di condanna da parte della CEDU nei confronti della Repubblica Italiana; fra le tante si ricorda la sentenza “pilota” emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia, nel 2013. Sono passati oltre dieci anni da questa storica pronuncia e, nonostante l’indice di commissione dei reati sia in costante calo, la situazione all’interno degli istituti di pena non è mutata: il numero di detenuti è superiore alle 60.000 unità e, con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, a breve raggiungerà il livello che valse la condanna internazionale nell’anno 2013. La verità è che, a seguito di un costante quanto immotivato aumento degli edittali di pena e di una creazione spropositata di fattispecie delittuose, promulgate in esclusiva ottica di raccolta del consenso elettorale, è oggi molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne, visto il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative o l’uso eccessivo della leva cautelare, soprattutto alle nostre latitudini. Il risultato è uno Stato che con frequenza sistemica è obbligato a indennizzare i propri cittadini a causa degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro (dati tratti da Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati di B. Lattanzi e V. Maimone). Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I cittadini detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, sono venticinque i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni. È necessario che il Governo e il Parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni che possono essere immediatamente adottate e consentire l’equilibrio del sistema penitenziario sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza. Queste le ragioni dell’astensione nazionale proclamata dall’UCPI per il 20 marzo, a cui la Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro aderisce, affinché il tempo della pena sia un tempo utile a realizzare l’integrazione sociale del reo e non conduca più alla morte per pena. Catanzaro, 15 marzo 2024 Il Consiglio Direttivo   Rassegna stampa: https://shorturl.at/eEIMU https://shorturl.at/dmuDL  

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L’INARRESTABILE DERIVA DELLE INGIUSTE DETENZIONI

  di Francesco Iacopino –  La vicenda giudiziaria di Beniamino Zuncheddu ha scosso la coscienza collettiva. Arrestato a 27 anni per una “strage” mai commessa, ha sopportato per 33 interminabili anni l’ingiusta privazione della sua libertà, dei suoi sogni e della sua stessa vita, consumata per metà negli angusti spazi di un istituto di pena. Un caso eclatante di mala giustizia, tutt’altro che isolato. Il caso Zuncheddu – lo sanno bene gli addetti ai lavori – rappresenta purtroppo la punta dell’iceberg del fenomeno ben più ampio e diffuso dell’errore giudiziario, nel cui genus si inquadra la inarrestabile species dell’ingiusta detenzione, costituita dal carcere preventivo, in misura cautelare somministrata ad alte dosi nei confronti di chi si trovi catapultato nel tritacarne giudiziario del nostro Paese, in attesa di un giudizio. Come sempre, la nuda aritmetica è idonea a offrirci una prima, efficace, rappresentazione fotografica del fenomeno. E le immagini sono allarmanti. Negli ultimi trent’anni sono state detenute ingiustamente circa 30.000 persone, 1.000 all’anno, con una media di 3 al giorno. Lo Stato ha corrisposto quasi un miliardo di euro di indennizzo nei confronti delle vittime della (in)giustizia. Per quanto esondanti, però, i numeri sono tuttavia parziali e incapaci di restituirci l’effettiva dimensione drammatica della realtà. Vi sono tanti imputati, cautelati nel corso del processo e poi assolti nel giudizio di cognizione, che per paura o per stanchezza non se la sono sentita di avviare iniziative giudiziali contro lo Stato, finalizzate al riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ancora, negli anni, molte richieste sono state respinte sistematicamente da una giurisprudenza restrittiva che ha ravvisato la “colpa” dell’arrestato, ogni qual volta questi si sia avvalso durante il processo (fosse anche nelle sole fasi iniziali) del diritto al silenzio. Con evidente contraddizione di un sistema che, con una mano, riconosce il silenzio quale espressione del diritto di difesa (nel rispetto del principio del nemo tenetur se detegere) e, con l’altra, “usa” l’esercizio di quel diritto quale circostanza ostativa al riconoscimento dell’indennizzo da parte dello Stato. Oltre al danno, la beffa. Di fronte alla drammaticità del fenomeno, dobbiamo riconoscere che il nostro tempo è contrassegnato dalla esasperazione del momento punitivo, tanto nel corso del giudizio, ove sempre maggiore è l’uso intensivo, bulimico, della leva cautelare – e, in particolare, della custodia in carcere (da tempo svuotata della sua dimensione di extrema ratio) –, quanto nella fase dell’esecuzione penale, ispirata sempre più da una logica carcerocentrica. Come ha ben scritto il sociologo e antropologo francese Didier Fassin nel suo saggio “Punire. Una passione contemporanea”, viviamo in una società punitiva che negli ultimi 40 anni è progressivamente (ri)entrata nell’era del castigo. Basti pensare che in tale forbice temporale i tassi di incarcerazione sono aumentati del 180%. È la corsa folle, inarrestabile, del moderno penale vendicativo, onnivoro, insaziabile. Ad amplificare il fenomeno punitivo, l’apparato mediatico-giudiziario, che alimenta il sovradosaggio farmacologico della penalità nel tessuto sociale, oramai assuefattosi alla terapia intensiva delle manette in un circolo vizioso che non si riesce più a spezzare. E così, in una democrazia emotiva, davanti al “Tribunale del Popolo” la sentenza sociale è emessa in modo rapido e sommario, senza l’osservanza di regole formali. In barba alla presunzione di innocenza, prescindendo dallo sviluppo del processo nella sua sede naturale si assiste alla lettura di verdetti inappellabili, con danno reputazionale incalcolabile, essendo noto a tutti che l’assoluzione emessa all’esito del giudizio ordinario se, da un lato, servirà a tenere pulita la “fedina penale”, alcuna incidenza avrà invece su quella sociale. In questo stato di cose, bisogna prendere atto che il modello pan-penalistico che si è fatto progressivamente strada negli ultimi decenni, regolando spesso con la leva penale il disagio sociale, si è rivelato fallimentare. L’eccesso di penalità non ci ha restituito maggiore sicurezza collettiva. Al contrario, ha eroso gli spazi di libertà, come ci insegnano le esperienze vissute sulla carne viva dai tanti, troppi Beniamino Zuncheddu, persone della porta accanto che hanno conosciuto il volto muscolare dello Stato. Non è possibile indagare in questa sede le molteplici cause del fenomeno. Una, però, non può essere taciuta e riguarda il fattore culturale. Bisogna riallinearsi anche nel discorso pubblico e nella ragione collettiva all’orizzonte assiologico disegnato dai nostri padri costituenti. Il diritto penale, oggi, non rappresenta più la Magna Charta del reo, il limite alla pretesa punitiva dello Stato, ma uno strumento di lotta sociale. Ecco perché l’unico argine alla deriva punitiva è il recupero dell’impegno civile in difesa dei valori non negoziabili sui quali è edificata la nostra civiltà del diritto. In tale direzione, come ci insegna Vincenzo Maiello, è necessario opporre “al moderno diritto penale di lotta, una moderna lotta per il diritto”.

L’INARRESTABILE DERIVA DELLE INGIUSTE DETENZIONI Leggi tutto »

La giustizia del governo e il governo della giustizia. Riflessioni a margine dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani.

di Francesco Iacopino –  Si è conclusa sabato scorso l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, dedicata al “processo come ostacolo” e al “carcere come destino”. Abbiamo affrontato il tema della ‘fabbrica dei reati’ e della dimensione “carcerocentrica della pena”, confrontandoci anche con il Ministro della Giustizia e la classe politica, in una sessione specificamente dedicata al “governo della giustizia” e alla “giustizia del governo”. Il “governo della giustizia” dovrebbe trovare fonte di ispirazione e alimentare la “giustizia sociale” e non delegare la soluzione delle disuguaglianze e delle povertà del nostro tempo alla “giustizia penale”. E, invece, il fallimento o, meglio, la bancarotta fraudolenta della politica sociale è “coperta” sempre di più dalla truffa continuata dell’espansione penale. In una democrazia emotiva, qual è quella nella quale viviamo, alla domanda di sicurezza collettiva si risponde bulimicamente con l’aumento “dei delitti e delle pene”. Si ignorano ostinatamente le conseguenze tossiche prodotte dal sovradosaggio del diritto penale (oramai “totale”) e si insiste demagogicamente nella folle corsa alla produzione dei reati, all’inasprimento delle sanzioni, alla somministrazione sempre maggiore di sofferenza carceraria. Una risposta illusoria, inadatta, una mal practice che alimenta il disagio individuale e l’insicurezza collettiva. Un circolo vizioso e disumano produttivo di sovraffollamento, disperazione, suicidi (negli ultimi 30 anni la popolazione carceraria è raddoppiata e, nel 2024, si sono tolti la vita ben 17 detenuti: uno ogni due giorni). Ad aggravare il carico di dolore, i centri di permanenza per il rimpatrio: carceri mascherate, fatiscenti, scandalose, che certificano l’esistenza di esseri umani di “serie b”, portatori di “diritti di scarto”, di “libertà (non) fondamentali”, “violabili”. Se rimuoviamo il velo dell’ipocrisia ci affacciamo su luoghi di “detenzione amministrativa”, vere e proprie galere per extracomunitari irregolari che (non hanno commesso reati, ma) pagano con la libertà il prezzo di un titolo di soggiorno mai avuto. Discariche per rifiuti non pericolosi, centri di raccolta dei moderni disperati della storia. A inchiodarci al muro delle nostre responsabilità ancora una volta una morte tragica, quella di Ousmane Sylla, il 22enne della nuova Guinea impiccatosi – lasciando un biglietto straziante – nel CPR di Ponte Galeria! Dovremmo fermarci e sostare davanti a tanto dolore. Arrestare la folle corsa ossessivo-punitiva. Trovare il coraggio di ribellarci a un sistema pan-penalistico che ha alterato gli equilibri del rapporto tra autorità e libertà. Smascherare le pubblicità ingannevoli che hanno anestetizzato quotidianamente il nostro senso di umanità. Perché è disumano, oltre che illusorio, pensare che le tossicodipendenze, le malattie psichiatriche, i soggiorni irregolari dei migranti economici che fuggono dalla miseria, le povertà materiali e la solitudine esistenziale possano trovare soluzioni e garantire sicurezza alle nostre vite comode e borghesi, scaricandone il peso sull’istituzione penitenziaria o, peggio, buttando via le chiavi! Non è questa la civiltà del diritto che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Non è questo – un diritto penale onnivoro, vendicativo, spietato – quello che hanno immaginato i nostri padri costituenti quando ne hanno disegnato l’architettura nella nostra costituzione. E, allora, dopo due giorni intensi, ritorniamo alla quotidianità del ministero difensivo con la rinnovata consapevolezza di essere, gli Avvocati, l’ultimo baluardo, l’ultimo argine possibile alla deriva punitiva che ha dato l’abbrivio a un sistema che pretende di regolare le disuguaglianze e gli scarti sociali con la leva penale e di utilizzare il carcere come centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali. Dopo momenti alti di confronto e di formazione, che hanno irrobustito l’orgoglio di essere Avvocati, e Avvocati penalisti in particolare, ritorniamo nelle nostre trincee ancora più motivati e consapevoli del significato profondo, autentico della nostra missione e della nostra funzione, chiamati come siamo a assumere la difesa dell’uomo e delle sue libertà e, al contempo, a essere sentinelle e custodi del corredo assiologico che ha dato vita al moderno diritto penale liberale e al giusto processo.   Rassegna stampa: https://shorturl.at/bfRV6 https://shorturl.at/wxL08 https://shorturl.at/eBISV http://tinyurl.com/ymn4232e https://t.ly/8O86K  

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L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci

di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi –    Oggi raccontiamo una storia sbagliata. Ce ne sono più di quante vorremmo nel grande calderone della giustizia e questo crea una doppia difficoltà: è difficile dedicare a tutte l’attenzione che pure meriterebbero; è sempre latente la sensazione di inutilità poiché nessuno sforzo pare capace di provocare anche il più marginale cambiamento. Tuttavia ci sono storie più sbagliate di altre, soprattutto quando sbaglia chi ha il compito di correggere gli errori altrui. È questo il ruolo della Corte di cassazione che Michele Taruffo, in una raccolta di saggi edita da Il Mulino nel 1991, denominò il “vertice ambiguo”, espressione giustificata dalla difficoltà di coniugare le due funzioni tipiche della nostra Suprema Corte; la verifica della legittimità delle singole procedure e il ruolo nomofilattico generale. Chi analizza per studio o lavoro la sua produzione complessiva, i risultati che produce, i suoi conflitti interni, la sua capacità persuasiva, non tarda a scorgere i sintomi dell’affanno: la Cassazione fa fatica a reggere i rilevantissimi flussi di lavoro che le sono assegnati ma al tempo stesso deve smaltirli perché il tempo non è più una variabile indipendente e l’arretrato non è più un’opzione. La prima vittima è ovviamente la funzione nomofilattica, sempre più indebolita da una produzione necessariamente convulsa che fa premio su qualsiasi altro fattore, ivi compresa la riflessione. La seconda vittima è la verifica della legittimità: il ritmo martellante dei flussi in entrata, delle udienze sovraffollate, delle camere di consiglio, delle decisioni da scrivere in fretta e furia fanno sì che la Cassazione si distanzi sempre più dal cuore dei processi e quindi dalle persone in carne e ossa che stanno dietro ogni ricorso e ogni difesa. Non stupisce allora che possano verificarsi storie sbagliate come quella di cui ci accingiamo a parlare. L’avvocato Maurizio Capozzo, difensore di VS (lo identifichiamo con le sole iniziali nel rispetto del suo diritto alla riservatezza), una di queste persone in carne e ossa, ricorre per cassazione contro la decisione della Corte territoriale che ha confermato la condanna inflitta in primo grado al suo assistito, riconosciuto responsabile in concorso di una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate o tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. Si affida ad un unico motivo, deducendo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto – esso difensore di fiducia – alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze attraverso le quali si è sviluppato il giudizio di appello, per essere stato notificato l’avviso, invece, ad altro difensore. Il ricorso è trattato e deciso da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 50649/2023, udienza del 14 settembre 2023 ma, per quanto possa sembrare strano, per raccontarne l’esito abbiamo necessità di fare riferimento ad una differente decisione, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, ordinanza n. 50430/2023, udienza del 14 dicembre 2023, di cui riportiamo il testo integrale: “All’udienza del 14 settembre 2023 questa seconda sezione penale della Corte di Cassazione decideva i ricorsi proposti da VS ed altri avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli che il 28/9/2022 aveva confermato il giudizio di penale responsabilità espresso nei loro confronti dal Tribunale cittadino il 30/6/2021 in relazione ad una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate e tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. VS, in particolare, con unico motivo di impugnazione, aveva dedotto la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto il difensore di fiducia, avv. Maurizio Capozzo, alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze. Il collegio giudicante, rilevando che in nessuna delle udienze celebratesi dinanzi alla Corte di Appello era stata eccepito l’omesso avviso all’avv. Capozzo, dichiarava inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’esistenza di altro difensore di fiducia dello Scarano e, pertanto, della sussistenza di una nullità a regime intermedio intempestivamente rilevata, anche alla luce dei principi posti da questa Corte di Cassazione, secondo cui il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell’imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell’imputato che dell’altro difensore, ritualmente avvisati (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651). Durante la stesura della motivazione della sentenza, però, si è rilevato l’errore percettivo in cui si era incorsi, in quanto nel ricorso per cassazione proposto nell’interesse di VS si era espressamente specificato che non era “intervenuta alcuna nuova nomina, surroga o affiancamento di altro difensore”, come, peraltro, verificato dall’esame degli atti trasmessi a questa Corte, sicché si è proceduto senza formalità, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una svista o equivoco incidente sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto è stato percepito in modo difforme da quello effettivo, tale da integrare l’errore di fatto, indicato dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Barbato, Rv. 273193; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250527) e, per quel che più rileva, si tratta di errore percettivo determinante ai fini della decisione presa, in quanto l’omesso avviso dell’udienza all’unico difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo cod. proc. pen. (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Rv. 263598). Si impone, pertanto, la necessità di correggere l’errore nel dispositivo della sentenza di cui si tratta, come riportato nel ruolo di udienza, con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei confronti di VS, con trasmissione degli atti per il giudizio alla Corte territoriale, e le rettifiche conseguenziali in tema di spese processuali. P.Q.M. Corregge il dispositivo della sentenza emessa dalla seconda sezione penale di questa Corte in data 14/9/2023, riportato nel ruolo di udienza pubblica n. 20, nei confronti di VS nel senso di aggiungere, prima

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Uno Stato minimo nei contenuti sociali e massimo nell’esercizio del potere punitivo

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –   Nonostante tutti gli esecutivi e le rispettive maggioranze degli ultimi trent’anni si siano sempre professate assolutamente liberali, hanno in vero realizzato delle politiche in materia di sicurezza in direzione opposta al paradigma garantista di matrice liberale che vorrebbe l’esercizio del potere punitivo da parte dello Stato, ovverossia il potere penale, da considerarsi quale extrema ratio di governo. In compenso, la medesima classe politica, nelle sue poliedriche declinazioni, al netto delle eccezioni imposte da una realtà non facilmente imbrigliabile, si è distinta nel sostenere e realizzare i più spinti propositi di ristrutturazione statale all’insegna del laisser faire, laisser passer. Nel corso degli ultimi decenni, il martellante battere della grancassa sull’interesse primario dell’impresa e sull’idea dello Stato considerato alla stregua di un’azienda, se ha condotto ad un’iniziale presa di coscienza della necessità di un’amministrazione della cosa pubblica secondo criteri anche di economicità, per superare decenni di sperperi, per altro verso ha instaurato un regime di governo improntato sulla prevalenza assoluta dei parametri economici. Dimenticando, però, che il perseguimento del bene comune non si misura semplicemente in termini numerici, perché comprende anche la tutela dei ceti più deboli, l’eliminazione delle sacche di emarginazione, la solidarietà sociale e in modo prevalente l’accesso di tutti ai diritti fondamentali. Con l’effetto per nulla inatteso di un processo di selvaggia privatizzazione di enti e servizi, di un’azione amministrativa rispondente alla logica aziendalistica, di una configurazione dei rapporti di lavoro improntati sulla flessibilità e lo scardinamento delle difese giuridiche, della compressione delle tutele e di un’erosione graduale dello stato sociale. In un contesto così delineato si sono profilati in maniera costante ripetuti tagli in settori evidentemente ritenuti non produttivi almeno nell’immediato. Una visione sicuramente miope degli interessi collettivi, accompagnata dalla mancanza di proiezione verso l’avvenire, ha indotto, così, a mortificare campi nevralgici come la ricerca e la sanità, ma soprattutto ad operare un graduale, ma continuo, taglio della spesa sociale. A questo progressivo arretramento dello Stato sulle politiche sociali a tutti i livelli ha fatto riscontro un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. Con l’idea ben precisa di affidare alla materia penalistica un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing, in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. L’esempio più recente è quello annunciato qualche settimana addietro con il comunicato n. 59 del Consiglio dei Ministri, per ora cristallizzato in un disegno di legge approvato dall’esecutivo, in attesa di passare dal vaglio parlamentare, che assai probabilmente lo approverà senza intaccarne la struttura e il finalismo. Tra le novità risaltano la norma che renderà da obbligatorio a facoltativo il differimento pena per le donne incinte e le madri con prole fino a un anno, così aprendo le porte degli istituti penitenziari ai bambini, di certo incolpevoli, al seguito delle madri. Trattasi di una normativa che è stata pensata con particolare riguardo alle donne di etnia rom, così rispolverando vecchie logiche parrebbe ispirate al diritto penale del nemico. Queste innovazioni sono nel solco di quanto già fatto dai precedenti esecutivi, al di là del colore politico. Difatti negli ultimi anni, oltre l’allargamento delle misure di prevenzione con l’introduzione del Daspo Urbano (Decreto c.d. Minniti 2017), sempre suscettibili di nuove applicazioni, come disposto dal Decreto c.d. Caivano, addirittura nei confronti dei minori. Si assiste alla continua creazione di nuove fattispecie punitive, del tutto superflue ad esempio la norma contro i rave party (art. 633 bis), oppure all’aumento delle pene, molto spesso incidendo proprio sul minimo. In questo senso la L. n. 107/2023, c.d. Riforma Orlando, che ha innalzato i minimi delle pene per le fattispecie di rapina, estorsione e furto in abitazione. Reati quest’ultimi contro il patrimonio che sono commessi, molto probabilmente, da soggetti che sono stati risucchiati in quella fascia di povertà assoluta che sempre più si allarga, causata delle crisi cicliche economiche e sociali che hanno investito il paese negli ultimi anni. La risposta dello Stato a questi nuovi poveri, emarginati o espulsi dal ciclo produttivo o che giungono sulle barche della disperazione sulle nostre coste, in fuga da fame, guerra e regime violenti irrispettosi dei diritti umani, al netto di qualche provvedimento ottriato di volta in volta così da calmierare gli animi, è il diritto penale, probabilmente perché, tra gli altri vantaggi, è anche a costo zero, almeno nell’immediato. In modo sistematico si è andato profilando, in tal modo, un vero e proprio diritto penale massimo, che, silenziosamente, ha sfruttato le ansie derivanti dai pericoli avvertiti dalla collettività, per attuare una espansione del potere punitivo, con il coinvolgimento di un numero sempre più ampio di soggetti inseriti nel circuito della penalità. Sotto questo aspetto la pena torna, però, ad essere crudele o forse non ha mai smesso di esserlo e il re è nudo. Il garantismo, nella politica legislativa dell’Italia repubblicana, è durato lo spazio di un mattino, dall’approvazione della prima riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 alla riforma del Codice di Procedura Penale del 1989, per poi cedere il passo al mantra della Zero Tolerance. (Pubblicato 8/02/24 in “Studi sulla questione criminale”, Nuova serie dei delitti e delle pene)

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