CONTROLLARE E PUNIRE, PUNIRE SENZA ACCERTARE
di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (avvocato del Foro di Torino)
Ormai da tempo, stiamo assistendo ad un uso massiccio delle misure di prevenzione, sia in ambito amministrativo, sia in ambito giudiziario.
Ciò è dovuto ad una legislazione, sempre emergenziale, che mira al contrasto di fenomeni criminali estremamente eterogenei tra loro, facendo ricorso alla costante implementazione del catalogo contenuto nel testo unico per le disposizioni antimafia (D.L.vo 159/11).
“Codice” che, peraltro, reca disposizioni la cui genesi va fatta risalire alla esigenza, avvertita particolarmente nelle periferie industriali di fine ‘800, di reprimere devianze sociali quali il vagabondaggio, prevenendo così la commissione di reati da parte di soggetti socialmente emarginati e, quindi, potenzialmente pericolosi.
Questo strumento, nato dunque in chiave prettamente special preventiva e di applicazione del tutto residuale rispetto alle pene, si è rivelato, nel tempo, un’utile scorciatoia per giungere, attraverso una sempre meno evidente funzione praeter delictum, alla aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati.
Tanto da arrivare a prescindere, ormai, persino dalla prognosi di futura pericolosità del soggetto destinatario, perdendo così la funzione special preventiva, per assumere contorni sempre più spiccatamente sanzionatori.
Nel percorso di evoluzione ed espansione, l’impulso decisivo verso l’attuale sistematico uso di queste misure si rinviene nel pacchetto sicurezza del 2008 che, consentendo la confisca disgiunta dalla misura di prevenzione personale, l’ha resa uno strumento agile e deformalizzato nella repressione della criminalità da profitto.
Repressione (le parole sono importanti) e non più prevenzione, perché da tempo la prognosi di prossima pericolosità personale dei proposti, che nelle intenzioni del Legislatore del 1873 era il presupposto necessario per l’applicazione di misure che, in quanto preventive, dovevano dispiegarsi nel futuro, ha assunto il ruolo, per usare le parole di SSUU Spinelli, del presupposto fattuale e della “misura temporale” dell’ablazione, nel senso di consentire la confisca anche quando non sia possibile prevedere la futura proclività al reato, purché si tratti di beni accumulati in costanza di pregresse manifestazioni delittuose.
Dalla prevenzione di fenomeni di marginalità ed emarginazione (destinate agli “oziosi e vagabondi”), le misure di prevenzione hanno lentamente preso la scena del contrasto ai reati lucrogenetici, a valle della commissione, o presunta tale, degli stessi e, cioè, mediante l’apprensione del profitto, o presunto tale, di tali delitti.
E, tuttavia, tale fenomeno presenta non pochi punti di frizione, se così inteso, con l’intera architettura costituzionale, sulla quale si regge l’equilibrio tra pretesa punitiva dello stato, sicurezza sociale, libertà personale e libertà di iniziativa economica privata.
Si tratta, infatti, di un giudizio sommario, non a caso definito procedimento (e non processo) di prevenzione, destinato a concludersi con un giudizio che, non essendo formalmente una sentenza di condanna, si basa su indizi che non solo non devono essere gravi, precisi e concordanti, ma neanche assimilabili a quelli, ben più labili, sufficienti per la irrogazione di una misura cautelare.
Sospetti e, spesso, anche valutazioni probabilistiche.
Uno strumento, quindi, di natura e di applicazione naturalmente inquisitorie, per le decise asimmetrie nella formazione e nella valutazione della prova, tanto più utile alle ragioni dello Stato, quanto più caratterizzato da aspetti di peculiare asistematicità rispetto alle forme dell’accertamento della responsabilità penale, all’esito del processo.
Si pensi, ad esempio:
- Alla imprescrittibilità dell’azione, per cui la misura di prevenzione può essere richiesta ed applicata senza limiti di tempo rispetto al fatto-indice di pericolosità.
- Alla sottrazione alla riserva di Legge, per cui la norma può essere etero-integrata dalla produzione giurisprudenziale, con effetto formante del precetto, annettendo così, al diritto dei Giudici una funzione legislativa concorrente, rispetto al diritto delle Fonti.
- Alla retroattività delle norme di sfavore e, per effetto della “tassativizzazione giurisprudenziale” avallata anche dal Giudice delle Leggi con la sentenza 24/19, anche della integrazione interpretativa del precetto. Retroattività affermata sulla analogia legis tra misure di prevenzione e misure di sicurezza, che non pare trovare base normativa valida, alla luce dei principi generali dell’ordinamento.
- Alla previsione di presunzioni di derivazione illecita del patrimonio del proposto, che invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico di chi si difende, sovvertono i canoni della accusatorietà, sui quali si basa il nostro modello processuale penale.
- Alla tendenziale instabilità del giudicato, che consente la ripetuta attivazione dell’azione di prevenzione sulla base di presupposti di fatto non solo nuovi, ma anche semplicemente non valutati.
Tale eccezionalità avrebbe imposto di non sviare l’applicazione delle misure di prevenzione dalla loro finalità special preventiva, esclusivamente indirizzata verso manifestazioni di pericolosità che si presentassero concrete e, soprattutto, future, poiché solo il perseguimento di interessi pubblici superiori avrebbe potuto consentire una aggressione così deformalizzata di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà individuale nelle sue diverse declinazioni e la libertà di iniziativa economica, esercitata mediante il diritto alla proprietà privata.
Numerosi sono stati, sul punto, i richiami della Giurisprudenza europea: basterebbe leggere la dissenting opinion nella decisione De Tommaso/Italia, per apprezzare come il sistema prevenzionale nazionale sia visto con sospetto in sede convenzionale e giustificato solo, appunto, in chiave di prevenzione di fenomeni criminali di particolare allarme.
Di fronte alla progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione (con l’estensione degli istituti processuali penali in tema di diritto alla prova, astensione e ricusazione, decadenza dall’azione), ma anche davanti all’allineamento ai principi convenzionali in punto di qualità della Legge, avevamo creduto ad una evoluzione delle misure di prevenzione nel senso di attenuarne le asistematicità, così da rispettare quegli standard minimi di garanzia che dovrebbero regimentare azioni che, pur non essendo assimilate a pene, da queste ultime hanno finito per mutuare una funzione ormai spiccatamente afflittiva.
Avevamo creduto che, avvicinandosi alla “materia penale”, le misure di prevenzione potessero affrancarsi da quei profili di “terribilità” che, per anni, le avevano relegate nel sottoscala polveroso dove, come vecchi arnesi, erano state relegate e dove, per le loro caratteristiche, avrebbero dovuto rimanere.
Attenta dottrina, tuttavia, ci aveva messo in guardia da tempo su come l’abbraccio tra processo penale e misure di prevenzione avrebbe potuto costituire l’occasione, piuttosto che di una nobilitazione delle seconde, della corruzione del primo, del quale la prevenzione si sarebbe presto proposta come utile succedaneo.
È, infatti, in atto da tempo un disegno, visibile ormai ai più, che prevede il progressivo abbandono del processo penale come strumento di accertamento delle responsabilità, in favore di un procedimento agile snello e che, pur non comportando l’irrogazione di una pena, finisce per colpire diritti costituzionalmente tutelati, la cui compromissione meriterebbe altra sacralità di accertamento, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che lo Stato liberale si baserebbe altrimenti sulla promessa di diritti che non possono essere garantiti.
Una riprova evidente di quanto appena affermato la fornisce l’introduzione dell’art. 578 ter nel codice di procedura penale.
Nel disciplinare gli effetti della novellata improcedibilità del processo sulle misure cautelari reali, la norma prevede la possibilità di trasferimento dell’azione reale nel procedimento di prevenzione.
Le conseguenze e gli obiettivi della novella sono palesi: dalle ceneri del processo penale, concluso con la improcedibilità processuale per l’inerzia del Giudice di appello nasce, su sollecitazione dello stesso, un più che eventuale procedimento di prevenzione in modo che la disposta confisca penale, caducata dalla improcedibilità, possa essere sostituita dalla confisca di prevenzione.
Il Legislatore, pressato da esigenze – non necessariamente nobili – di rispetto dei vincoli del PNRR, da un lato presta dovuto ossequio ad uno dei cardini del “giusto processo”, che si declina anche attraverso la ragionevole durata dello stesso, così prevedendo che l’allontanamento temporale della decisione dal fatto faccia venire meno l’interesse dello Stato alla repressione dell’illecito.
Dall’altro, mostrando un volto assai diverso, recupera le conseguenze patrimoniali del processo, sfruttando le denunciate asistematicità dell’azione di prevenzione.
E, in particolare, la sua capacità di ovviare, attraverso l’imprescrittibilità dell’azione, alla cronica inefficienza della macchina della Giustizia nel celebrare processi di ragionevole durata.
Le apparenze, davanti all’Europa, sono salve: non si può essere imputati per sempre.
La sostanza, tuttavia, è un’altra: si può essere “proposti” a vita.
Il tramonto del processo penale non è che una tessera di un complessivo mosaico che connota ormai questo scorcio di millennio. Il precipizio verso il vetero-inquisitorio (quale è il procedimento di prevenzione) e la riduzione del processo penale a mercanteggiamento, sono due conseguenze solo apparentemente divergenti.
È la mutagenesi del procedimento di prevenzione, che consente di “punire senza accertare”.
“Punire senza accertare” è un ossimoro che fa rabbrividire.
Un paradosso, per un sistema sanzionatorio di stampo accusatorio, come quello sul quale si regge il modello processuale penale di ogni paese democratico, compreso (ancora) il nostro.
E allora dobbiamo ammettere di essere stati miopi, di non aver raccolto gli avvertimenti dalla dottrina, di aver creduto che le misure di prevenzione avrebbero subìto, avvicinandosi in qualche misura alle garanzie penalistiche, una nobilitazione sistematica.
E invece, esse sono salite dal sottoscala polveroso al piano nobile del processo penale ancora cariche di tutto il loro portato inquisitorio di stampo illiberale; dalla marginalità, al cuore del contrasto (senza garanzie) a fenomeni criminali ormai tanto eterogenei, da non nascondere più la loro natura ormai anche formalmente repressiva.
Occorrerebbe fermare questa deriva, sollecitando con forza il legislatore a rimettere al centro del sistema repressivo solo il processo penale, abbandonando la facile scorciatoia della logica del sospetto per punire condotte che si ritengono, con giudizio sommario, illecite.
Proposta utopica, questa, destinata a restare una voce nel deserto.
Ma la sola alternativa, è di assistere silenti al calar della notte sul processo penale, mentre sorge l’alba del “diritto della prevenzione punitiva”.