Diritto Processuale

SISTEMA PENALE E  NUOVE “ENCLOSURES”

di Orlando Sapia* «La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane» (Anatole France, Il giglio rosso, 1894) È invalso da almeno tre decenni un uso massiccio del sistema penale nel governo della società: aumento spropositato delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che è possibile riscontrare. Un sistema che teoricamente dovrebbe garantire giustizia nel rispetto dei diritti dei cittadini, ma con frequenza nega la giustizia, a causa della lungaggine dei processi causata da un fenomeno di overload del contenzioso, e, a volte, per una perversa eterogenesi dei fini, realizza degli orrori giudiziari.[1] Un sistema penale che diviene sempre più pervasivo, tentando di controllare, mediante la previsione di una miriade di fattispecie di reato, ogni aspetto del vivere sociale, un “diritto penale totale”.[2] Ciò è l’opposto del garantismo penale, il cui principio fondamentale è quello di limitare l’uso del potere coercitivo/punitivo da parte dello Stato (indagini, misure cautelari, processo, esecuzione penale), così da intenderlo quale extrema ratio. In Costituzione sono fissati i principi cardine di un sistema penale finalizzato a garantire i diritti dell’uomo indagato, imputato e, eventualmente, condannato. L’idea di fondo è quella della riduzione della violenza, anche nella punizione del reo, poiché l’obiettivo finale è riaggregarlo nella società, come disposto chiaramente dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 313/1990[3].  Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione tardiva, laddove le riforme sono intervenute, e per altri aspetti assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354; il nuovo codice di procedura penale è varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930. Il legislatore, tuttavia, a partire dagli anni novanta del secolo passato ha realizzato una legislazione fortemente repressiva, improntata alla logica dell’eccezione, nella quale lo spazio delle garanzie legislative ha subito con sistematicità una costante riduzione[4]. Esemplare, in tal senso, è l’introduzione del regime dell’ostatività, ex art.  4 bis L. n. 354/1975, che laddove riguardi il condannato alla pena dell’ergastolo comporta l’ostatività alla concessione della sospensione condizionale, elidendo così le possibilità di concreta riducibilità della pena perpetua. Più in generale, sotto il profilo del diritto sostanziale, si assiste al proliferare delle fattispecie di reato e all’innalzamento degli edittali di pena, in alcuni casi proprio dei minimi, così sottraendo al giudice di merito la possibilità di realizzare una corretta dosimetria della pena da irrogare.[5] Sarebbe troppo lungo in questa sede operare una ricostruzione degli svariati pacchetti sicurezza che si sono succeduti negli ultimi tre decenni, ma è di certo utile ripercorrere quello che è avvenuto per lo meno nell’ultima legislatura. Uno dei primi atti dell’attuale esecutivo, che si muove in perfetta continuità con i precedenti governi almeno per quanto concerne l’uso della penalità, è stato il c.d. decreto contro i rave party, n. 162/2022 poi convertito nella legge n. 199/2022,  che ha introdotto il reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione; normativa finalizzata a punire chiunque promuova o organizzi invasione di terreni o edifici allo scopo di realizzare raduni musicali che possano nuocere alla salute pubblica a causa del consumo di droghe oppure per violazione della normativa in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli  e  delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. È evidente che si tratti di una norma del tutto superflua poiché le condotte, ora riconducibili nel 633 bis, erano già sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 633 c.p. invasioni di terreni o edifici. Si è dinanzi alla volontà di ricondurre nella sfera di rilevanza penale la condotta organizzativa dell’incontro musicale, di per sé neutra, poiché connessa alla pratica delle occupazioni temporanee piuttosto che al consumo di droghe.  Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina prevedendo  la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 TUI), ma soprattutto l’introduzione del nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis Dlgs. n. 286/98), in cui se nell’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persona la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale. Il D.L. n. 123/23 c.d. decreto Caivano che traendo origine sempre da fatti di cronaca, avvenuti per l’appunto a Caivano, rappresenta un ulteriore di esempio di atto avente forza di legge che viene emanato in via di urgenza, e senza nessuna necessità, sull’onda delle emozioni di piazza per parlare alla pancia del paese. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene delle norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione. Fortunatamente non sono passate quelle proposte che avrebbero voluto un abbassamento dell’età ai fini dell’imputabilità, che per adesso permane a quattordici anni. Gli effetti del decreto Caivano non si

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ANCHE AL PEGGIORE DEI NEMICI

di Fabio D’Offizi* Leggendo i preziosi contributi monografici fin qui pubblicati su “Ante Litteram” in tema di tortura, ho ritenuto opportuno segnalare una vicenda processuale che, a parer mio, non gode dell’eco che meriterebbero tutti quei giudizi in cui vi è la tendenza a ribaltare il paradigma accusatorio garantista e, di conseguenza, a distorcere la procedura penale fino a intenderla quale neo-limite all’esercizio del diritto di difesa. In un sistema accusatorio garantista, infatti, le regole processuali devono limitare l’autorità procedente per bilanciare l’asimmetrico rapporto fra lo Stato, che avanza la pretesa punitiva, e il cittadino, a garanzia del quale sono poste. E ciò deve valere a fortiori se il delitto oggetto dell’accertamento è un crimine contro l’umanità, come lo è la tortura, anche se si tratti di quella propriamente intesa, ossia la terribile e inaccettabile pratica di interrogatorio medievale. In tale prospettiva si inserisce la sentenza n. 192/2023 con cui la Consulta, in relazione al cd. Processo Regeni, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 420-bis, comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa. In particolare secondo la Consulta, il factum principis (ossia il rifiuto delle autorità egiziane di rendere noti i recapiti dei quattro funzionari ai fini della notifica della loro vocatio in iudicium) ha determinato obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla, e idonea a impedire il compimento degli accertamenti giudiziali previsti in sede pattizia, così ledendo la dignità della persona offesa perché comprime il suo diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti e quello dei familiari della persona la cui morte sia stata causata direttamente da quel reato[1]. Sulla scorta di queste ragioni, ampliando il novero delle ipotesi di assenza non impeditiva previste dal terzo comma dell’art. 420-bis c.p.p., la Corte costituzionale ha permesso la celebrazione, a carico di quattro assenti inconsapevoli, di un giudizio che a breve si concluderà, seppur caratterizzato ab initio «dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini»[2]. In un contesto mediatico dai risvolti altamente politici, questa scelta del giudice delle leggi mi è parsa un’operazione ermeneutica giustificata più da una spinta esterna di matrice vagamente populista che dall’asserita necessità di bilanciare interessi confliggenti ma al contempo riconosciuti dalla carta fondamentale. Infatti, in tale prospettiva, la ritengo opinabile per due ordini di motivi. In primo luogo, il bilanciamento operato dalla Consulta non mi convince nel relazionare il diritto di difesa con il “diritto inviolabile della persona che del reato di tortura è stata vittima”, poiché altrimenti (ossia impedendo sine die la celebrazione del processo per la verifica del reato di tortura) si annullerebbe il suo diritto fondamentale all’accertamento della verità. A mio parere, tale impostazione presta il fianco a due differenti critiche. Per un verso, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza che assiste anche i quattro funzionari egiziani, non può esservi aprioristicamente una “vittima” perché, in un ordinamento pienamente democratico, tale status soggettivo dovrebbe maturare solamente al momento del passaggio in giudicato della condanna emessa al di là di ogni ragionevole dubbio, ossia solamente quando viene accertato il “colpevole”. Fino ad allora in un giusto processo, proprio in ossequio alla presunzione di non colpevolezza, non potrà esservi per definizione una “vittima”, ma al più una “presunta vittima”, almeno in relazione a quello specifico “presunto non colpevole”, quindi bilanciare l’inviolabile diritto di difesa di quest’ultimo con un diritto all’accertamento della “presunta vittima” mi lascia perplesso. Per altro verso, l’accertamento processuale è direttamente proporzionale al rispetto delle regole che lo disciplinano; quindi, una procedura deviata ab initio restituirà una “verità” quanto meno dubbia, incerta, se non addirittura discutibile e non convincente, con ciò negandosi la stessa funzione conoscitiva del processo penale e, pertanto, anche il menzionato diritto della “vittima” alla verità. Quest’ultima, infatti, conseguirà a un non-accertamento, frutto della sola posizione accusatoria, che nel percorso processuale avrà beneficiato illegittimamente della mancanza di un vero contraddittorio a causa dell’assenza incolpevole degli accusati. In secondo luogo, se la Consulta, da un lato, pone il diritto partecipativo dell’imputato[3] (funzionale all’esercizio della cd. autodifesa, che compone il diritto di difesa nell’interazione con il concorrente diritto alla difesa tecnica, rispetto al quale rimane comunque distinto e ulteriore[4]) e, dall’altro, il diritto/dovere dello Stato di perseguire tutti i reati, bilanciarli negando la pienezza del primo significa avvantaggiare irragionevolmente il secondo, perché si pregiudica in modo irrimediabile il diritto inviolabile di difesa. Infatti, la mancata conoscenza da parte dell’imputato della vocatio in iudicium (caposaldo del giudizio penale) non è altrimenti surrogabile e rappresenta un vulnus irreparabile che elide l’idea stessa di giusto processo, ossia dello strumento democratico attraverso cui lo Stato può svolgere l’interesse repressivo… anche in relazione ai crimini contro l’umanità. Anzi, tanto più grave è il reato, tanto maggiori devono essere le garanzie che lo Stato assicura al presunto non colpevole, per dimostrare di tal guisa, anche al peggiore dei nemici, la propria superiorità democratica. Prendendo dichiaratamente atto del pregiudizio che stava arrecando al sistema alla cui tutela sarebbe invece preposta, la Consulta ha ritenuto comunque possibile ridurre questo vulnus a legittimità «per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun

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LA COSIDDETTA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA SISTEMA PENALE E CARTA COSTITUZIONALE

di Amedeo Di Franco* –  La vexata quaestio relativa alla cd. separazione delle carriere (o, meglio, degli statuti ordinamentali) della magistratura requirente e della magistratura giudicante si (ri)presenta sul panorama politico-istituzionale del nostro Paese nelle forme del d.d.l. costituzionale n. 1917 approvato alla Camera e trasmesso al Senato.1 Senza la pretesa di affrontare la moltitudine di implicazioni che la specifica proposta di riforma costituzionale porta con sé, le brevi osservazioni che seguono ruotano attorno al rapporto tra la c.d. separazione (o unicità) delle carriere e il sistema penale vigente in uno specifico ordinamento in un determinato momento storico. Orbene, in quest’ottica, il principio della riflessione ben può risiedere nella circostanza per la quale molti, in particolare tra gli studiosi e operatori del diritto, si sono chiesti e si chiedono tutt’ora perché cambiare e, dunque, perché “separare” le carriere. Un interrogativo, questo, che sembra provenire da uno scenario nel quale le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti siano ontologicamente unite – secondo un ordine giusnaturalistico2 – da un vincolo indissolubile (e ontologico è proprio il termine utilizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati nella mozione finale del trentaseiesimo congresso nazionale di Palermo dello scorso anno, dove si legge che: «L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme»)3. Ecco, si diceva, è come se in tale scenario qualcuno all’improvviso – come un deus ex machina, forse nelle vesti di Eride, dea spietata che gode nell’animare conflitti tra gli uomini – abbia manifestato l’intenzione di recidere tale nodo indissolubile. Appare preferibile, invece, una diversa postura nei confronti del tema, che imponga di chiedersi, innanzitutto, le ragioni per le quali le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione siano accomunate e, di conseguenza, perché siano unificati i relativi statuti ordinamentali. In questo senso, un interessante punto di partenza si può senza dubbio rinvenire nella relazione del guardasigilli fascista Dino Grandi al codice di procedura penale del 1930 di matrice inquisitoria – che sostituì quello tendenzialmente accusatorio e liberale del 1913 –, presentata alla Maestà del Re Imperatore.4 Nel testo si evince che alla base della decisione di unificare le funzioni ci fossero, in primo luogo, «ragioni di ordine politico, in quanto, superata la distinzione fondamentalmente erronea tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta. Ciò determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione». In secondo luogo, venivano in rilievo «ragioni d’ordine pratico […] perché la separazione non potrebbe giovare ai fini di una specializzazione di funzioni e, quindi, ad una più perfetta formazione dell’abito e delle attitudini dei singoli magistrati, in quanto la formazione intellettuale e professionale del magistrato, lungi dall’esser turbata, è, invece, avvantaggiata dall’esercizio di entrambe le funzioni, che offre il modo di perfezionarsi in tutti i campi del diritto. L’ordinamento, perciò, fissa l’istituto del Pubblico Ministero in armonia con l’attuale sistema». Ecco, tale sistema, che resistette, seppur con molte modificazioni, anche all’avvento della Legge fondamentale, come è noto, non è più vigente. È stato abrogato nel 1989, a vantaggio di un codice “tendenzialmente” accusatorio. Ciò nonostante, il concetto della “cultura della giurisdizione”, di cui è intrisa la relazione del guardasigilli Dino Grandi, continua tutt’ora a riecheggiare, assurgendo ad uno dei principali argomenti coi quali si ritiene irragionevole la separazione delle organizzazioni ordinamentali. Sul punto v’è dunque da chiedersi se abbia senso parlare di “cultura della giurisdizione” nell’attuale sistema di giustizia. In quest’ottica, a voler accedere alla interpretazione più restrittiva del concetto di “cultura della giurisdizione”, ci si dovrebbe riferire alla funzione dello ius dicere, esclusivo appannaggio dell’organo giudicante e, dunque, nel sistema attuale preclusa alla pubblica accusa. Se, invece, si volesse prediligere una concezione più lata di tale concetto, inteso, dunque, più ampiamente come “cultura della legalità” – o come cultura del rispetto delle regole all’interno del processo –, l’unicità delle carriere non potrebbe non includere il terzo anello del giusto processo triadico scolpito nell’art. 111 Cost., rappresentato dall’avvocato difensore.5 A ciò si aggiunga, inoltre, che non è per nulla scontato che il mantra della “cultura della giurisdizione” – anche a voler accedere alla ambigua accezione con cui viene non di rado declinata – dispensi buoni frutti; anzi, tanto può aversi un’influenza equilibratrice – e quindi virtuosa – della pubblica accusa, tanto può registrarsi, al contrario, un appiattimento della giurisdizione su posizioni inquisitorie (come, secondo autorevole dottrina penalistica, è avvenuto in plurimi casi di scelte ermeneutiche effettuate in relazione fattispecie chiave del nostro sistema penale, come la corruzione o il c.d. concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Appiattimento che rischia di mortificare la natura stessa del processo penale di stampo accusatorio. È appena il caso di ricordare, poi, la circostanza per la quale proprio l’insigne giurista che firmò il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, il Ministro, Professore, Onorevole, Giudice della Corte costituzionale e Avvocato, Giuliano Vassalli ha scritto e sostenuto in più occasioni che il processo penale per come delineato all’epoca non avrebbe assunto con pienezza i connotati del processo accusatorio in assenza della separazione delle organizzazioni ordinamentali dei magistrati e che in questo modo le funzioni non sarebbero state mai del tutto distinte. Disse, infatti, in un’intervista del 1987 che non fosse leale parlare di processo accusatorio, ove i giudici e i pubblici ministeri avessero continuato ad avere medesime carriere e a ricoprire gli stessi ruoli, essendo necessario, in tal senso, un allineamento della Carta costituzionale.6 Ancor più valore assume, poi, la profezia di Vassalli se si considera che nel 1999 è stato riformato l’art. 111 della Costituzione: da allora, invero, la nostra Legge fondamentale fa proprio il principio del giusto processo, da svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Pertanto, l’esigenza di differenziare

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IL MERITO PROCESSUALE, TRA ACCUSATORIO ED INQUISITORIO

di Antonio Baudi Dopo essermi intrattenuto nei due precedenti scritti su merito cautelare e merito preliminare dovrei ora completare l’impegno in tema di merito processuale, tema coinvolgente l’inquisitorietà (come esemplarmente nel giudizio abbreviato che implica rinuncia al dibattimento e al contraddittorio quale metodo acquisitivo della prova di matrice accusatoria) e l’accusatorietà (operante per l’appunto nei giudizi dibattimentali). Nella loro essenza risalta il rigoroso divergere tra i due opposti sistemi, l’uno che privilegia il monodico potere del giudice, quale depositario della verità, nonché il ricorso all’applicazione di misure cautelari, l’altro che privilegia la verità come obiettivo finale risultato del contraddittorio tra i soggetti principali del processo e che esclude compromissioni preprocessuali di libertà personale. Tale rigore è smentito dal sistema vigente, che si vuole a procedura mista, e dagli stessi principi della carta costituzionale come sanciti con gli artt. 13 e il 27.    Il primo disposto, di cui all’art. 13, evoca l’inquisitorietà. Esso esordisce proclamando che “la libertà personale è inviolabile”.  Precisa quindi che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e casi e modi previsti dalla legge”. Però “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”, fermo restando che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Persiste con l’enunciato dell’ultimo comma, una terminologia antisistema: “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. Il secondo disposto, di cui all’art. 27, dispone che “La responsabilità è personale” ed esalta la presunzione di innocenza quando detta che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Nel rispetto della dignità personale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ulteriori notazioni sono emerse dall’esperienza ed è su queste che intendo soffermarmi. In sede di riunione indetta dal CSM tra tutti i dirigenti delle sezioni dei giudici per le indagini preliminari (in breve “i capi Gip”) sono state conosciute, me presente, realtà sorprendenti. In un ufficio del Nord si era formata la prassi per cui in sede dibattimentale la pena non era mai inflitta al di sotto della media edittale e, in tal modo, era scongiurato l’accesso al giudizio dibattimentale risultando oltremodo favorito il giudizio abbreviato, ove, in caso di condanna, la pena, muovendo dalla base minimale, era premialmente ridotta di un terzo. Quell’ufficio era elogiato per la sua straordinaria efficienza. In altro grande ufficio, sempre del Nord, l’inoltro nella cancelleria dibattimentale monocratica dei fascicoli del PM avveniva con due giorni di anticipo rispetto alla data di udienza per problemi organizzativi. Ne conseguiva che il giudice era inevitabilmente indotto a consultare entrambi i fascicoli e quindi aveva una totale conoscenza degli atti, il che gli consentiva di spadroneggiare nel processo in funzione di una decisione ormai formata come nel passato. Difatti quel giudice era in grado di definire tutti i processi calendarizzati in udienza. Tutto questo ho constatato di persona essendo parte civile nell’ultimo processo da definire. Numeri statistici alla mano anche tale ufficio era elogiato per la sua efficienza! In entrambi i casi la logica del sistema del codice e della riforma era brillantemente aggirato in funzione dell’efficienza e della giustizia in concreto. Quando, nel prosieguo delle audizioni, si ascoltarono altri presidenti, del centro sud, emergeva una opposta realtà e le statistiche denunciavano il ritardo nei giudizi e l’anomalo accumularsi dell’arretrato. Occorre in proposito rammentare che Il nuovo codice è stato approvato all’unanimità e nei commenti dell’epoca si precisava che in tanto il sistema avrebbe funzionato in quanto era vantaggioso optare per il giudizio abbreviato e ridurre al minimo i giudizi accusatori. Sarebbero state necessarie, a mio avviso, due concorrenti evenienze; che i giudizi del merito preliminare bloccassero accuse prive di prognosi di fondatezza nel merito e che i difensori convincessero gli assistiti sui vantaggi della premialità. Ed invece i controlli preliminari si sono, anche con il diffuso favore dottrinario, risolti in un comodo ed irriflessivo rinvio a giudizio e nell’eccessivo sovraccarico era una meta allungare i tempi ed agevolare la maturazione della prescrizione. Sul rapporto tra Giustizia ideale e Giustizia reale, o meglio sui metodi per l’efficienza del sistema, in concreto ormai fallimentare, è bene evitare qualsiasi ulteriore commento.

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IL DIRITTO,LA PROVA E I COSTI: DIVAGAZIONI

di Fabrizio Cosentino* 1. Uno dei punti fondamentali di ogni ordinamento giuridico riguarda le prove da ritenere ammissibili e il loro grado di sufficienza ai fini di una pronuncia di condanna, civile o penale. L’importanza delle procedure, per la salvaguardia dei diritti delle parti contrapposte – ma al contempo come direttiva per il giudice – è sempre stata posta all’attenzione del legislatore, perché non basta affermare un diritto, se non si sa in che modo lo si può far valere: l’accertamento di un diritto e l’imposizione di una sanzione riuscirebbero impossibili se  non si sapesse come compiere l’accertamento e come imporre la sanzione. Così avvertiva Antonio Azara, presidente di sezione della Corte di Cassazione, all’epoca delle nostre – tuttora vigenti – codificazioni, aggiungendo: L’evoluzione degli istituti di diritto sostanziale procede nel complesso di pari passo con quello degli istituti di diritto processuale quando manca la sincronia d’insieme il vero progresso si arresta… La difficoltà per la formazione di un buon codice di procedura sta nel trovare un giusto mezzo nella tutela del diritto fra la rapidità e la sicurezza. La meticolosità e la sovrabbondanza di norme si presta ai cavilli e porta lungaggini di giudizi che sono grandemente dannose; l’eccessiva brevità ristrettezza può determinare incertezza di applicazione nei casi pratici rigore e plasticità che sono requisiti essenziali della norma procedurale non vanno facilmente insieme ma sono certo accordabili è un buon sistema di diritto processuale deve dare alle parti la possibilità di un pronto accertamento del diritto e di una sicura protezione e al giudice la possibilità di giungere presto a una chiara e precisa decisione con piena cognizione di causa ([1]). 2. Nei sistemi basati sul contraddittorio, spetta a chi promuove il giudizio, la parte o il P.M., fornire la prova dei fatti costitutivi fondamentali del diritto dedotto o della pretesa punitiva fatta valere con la richiesta di condanna (art. 2697 c.c.; arg. ex artt. 187 e 190 comma primo, prima parte). Vale pertanto il criterio generale, per cui ciascuna delle parti in causa è tenuta a provare i fatti che implichino l’applicazione di una norma sfavorevole all’altra parte. Il bilanciamento e la distribuzione dell’onere della prova da parte del legislatore sono operazioni estremamente delicate.  In un giudizio penale, ad es., l’accusa è tenuta a provare il tenere o l’agevolare il gioco d’azzardo e il prenderne parte, senza esserne mero connivente, e – ai fini dell’aggravante – anche dell’entità della posta in gioco (art. 718, 720 c.p.). In tal modo, si diminuisce il rischio che l’imputato venga condannato benché innocente, ma si aumenta contemporaneamente il rischio che l’imputato venga assolto, benché colpevole. La fondamentale presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27 comma secondo, Cost.) in presenza di (almeno) un doppio grado di giurisdizione, comporta analoghi effetti, anche se non è esente da aporie: un secondo giudizio potrà correggere gli errori del primo, in un senso (condanna) o nell’altro (assoluzione), ma lascerà lo spazio – soprattutto nell’opinione pubblica – al dubbio (chi ha visto bene, il primo o il secondo giudice?). Il sistema americano, per i reati basati sul verdetto di una giuria, non conosce questo problema, poiché l’appello può essere fondato soltanto su elementi di procedura (in primis, le corrette istruzioni date dal giudice ai giurati) ([2]). Anche le rigide regole procedurali pongono evidenti problemi: quid iuris in presenza, ad es, di una intercettazione illegale, o di una confessione acquisita in violazione dei c.d. “Miranda warnings” ([3]), che pure provino con schiacciante evidenza la commissione del fatto da parte dell’imputato, in assenza di altri elementi agli atti? Si impone l’assoluzione, a tutela di tutti gli innocenti che incappano nelle maglie della giustizia e a protezione degli abusi, secondo il principio “meglio un colpevole in più in libertà che un solo innocente in carcere”, eppure la coscienza comune istintivamente soffre (in questo caso, è la ragione che prevale) ([4]). La presunzione di innocenza, inoltre, sembra soffrire un vulnus, laddove il singolo incolpato viene inserito in processi dai grandi numeri, rischiando di venire schiacciato dalla mole processuale, e dalla difficoltà di cogliere ogni singolo aspetto individuale, e quindi di “individualizzare” il giudizio: le camere penali puntano il dito sul tasso di sommarietà e di errore che i processi di massa recano inevitabilmente con sé, senza contare che nei “grandi” processi, i costi di difesa possono diventare insopportabili per gli imputati marginali. 3. È evidente che la legge, prima di fare certe scelte, ne valuta i costi. Condannare una persona senza aver raggiunto un’apprezzabile soglia di evidenza costa (dal punto di vista morale ed economico), in quanto comporta il rischio di punire chi non ha commesso il fatto, minando, al margine, la forza produttiva della società, e imponendo i costi dell’esecuzione della pena. Spingersi sino a richiedere la prova “diabolica” della colpevolezza parimenti ha un costo, perché vi è il rischio di un intollerabile tasso di assoluzioni e, al limite, nessun colpevole potrebbe essere condannato, nemmeno il reo confesso, compromettendo gravemente l’ordine pubblico. Il punto di giusto equilibrio non è definito, e non può essere definito, se non con un margine di incertezza. Vi sono alcune “regole”, anche non scritte, quotidianamente in uso da parte dei giudici per raggiungere il convincimento su determinati fatti, riguardo ad esempio al nesso causale (tipicamente il c.d. giudizio controfattuale), ma occorre fare i conti con i pregiudizi logici, i c.d. bias cognitivi, che possono influenzare negativamente le decisioni. Ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale o della stessa condanna, ad es., il giudice può farsi influenzare dai precedenti penali dell’imputato (più sono, e più sono specifici, più viene ritenuto probabile che l’imputato abbia nuovamente delinquito) o dai proprio convincimenti personali circa il particolare fatto da giudicare: in determinati reati, ad es., gioca il pregiudizio contro o a favore della donna, o nei confronti degli orientamenti di genere; nei reati concernenti gli stupefacenti, in quelli commessi da immigrati o da persone di etnia diversa, un’eventuale accentuata avversione personale, o al contrario un’eccessiva propensione alla tutela del diverso. La regola del ritenere la

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BENEFICIO PREMIALE DISCENDENTE DALLA MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO AVVERSO LA SENTENZA DI CONDANNA EMESSA ALL’ESITO DI GIUDIZIO ABBREVIATO. L’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP, APPRODI GIURISPRUDENZIALI E PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

di Vittoria Bossio – RIDUZIONE DI 1/6 AD OPERA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE DELLA PENA IRROGATA IN CASO DI MANCATA IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DELLA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO NELLE FORME DEL RITO ABBREVIATO La disposizione dell’art. 442 cod. proc. pen. è stata modificata mediante l’introduzione del comma 2-bis, per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, in conseguenza del quale quando l’imputato o il suo difensore non propongono impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena irrogata è ulteriormente ridotta nella misura di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Tale disposizione veniva introdotta in ossequio all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge 27 settembre 2021, n. 137, recante  «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che imponeva al legislatore delegato di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». Nella stessa direzione, inequivocabilmente deflattiva, occorre richiamare la previsione dell’art. 1 comma 10, lett. a), n. 1, legge n. 137 del 2021, che impone al legislatore delegato di «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».   MODALITÀ PER RICHIEDERE LA RIDUZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP La nuova formulazione dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede: «Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2- bis cpp. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La disposizione in questione, dunque, esclude dalla disciplina dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., che prevede il procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. la materia della diminuente esecutiva, che colloca in un diverso e autonomo ambito processuale, nel quale non vi è alcun riferimento esplicito al procedimento de plano. Ne discende che il trasferimento in una sede processuale diversa da quella originaria – ovvero quella disciplinata dal novellato art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. – della regola attributiva della competenza, relativa alle ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in assenza di richiami espressi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., non consente di ritenere applicabile la procedura de plano per concedere la diminuente esecutiva in esame. Ne discende che deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 179, comma 1, cod. proc. pen. e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo de plano, respinga un’incidente di esecuzione presentato al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 666 cod. proc. pen. Cfr. Cass. Pen. Sezione I sentenza n. 07356/2025.   APPLICABILITÀ DELLA RIDUZIONE SOLO IN CASO DI MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO E NON NEL CASO DI RINUNCIA ALL’APPELLO PROPOSTO. La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 51180/2023 ha stabilito che la riduzione di 1/6 della pena consegue solo alla mancata impugnazione e non anche alla rinuncia di quella già presentata. La Suprema Corte premette che appare opportuno richiamare, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in sede di legittimità in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24 d.lgs. n. 150 del 2022, con entrata in vigore alfine fissata al 30 dicembre 2022. La norma, collocata nell’alveo dell’art. 442 cod. proc. pen., volto a disciplinare la fase della decisione di primo grado nel rito abbreviato, stabilisce che quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente (rispetto alla riduzione per il rito a prova contratta fissata nel comma 2) ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Si è, al riguardo, precisato che la condizione processuale che ne consente l’applicazione è costituita dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione ed essa, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente. Per vero, la ratio dell’intervento riformatore si profila individuabile nel perseguimento dello scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo l’emissione della sentenza di primo grado, così da evitare l’ingresso del procedimento stesso nella fase delle impugnazioni, quali che l’ordinamento in concreto consenta nel singolo caso, allorquando – trattandosi di sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio assoggettato al rito abbreviato – l’imputato e il difensore valutino come non sorretta da un apprezzabile interesse la prospettiva di sottoporre a nuova verifica la decisione emessa dal primo giudice e considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciarvi al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata. È, dunque, la radicale mancanza dell’impugnazione – e soltanto essa – che, determinando l’effetto deflattivo perseguito, integra il presupposto necessario per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma. Conferma tale approdo la scelta che la norma ha operato per individuare il giudice competente a sancire la riduzione e, conseguentemente, il procedimento occorrente per la relativa determinazione: a provvedere deve essere il giudice dell’esecuzione; e ciò esige l’instaurazione del procedimento esecutivo, secondo le forme proprie che, in questa sede, non è necessario approfondire. Certo è che, avendo previsto l’esclusiva competenza del giudice dell’esecuzione per l’applicazione della riduzione, la norma corrobora l’approdo ermeneutico secondo cui soltanto la mancanza dell’impugnazione avverso la sentenza di primo grado integra la condizione legittimante la riduzione stessa. Se il legislatore avesse inteso applicare questa riduzione premiale alla diversa fattispecie della rinuncia

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QUELLA CHIMERA DELLA “CROSS EXAMINATION” NELLA PRASSI DEL PROCESSO PENALE ATTUALE

  di Pasquale Foti* –    La cross examination, o esame incrociato, rappresenta uno dei momenti cruciali del dibattimento penale, consentendo il confronto diretto tra le parti e offrendo garanzia di imparzialità nel processo. Nel contesto del sistema processuale italiano, essa trova il proprio fondamento normativo principalmente negli articoli 498 e 499 del Codice di Procedura Penale (CPP), ma è profondamente influenzata anche dai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana. È l’articolo 498 CPP che stabilisce le modalità con cui le parti possono procedere all’esame diretto dei testimoni, fissando criteri di pertinenza e rilevanza delle domande al fine di assicurare una dialettica ordinata e funzionale alla formazione della prova. L’articolo 499 CPP si pone quale norma cardine in tema di controesame, riconoscendo alle parti il diritto di porre domande volte a verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, in conformità al principio del contraddittorio quale pietra angolare del giusto processo. Il giudice, nel sistema italiano, è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia e controllo, evitando di assumere una funzione investigativa o eccessivamente interventista. Egli può porre domande solo dopo che le parti hanno esaurito i propri quesiti (art. 506 CPP), con l’obiettivo di chiarire eventuali ambiguità o lacune emerse nel corso dell’esame. Questo limite è essenziale per preservare il principio di terzietà del giudice, sancito dall’articolo 111 della Costituzione e rafforzato dal diritto europeo (art. 6 CEDU). Nel paradigma del processo accusatorio, il giudice è chiamato a essere custode dell’equilibrio processuale e garante della parità delle armi tra le parti. Ogni sua iniziativa probatoria deve essere circoscritta a esigenze di integrazione probatoria strettamente necessaria, pena il rischio di alterare la percezione di imparzialità e il naturale svolgimento del contraddittorio. Un intervento eccessivo e invasivo del giudice nell’ambito della cross examination potrebbe tradursi in una compromissione dell’imparzialità percepita, con riflessi negativi tanto sulla legittimità del processo quanto sulla stabilità delle risultanze probatorie. L’interazione giudiziale, in tal senso, deve essere improntata a un rigoroso equilibrio, affinché l’esame incrociato non perda la sua vocazione a momento di verifica dialettica delle prove. Eppure, ormai quotidianamente avviene che il giudice dimenticandosi di tali limiti, nell’asfissiante desiderio di fare giustizia piuttosto che amministrarla si intrometta in momenti cruciali dell’esame del teste ed ancor più nel controesame, momento unico ed ineliminabile, oltre che a volte determinante nel quale l’imputato e la sua difesa, portatori di conoscenze che il giudice e persino l’organo di accusa non dispongono, possono fare emergere gli elementi a proprio discarico, e financo l’inattendibilità e la menzogna della fonte di accusa. Quando il giudice eccede nel suo ruolo, interferendo in modo invasivo nell’esame delle parti, si producono conseguenze negative tanto sul piano pratico quanto su quello teorico. Si ha così un palese sovvertimento del ruolo delle parti. Un giudice che assume un ruolo attivo nell’indagine rischia di alterare l’equilibrio processuale, riducendo la capacità delle parti di condurre l’esame secondo le proprie strategie. Ma tale comportamento comporta persino la compromissione della sua imparzialità. L’intervento eccessivo può far emergere un’apparente parzialità, compromettendo la fiducia degli imputati e della società nella giustizia; ciò potrebbe portare alla violazione delle norme sul contraddittorio, con il rischio di vedere invalidate le prove raccolte in violazione delle regole. Calamandrei, in una visione di straordinaria modernità, ammoniva contro i rischi di un giudice che, travalicando il proprio ruolo di arbitro imparziale, si trasformi in un attore della dialettica processuale. Tale degenerazione – secondo l’autore – tradisce la logica stessa del processo accusatorio, che trova la propria essenza nell’antagonismo ordinato e regolato tra le parti. Altavilla, nel delineare il ruolo del controesame, ha messo in luce come esso rappresenti lo strumento principale per verificare l’affidabilità della prova testimoniale. Egli sottolinea che il giudice, nell’esercitare il proprio potere di intervento, debba astenersi da comportamenti che possano orientare o condizionare il contenuto delle dichiarazioni. Wellman, nella sua celebre opera sull’arte del controesame, ha esaltato l’importanza di tale istituto come momento privilegiato per smascherare le incongruenze e le eventuali falsità della testimonianza. Sebbene le sue riflessioni siano profondamente radicate nella tradizione anglosassone, esse risultano di grande utilità anche nel contesto italiano, dove il controesame si configura come il banco di prova della credibilità della prova orale. La dottrina penalistica italiana, da ultimo, ha frequentemente denunciato il rischio di derive inquisitorie nel sistema accusatorio, specie laddove il giudice assuma un ruolo iperattivo nell’esame dei testimoni. Autori quali Antolisei e Pagliaro richiamano la necessità di preservare la dialettica tra le parti quale strumento di accertamento della verità processuale, ribadendo la centralità del principio di parità delle armi. Le critiche mosse dalla dottrina penalistica e dall’avvocatura penalista, in particolare dall’Unione delle Camere Penali Italiane, evidenziano ulteriori e rilevanti implicazioni negative derivanti dall’eccessivo protagonismo del giudice nella fase della cross examination: La distorsione del Principio di Parità delle Armi: un intervento iperattivo del giudice può generare un’asimmetria processuale, ponendo una delle parti in una posizione di svantaggio rispetto all’altra. Ciò risulta particolarmente grave nei confronti dell’imputato, la cui difesa rischia di essere marginalizzata. La riduzione dell’Efficacia del Contraddittorio: il sovrapporsi del giudice all’attività delle parti può svuotare di significato il principio del contraddittorio, trasformando il processo in un’arena dominata dall’iniziativa giudiziale piuttosto che da una dialettica equilibrata. L’alterazione della Credibilità della Prova: domande formulate dal giudice in modo suggestivo o che orientano il testimone rischiano di comprometterne l’autonomia dichiarativa, con conseguente indebolimento del valore probatorio delle sue affermazioni. La percezione di Parzialità: l’avvocatura penalista ha più volte sottolineato come un giudice eccessivamente interventista possa dare adito a dubbi sulla propria imparzialità, minando la fiducia nel sistema giudiziario e, più in generale, nella giustizia. Il rischio di Annullamento delle Prove: qualora l’intervento del giudice superi i limiti posti dalle norme processuali, vi è il pericolo concreto che le prove così raccolte vengano invalidate, con gravi conseguenze sul piano dell’economia processuale e della certezza del diritto. La cross examination rappresenta un momento essenziale del processo penale, espressione massima della dialettica tra le parti e del principio del contraddittorio. Nel rispetto delle coordinate normativo-costituzionali, essa assolve una

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LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

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CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE

    di Antonio Baudi –  1.La riforma Cartabia sul processo penale ha inteso ridurre i tempi di durata del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e, allo scopo di alleggerire il carico del giudizio penale, ha individuato possibili alternative al processo e alla pena carceraria. All’uopo ha inciso non solo sulle norme del processo penale, ma anche mediante interventi sul sistema penale, come quelli relativi: – alla non punibilità per particolare tenuità del fatto; – alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: – alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale; – e, alla fine, anche mediante le previsioni in tema di giustizia riparativa.  Nello specifico, per quel che in questa sede interessa, la riforma Cartabia, nel rispetto delle direttive contenute nella legge delega n. 134/2021 per le modifiche al codice di procedura penale, ha generalizzato il controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio in una evidente ottica di deflazione del dibattimento. Al fine di rendere operativo il controllo in limine di fondatezza dell’accusa è stata istituzionalizzata, in aggiunta alla celebrazione dell’udienza preliminare, la c.d. udienza filtro, nella prassi identificata con la celebrazione della prima udienza dinanzi al giudice monocratico. La struttura di tale nuova udienza è disciplinata dai quattro articoli inseriti nel codice di procedura penale dopo il disposto dell’art. 554, ad iniziare dal fondamentale disposto dell’art. 554-bis che, sulla base delle prescrizioni statuite dagli artt. 550. (casi di citazione diretta a giudizio), 552 (decreto di citazione a giudizio) e 553 (trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale), regola l’andamento di siffatta udienza. Nel contempo è stato riformato in maniera omogenea il criterio di giudizio, imperniato ora sulla formulazione della “ragionevole previsione di condanna” in funzione del quale sono stati riformulati: – l’art. 408, co. 1, c.p.p. in tema di richiesta di archiviazione; – l’art. 425, co. 3, c.p.p. per l’udienza preliminare; – l’art. 544-ter, co. 1, c.p.p., ove la norma è stata trasposta anche nella nuova udienza predibattimentale; – ed è stato nel contempo abrogato l’art. 125 disp. att. c.p.p. ormai inutile. Per il vero il tema del controllo sull’esercizio dell’azione penale è antico e ricorrente. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. Occorre ribadire, in questa sede, che si tratta di scopo immanente nel sistema, ben chiaro sin dal tempo della vigenza della riforma del rito penale, cioè sin dal 1989. La realtà è stata ben diversa e, tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere ha eluso lo scopo. In linea generale, quanto ai riti alternativi, il valore dell’accusatorietà, perseguito nella disciplina del giudizio dibattimentale, avrebbe dovuto essere contenuto al massimo perché costoso e tematicamente complesso, privilegiando il legislatore le soluzioni alternative incentivate da regole premiali. Quanto poi al filtro sull’esercizio dell’azione penale, pur limitato ai processi di competenza del G.u.p., è un dato ormai evidente che lo scopo sia fallito e che tale risultato, circa il mancato funzionamento del filtro sull’esercizio dell’azione penale, integri una delle cause preminenti  dell’attuale lentezza della giustizia penale. La riforma Cartabia, come notato, ha generalizzato la funzione di verifica del controllo preliminare sull’esercizio dell’azione penale al dichiarato scopo economico e deflattivo. Il rilievo è concorde: sono trascorsi (ben) trentaquattro anni ed il legislatore si è accorto (finalmente) della eccessività del carico processuale dibattimentale e della (oggettivamente tardiva) esigenza di porvi rimedio. Ma, a mio avviso, la responsabilità, più che del legislatore, è degli orientamenti, teorico e giurisprudenziali, che sono maturati nel tempo. Per una utile comprensione della evoluzione in materia, normativa e giurisprudenziale, nonché della reale esigenza culturale sottostante, sovviene una decisione dello scrivente, adottata ai primordi della riforma. Si tratta del testo della sentenza deliberata il 6 novembre 1990, in sede di udienza preliminare e nel periodo di regime transitorio a seguito della innovativa vigenza del codice di procedura penale. Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere in tema di giudizio di bilanciamento tra circostanze che, in applicazione del disposto, all’epoca nel testo vigente, di cui all’art. 425 c.p.p., è stato riconosciuto ammissibile ai fini della rilevazione di causa estintiva del reato preclusiva del rinvio a giudizio. Se ne riporta di seguito il testo (all’epoca pubblicato sulla rivista “La giustizia penale”, 1991, III, 38 ss). Questa, la massima estratta: “Rientra nei poteri della giurisdizione preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti e di operare il giudizio di bilanciamento con le contestate aggravanti ai fini della declaratoria di una causa estintiva del reato”. (Nella specie, è stata dichiarata la prescrizione previa dichiarazione di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le contestate aggravanti). Di seguito una sintesi dello svolgimento del processo: “In assenza di atti istruttori di particolare valenza, il processo in esame, già pendente in istruzione formale, è stato trasmesso al Procuratore della Repubblica in sede ai sensi degli artt. 242 e 258 disp. trans. del nuovo codice. Su richiesta depositata in questo ufficio in data 8 gennaio 1990 veniva fissata udienza preliminare e, all’esito della discussione veniva sollevata questione dii legittimità costituzionale dell’art. 425 C.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Era evidenziata, infatti, ingiustificata parità di trattamento, oltre che preclusione di esigenze difensive, nell’ambito delle disposizioni transitorie, tra i procedimenti proseguenti con le vecchie norme e quelli sottoposti invece al nuovo rito. La regola di rinvio a giudizio del sopravvissuto organo istruttorio era ispirata alla esigenza di economia processuale, in termini di prognosi colpevolistica. L’art. 256 disp. trans. prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando «gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito della istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ed è consentito al Giudice (art. 257 disp. trans.) di “tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell’art. 69 del Codice Penale”, “ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorie di

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POLITICA E MAGISTRATURA SULLO SFONDO DELLE RIFORME

 di Giuseppe Cioffi* –  All’avvio di un nuovo assetto governativo e dopo una riforma dell’ordinamento giudiziario impostata e portata a compimento in tempi diversi da governi alternatisi alla guida del Paese, le attuali idee di cambiamento in corso di esame parlamentare danno adito ad immancabili occasioni di contrasti tra la parte politica che rappresenta la maggioranza ed esprime l’esecutivo e la magistratura associata, ovvero quella porzione di magistratura particolarmente ispirata a moralismo ideologico, c’è da chiedersi quale e quanta attenzione verrà riservata al vero problema, che è quello del rapporto tra cittadino e apparato giudiziario. Nel momento attuale e dopo rinnovati moniti in tempi diversi da parte della più alta carica dello stato a confrontarsi in modo dialogante e rispettoso delle prerogative degli organi costituzionali, sembra, ancora una volta, che la magistratura dimentichi la vera emergenza che affligge il mondo giudiziario, ormai da anni, e che realmente rappresenta un pericolo per la democrazia , atteso che l’accesso ad una tutela giudiziale effettiva è un servizio non solo necessario, ma fondamentale per la vita dei cittadini, sotto diversi punti di vista. Infatti, se incidere sull’assetto dell’organo giudiziario è stato considerato importante e primario, ritengo che, oggi, ancora più fortemente, debba essere avvertita l’esigenza di collegare l’ordine giudiziario, così come riformato, alle aspettative che la collettività nutre verso l’organizzazione del servizio giudiziario e cioè l’efficienza e la celerità. Infatti, benché l’esigenza di accelerare la durata dei processi sia continuamente oggetto di discussione, ed è particolarmente attenzionata dall’attuale Guardasigilli, è doveroso tenere a mente come le lungaggini dei meccanismi processuali non riguardano solamente un problema di consenso ideologico, ma incidono direttamente sull’andamento dell’economia. Soprattutto in tempi di congiunture economiche non favorevoli e di ricorso a piani straordinari di credito europeo (come oggi avviene con il PNRR), le lentezze processuali rappresentano inevitabilmente un fattore di ulteriore rallentamento delle dinamiche economiche e produttive, che incide sfavorevolmente nel settore dell’impresa così come del lavoro dipendente, del commercio e degli scambi internazionali, generando sfiducia negli investitori esteri. Per personale esperienza, oltre quella maturata sia in ambito associativo che extra giudiziario, mi sento di invitare a considerare che, nonostante gli sforzi di accelerazione profusi dai colleghi delle indagini preliminari, e i successi conseguiti grazie alla dedizione e capacità di inquirenti e Giudici, sono numerose, e di sistema, le lungaggini del settore penale che, spesso, vanificano ogni effetto positivo faticosamente guadagnato nelle battute iniziali, tanto da rendere ancora oggi il processo la vera e unica sanzione effettiva. Perciò, seppur in un’ottica di attento bilanciamento con i principi costituzionali e con attenzione anche alle esperienze internazionali di diritto comparato, non vanno trascurate, prime fra tutte, la proposta di rendere esecutiva la sentenza di primo grado e di procedere alla demolizione del totem della obbligatorietà dell’azione penale, passando necessariamente per la separazione delle carriere tra organo giudicante e inquirente. Si tratta di questioni da affrontare con serietà e urgenza perché potrebbero rappresentare un modo efficace per avviare a soluzione il dramma dell’eccessiva durata delle attività processuali. Su questi temi, tuttavia, è auspicabile un dibattito e confronto sereno tra la parte politica, attualmente alla guida del paese, e la parte tecnica qualificata, rappresentata dalla magistratura, dall’avvocatura e dall’accademia ed è necessario escludere riserve di matrice ideologica e pregiudizi dettati da ansia moralista, atteso che, di fronte alla gravità del problema, vanno tenuti in primaria considerazione gli interessi dei consociati. In questa prospettiva è necessario puntare anche ad adeguare le regole organizzative ad una concezione di stampo sostanzialistico, meglio consona e rispondente a visioni comunitarie, con un graduale abbandono della concezione formalistica, tanto cara alla nostra tradizione giuridica, ma in tempi attuali responsabile di dilatazione temporale non più sostenibile. Allora, la levata di scudi della magistratura associata, mai come in questi tempi schierata verso provvedimenti governativi o iniziative politiche della maggioranza, e gli allarmi verso presunti attentati alla democrazia sono ancora fuori dalle logiche di rispetto degli interessi dei cittadini, perché ispirate a visioni formalistiche e ideologiche, e vanno sostanzialmente nella direzione opposta, rispetto a quella auspicata, di un dialogo costruttivo sui temi urgenti dei veri problemi della giustizia. Un simile atteggiamento genera danni nell’ambito del sistema dei rapporti sociali, come nel mondo produttivo del paese, sia in prospettiva microeconomica che macroeconomica, e concorre a quella condizione di stagnazione in cui versa attualmente la nostra nazione, in un sistema fermo e arretrato rispetto agli altri partner europei. Alla magistratura, pertanto, nel rispetto delle sue competenze, poteri e posizioni istituzionali, va chiesto di concorrere con gli altri, più autenticamente tali, poteri dello stato alla soluzione degli urgenti problemi dell’organizzazione giudiziaria, di cui si è dato conto e che affliggono più direttamente la società e il mondo economico e che, ormai, da troppi anni attendono di essere affrontati seriamente e con soluzioni efficaci.   *Magistrato Tribunale di Napoli Nord – già Presidente ANM sottosezione Napoli Nord

POLITICA E MAGISTRATURA SULLO SFONDO DELLE RIFORME Leggi tutto »

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