Diritto Processuale

BENEFICIO PREMIALE DISCENDENTE DALLA MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO AVVERSO LA SENTENZA DI CONDANNA EMESSA ALL’ESITO DI GIUDIZIO ABBREVIATO. L’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP, APPRODI GIURISPRUDENZIALI E PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

di Vittoria Bossio – RIDUZIONE DI 1/6 AD OPERA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE DELLA PENA IRROGATA IN CASO DI MANCATA IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DELLA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO NELLE FORME DEL RITO ABBREVIATO La disposizione dell’art. 442 cod. proc. pen. è stata modificata mediante l’introduzione del comma 2-bis, per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, in conseguenza del quale quando l’imputato o il suo difensore non propongono impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena irrogata è ulteriormente ridotta nella misura di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Tale disposizione veniva introdotta in ossequio all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge 27 settembre 2021, n. 137, recante  «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che imponeva al legislatore delegato di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». Nella stessa direzione, inequivocabilmente deflattiva, occorre richiamare la previsione dell’art. 1 comma 10, lett. a), n. 1, legge n. 137 del 2021, che impone al legislatore delegato di «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».   MODALITÀ PER RICHIEDERE LA RIDUZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP La nuova formulazione dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede: «Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2- bis cpp. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La disposizione in questione, dunque, esclude dalla disciplina dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., che prevede il procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. la materia della diminuente esecutiva, che colloca in un diverso e autonomo ambito processuale, nel quale non vi è alcun riferimento esplicito al procedimento de plano. Ne discende che il trasferimento in una sede processuale diversa da quella originaria – ovvero quella disciplinata dal novellato art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. – della regola attributiva della competenza, relativa alle ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in assenza di richiami espressi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., non consente di ritenere applicabile la procedura de plano per concedere la diminuente esecutiva in esame. Ne discende che deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 179, comma 1, cod. proc. pen. e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo de plano, respinga un’incidente di esecuzione presentato al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 666 cod. proc. pen. Cfr. Cass. Pen. Sezione I sentenza n. 07356/2025.   APPLICABILITÀ DELLA RIDUZIONE SOLO IN CASO DI MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO E NON NEL CASO DI RINUNCIA ALL’APPELLO PROPOSTO. La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 51180/2023 ha stabilito che la riduzione di 1/6 della pena consegue solo alla mancata impugnazione e non anche alla rinuncia di quella già presentata. La Suprema Corte premette che appare opportuno richiamare, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in sede di legittimità in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24 d.lgs. n. 150 del 2022, con entrata in vigore alfine fissata al 30 dicembre 2022. La norma, collocata nell’alveo dell’art. 442 cod. proc. pen., volto a disciplinare la fase della decisione di primo grado nel rito abbreviato, stabilisce che quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente (rispetto alla riduzione per il rito a prova contratta fissata nel comma 2) ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Si è, al riguardo, precisato che la condizione processuale che ne consente l’applicazione è costituita dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione ed essa, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente. Per vero, la ratio dell’intervento riformatore si profila individuabile nel perseguimento dello scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo l’emissione della sentenza di primo grado, così da evitare l’ingresso del procedimento stesso nella fase delle impugnazioni, quali che l’ordinamento in concreto consenta nel singolo caso, allorquando – trattandosi di sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio assoggettato al rito abbreviato – l’imputato e il difensore valutino come non sorretta da un apprezzabile interesse la prospettiva di sottoporre a nuova verifica la decisione emessa dal primo giudice e considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciarvi al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata. È, dunque, la radicale mancanza dell’impugnazione – e soltanto essa – che, determinando l’effetto deflattivo perseguito, integra il presupposto necessario per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma. Conferma tale approdo la scelta che la norma ha operato per individuare il giudice competente a sancire la riduzione e, conseguentemente, il procedimento occorrente per la relativa determinazione: a provvedere deve essere il giudice dell’esecuzione; e ciò esige l’instaurazione del procedimento esecutivo, secondo le forme proprie che, in questa sede, non è necessario approfondire. Certo è che, avendo previsto l’esclusiva competenza del giudice dell’esecuzione per l’applicazione della riduzione, la norma corrobora l’approdo ermeneutico secondo cui soltanto la mancanza dell’impugnazione avverso la sentenza di primo grado integra la condizione legittimante la riduzione stessa. Se il legislatore avesse inteso applicare questa riduzione premiale alla diversa fattispecie della rinuncia

BENEFICIO PREMIALE DISCENDENTE DALLA MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO AVVERSO LA SENTENZA DI CONDANNA EMESSA ALL’ESITO DI GIUDIZIO ABBREVIATO. L’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP, APPRODI GIURISPRUDENZIALI E PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE Leggi tutto »

QUELLA CHIMERA DELLA “CROSS EXAMINATION” NELLA PRASSI DEL PROCESSO PENALE ATTUALE

  di Pasquale Foti* –    La cross examination, o esame incrociato, rappresenta uno dei momenti cruciali del dibattimento penale, consentendo il confronto diretto tra le parti e offrendo garanzia di imparzialità nel processo. Nel contesto del sistema processuale italiano, essa trova il proprio fondamento normativo principalmente negli articoli 498 e 499 del Codice di Procedura Penale (CPP), ma è profondamente influenzata anche dai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana. È l’articolo 498 CPP che stabilisce le modalità con cui le parti possono procedere all’esame diretto dei testimoni, fissando criteri di pertinenza e rilevanza delle domande al fine di assicurare una dialettica ordinata e funzionale alla formazione della prova. L’articolo 499 CPP si pone quale norma cardine in tema di controesame, riconoscendo alle parti il diritto di porre domande volte a verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, in conformità al principio del contraddittorio quale pietra angolare del giusto processo. Il giudice, nel sistema italiano, è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia e controllo, evitando di assumere una funzione investigativa o eccessivamente interventista. Egli può porre domande solo dopo che le parti hanno esaurito i propri quesiti (art. 506 CPP), con l’obiettivo di chiarire eventuali ambiguità o lacune emerse nel corso dell’esame. Questo limite è essenziale per preservare il principio di terzietà del giudice, sancito dall’articolo 111 della Costituzione e rafforzato dal diritto europeo (art. 6 CEDU). Nel paradigma del processo accusatorio, il giudice è chiamato a essere custode dell’equilibrio processuale e garante della parità delle armi tra le parti. Ogni sua iniziativa probatoria deve essere circoscritta a esigenze di integrazione probatoria strettamente necessaria, pena il rischio di alterare la percezione di imparzialità e il naturale svolgimento del contraddittorio. Un intervento eccessivo e invasivo del giudice nell’ambito della cross examination potrebbe tradursi in una compromissione dell’imparzialità percepita, con riflessi negativi tanto sulla legittimità del processo quanto sulla stabilità delle risultanze probatorie. L’interazione giudiziale, in tal senso, deve essere improntata a un rigoroso equilibrio, affinché l’esame incrociato non perda la sua vocazione a momento di verifica dialettica delle prove. Eppure, ormai quotidianamente avviene che il giudice dimenticandosi di tali limiti, nell’asfissiante desiderio di fare giustizia piuttosto che amministrarla si intrometta in momenti cruciali dell’esame del teste ed ancor più nel controesame, momento unico ed ineliminabile, oltre che a volte determinante nel quale l’imputato e la sua difesa, portatori di conoscenze che il giudice e persino l’organo di accusa non dispongono, possono fare emergere gli elementi a proprio discarico, e financo l’inattendibilità e la menzogna della fonte di accusa. Quando il giudice eccede nel suo ruolo, interferendo in modo invasivo nell’esame delle parti, si producono conseguenze negative tanto sul piano pratico quanto su quello teorico. Si ha così un palese sovvertimento del ruolo delle parti. Un giudice che assume un ruolo attivo nell’indagine rischia di alterare l’equilibrio processuale, riducendo la capacità delle parti di condurre l’esame secondo le proprie strategie. Ma tale comportamento comporta persino la compromissione della sua imparzialità. L’intervento eccessivo può far emergere un’apparente parzialità, compromettendo la fiducia degli imputati e della società nella giustizia; ciò potrebbe portare alla violazione delle norme sul contraddittorio, con il rischio di vedere invalidate le prove raccolte in violazione delle regole. Calamandrei, in una visione di straordinaria modernità, ammoniva contro i rischi di un giudice che, travalicando il proprio ruolo di arbitro imparziale, si trasformi in un attore della dialettica processuale. Tale degenerazione – secondo l’autore – tradisce la logica stessa del processo accusatorio, che trova la propria essenza nell’antagonismo ordinato e regolato tra le parti. Altavilla, nel delineare il ruolo del controesame, ha messo in luce come esso rappresenti lo strumento principale per verificare l’affidabilità della prova testimoniale. Egli sottolinea che il giudice, nell’esercitare il proprio potere di intervento, debba astenersi da comportamenti che possano orientare o condizionare il contenuto delle dichiarazioni. Wellman, nella sua celebre opera sull’arte del controesame, ha esaltato l’importanza di tale istituto come momento privilegiato per smascherare le incongruenze e le eventuali falsità della testimonianza. Sebbene le sue riflessioni siano profondamente radicate nella tradizione anglosassone, esse risultano di grande utilità anche nel contesto italiano, dove il controesame si configura come il banco di prova della credibilità della prova orale. La dottrina penalistica italiana, da ultimo, ha frequentemente denunciato il rischio di derive inquisitorie nel sistema accusatorio, specie laddove il giudice assuma un ruolo iperattivo nell’esame dei testimoni. Autori quali Antolisei e Pagliaro richiamano la necessità di preservare la dialettica tra le parti quale strumento di accertamento della verità processuale, ribadendo la centralità del principio di parità delle armi. Le critiche mosse dalla dottrina penalistica e dall’avvocatura penalista, in particolare dall’Unione delle Camere Penali Italiane, evidenziano ulteriori e rilevanti implicazioni negative derivanti dall’eccessivo protagonismo del giudice nella fase della cross examination: La distorsione del Principio di Parità delle Armi: un intervento iperattivo del giudice può generare un’asimmetria processuale, ponendo una delle parti in una posizione di svantaggio rispetto all’altra. Ciò risulta particolarmente grave nei confronti dell’imputato, la cui difesa rischia di essere marginalizzata. La riduzione dell’Efficacia del Contraddittorio: il sovrapporsi del giudice all’attività delle parti può svuotare di significato il principio del contraddittorio, trasformando il processo in un’arena dominata dall’iniziativa giudiziale piuttosto che da una dialettica equilibrata. L’alterazione della Credibilità della Prova: domande formulate dal giudice in modo suggestivo o che orientano il testimone rischiano di comprometterne l’autonomia dichiarativa, con conseguente indebolimento del valore probatorio delle sue affermazioni. La percezione di Parzialità: l’avvocatura penalista ha più volte sottolineato come un giudice eccessivamente interventista possa dare adito a dubbi sulla propria imparzialità, minando la fiducia nel sistema giudiziario e, più in generale, nella giustizia. Il rischio di Annullamento delle Prove: qualora l’intervento del giudice superi i limiti posti dalle norme processuali, vi è il pericolo concreto che le prove così raccolte vengano invalidate, con gravi conseguenze sul piano dell’economia processuale e della certezza del diritto. La cross examination rappresenta un momento essenziale del processo penale, espressione massima della dialettica tra le parti e del principio del contraddittorio. Nel rispetto delle coordinate normativo-costituzionali, essa assolve una

QUELLA CHIMERA DELLA “CROSS EXAMINATION” NELLA PRASSI DEL PROCESSO PENALE ATTUALE Leggi tutto »

LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI Leggi tutto »

CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE

    di Antonio Baudi –  1.La riforma Cartabia sul processo penale ha inteso ridurre i tempi di durata del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e, allo scopo di alleggerire il carico del giudizio penale, ha individuato possibili alternative al processo e alla pena carceraria. All’uopo ha inciso non solo sulle norme del processo penale, ma anche mediante interventi sul sistema penale, come quelli relativi: – alla non punibilità per particolare tenuità del fatto; – alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: – alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale; – e, alla fine, anche mediante le previsioni in tema di giustizia riparativa.  Nello specifico, per quel che in questa sede interessa, la riforma Cartabia, nel rispetto delle direttive contenute nella legge delega n. 134/2021 per le modifiche al codice di procedura penale, ha generalizzato il controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio in una evidente ottica di deflazione del dibattimento. Al fine di rendere operativo il controllo in limine di fondatezza dell’accusa è stata istituzionalizzata, in aggiunta alla celebrazione dell’udienza preliminare, la c.d. udienza filtro, nella prassi identificata con la celebrazione della prima udienza dinanzi al giudice monocratico. La struttura di tale nuova udienza è disciplinata dai quattro articoli inseriti nel codice di procedura penale dopo il disposto dell’art. 554, ad iniziare dal fondamentale disposto dell’art. 554-bis che, sulla base delle prescrizioni statuite dagli artt. 550. (casi di citazione diretta a giudizio), 552 (decreto di citazione a giudizio) e 553 (trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale), regola l’andamento di siffatta udienza. Nel contempo è stato riformato in maniera omogenea il criterio di giudizio, imperniato ora sulla formulazione della “ragionevole previsione di condanna” in funzione del quale sono stati riformulati: – l’art. 408, co. 1, c.p.p. in tema di richiesta di archiviazione; – l’art. 425, co. 3, c.p.p. per l’udienza preliminare; – l’art. 544-ter, co. 1, c.p.p., ove la norma è stata trasposta anche nella nuova udienza predibattimentale; – ed è stato nel contempo abrogato l’art. 125 disp. att. c.p.p. ormai inutile. Per il vero il tema del controllo sull’esercizio dell’azione penale è antico e ricorrente. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. Occorre ribadire, in questa sede, che si tratta di scopo immanente nel sistema, ben chiaro sin dal tempo della vigenza della riforma del rito penale, cioè sin dal 1989. La realtà è stata ben diversa e, tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere ha eluso lo scopo. In linea generale, quanto ai riti alternativi, il valore dell’accusatorietà, perseguito nella disciplina del giudizio dibattimentale, avrebbe dovuto essere contenuto al massimo perché costoso e tematicamente complesso, privilegiando il legislatore le soluzioni alternative incentivate da regole premiali. Quanto poi al filtro sull’esercizio dell’azione penale, pur limitato ai processi di competenza del G.u.p., è un dato ormai evidente che lo scopo sia fallito e che tale risultato, circa il mancato funzionamento del filtro sull’esercizio dell’azione penale, integri una delle cause preminenti  dell’attuale lentezza della giustizia penale. La riforma Cartabia, come notato, ha generalizzato la funzione di verifica del controllo preliminare sull’esercizio dell’azione penale al dichiarato scopo economico e deflattivo. Il rilievo è concorde: sono trascorsi (ben) trentaquattro anni ed il legislatore si è accorto (finalmente) della eccessività del carico processuale dibattimentale e della (oggettivamente tardiva) esigenza di porvi rimedio. Ma, a mio avviso, la responsabilità, più che del legislatore, è degli orientamenti, teorico e giurisprudenziali, che sono maturati nel tempo. Per una utile comprensione della evoluzione in materia, normativa e giurisprudenziale, nonché della reale esigenza culturale sottostante, sovviene una decisione dello scrivente, adottata ai primordi della riforma. Si tratta del testo della sentenza deliberata il 6 novembre 1990, in sede di udienza preliminare e nel periodo di regime transitorio a seguito della innovativa vigenza del codice di procedura penale. Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere in tema di giudizio di bilanciamento tra circostanze che, in applicazione del disposto, all’epoca nel testo vigente, di cui all’art. 425 c.p.p., è stato riconosciuto ammissibile ai fini della rilevazione di causa estintiva del reato preclusiva del rinvio a giudizio. Se ne riporta di seguito il testo (all’epoca pubblicato sulla rivista “La giustizia penale”, 1991, III, 38 ss). Questa, la massima estratta: “Rientra nei poteri della giurisdizione preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti e di operare il giudizio di bilanciamento con le contestate aggravanti ai fini della declaratoria di una causa estintiva del reato”. (Nella specie, è stata dichiarata la prescrizione previa dichiarazione di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le contestate aggravanti). Di seguito una sintesi dello svolgimento del processo: “In assenza di atti istruttori di particolare valenza, il processo in esame, già pendente in istruzione formale, è stato trasmesso al Procuratore della Repubblica in sede ai sensi degli artt. 242 e 258 disp. trans. del nuovo codice. Su richiesta depositata in questo ufficio in data 8 gennaio 1990 veniva fissata udienza preliminare e, all’esito della discussione veniva sollevata questione dii legittimità costituzionale dell’art. 425 C.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Era evidenziata, infatti, ingiustificata parità di trattamento, oltre che preclusione di esigenze difensive, nell’ambito delle disposizioni transitorie, tra i procedimenti proseguenti con le vecchie norme e quelli sottoposti invece al nuovo rito. La regola di rinvio a giudizio del sopravvissuto organo istruttorio era ispirata alla esigenza di economia processuale, in termini di prognosi colpevolistica. L’art. 256 disp. trans. prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando «gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito della istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ed è consentito al Giudice (art. 257 disp. trans.) di “tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell’art. 69 del Codice Penale”, “ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorie di

CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE Leggi tutto »

POLITICA E MAGISTRATURA SULLO SFONDO DELLE RIFORME

 di Giuseppe Cioffi* –  All’avvio di un nuovo assetto governativo e dopo una riforma dell’ordinamento giudiziario impostata e portata a compimento in tempi diversi da governi alternatisi alla guida del Paese, le attuali idee di cambiamento in corso di esame parlamentare danno adito ad immancabili occasioni di contrasti tra la parte politica che rappresenta la maggioranza ed esprime l’esecutivo e la magistratura associata, ovvero quella porzione di magistratura particolarmente ispirata a moralismo ideologico, c’è da chiedersi quale e quanta attenzione verrà riservata al vero problema, che è quello del rapporto tra cittadino e apparato giudiziario. Nel momento attuale e dopo rinnovati moniti in tempi diversi da parte della più alta carica dello stato a confrontarsi in modo dialogante e rispettoso delle prerogative degli organi costituzionali, sembra, ancora una volta, che la magistratura dimentichi la vera emergenza che affligge il mondo giudiziario, ormai da anni, e che realmente rappresenta un pericolo per la democrazia , atteso che l’accesso ad una tutela giudiziale effettiva è un servizio non solo necessario, ma fondamentale per la vita dei cittadini, sotto diversi punti di vista. Infatti, se incidere sull’assetto dell’organo giudiziario è stato considerato importante e primario, ritengo che, oggi, ancora più fortemente, debba essere avvertita l’esigenza di collegare l’ordine giudiziario, così come riformato, alle aspettative che la collettività nutre verso l’organizzazione del servizio giudiziario e cioè l’efficienza e la celerità. Infatti, benché l’esigenza di accelerare la durata dei processi sia continuamente oggetto di discussione, ed è particolarmente attenzionata dall’attuale Guardasigilli, è doveroso tenere a mente come le lungaggini dei meccanismi processuali non riguardano solamente un problema di consenso ideologico, ma incidono direttamente sull’andamento dell’economia. Soprattutto in tempi di congiunture economiche non favorevoli e di ricorso a piani straordinari di credito europeo (come oggi avviene con il PNRR), le lentezze processuali rappresentano inevitabilmente un fattore di ulteriore rallentamento delle dinamiche economiche e produttive, che incide sfavorevolmente nel settore dell’impresa così come del lavoro dipendente, del commercio e degli scambi internazionali, generando sfiducia negli investitori esteri. Per personale esperienza, oltre quella maturata sia in ambito associativo che extra giudiziario, mi sento di invitare a considerare che, nonostante gli sforzi di accelerazione profusi dai colleghi delle indagini preliminari, e i successi conseguiti grazie alla dedizione e capacità di inquirenti e Giudici, sono numerose, e di sistema, le lungaggini del settore penale che, spesso, vanificano ogni effetto positivo faticosamente guadagnato nelle battute iniziali, tanto da rendere ancora oggi il processo la vera e unica sanzione effettiva. Perciò, seppur in un’ottica di attento bilanciamento con i principi costituzionali e con attenzione anche alle esperienze internazionali di diritto comparato, non vanno trascurate, prime fra tutte, la proposta di rendere esecutiva la sentenza di primo grado e di procedere alla demolizione del totem della obbligatorietà dell’azione penale, passando necessariamente per la separazione delle carriere tra organo giudicante e inquirente. Si tratta di questioni da affrontare con serietà e urgenza perché potrebbero rappresentare un modo efficace per avviare a soluzione il dramma dell’eccessiva durata delle attività processuali. Su questi temi, tuttavia, è auspicabile un dibattito e confronto sereno tra la parte politica, attualmente alla guida del paese, e la parte tecnica qualificata, rappresentata dalla magistratura, dall’avvocatura e dall’accademia ed è necessario escludere riserve di matrice ideologica e pregiudizi dettati da ansia moralista, atteso che, di fronte alla gravità del problema, vanno tenuti in primaria considerazione gli interessi dei consociati. In questa prospettiva è necessario puntare anche ad adeguare le regole organizzative ad una concezione di stampo sostanzialistico, meglio consona e rispondente a visioni comunitarie, con un graduale abbandono della concezione formalistica, tanto cara alla nostra tradizione giuridica, ma in tempi attuali responsabile di dilatazione temporale non più sostenibile. Allora, la levata di scudi della magistratura associata, mai come in questi tempi schierata verso provvedimenti governativi o iniziative politiche della maggioranza, e gli allarmi verso presunti attentati alla democrazia sono ancora fuori dalle logiche di rispetto degli interessi dei cittadini, perché ispirate a visioni formalistiche e ideologiche, e vanno sostanzialmente nella direzione opposta, rispetto a quella auspicata, di un dialogo costruttivo sui temi urgenti dei veri problemi della giustizia. Un simile atteggiamento genera danni nell’ambito del sistema dei rapporti sociali, come nel mondo produttivo del paese, sia in prospettiva microeconomica che macroeconomica, e concorre a quella condizione di stagnazione in cui versa attualmente la nostra nazione, in un sistema fermo e arretrato rispetto agli altri partner europei. Alla magistratura, pertanto, nel rispetto delle sue competenze, poteri e posizioni istituzionali, va chiesto di concorrere con gli altri, più autenticamente tali, poteri dello stato alla soluzione degli urgenti problemi dell’organizzazione giudiziaria, di cui si è dato conto e che affliggono più direttamente la società e il mondo economico e che, ormai, da troppi anni attendono di essere affrontati seriamente e con soluzioni efficaci.   *Magistrato Tribunale di Napoli Nord – già Presidente ANM sottosezione Napoli Nord

POLITICA E MAGISTRATURA SULLO SFONDO DELLE RIFORME Leggi tutto »

RIFLESSIONI FUORI BINARIO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL PROCESSO PENALE

di Nunzio Citrella* –  Apocalittici o integrati dinanzi all’uso dell’intelligenza artificiale nel processo penale? Ciò che è certo è che la consapevolezza e lo studio approfondito del fenomeno attuale assumono un’importanza ben più rilevante delle terrificanti descrizioni distopiche: troppo spesso i tratti di uno scontro epico tra l’uomo e la macchina, con il primo destinato a soccombere. Partiamo quindi dalla situazione attuale che ci vede vivere e operare nel triste ed insignificante mondo disegnato dall’acritico e impersonale copia-incolla. Un mondo reso arido (… e molto noioso per il giurista) in cui le esigenze quantitative di produzione giuridica seriale, quasi fordista, mettono in ombra l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, quel servizio ragionato volto a regolare i rapporti tra esseri umani. Così, ad esempio, quante copiose ordinanze applicative di misure cautelari sono il copia-incolla di elaborate richieste di applicazione della misura che sono il copia-incolla di CNR che copiano e incollano indiscriminatamente fonti indiziarie? Così la metodologia investigativa, nel sistema della mal gestita abbondanza che caratterizza il nostro tempo, è spesso stata (anche) quella di creare un pagliaio intorno ad ogni ago, con l’effetto di affidare alla difesa il difficile e talvolta insormontabile compito di ricerca degli elementi rilevanti all’interno di un compendio investigativo disordinato e lutulento. Sembra che l’accostamento tra catena di montaggio e copia-incolla sia assolutamente calzante.In questa ottica l’Intelligenza Artificiale, con la sua indubbia capacità di gestione di enormi quantità di dati e con una sufficiente capacità di riassumerne i contenuti, diventa indubbiamente uno strumento che rende meno appetibile il ricorso a queste strategie investigative sovrabbondanti, limitandone la portata, a patto che si sappia quali domande porre alla nostra strana “alleata” digitale. L’Intelligenza Artificiale ben gestita si candida a diventare uno strumento di parità sostanziale tra le parti del processo penale, favorendo un dialogo paritario finalmente incentrato sul dato qualitativo e disinnescando l’acriticità che discende dall’uso indiscriminato e disumanizzante del copia-incolla. Una riflessione è però necessaria conseguenza di questo ragionamento: se le parti possono snellire il compendio indiziario, riassumendolo tramite I.A., sembra inimmaginabile una realtà in cui viene impedito al Giudice di utilizzare lo stesso strumento per la gestione di dati probatori o per la redazione di parti della motivazione. Il Giudice può finalmente accantonare l’indiscriminato uso di copia-incolla che ha realmente distrutto la credibilità di molti provvedimenti e usare un nuovo strumento per muoversi criticamente all’interno del compendio probatorio. Sul tema del “muoversi criticamente” si innesta la possibilità di re-introdurre nel sistema processuale una qualità dell’avvocatura che è stata fin troppo umiliata dalle esigenze di produzione industriale delle sentenze: la restituzione del processo all’uomo, paradossalmente grazie alla macchina. L’Avvocato non dovrà soltanto conoscere e far applicare la legge sostanziale o processuale, ma indosserà la Toga per rivendicare agli occhi del Giudice l’umanità, per introdurre quelle sfaccettature della dimensione umana che finora non s’è avuto il tempo di valutare nei processi (non quanto sarebbe stato opportuno o necessario). L’Avvocato ricorderà sempre e comunque al Giudice che Egli non è un operaio che lavora alla catena di montaggio delle sentenze, ma un essere umano chiamato ad introdurre con prepotenza e orgoglio l’elemento emozionale nella sua produzione giuridica. Il Penalista che conosce l’essere umano e lo porta dentro le torri d’avorio della Giustizia accompagnerà per mano il Giudice invitandolo a porre ad I.A. le domande giuste, quelle che gli consentiranno di personalizzare e personificare la sua sentenza. In questo futuro prossimo, l’Avvocato non è più chiamato ad essere un mero conoscitore del diritto, ma diventa (o forse torna ad essere) un vero e proprio umanista, restituendo il diritto alle scienze umane. La sorte, che non manca certo di ironia, ci invita ad utilizzare a questo scopo giusto ciò che di meno umano ci fornisce il panorama delle nostre disponibilità. La macchina imita l’uomo, indirettamente gli impone di ricordare chi è, quale è il suo ruolo, nella vita come – per quel che ci riguarda in questa sede – nel processo penale; la macchina impone alla coscienza del Giudice di essere carne e sangue, di “complicare” gli algoritmi innestandovi le infinite variabili dell’emotività umana. Non v’è alcuna accettabile alternativa al Giudice umano ed emotivo, fortunatamente fallibile ma giusto, convinto e non persuaso dall’esito di un dibattito regolato da altri due esseri umani, portatori di tesi e antitesi contrapposte che si integrano, si contestano, si scontrano e portano ad una verità condivisa. Non v’è alternativa in senso sostanziale perché la rinuncia all’umanità e all’emotività del Giudice rischia di condurre a soluzioni aberranti su temi che la statistica non può risolvere. Un esempio per tutti: I.A. simula ragionamenti razionali e quindi è capace di creare una moltitudine di catene causali plausibili che non potranno essere altro che ontologicamente ragionevoli e quindi sempre e comunque integranti un ragionevole dubbio che rischia di generare un loop inaccettabile. Non v’è alternativa in senso sociale, rappresentando il processo penale uno strumento di catarsi laica nel quale il Giudice assume la funzione di personificazione delle istanze del gruppo sociale che proprio attraverso il rito risolve il conflitto. L’esclusione dell’umanità del Giudice dal processo, intendendosi l’umanità non solo come figura fisica presente in aula ma soprattutto come contributo emozionale al processo decisionale, comporterebbe l’impossibilità per il gruppo sociale di impersonarsi nel Decidente. Il rischio è quello di generare un pesante vuoto nella risoluzione governata dei conflitti sociali e in un’ultima analisi aprendo le porte a inaccettabili scenari degni di quel futuro distopico paventato dai più fantasiosi apocalittici. Tornando alla domanda iniziale, è allora probabile che l’unica via sia quella di essere “consapevolmente integrati”, non ingenuamente ottimisti né aristocraticamente pessimisti, fieramente portatori della nostra imperfetta ma irrinunciabile umanità. *Presidente Camera penale degli Iblei

RIFLESSIONI FUORI BINARIO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL PROCESSO PENALE Leggi tutto »

PROPOSITI DI RIFORMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE: SPERANZE O PERPLESSITÀ?

di Domenico Nicolas Balzano – Avverto, in premessa, il dovere di scusarmi con quei lettori, i quali avranno la pazienza di leggere questo articolo, invece che cestinarlo, come meriterebbe, e lo faccio specificando che non ho potuto respingere il garbatissimo invito del mio amico e maestro Francesco Iacopino a scrivere un articolo per la rivista, della quale è responsabile, e che, affermatasi nell’ammirazione dell’Avvocatura nazionale, è orgoglio dell’intera, e a me tanto cara, Avvocatura calabrese. Un argomento, che m’è parso di grande interesse e meritevole di riflessioni comuni, è quello della custodia cautelare e dei suoi abusi, ritornato al centro dell’attenzione con l’annunzio del progetto di riforma del ministro Nordio, colto gentiluomo, anche di idee liberali – le Sue, non quelle di chi lo circonda – e, forse, ancora meritevole di fiducia. Il suo progetto di riforma si incentra su due aspetti: l’interrogatorio preventivo e la collegialità dell’ordinanza. È lecito avere speranze per l’avvio di una nuova stagione o è doveroso maturare perplessità a tal riguardo? Mi sembra che speranza – non molta – e perplessità – anche troppa – siano destinate a convivere. L’interrogatorio preventivo, cioè la possibilità di rappresentare preventivamente elementi idonei a scongiurare l’applicazione della misura, è verosimile sia destinato all’insuccesso e non solo per le numerose eccezioni, per le quali ad esso non si procede e che è prevedibile si estendano sino al punto da costituire un’eccezione il suo svolgimento, ma perché  si tratterebbe di un atto, asseritamente di natura garantista, che, però, contraddicendola, si svolgerebbe in condizioni di minorata difesa, salvo che l’indagato non disponga – ma è assai raro – di elementi decisivi: un inattaccabile alibi, la dimostrazione di un’omonimia e poco altro. Risulterà del tutto irrilevante quel che dirà l’indagato ad un organo giudicante che non dispone di poteri istruttori necessari per la verifica della tesi difensiva. È verosimile, pertanto, che la decisone risulterà identica a quella che sarebbe stata anche senza l’interrogatorio. Se però, tale atto, appare difficilmente idoneo a scongiurare custodie cautelari ingiustificate non è scevro da potenziali pregiudizi; ed è la ragione per la quale parlavo di minorata difesa. Quante concrete possibilità avrà di rappresentare un’argomentata e lucida tesi difensiva l’indagato che abbia conoscenza solo dell’ipotesi di addebito ma nessuna o quasi – ed altrettanto il suo difensore – del materiale investigativo raccolto spesso in numerosi e ponderosi faldoni? Il rischio che egli commetta peccati di ingenuità è reale. E quanta probabilità di ascolto avrà un difensore, il quale, per scongiurare tali peccati, consigli di avvalersi della facoltà di non rispondere, se il suo assistito affida proprio all’interrogatorio la sua speranza di evitare la misura? Peraltro, è noto quanto qualsiasi accusato sopravvaluti il peso delle sue tesi e la propria capacità di rappresentarle efficacemente. È dubbio, che quest’aspetto della riforma si traduca in un vantaggio per l’indagato ma è, invece, ben più probabile si traduca in un pregiudizio, anche irreparabile.   Anche il tema della collegialità dell’ordinanza impone riflessioni. Il principio che ispira la riforma è quello che tre teste ragionino meglio di una e garantiscano maggiore equilibrio. E non sempre è così. Anzi. Peraltro, si può, per davvero, essere certi che il provvedimento collegiale sia il risultato un confronto tra più intelligenze autonome ed equivalenti sotto il profilo dell’incidenza sul provvedimento? Come funzionino gli organi collegiali è noto a tutti gli Avvocati, i quali ben sanno che la vera collegialità è assai rara. Nella realtà c’è sempre un componente il collegio – il relatore – che ha maggiore conoscenza del fascicolo. Spesso è addirittura l’unico che ne abbia. La sua opinione condiziona l’asserita collegialità. Neppure è infrequente che nel collegio vi sia un componente il quale con maggiore determinazione si batte per imporre la sua tesi ed è molto spesso il più autorevole ma purtroppo il meno disponibile ad accedere alla tesi difensiva. Una presumibile falsa collegialità è destinata, dunque, a rivelarsi irrilevante quanto ad una significativa riduzione degli eccessi o addirittura degli abusi cautelari. Ma c’è un ulteriore aspetto di riforma, che, piuttosto che irrilevante, la renderebbe pericolosa e nociva. Il ministro, in occasione di un convegno a Napoli, ne parlò, ed, io, ascoltando agghiacciai. Egli disse che se l’emissione dell’ordinanza veniva sottratta alla competenza di un giudice monocratico e riservata ad un organo collegiale, non vi sarebbe più stata la necessità di affidarne la verifica di legittimità formale e sostanziale ad altro organo collegiale: il tribunale per il riesame. L’impugnazione del provvedimento sarebbe stata limitata al solo ricorso per cassazione. Se dovesse compiersi la riforma, anche con tale appendice, i risvolti negativi risulterebbero evidenti. Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per ragioni di legittimità e non di merito. Queste ultime venivano rappresentate al tribunale per il riesame, ma non potrebbero essere proposte al giudice di legittimità. Di esse – se anche decisive – la difesa non potrà fare altro uso che quello di riassumerle in un’istanza al giudice che ha emesso la misura e in caso di rigetto, al tribunale per il riesame, nei tempi assai più lunghi previsti per tale peculiare procedura. Peraltro, il giudice della misura, monocratico che sia o collegiale che dovrebbe diventare – provvede “inaudita altera parte” – valuta le ragioni del p.m., non anche quelle difensive, anche se procede all’interrogatorio preventivo, nel quale parla l’indagato ma non il difensore. L’udienza di riesame è la prima – e spesso anche l’unica – occasione per la valutazione degli elementi addotti dalla difesa. Ed è quella, nella quale si completa il contraddittorio sulla misura, sino ad essa inesistente, per la presenza di un’unica voce e di nessuna risposta. Eliminarla, pertanto, in nome dell’inutilità di una seconda deliberazione collegiale significherebbe rinunziare al contraddittorio sulla misura ed espellere il difensore dal procedimento cautelare. Vi sarebbe poco da esserne lieti! Luci ed ombre, dunque, nella riforma annunziata, pallide le prime ed ancora spesse le seconde. È certamente una luce il fatto che il ministro abbia riconosciuto che la misura cautelare è spesso un abuso e un’emergenza che reclama una soluzione non più differibile. È ancora

PROPOSITI DI RIFORMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE: SPERANZE O PERPLESSITÀ? Leggi tutto »

QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

 Avvocati Giovanni Fioresta e Piero Funaro –  Modello di eccezione di incostituzionalità degli articoli 168-bis del codice penale, 550 del codice di procedura penale e 73, comma quinto, decreto del presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione degli articoli 3 e 27, comma terzo della costituzione.        È necessario premettere che l’istituto della messa alla prova prevede la possibilità per l’imputato di ottenere l’estinzione  del reato, ponendo in essere condotte finalizzate all’eliminazione  delle conseguenze del reato, risarcendo il danno ed effettuando  lavori  di pubblica utilità. La messa alla prova dell’imputato può essere concessa solo  ove il giudice ritenga possibile formulare una prognosi favorevole circa la futura astensione da  parte  dell’imputato  dalla  commissione  di ulteriori reati e ancor prima non vi siano elementi per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129  del  codice  di  procedura penale (art. 464-quater, comma 3 del codice di procedura penale). La recente modifica intervenuta sul quinto  comma  dell’art.  73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (di cui all’art. 4, comma terzo, decreto-legge 20 marzo 2023, n. 123, convertito dalla legge 13 novembre 2023, n. 159), che ha innalzato il  limite  massimo di pena previsto per detta ipotesi delittuosa – portandolo da quattro anni di reclusione a cinque anni -, tuttavia, impedisce  all’imputato di accedere all’istituto della messa alla  prova,  in  quanto  l’art. 168-bis del codice penale lo consente per  i soli  reati  punti  con «pena edittale detentiva non superiore nel massimo  a quattro  anni, sola, congiunta o alternativa alla pena  pecuniaria»  oppure «per  i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 del  codice  di  procedura penale» ovvero per i delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero. Come spesso accade negli ultimi anni, la iperproduzione di leggi, promulgate in fretta e senza le opportune analisi, lascia profondi buchi normativi, provocando gravissime disparità di trattamento anche evidenti, con conseguente necessità di attenzionare la Corte Costituzionale. A seguito della citata modifica, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 DPR 309/90 è stato escluso dall’alveo dei delitti per i quali è possibile definire il giudizio con le forme della messa alla prova, a causa della mancata previsione (mediante rinvio ai criteri sopra menzionati) nel novero dei reati per i quali l’art. 168-bis del codice penale può trovare applicazione, essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti. L’esclusione dall’applicazione dal detto istituto estintivo appare incostituzionale, in quanto – per i motivi meglio esplicitati nel prosieguo – comporta una disparità di  trattamento  rispetto  a situazioni analoghe ovvero addirittura deteriori, oltre che a porsi in contrasto con la finalità rieducativa di cui all’art. 27 della Costituzione. Si ritiene infatti che la disciplina risultante dal combinato disposto degli articoli 168-bis  del  codice  penale  –  550  del  codice  di procedura penale – 73, comma quinto,  decreto  del  Presidente  della Repubblica n. 309/1990 sia contraria ai  principi  di  uguaglianza  e ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Quanto al principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, infatti, si evidenzia che la recente riforma introdotta con decreto legislativo n. 150 del 2022 aveva ampliato il novero dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova, tra l’altro inserendo alla lettera c) del secondo comma dell’art. 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) la fattispecie prevista  dall’art.  82, primo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, proprio in materia di delitti concernenti le sostanze stupefacenti. Il delitto previsto dal primo comma del citato art. 82 punisce la condotta di chi «pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze,  ovvero  induce una persona all’uso medesimo» con la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa. Risulta di lampante evidenza l’identità dei beni tutelati dalle due fattispecie suindicate (quella di cui all’art. 73 comma V e 82), anche perché poste nella medesima disposizione legislativa, a soli 9 articoli di distanza. Sotto altro profilo, colui il quale commetta il delitto ritenuto dal legislatore più grave, vale a dire quello di cui all’art. 82 dpr 309/90 alla luce della più elevata pena edittale, si troverà a godere del beneficio della messa alla prova, a differenza dei soggetti puniti per la condotta edittalmente più lieve commessa dopo l’entrata in vigore della riforma. Ne discende l’evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie: benché aventi ad  oggetto  identico  bene  giuridico  e nonostante lo stesso legislatore abbia ritenuto più grave il delitto di cui all’art. 82 decreto del Presidente  della  Repubblica  citato, sanzionandolo con pena edittale maggiore, solo  per  quest’ultimo  sarà possibile accedere all’istituto della messa alla prova. Il citato irragionevole trattamento certamente è conseguenza del miope intervento legislativo volto, nell’ormai consueta ottica punitiva, a consentire l’irrogazione della custodia in carcere anche all’ipotesi lieve di cui in parola, senza considerare i risvolti applicativi delle ulteriori norme.    Prima della riforma del 2023 suindicata, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 rientrava nei casi di citazione diretta a giudizio, mentre a seguito della riforma esso è stato escluso, sia in ragione dei nuovi limiti edittali che per l’omessa indicazione nella disposizione procedurale. Si tratta dunque di un effetto della riforma non immediatamente evidente, in quanto mero riflesso dell’aumento  della  pena  edittale massima. Tuttavia, quand’anche l’esclusione della fattispecie di cui si discute dal novero dei reati per i quali è  prevista  la  citazione diretta del p.m. e dei reati per i quali è consentita la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato fosse  frutto  di una precisa e consapevole scelta del legislatore, si osserva  che,  a mente del  principio  di  ragionevolezza  e  di  uguaglianza di cui all’art. 3 della  Costituzione,  tale  scelta  sarebbe   ugualmente incostituzionale, in quanto si tratterebbe di una scelta arbitraria e non già discrezionale. Non si intravvedono validi motivi, infatti, per cui il responsabile del più grave delitto di cui all’art. 82

QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE Leggi tutto »

DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

di Luigi Miceli*- Al congresso straordinario di Reggio Calabria, sabato 5 ottobre, ho avuto l’onore e l’onere di moderare la tavola rotonda titolata “Doppio binario e presunzione di colpevolezza” Le regole processuali del c.d. doppio binario, come è noto, sono state introdotte sulla spinta di logiche emergenziali, che nel tempo si sono strutturate fino ad essere considerate addirittura normali, nonostante comportino una evidente limitazione delle garanzie, anche in deroga ai principi costituzionali in tema di giustizia, ad iniziare dal diritto di difesa. In linea generale, il congresso è stato, tra l’altro, caratterizzato dal sovente richiamo all’attuale elaborazione normativa ispirata all’idea “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”. In altri termini, abbiamo assistito prevalentemente alla produzione di norme di natura garantista in materia procedimentale e di carattere autoritario/securitario sul versante del diritto sostanziale. Dinanzi a questa azione politica ambivalente fanno, ancora una volta, eccezione i processi relativi ai reati che rientrano nella categoria del doppio binario, per i quali si continuerà a procedere in deroga ai principi costituzionali sanciti in tema di giustizia.  Il c.d. “allarme sociale” determinato da alcune vicende di cronaca, alimentato a dismisura dal tam tam mediatico e social mediatico, che dà sfogo alle pulsioni forcaiole e vendicative, purtroppo sempre presenti nell’animo umano, ne ha addirittura determinato la continua espansione, anche sotto il profilo sostanziale, ossia delle figure di reato coinvolte. Si potrebbe, a ragion veduta, obiettare che tanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto maggiore dovrebbe essere il livello delle garanzie riconosciute all’imputato. La relazione del Prof. Daniele Negri e l’intervento del Prof. Oliviero Mazza hanno, in proposito, mirabilmente sottolineato come i principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo e la funzione rieducativa della pena non prevedono deroghe riconducibili al titolo di reato per cui si procede o si è proceduto. Ed invece, nei processi c.d. di criminalità organizzata, sui quali è stata focalizzata l’attenzione, anche in considerazione delle evidenti criticità coralmente emerse da alcuni interventi del giorno precedente, si inizia con la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere e si finisce, nella fase esecutiva, con l’inibizione all’accesso di misure alternative alla detenzione carceraria (art. 4 bis dell’O.P.), molto spesso attraverso maxinchieste e maxiprocessi, ontologicamente intrisi di un elevatissimo rischio di sommarietà divenuto ormai inaccettabile. Al sud Italia si celebrano maxiprocessi dal 1927 e, nonostante l’evoluzione dei riti, l’approccio è rimasto sempre il medesimo, ossia il processo quale mezzo di contrasto ai fenomeni criminali, piuttosto che un rito finalizzato ad accertare la fondatezza o meno di una ipotesi di reato contestata ad un imputato. Anche i maxiprocessi sono, tuttavia, diventati una costante metodologica, nel cui ambito è sempre più difficile esercitare il diritto difesa di uno, rispetto allo sforzo investigativo e al clamore mediatico dei “cento” o anche dei “quattrocento”. In una delle maxinchieste siciliane, celebratesi col nuovo codice, nel dispositivo di sentenza è stato condannato un soggetto, che era stato precedentemente prosciolto in udienza preliminare. Rispetto alle eventuali ragioni sottese all’istruzione delle maxinchieste, anche in considerazione del fatto che, in Calabria come in Sicilia, non viene più richiesto alla pubblica accusa di provare l’esistenza dell’“associazione” in sé, ma l’eventuale partecipazione, anche con ruoli apicali o la dimostrazione della sussistenza dei c.d. reati fine, il Dott. Stefano Musolino, dopo avere ricordato le difficili condizioni ambientali su cui si innestano le investigazioni e rivendicato l’ampia discrezionalità attribuita al pubblico ministero, mediante gli istituti della connessione procedimentale e del collegamento probatorio, ha manifestato una apprezzabile apertura sia in ordine al ridimensionamento del rilievo dimostrativo dell’art. 238 bis c.p.p. (sentenze irrevocabili), di dubbia costituzionalità, e sia in relazione alla necessità di ridurre le categorie dei reati previsti dall’art. 4 bis O.P. e di quelli c.d. “spia” per le misure di prevenzione. Tornando ai maxiprocessi sono state ribadite dall’Avv. Maria Teresa Zampogna le difficoltà del difensore a dovere affrontare un processo al “fenomeno criminale”, laddove capita pure che l’avvocato venga strumentalmente accusato di difendere il reato, piuttosto che l’indagato/imputato, col rischio di essere direttamente incriminato se non addirittura arrestato. Fatto certo è che le maxinchieste sono “portatori sani” di errori giudiziari e, come sottolineato dalla Presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Caterina Chiaravallotti, in Calabria, per il periodo primo gennaio 2023 – 30 giugno 2024, sono stati liquidati 5.729.381euro a titolo di riparazioni per ingiuste detenzioni. Una ulteriore buona ragione per mettere un freno alla proliferazione delle maxinchieste e, contestualmente, ripristinare i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza per i reati ricompresi nella categoria del c.d. “doppio binario”. Anche dalla riva dello Stretto, luogo mitologicamente evocativo, dove Ulisse seppe resistere al richiamo delle sirene rimanendo al timone della propria nave, ribadiamo, con la forza delle nostre idee, che i penalisti italiani non si faranno risucchiare dai vortici alimentati dalla sommarietà del giustizialismo e dalle semplificazioni mass mediatiche, continuando a mantenere la rotta delle garanzie e dello stato di diritto, affinché nel processo, per qualsivoglia reato e a carico di qualunque imputato, la responsabilità penale non sia un punto di partenza da ratificare ma, esclusivamente, una delle possibili soluzioni finali, e l’eventuale pena, mai contraria al senso di umanità, dovrà sempre essere finalizzata alla rieducazione del condannato.     *Avvocato, Componente di Giunta UCPI

DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA Leggi tutto »

Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* –  Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior. La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole. La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato.  Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato. Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale.  Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022. Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità). Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale. Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata

Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione Leggi tutto »

Torna in alto