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LE MISURE DI PREVENZIONE: CONTROLLO E PUNIZIONE.

CONTROLLARE E PUNIRE, PUNIRE SENZA ACCERTARE di Fabrizio Costarella (avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (avvocato del Foro di Torino) Ormai da tempo, stiamo assistendo ad un uso massiccio delle misure di prevenzione, sia in ambito amministrativo, sia in ambito giudiziario. Ciò è dovuto ad una legislazione, sempre emergenziale, che mira al contrasto di fenomeni criminali estremamente eterogenei tra loro, facendo ricorso alla costante implementazione del catalogo contenuto nel testo unico per le disposizioni antimafia (D.L.vo 159/11). “Codice” che, peraltro, reca disposizioni la cui genesi va fatta risalire alla esigenza, avvertita particolarmente nelle periferie industriali di fine ‘800, di reprimere devianze sociali quali il vagabondaggio, prevenendo così la commissione di reati da parte di soggetti socialmente emarginati e, quindi, potenzialmente pericolosi. Questo strumento, nato dunque in chiave prettamente special preventiva e di applicazione del tutto residuale rispetto alle pene, si è rivelato, nel tempo, un’utile scorciatoia per giungere, attraverso una sempre meno evidente funzione praeter delictum, alla aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati. Tanto da arrivare a prescindere, ormai, persino dalla prognosi di futura pericolosità del soggetto destinatario, perdendo così la funzione special preventiva, per assumere contorni sempre più spiccatamente sanzionatori. Nel percorso di evoluzione ed espansione, l’impulso decisivo verso l’attuale sistematico uso di queste misure si rinviene nel pacchetto sicurezza del 2008 che, consentendo la confisca disgiunta dalla misura di prevenzione personale, l’ha resa uno strumento agile e deformalizzato nella repressione della criminalità da profitto. Repressione (le parole sono importanti) e non più prevenzione, perché da tempo la prognosi di prossima pericolosità personale dei proposti, che nelle intenzioni del Legislatore del 1873  era il presupposto necessario per l’applicazione di misure che, in quanto preventive, dovevano dispiegarsi nel futuro, ha assunto il ruolo, per usare le parole di SSUU Spinelli, del presupposto fattuale e della “misura temporale” dell’ablazione, nel senso di consentire la confisca anche quando non sia possibile prevedere la futura proclività al reato, purché si tratti di beni accumulati in costanza di pregresse manifestazioni delittuose. Dalla prevenzione di fenomeni di marginalità ed emarginazione (destinate agli “oziosi e vagabondi”), le misure di prevenzione hanno lentamente preso la scena del contrasto ai reati lucrogenetici, a valle della commissione, o presunta tale, degli stessi e, cioè, mediante l’apprensione del profitto, o presunto tale, di tali delitti. E, tuttavia, tale fenomeno presenta non pochi punti di frizione, se così inteso, con l’intera architettura costituzionale, sulla quale si regge l’equilibrio tra pretesa punitiva dello stato, sicurezza sociale, libertà personale e libertà di iniziativa economica privata. Si tratta, infatti, di un giudizio sommario, non a caso definito procedimento (e non processo) di prevenzione, destinato a concludersi con un giudizio che, non essendo formalmente una sentenza di condanna, si basa su indizi che non solo non devono essere gravi, precisi e concordanti, ma neanche assimilabili a quelli, ben più labili, sufficienti per la irrogazione di una misura cautelare. Sospetti e, spesso, anche valutazioni probabilistiche. Uno strumento, quindi, di natura e di applicazione naturalmente inquisitorie, per le decise asimmetrie nella formazione e nella valutazione della prova, tanto più utile alle ragioni dello Stato, quanto più caratterizzato da aspetti di peculiare asistematicità rispetto alle forme dell’accertamento della responsabilità penale, all’esito del processo. Si pensi, ad esempio: Alla imprescrittibilità dell’azione, per cui la misura di prevenzione può essere richiesta ed applicata senza limiti di tempo rispetto al fatto-indice di pericolosità. Alla sottrazione alla riserva di Legge, per cui la norma può essere etero-integrata dalla produzione giurisprudenziale, con effetto formante del precetto, annettendo così, al diritto dei Giudici una funzione legislativa concorrente, rispetto al diritto delle Fonti. Alla retroattività delle norme di sfavore e, per effetto della “tassativizzazione giurisprudenziale” avallata anche dal Giudice delle Leggi con la sentenza 24/19, anche della integrazione interpretativa del precetto. Retroattività affermata sulla analogia legis tra misure di prevenzione e misure di sicurezza, che non pare trovare base normativa valida, alla luce dei principi generali dell’ordinamento. Alla previsione di presunzioni di derivazione illecita del patrimonio del proposto, che invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico di chi si difende, sovvertono i canoni della accusatorietà, sui quali si basa il nostro modello processuale penale. Alla tendenziale instabilità del giudicato, che consente la ripetuta attivazione dell’azione di prevenzione sulla base di presupposti di fatto non solo nuovi, ma anche semplicemente non valutati. Tale eccezionalità avrebbe imposto di non sviare l’applicazione delle misure di prevenzione dalla loro finalità special preventiva, esclusivamente indirizzata verso manifestazioni di pericolosità che si presentassero concrete e, soprattutto, future, poiché solo il perseguimento di interessi pubblici superiori avrebbe potuto consentire una aggressione così deformalizzata di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà individuale nelle sue diverse declinazioni e la libertà di iniziativa economica, esercitata mediante il diritto alla proprietà privata. Numerosi sono stati, sul punto, i richiami della Giurisprudenza europea: basterebbe leggere la dissenting opinion nella decisione De Tommaso/Italia, per apprezzare come il sistema prevenzionale nazionale sia visto con sospetto in sede convenzionale e giustificato solo, appunto, in chiave di prevenzione di fenomeni criminali di particolare allarme. Di fronte alla progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione (con l’estensione degli istituti processuali penali in tema di diritto alla prova, astensione e ricusazione, decadenza dall’azione), ma anche davanti all’allineamento ai principi convenzionali in punto di qualità della Legge, avevamo creduto ad una evoluzione delle misure di prevenzione nel senso di attenuarne le asistematicità, così da rispettare quegli standard minimi di garanzia che dovrebbero regimentare azioni che, pur non essendo assimilate a pene, da queste ultime hanno finito per mutuare una funzione ormai spiccatamente afflittiva. Avevamo creduto che, avvicinandosi alla “materia penale”, le misure di prevenzione potessero affrancarsi da quei profili di “terribilità” che, per anni, le avevano relegate nel sottoscala polveroso dove, come vecchi arnesi, erano state relegate e dove, per le loro caratteristiche, avrebbero dovuto rimanere. Attenta dottrina, tuttavia, ci aveva messo in guardia da tempo su come l’abbraccio tra processo penale e misure di prevenzione avrebbe potuto costituire l’occasione, piuttosto che di una nobilitazione delle seconde, della corruzione del primo, del quale la prevenzione si sarebbe presto proposta come utile succedaneo.

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Un anno di covid-19 nel mondo penitenziario

ABSTRACT Il tortuoso percorso della tutela dei diritti umani al tempo del giustizialismo di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   Sommario: 1. Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. – 2. Populismo penale e sovraffollamento penitenziario – 3. Il contenimento del virus nel mondo penitenziario tra misure deflattive e sirene del giustizialismo. – 4. Le carceri un anno dopo: i dati. – 5. Una buona occasione per ripensare il sistema penale. 1- Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. Nelle giornate del 6, 7 e 8 marzo dell’anno passato, all’inizio dell’emergenza sanitaria nazionale ed appena prima del lockdown di giorno 9, le rivolte dei detenuti infiammarono buona parte degli istituti penitenziari italiani, riportandoci indietro di mezzo secolo. Era dagli anni settanta, infatti, che non si assisteva ad una rivolta così generalizzata delle carceri. Erano gli anni in cui la vita penitenziaria era regolata dal vetusto regolamento Rocco e tra i mezzi di disciplina vi erano anche i letti di contenzione. Gli effetti più drammatici delle recenti rivolte si ebbero nell’istituto penitenziario di Modena nel quale, al termine dei disordini, si contarono tredici detenuti morti. Secondo la ricostruzione dei principali media nazionali, i detenuti persero la vita perché, entrati nell’infermeria della casa circondariale modenese, assunsero grossi quantitativi di metadone, trovando così la morte. Alcuni di essi morirono nell’istituto penitenziario S. Anna di Modena, altri nel corso del trasferimento presso altri istituti penitenziari, dal momento che, a seguito della rivolta, fu ordinata la traduzione della maggior parte dei reclusi presso altri siti, visto la parziale inagibilità dell’istituto modenese. Gli eventi descritti hanno comportato l’apertura di procedimenti di indagine al fine di accertare il reale svolgimento dei fatti e la causa dei decessi. Recentemente, la Procura della Repubblica di Modena ha avanzato richiesta di archiviazione rispetto al decesso di otto detenuti della locale casa circondariale perché la morte sarebbe stata causata dall’overdose di metadone avvenuta nel corso della rivolta… LEGGI TUTTO Un anno di covid nel mondo penitenziario

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Stop all’ergastolo ostativo: “Sì alla speranza e alla funzione rieducativa della pena”

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   In data 23 marzo si è svolta dinanzi alla Corte Costituzionale l’udienza avente ad oggetto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Al termine dell’udienza la Corte ha riservato la decisione. La storia Francesco Saverio Pezzino, condannato all’ergastolo per il delitto di omicidio volontario, avvenuto in contesto mafioso e quindi aggravato, dopo aver scontato oltre trenta anni di carcere ha avanzato istanza di liberazione condizionale al competente Tribunale di Sorveglianza. Il Tribunale di Sorveglianza non ha rigettato l’istanza, ma ha dichiarato l’inammissibilità della stessa, poiché Pezzino nel corso della propria detenzione non ha mai collaborato con la giustizia. In sostanza il tribunale non ha operato alcuna valutazione in ordine al percorso detentivo dell’istante e all’eventuale ravvedimento dello stesso. La questione di legittimità Avverso la declaratoria di inammissibilità la difesa del condannato ha avanzato ricorso in Cassazione e nel corso del giudizio è stata sollevata la questione oggi al vaglio della Corte Costituzionale.  La quaestio ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. In particolare, le disposizioni che disciplinano l’ergastolo ostativo sarebbero, secondo il tessuto argomentativo dell’ordinanza di rimessione, in violazione degli articoli 3 (principio di eguaglianza), 27 (funzione rieducativa della pena e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità) e 117 (obbligo di compatibilità della normativa interna con quella internazionale) della Costituzione. La funzione della pena Infatti, la Corte di Cassazione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19), ha evidenziato come le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza  n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena”. Per meglio comprendere la problematica è necessario, almeno per un momento, mettere da parte le ansie securitarie, oggi molto in voga, e tenere in debito conto la funzione della pena nel suo divenire storico. Ad esempio, la pena dell’ergastolo ha conosciuto un lungo e lento percorso di costituzionalizzazione, iniziato nel 1962 con l’introduzione della liberazione condizionale e poi continuato con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma Gozzini del 1986. Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro ravvedimento alla liberazione condizionale. Al contrario, nel caso della ostatività, avviene che la vigente normativa ripristina una disciplina che è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come concepita dal legislatore del 1930, ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena, salvo l’ipotesi di collaborazione con la giustizia. Presunzione assoluta e preclusione ostativa La problematica sta proprio in questa piega della “vicenda” normativa, cioè l’aver equiparato, mediante una presunzione di carattere assoluto, la mancata collaborazione alla presenza di legami con la criminalità organizzata e ad indice di pericolosità sociale. Difatti, nel caso in cui il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari conseguenza di altri fattori quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’ostatività, pur non essendo la scelta di non collaborare necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Sotto altro aspetto, speculare e contrario, può avvenire che qualcuno decida di collaborare con la giustizia ed in gergo “pentirsi” solo al fine di godere dei benefici che ne conseguono, senza aver posto in essere alcun percorso di rivisitazione critica del proprio passato criminale. L’eventuale accoglimento Qualora la Corte dovesse ritenere fondata la questione sollevata, ne discenderebbe che la presunzione dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale potrebbe caratterizzarsi, quantomeno, in termini di relatività.  Eliminando un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, si ridarebbe, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza sia in ordine alla effettiva pericolosità del condannato che rispetto al sicuro ravvedimento dello stesso. Difatti, è bene ricordare che, contrariamente a chi sostiene che in caso di accoglimento ci sarebbe l’apertura delle carceri con la fuoriuscita dei peggiori criminali, i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione si basa sulle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. Pare evidente che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema penitenziario. Una pronuncia di accoglimento sarebbe un segno civiltà a garanzia dello stato di diritto. (Pubblicato su Calabria 7, 28/03/21)

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Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo

di Orlando Sapia, Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.” La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo. La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità  dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso. Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale. In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare. La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone. (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)

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Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo

di Orlando Sapia –  La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.” La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo. La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità  dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso. Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale. In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare. La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone.   (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)

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La sentenza Viola, una pronuncia di civiltà

di Orlando Sapia – La Grande Camera della CEDU, in data 8/10/19, ha rigettato il ricorso presentato dall’Italia contro la decisione della I sezione della medesima Corte che, in data 13 giugno, aveva accolto il ricorso avanzato da Marcello Viola per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 3 “Divieto di Tortura”. In particolare, detto articolo dispone che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Il Viola nel suo ricorso ha sostenuto che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari (permessi, lavoro all’esterno, semilibertà e liberazione condizionale), essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione, oltre che dell’art. 27 della Costituzione italiana che prevede la funzione rieducativa della pena. L’introduzione dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario avviene a seguito di decreto d’urgenza, successivamente convertito nella Legge n. 203 del 1991.  All’indomani delle stragi di mafia si stabilì che i condannati per i delitti di prima fascia, riferibili al crimine organizzato, potessero godere dei benefici solo se avessero collaborato con la giustizia. In sostanza si costruì un circuito penitenziario differenziato, che di tutta evidenza mirava e mira a soddisfare esigenze di indagine e di sicurezza interna, anche a scapito della funzione rieducativa della pena. Orbene la problematica diviene ancora più intensa allorquando il reo è stato condannato all’ergastolo, poiché l’assenza di collaborazione diviene, in questa logica, sintomo di mancata rieducazione e, quindi, osta alla concessione di quei benefici, che fanno dell’ergastolo, anziché una pena perpetua, una pena a esecuzione progressiva. L’introduzione e lo sviluppo dell’art. 4 bis si iscrive in un contesto, inizialmente di emergenza e successivamente di populismo penale, che segna una presa di distanza dal percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e dalla centralità della funzione rieducativa della pena. In particolare, la Corte EDU in sentenza afferma: “la Corte dubita della libertà della predetta scelta e anche dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato”. In tal senso, si prende in considerazione la possibilità che la scelta della mancata collaborazione possa dipendere da altri fattori, ad esempio il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunti, e non sia necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale. Stando così le cose, l’ergastolo ostativo è un “ergastolo senza speranza”. Gli effetti della sentenza Viola comportano a carico dello Stato italiano l’obbligo “di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena” (cit. sentenza Viola). Altro effetto è l’influenza che la decisione della Corte EDU potrà avere sulla giurisprudenza costituzionale e di legittimità italiana. Il primo banco di prova si sta avvicinando, essendo prevista per il 22 ottobre udienza dinanzi alla Corte Costituzionale per vagliare una nuova questione sulla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis. In sostanza, la situazione è ben diversa da quella narrata da alcuni esponenti della politica nazionale, per i quali la sentenza CEDU rappresenterebbe il via libera per mafiosi e terroristi. Un esempio su tutti: per ottenere la liberazione condizionale è necessario aver scontato 26 anni di pena e che vi sia la prova del sicuro ravvedimento del condannato. Tale concessione passa attraverso il vaglio attento e severo della magistratura di sorveglianza che non è certo incline a fare regali. La sentenza Viola è certamente una pronuncia di civiltà a garanzia dello stato di diritto, che si spera conduca il legislatore a mettere mano alla vigente disciplina, così da renderla conforme alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 11/10/19)

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