Diritto Processuale

DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

di Luigi Miceli*- Al congresso straordinario di Reggio Calabria, sabato 5 ottobre, ho avuto l’onore e l’onere di moderare la tavola rotonda titolata “Doppio binario e presunzione di colpevolezza” Le regole processuali del c.d. doppio binario, come è noto, sono state introdotte sulla spinta di logiche emergenziali, che nel tempo si sono strutturate fino ad essere considerate addirittura normali, nonostante comportino una evidente limitazione delle garanzie, anche in deroga ai principi costituzionali in tema di giustizia, ad iniziare dal diritto di difesa. In linea generale, il congresso è stato, tra l’altro, caratterizzato dal sovente richiamo all’attuale elaborazione normativa ispirata all’idea “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”. In altri termini, abbiamo assistito prevalentemente alla produzione di norme di natura garantista in materia procedimentale e di carattere autoritario/securitario sul versante del diritto sostanziale. Dinanzi a questa azione politica ambivalente fanno, ancora una volta, eccezione i processi relativi ai reati che rientrano nella categoria del doppio binario, per i quali si continuerà a procedere in deroga ai principi costituzionali sanciti in tema di giustizia.  Il c.d. “allarme sociale” determinato da alcune vicende di cronaca, alimentato a dismisura dal tam tam mediatico e social mediatico, che dà sfogo alle pulsioni forcaiole e vendicative, purtroppo sempre presenti nell’animo umano, ne ha addirittura determinato la continua espansione, anche sotto il profilo sostanziale, ossia delle figure di reato coinvolte. Si potrebbe, a ragion veduta, obiettare che tanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto maggiore dovrebbe essere il livello delle garanzie riconosciute all’imputato. La relazione del Prof. Daniele Negri e l’intervento del Prof. Oliviero Mazza hanno, in proposito, mirabilmente sottolineato come i principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo e la funzione rieducativa della pena non prevedono deroghe riconducibili al titolo di reato per cui si procede o si è proceduto. Ed invece, nei processi c.d. di criminalità organizzata, sui quali è stata focalizzata l’attenzione, anche in considerazione delle evidenti criticità coralmente emerse da alcuni interventi del giorno precedente, si inizia con la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere e si finisce, nella fase esecutiva, con l’inibizione all’accesso di misure alternative alla detenzione carceraria (art. 4 bis dell’O.P.), molto spesso attraverso maxinchieste e maxiprocessi, ontologicamente intrisi di un elevatissimo rischio di sommarietà divenuto ormai inaccettabile. Al sud Italia si celebrano maxiprocessi dal 1927 e, nonostante l’evoluzione dei riti, l’approccio è rimasto sempre il medesimo, ossia il processo quale mezzo di contrasto ai fenomeni criminali, piuttosto che un rito finalizzato ad accertare la fondatezza o meno di una ipotesi di reato contestata ad un imputato. Anche i maxiprocessi sono, tuttavia, diventati una costante metodologica, nel cui ambito è sempre più difficile esercitare il diritto difesa di uno, rispetto allo sforzo investigativo e al clamore mediatico dei “cento” o anche dei “quattrocento”. In una delle maxinchieste siciliane, celebratesi col nuovo codice, nel dispositivo di sentenza è stato condannato un soggetto, che era stato precedentemente prosciolto in udienza preliminare. Rispetto alle eventuali ragioni sottese all’istruzione delle maxinchieste, anche in considerazione del fatto che, in Calabria come in Sicilia, non viene più richiesto alla pubblica accusa di provare l’esistenza dell’“associazione” in sé, ma l’eventuale partecipazione, anche con ruoli apicali o la dimostrazione della sussistenza dei c.d. reati fine, il Dott. Stefano Musolino, dopo avere ricordato le difficili condizioni ambientali su cui si innestano le investigazioni e rivendicato l’ampia discrezionalità attribuita al pubblico ministero, mediante gli istituti della connessione procedimentale e del collegamento probatorio, ha manifestato una apprezzabile apertura sia in ordine al ridimensionamento del rilievo dimostrativo dell’art. 238 bis c.p.p. (sentenze irrevocabili), di dubbia costituzionalità, e sia in relazione alla necessità di ridurre le categorie dei reati previsti dall’art. 4 bis O.P. e di quelli c.d. “spia” per le misure di prevenzione. Tornando ai maxiprocessi sono state ribadite dall’Avv. Maria Teresa Zampogna le difficoltà del difensore a dovere affrontare un processo al “fenomeno criminale”, laddove capita pure che l’avvocato venga strumentalmente accusato di difendere il reato, piuttosto che l’indagato/imputato, col rischio di essere direttamente incriminato se non addirittura arrestato. Fatto certo è che le maxinchieste sono “portatori sani” di errori giudiziari e, come sottolineato dalla Presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Caterina Chiaravallotti, in Calabria, per il periodo primo gennaio 2023 – 30 giugno 2024, sono stati liquidati 5.729.381euro a titolo di riparazioni per ingiuste detenzioni. Una ulteriore buona ragione per mettere un freno alla proliferazione delle maxinchieste e, contestualmente, ripristinare i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza per i reati ricompresi nella categoria del c.d. “doppio binario”. Anche dalla riva dello Stretto, luogo mitologicamente evocativo, dove Ulisse seppe resistere al richiamo delle sirene rimanendo al timone della propria nave, ribadiamo, con la forza delle nostre idee, che i penalisti italiani non si faranno risucchiare dai vortici alimentati dalla sommarietà del giustizialismo e dalle semplificazioni mass mediatiche, continuando a mantenere la rotta delle garanzie e dello stato di diritto, affinché nel processo, per qualsivoglia reato e a carico di qualunque imputato, la responsabilità penale non sia un punto di partenza da ratificare ma, esclusivamente, una delle possibili soluzioni finali, e l’eventuale pena, mai contraria al senso di umanità, dovrà sempre essere finalizzata alla rieducazione del condannato.     *Avvocato, Componente di Giunta UCPI

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Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* –  Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior. La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole. La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato.  Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato. Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale.  Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022. Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità). Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale. Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata

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L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci

di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi –    Oggi raccontiamo una storia sbagliata. Ce ne sono più di quante vorremmo nel grande calderone della giustizia e questo crea una doppia difficoltà: è difficile dedicare a tutte l’attenzione che pure meriterebbero; è sempre latente la sensazione di inutilità poiché nessuno sforzo pare capace di provocare anche il più marginale cambiamento. Tuttavia ci sono storie più sbagliate di altre, soprattutto quando sbaglia chi ha il compito di correggere gli errori altrui. È questo il ruolo della Corte di cassazione che Michele Taruffo, in una raccolta di saggi edita da Il Mulino nel 1991, denominò il “vertice ambiguo”, espressione giustificata dalla difficoltà di coniugare le due funzioni tipiche della nostra Suprema Corte; la verifica della legittimità delle singole procedure e il ruolo nomofilattico generale. Chi analizza per studio o lavoro la sua produzione complessiva, i risultati che produce, i suoi conflitti interni, la sua capacità persuasiva, non tarda a scorgere i sintomi dell’affanno: la Cassazione fa fatica a reggere i rilevantissimi flussi di lavoro che le sono assegnati ma al tempo stesso deve smaltirli perché il tempo non è più una variabile indipendente e l’arretrato non è più un’opzione. La prima vittima è ovviamente la funzione nomofilattica, sempre più indebolita da una produzione necessariamente convulsa che fa premio su qualsiasi altro fattore, ivi compresa la riflessione. La seconda vittima è la verifica della legittimità: il ritmo martellante dei flussi in entrata, delle udienze sovraffollate, delle camere di consiglio, delle decisioni da scrivere in fretta e furia fanno sì che la Cassazione si distanzi sempre più dal cuore dei processi e quindi dalle persone in carne e ossa che stanno dietro ogni ricorso e ogni difesa. Non stupisce allora che possano verificarsi storie sbagliate come quella di cui ci accingiamo a parlare. L’avvocato Maurizio Capozzo, difensore di VS (lo identifichiamo con le sole iniziali nel rispetto del suo diritto alla riservatezza), una di queste persone in carne e ossa, ricorre per cassazione contro la decisione della Corte territoriale che ha confermato la condanna inflitta in primo grado al suo assistito, riconosciuto responsabile in concorso di una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate o tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. Si affida ad un unico motivo, deducendo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto – esso difensore di fiducia – alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze attraverso le quali si è sviluppato il giudizio di appello, per essere stato notificato l’avviso, invece, ad altro difensore. Il ricorso è trattato e deciso da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 50649/2023, udienza del 14 settembre 2023 ma, per quanto possa sembrare strano, per raccontarne l’esito abbiamo necessità di fare riferimento ad una differente decisione, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, ordinanza n. 50430/2023, udienza del 14 dicembre 2023, di cui riportiamo il testo integrale: “All’udienza del 14 settembre 2023 questa seconda sezione penale della Corte di Cassazione decideva i ricorsi proposti da VS ed altri avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli che il 28/9/2022 aveva confermato il giudizio di penale responsabilità espresso nei loro confronti dal Tribunale cittadino il 30/6/2021 in relazione ad una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate e tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. VS, in particolare, con unico motivo di impugnazione, aveva dedotto la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto il difensore di fiducia, avv. Maurizio Capozzo, alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze. Il collegio giudicante, rilevando che in nessuna delle udienze celebratesi dinanzi alla Corte di Appello era stata eccepito l’omesso avviso all’avv. Capozzo, dichiarava inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’esistenza di altro difensore di fiducia dello Scarano e, pertanto, della sussistenza di una nullità a regime intermedio intempestivamente rilevata, anche alla luce dei principi posti da questa Corte di Cassazione, secondo cui il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell’imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell’imputato che dell’altro difensore, ritualmente avvisati (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651). Durante la stesura della motivazione della sentenza, però, si è rilevato l’errore percettivo in cui si era incorsi, in quanto nel ricorso per cassazione proposto nell’interesse di VS si era espressamente specificato che non era “intervenuta alcuna nuova nomina, surroga o affiancamento di altro difensore”, come, peraltro, verificato dall’esame degli atti trasmessi a questa Corte, sicché si è proceduto senza formalità, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una svista o equivoco incidente sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto è stato percepito in modo difforme da quello effettivo, tale da integrare l’errore di fatto, indicato dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Barbato, Rv. 273193; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250527) e, per quel che più rileva, si tratta di errore percettivo determinante ai fini della decisione presa, in quanto l’omesso avviso dell’udienza all’unico difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo cod. proc. pen. (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Rv. 263598). Si impone, pertanto, la necessità di correggere l’errore nel dispositivo della sentenza di cui si tratta, come riportato nel ruolo di udienza, con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei confronti di VS, con trasmissione degli atti per il giudizio alla Corte territoriale, e le rettifiche conseguenziali in tema di spese processuali. P.Q.M. Corregge il dispositivo della sentenza emessa dalla seconda sezione penale di questa Corte in data 14/9/2023, riportato nel ruolo di udienza pubblica n. 20, nei confronti di VS nel senso di aggiungere, prima

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Brevi note in tema di giustizia riparativa

  Osservatorio Giustizia Riparativa, Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro –  La giustizia riparativa, intesa come forma di mediazione tra l’autore di un reato, la vittima/persona offesa e la società, ha radici risalenti nel tempo, in Italia ed in Europa.Il d.Lgs. 150/2022 ha introdotto una disciplina organica concernente l’applicazione sistematica dell’istituto nelle nostre aule di giustizia. In effetti, buona parte della Riforma Cartabia è stata dedicata alla predisposizione di norme con il fine di regolare la materia in esame. Da qui lo sviluppo di aspettative considerevoli sull’applicazione delle stesse. Ad ormai più di un anno dall’entrata in vigore del decreto, l’attuazione pratica delle disposizioni in questione non ha ancora convinto del tutto, per così dire, gli addetti ai lavori. Sono di tutta evidenza le difficoltà concernenti la materia, sotto ogni punto di vista: organizzativo, pratico e, non ultimo, sostanziale. Tralasciando, per quel che riguarda il presente contributo, le problematiche emerse in ordine alla organizzazione delle strutture (centri per la G.R.), alla formazione di mediatori esperti e alla istituzione delle Conferenze locali per la Giustizia riparativa (era lecito aspettarsi delle difficoltà iniziali in tal senso) – che pure sono ostacoli di non poco conto – quel che preoccupa è l’uniformità di giudizio dei giudicanti ai quali perviene un’istanza di accesso ai programmi di G.R. In tema di organizzazione e sviluppo delle strutture, nonché delle figure che saranno protagoniste nel campo della giustizia riparativa, ci si aspetta celeri risposte da parte dei soggetti preposti. Analizzando, nel mentre, il profilo sostanziale, l’incertezza aumenta e si aggiunge alle criticità di cui sopra. È innegabile, sul punto, quale fosse l’intento del legislatore.         La Giustizia Riparativa non nasce come uno strumento attraverso il quale “sottrarsi” ai procedimenti penali. Non rappresenta assolutamente una forma di giustizia alternativa a quella ordinaria. Trattasi piuttosto di un percorso incidentale a quello del procedimento penale vero e proprio che consente, il più delle volte, di ridimensionare il trattamento sanzionatorio del soggetto di cui sia stata (o sarà) accertata la responsabilità penale. Ciò che si sostiene è palese essendo previsto che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può avvenire in ogni stato e grado del procedimento, nella fase di esecuzione della pena e della misura di sicurezza e dopo l’esecuzione delle stesse. La riforma intendeva, ed intende, a ben vedere, offrire la massima potenzialità operativa allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, permettendone lo sviluppo addirittura in fase esecutiva della pena. La sensazione, allo stato, è che non sia stata del tutto recepita la ratio e la finalità dei programmi di G.R., in quanto stiamo assistendo a provvedimenti diametralmente opposti relativi alle richieste di accesso proposte nelle diverse aule di giustizia. A titolo di esemplificativo è sufficiente confrontare le decisioni assunte in questo primo arco temporale di operatività della nuova disciplina. È opportuno evidenziare il caso di Davide Fontana, imputato e condannato in primo grado per il delitto di omicidio. La Corte di Assise di Busto Arsizio – con ordinanza emessa in data 19.9.2023 – ha disposto, su istanza di parte, l’invio degli atti al Centro per la Giustizia Riparativa di Milano per la predisposizione di un programma di G.R.La decisione della Corte è avvenuta nonostante la richiesta di rigetto della Procura e del difensore delle costituite Parti civili, le quali rappresentavano di non consentire rapporto di alcun tipo, neanche tramite mediazione, con il Fontana. La Corte di Assise di Busto Arsizio ha sottolineato, attraverso l’ordinanza,  i concetti che esprimono proprio quella ratio di cui si accennava prima l’esistenza, per disporre l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa: “ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa – laddove ritenuto esperibile anche con “vittima aspecifica” – possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, pag 297), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento, come emerge dall’art. 43, comma 4, d.Lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito (…)” Proprio l’art. 43, comma 4, della “Riforma Cartabia” evidenzia la volontà del legislatore: l’unica circostanza che limita il ricorso alla G.R. consiste in un pericolo concreto per i partecipanti che sia direttamente dipendente dallo svolgimento del programma. È, in particolare, questa norma che rende di difficile comprensione gli svariati provvedimenti di rigetto di cui tutti noi siamo ad oggi testimoni. Quasi come se la G.R. rappresenti un peso o addirittura un “escamotage” del richiedente. Un esempio, del tutto contrario a quello poc’anzi citato, lo si rinviene in un’ordinanza emessa quasi contestualmente al provvedimento della Corte d’Assise di Busto Arsizio. La Corte d’Appello di Milano, in data 12 luglio 2023, rigettava così – nonostante il parere positivo espresso dalla Procura Generale – l’istanza di accesso ad un programma riparativo: “rilevato che i programmi di giustizia riparativa, per come configurati dal d. Lgs 150/2022 (..) si rivolgono agli autori di reati che contemplino l’esistenza di una vittima; rilevato, infatti, che l’art. 53 d. Lgs. 150/2022 individua come possibili programmi di giustizia riparativa la mediazione, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico; ritenuto che in un reato privo di vittima – quale è l’art. 73 DPR 309/90 – non è ontologicamente ipotizzabile un dialogo di alcun tipo, mancando la parte con cui intrattenere un dialogo; rilevato, dunque, che l’istanza non possa essere accolta per le ragioni suddette; p.q.m. rigetta l’istanza”. Il risultato che consegue dal confronto dei due provvedimenti riportati, i quali sembrano emessi sulla scorta di norme contrastanti, può essere solo uno: confusione. Risulta singolare come, in entrambi i casi, non vi sia uniformità, non solo tra

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Riqualificazione giuridica del fatto. Utilizzabilità delle intercettazioni.

  Massima a cura dell’avv. Stefania Mantelli del Foro di Catanzaro Contestazione nuovi reati a seguito degli esiti del compendio intercettivo. Assenza di connessione ex art. 12 c.p.p., anche sotto il profilo dell’art. 81 cpv c.p. e mancata inclusione nel novero dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. o soggetti all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p. Inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni. Acquisibilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni come corpo del reato. Esclusione laddove costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o mera prova di un frammento del reato. (ordinanza del 23 gennaio 2023 Tribunale di Catanzaro, in composizione monocratica). In tema di intercettazioni, stante il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p., non si applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni,  poiché in tale evenienza non vi è elusione del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. attesa l’intervenuta legittima autorizzazione dell’intercettazione e la modifica dell’addebito unicamente per sopravvenuti fisiologici motivi. Incontra, invece, la sanzione dell’inutilizzabilità, l’ipotesi in cui, all’esito delle intercettazioni legittimamente disposte, la Procura valuti di contestare nuovi reati, privi di qualsivoglia connessione ex art. 12 c.p.p. con il delitto in relazione al quale l’autorizzazione alle intercettazioni di conversazioni telefoniche era stata originariamente disposta, i quali neanche rientrino nei delitti per i quali è consentita l’intercettazione di conversazioni ai sensi dell’art. 266 c.p.p. o l’arresto obbligatorio in flagranza ai sensi dell’art. 380 c.p.p. Nel caso di specie, il Tribunale non ha riscontrato alcuna connessione neanche sotto il profilo del vincolo della continuazione ex art. 81 cpv c.p., in considerazione dell’evidente autonomia sussistente fra le incriminazioni, che non consente di desumere alcuna primitiva rappresentazione, nemmeno ipotetica ed eventuale, dei singoli fatti di reato. Trattasi, all’evidenza, di fatti storici del tutto autonomi ed eterogenei sotto il profilo della condotta, dei motivi a delinquere, rispetto ai quali non può, dunque, rinvenirsi alcun elemento sintomatico di collegamento psicologico. In tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato solo allorché essa integri ed esaurisca la condotta criminosa, nei casi in cui questa possa perfezionarsi anche con la sola interlocuzione oggetto di registrazione, mentre deve escludersi la natura di corpo del reato dell’intercettazione che costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o prova di un frammento del reato, portato a compimento con condotte ulteriori, rispetto alle quali la comunicazione assuma mero carattere descrittivo (Nel caso di specie le conversazioni costituivano solo prova di un frammento del reato, atteso che per potersi integrare la fattispecie di falso in atto pubblico è necessaria, quanto meno, la compilazione materiale del certificato medico contenente la diagnosi assunta come non veritiera).

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