Avvocati Giovanni Fioresta e Piero Funaro –
Modello di eccezione di incostituzionalità degli articoli 168-bis del codice penale, 550 del codice di procedura penale e 73, comma quinto, decreto del presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione degli articoli 3 e 27, comma terzo della costituzione.
È necessario premettere che l’istituto della messa alla prova prevede la possibilità per l’imputato di ottenere l’estinzione del reato, ponendo in essere condotte finalizzate all’eliminazione delle conseguenze del reato, risarcendo il danno ed effettuando lavori di pubblica utilità.
La messa alla prova dell’imputato può essere concessa solo ove il giudice ritenga possibile formulare una prognosi favorevole circa la futura astensione da parte dell’imputato dalla commissione di ulteriori reati e ancor prima non vi siano elementi per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale (art. 464-quater, comma 3 del codice di procedura penale).
La recente modifica intervenuta sul quinto comma dell’art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (di cui all’art. 4, comma terzo, decreto-legge 20 marzo 2023, n. 123, convertito dalla legge 13 novembre 2023, n. 159), che ha innalzato il limite massimo di pena previsto per detta ipotesi delittuosa – portandolo da quattro anni di reclusione a cinque anni -, tuttavia, impedisce all’imputato di accedere all’istituto della messa alla prova, in quanto l’art. 168-bis del codice penale lo consente per i soli reati punti con «pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria» oppure «per i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 del codice di procedura penale» ovvero per i delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero.
Come spesso accade negli ultimi anni, la iperproduzione di leggi, promulgate in fretta e senza le opportune analisi, lascia profondi buchi normativi, provocando gravissime disparità di trattamento anche evidenti, con conseguente necessità di attenzionare la Corte Costituzionale.
A seguito della citata modifica, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 DPR 309/90 è stato escluso dall’alveo dei delitti per i quali è possibile definire il giudizio con le forme della messa alla prova, a causa della mancata previsione (mediante rinvio ai criteri sopra menzionati) nel novero dei reati per i quali l’art. 168-bis del codice penale può trovare applicazione, essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti.
L’esclusione dall’applicazione dal detto istituto estintivo appare incostituzionale, in quanto – per i motivi meglio esplicitati nel prosieguo – comporta una disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe ovvero addirittura deteriori, oltre che a porsi in contrasto con la finalità rieducativa di cui all’art. 27 della Costituzione.
Si ritiene infatti che la disciplina risultante dal combinato disposto degli articoli 168-bis del codice penale – 550 del codice di procedura penale – 73, comma quinto, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 sia contraria ai principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione).
Quanto al principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, infatti, si evidenzia che la recente riforma introdotta con decreto legislativo n. 150 del 2022 aveva ampliato il novero dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova, tra l’altro inserendo alla lettera c) del secondo comma dell’art. 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) la fattispecie prevista dall’art. 82, primo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, proprio in materia di delitti concernenti le sostanze stupefacenti.
Il delitto previsto dal primo comma del citato art. 82 punisce la condotta di chi «pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo» con la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa.
Risulta di lampante evidenza l’identità dei beni tutelati dalle due fattispecie suindicate (quella di cui all’art. 73 comma V e 82), anche perché poste nella medesima disposizione legislativa, a soli 9 articoli di distanza.
Sotto altro profilo, colui il quale commetta il delitto ritenuto dal legislatore più grave, vale a dire quello di cui all’art. 82 dpr 309/90 alla luce della più elevata pena edittale, si troverà a godere del beneficio della messa alla prova, a differenza dei soggetti puniti per la condotta edittalmente più lieve commessa dopo l’entrata in vigore della riforma.
Ne discende l’evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie: benché aventi ad oggetto identico bene giuridico e nonostante lo stesso legislatore abbia ritenuto più grave il delitto di cui all’art. 82 decreto del Presidente della Repubblica citato, sanzionandolo con pena edittale maggiore, solo per quest’ultimo sarà possibile accedere all’istituto della messa alla prova.
Il citato irragionevole trattamento certamente è conseguenza del miope intervento legislativo volto, nell’ormai consueta ottica punitiva, a consentire l’irrogazione della custodia in carcere anche all’ipotesi lieve di cui in parola, senza considerare i risvolti applicativi delle ulteriori norme.
Prima della riforma del 2023 suindicata, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 rientrava nei casi di citazione diretta a giudizio, mentre a seguito della riforma esso è stato escluso, sia in ragione dei nuovi limiti edittali che per l’omessa indicazione nella disposizione procedurale.
Si tratta dunque di un effetto della riforma non immediatamente evidente, in quanto mero riflesso dell’aumento della pena edittale massima.
Tuttavia, quand’anche l’esclusione della fattispecie di cui si discute dal novero dei reati per i quali è prevista la citazione diretta del p.m. e dei reati per i quali è consentita la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato fosse frutto di una precisa e consapevole scelta del legislatore, si osserva che, a mente del principio di ragionevolezza e di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, tale scelta sarebbe ugualmente incostituzionale, in quanto si tratterebbe di una scelta arbitraria e non già discrezionale.
Non si intravvedono validi motivi, infatti, per cui il responsabile del più grave delitto di cui all’art. 82 T.U. Stupefacenti, ma anche il responsabile dei delitti di cui agli artt. 372, 374 bis II comma, 377 bis, 460, 467, 495, 495 ter, 588 II comma, 590 bis, 625 e 648 c.p., debba subire un trattamento più favorevole rispetto ad una fattispecie obiettivamente meno grave e, nella stragrande maggioranza dei casi, avente allarme sociale grandemente ridotto.
Basti pensare che la quasi totalità dei delitti indicati nel secondo comma dell’art. 550 c.p.p. presentano una previsione punitiva più elevata, in relazione al minimo edittale, mentre le fattispecie suindicate irrogano una pena massima che può arrivare agli 8 anni di reclusione nella ricettazione, ovvero ai 7 anni nel sinistro causato dall’assunzione di sostanze alcoliche/psicotrope.
L’attuale previsione legislativa comporta, in fatto, che un soggetto che causi un’invalidità totale ad altro soggetto a seguito di un sinistro causato dall’assunzione di stupefacenti sia ritenuto meritevole di estinguere il delitto prima della condanna, mentre tale trattamento è precluso per chi detenga semplicemente il medesimo stupefacente nella sua abitazione.
L’ingiustificata esclusione del reato previsto dall’art. 73, comma quinto, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 dall’istituto della messa alla prova dell’imputato comporta anche la violazione dell’art. 27 della Costituzione, in quanto contrasta con la finalità rieducativa della pena.
L’istituto di cui all’art. 168 bis c.p., infatti, è teso a rimuovere le conseguenze dannose del delitto e, al contempo, provare a recuperare l’imputato mediante lo svolgimento di attività in favore della collettività, anticipando quella funzione rieducativa della pena di rango costituzionale ad un momento precedente all’esecuzione, limitando così l’utilizzo delle strutture carcerarie.
Escludere il delitto in questione dalla messa alla prova contrasta pertanto con la finalità rieducativa suddetta, specie nei confronti dei soggetti che, magari per la prima volta, si trovano a giudizio per una condotta lieve da cui non possono sfuggire, se non in sede esecutiva e peraltro mediante modalità alternative al carcere, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali ovvero la detenzione domiciliare, certamente più afflittive di quelle previste dall’art. 168 bis c.p.
Sotto altro aspetto, la novella legislativa non si presta ad alcuna interpretazione estensiva, essendo preclusa al giudicante la facoltà di innalzare arbitrariamente i limiti edittali dell’istituto premiale al fine di ricomprendere l’ipotesi lieve in materia di stupefacenti; parimenti, non è possibile interpretare estensivamente l’art. 550 c.p.p., in quanto contenente un elenco tassativo di delitti.
In conclusione, si solleva la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 168-bis del codice penale, 550 del codice di procedura penale e 73, comma quinto, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione degli articoli 3 e 27, comma terzo della Costituzione, in particolare per il mancato inserimento alla lettera c) dell’art. 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) della fattispecie p. e p. dall’art. 73, comma quinto, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990.
*Osservatorio Corte Costituzionale della Camera penale di Catanzaro