Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* – 

Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior.

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione.

La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole.
La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato. 

Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato.

Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice.

Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale. 
Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p.

Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022.

Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità).
Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale.

Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen.

Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, c.p.p., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24, D.L.vo n. 150 del 2022, secondo il quale la condizione processuale che consente l’applicazione della premialità prevista dalla norma è rappresentata dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione.

In altri termini, si riconosceva alla disposizione in parola natura strettamente processuale e, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, la stessa sarebbe applicabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del D.L.vo n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente. In ogni caso, non può dissentirsi che lo scopo che la riforma vorrebbe perseguire è quello di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione del processo dopo la sentenza di primo grado, evitando così la fase delle impugnazioni quando, a seguito di sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, l’imputato e il difensore considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciare all’appello al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata.

Nondimeno, compresa la portata innovativa dell’ultima statuizione dalla Suprema Corte, l’effetto prodotto sembrerebbe ancora più incisivo e dirompente. E, dunque, non più solo la totale mancanza dell’impugnazione ma, a determinare l’effetto deflattivo perseguito dall’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., si inserisce anche la rinuncia all’impugnazione già proposta in epoca antecedente all’entrata in vigore della riforma introdotta con D. Lgs. n. 150/22, purchè ratificata entro l’udienza di discussione del proposto gravame, quale presupposto sufficiente per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma.

È doveroso evidenziare come la Suprema Corte, con la sentenza n. 4237/24, ha ribadito quanto desumibile dall’art. 7 della CEDU circa la necessaria applicazione retroattiva della legge più mite. Conseguentemente, è stato sgombrato il campo da ogni dubbio: nessun vulnus al principio di retroattività della lex mitior, corollario del principio di legalità ed applicabile alle sole disposizioni aventi natura sostanziale che definiscono i reati e le pene che li sanzionano e la cui applicazione risulta, d’altronde, preclusa ex art. 2, comma 4, c.p. allorquando sia già stata pronunziata sentenza divenuta definitiva.
La disciplina in esame nemmeno appare confliggere con i principi di uguaglianza ragionevolezza, dal momento che la diversità del trattamento sanzionatorio determinata dalla riduzione ex art. 442, comma 2-bis, c.p.p. trova causa nella diversità delle situazioni oggetto di regolazione ed essa non può essere recepita contra ius dal condannato che abbia inteso perseguire il medesimo obiettivo compiendo altre scelte processuali.
Il principio sancito dalla Corte di Cassazione con la pronuncia in oggetto aveva già trovato applicazione, in sede di merito, con la sentenza emessa dal Tribunale di Bologna, in funzione di giudice dell’esecuzione, in data 21 giugno 2023, che aveva applicato la riduzione di un sesto della pena inflitta a seguito di rinuncia all’appello.
Dopo aver evidenziato che l’istante aveva originariamente proposto appello contro la sentenza di condanna, per poi rinunciare al mezzo di impugnazione, ha affermato che «la modifica normativa ha l’evidente e dichiarato scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione del giudizio dopo la decisione di primo grado, cosi da non dare luogo alla fase delle impugnazioni».

Al pari della mancata impugnazione – si legge nella sentenza – «la rinuncia al mezzo di gravame realizza immediatamente la medesima finalità, ossia quella della deflazione processuale mediante l’arresto del processo al primo grado di giudizio». Il Tribunale ha osservato come «la giurisprudenza, anche di legittimità, che si e già pronunciata sulla nuova diminuente, non ha affatto escluso tale conclusione, pronunciandosi sui diversi casi della richiesta di restituzione nel termine per rinunciare all’appello, a fronte di un processo già pendente in Cassazione o della richiesta di restituzione nel termine per accedere al rito abbreviato formulata a dibattimento già aperto in un giudizio ordinario: in tali casi la richiesta è stata condivisibilmente respinta, perché la pendenza in Cassazione in un caso e l’inizio dell’istruttoria dibattimentale negli altri due casi, avevano già frustrato l’esigenza deflattiva».

In conclusione, a parere del Giudice di merito, «la nuova più favorevole disciplina ben può essere fatta valere, come nel caso oggetto dell’istanza, dall’imputato appellante avverso una sentenza di condanna di primo grado emessa all’esito di giudizio abbreviato che intenda ottenere quel beneficio rinunciando all’impugnazione avanzata prima della entrata in vigore del d.lgs. 150/22, perche in questo caso si realizza l’effettiva ratio della norma, ossia quella di risparmiare un ulteriore grado del processo concedendo il trattamento premiale all’imputato, ratio che verrebbe altrimenti frustrata dall’interpretazione opposta, che disincentiverebbe la rinuncia al mezzo di gravame»….]
Ha motivato al riguardo il Tribunale che la disciplina prevista dall’art. 442, co. 2 bis, c.p.p. è in definitiva astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 150/22, rammentando quanto precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 2977/92 oltre che con sentenza n. 18821/13, intervenute a dirimere un contrasto circa la natura dell’art. 442 c.p.p.
A mente di quest’ultima pronuncia, infatti, la norma in parola, sebbene inserita nel codice di rito, è una disposizione di diritto penale “materiale” che definisce non già la procedura di esecuzione della pena, ma la sua determinazione risultando, quindi, in linea con la definizione di legge penale ai sensi dell’art. 7 della Convenzione EDU. Pertanto, la norma de qua, di carattere processuale ma con chiari effetti sostanziali, necessita di essere letta in ossequio al principio di legalità convenzionale per come interpretato dalla Corte di Strasburgo: divieto di retroattività della previsione più severa e retroattività di quella più mite.

In conclusione, dunque, la soluzione adottata dalla Suprema Corte, con la sentenza del 31 gennaio scorso n. 4237/2024, appare pienamente condivisibile ed in linea con lo statuto di legalità convenzionale e costituzionale. Tuttavia, essendo la questione analizzata piuttosto complessa, qualora dovesse persistere il contrasto giurisprudenziale sopra segnalato, diverrebbe opportuno ed auspicabile l’intervento chiarificatore e regolatore delle Sezioni Unite.

*Componenti Osservatorio Riforma Cartabia della nostra CP

 

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