Nome dell'autore: camerapenale

ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA

di Manuel Curcio – Infatti, se da un lato il legislatore nazionale ha previsto la rilevanza codicistica delle condotte sostanziatesi negli illeciti di cui agli artt. 648bis (riciclaggio) e 648ter (autoriciclaggio) c.p., riconoscendo in tal senso una punibilità secondo i canoni tipici del diritto criminale, dall’altro versante, invece, soprattutto per via dei numerosi impulsi di matrice sovranazionale1, l’Italia si è dovuta munire di un sistema a carattere per lo più amministrativo con l’intento non soltanto di reprimere determinati comportamenti ma bensì di prevenirli, anticipando, quindi, la soglia di rilevanza della singola condotta. In particolare, mediante l’introduzione del D.lgs 321/2007, il legislatore ha voluto porre in essere un sistema di protezione dell’integrità dei sistemi economici e finanziari da ingerenze criminose, con una spiccata attenzione al fenomeno del riciclaggio2, soprattutto per quel che attiene il finanziamento del terrorismo. Volendolo definire genericamente, è stato instaurato un meccanismo di controllo e di verifica ex ante in modo tale che, determinate categorie di soggetti professionali e qualificati, considerati maggiormente a rischio per via dell’intrinseca natura dell’attività in concreto esperita, potessero sottostare ad un regime preventivo differenziato. I soggetti destinatari del D.lgs 231/2007 sono indicati dal Capo III del decreto e coinvolgono sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Soffermandoci maggiormente sulla categoria dei professionisti, l’art. 12 sancisce come debbano intendersi in tal senso: a) ragionieri, commercialisti, consulenti del lavoro e coloro i quali siano iscritti nell’albo dei periti commerciali; b) qualsiasi altro soggetto che renda i servizi forniti da periti, consulenti e altri individui che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi (da intendersi compresi  anche le associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e patronati); c) i notai e gli avvocati soltanto nel caso in cui, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare ovvero nell’ambito di assistenza nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; nonché la gestione di denaro, strumenti finanziari o di altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi; d) i prestatori di servizi relativi a società e trust, a esclusione dei soggetti rientranti nelle categorie poc’anzi esplicate. Rispetto ai suddetti soggetti, la legge impone una serie di obblighi volti alla verifica della clientela di riferimento. In tal senso il fine preventivo del decreto si manifesta nell’obbligo di esercizio di un’attività prodromica con la quale il legislatore delimita l’ambito di rischio di alcune operazioni economiche maggiormente esposte al pericolo di contaminazione criminosa. Parlando concretamente, si prevedono due macro categorie di adempimenti a carico dei professionisti, in primis, come già anticipato, l’art. 16 del D.lgs 231/2007 richiede l’adeguata verifica della clientela e dell’effettivo titolare del bene ovvero del servizio: a) qualora la prestazione professionale in questione abbia ad oggetto mezzi di pagamento, beni od utilità di valore pari o superiore a 000 euro; b) quando vengono eseguite prestazioni professionali occasionali consistenti nella trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che siano effettuate con un’operazione unica o con più operazioni che appaiono collegate o frazionate tra loro; c) tutte le volte che l’operazione sia di valore indeterminato o non determinabile. A tali fini, la costituzione, gestione o amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi integrano, a priori, un’operazione di valore non In ogni caso poi, la norma ad esame, come vera e propria clausola di chiusura, sancisce l’obbligo di adeguata verifica ogni qual volta vi sia un sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile; ovvero quando sorgano dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente ottenuti ai fini dell’identificazione di un cliente. Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica è disciplinato dall’art. 18 del D.lgs 231/2007, il quale dispone come il singolo professionista sia chiamato a svolgere: l’identificazione del cliente secondo parametri oggettivi e riconoscibili e quindi ricavabili sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo con annessa verifica circa l’identità del medesimo; l’ottenimento d’informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale; lo svolgimento di un controllo periodico e costante nel corso del rapporto continuativo o nello svolgimento della prestazione professionale. In questo contesto, l’ulteriore macro insieme di adempimenti relativi alla normativa sull’antiriciclaggio attiene ai profili di registrazione3 e segnalazione4 delle varie operazioni effettuate. Nel primo caso si impone al professionista una vera e propria rendicontazione intesa non soltanto con riguardo alle operazioni in quanto tali, ma bensì anche rispetto al proprio sistema di verifica all’epoca esperito rispetto quello specifico cliente; mentre, per quel che attiene le segnalazioni, il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione all’UIF (Unità di informazione finanziaria Italia) ovvero all’ordine professionale competente ogni qualvolta vi sia il dubbio o il ragionevole motivo di sospettare che siano in corso o che siano state compiute, o quantomeno tentate, operazioni di riciclaggio ovvero di finanziamento del terrorismo, o che comunque i fondi oggetto delle operazioni, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. In merito alle sanzioni, si sottolinea come l’art. 55 del D.lgs 231/2007 ha introdotto una serie di illeciti, sia di natura penale che meramente amministrativa, relazionati alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto in questione. Sul fronte del diritto penale, si segnala l’instaurazione di una nuova fattispecie di confisca all’interno del codice di rito5 e la tipizzazione di nuove condotte punibili finanche con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa compresa tra i 10.000 euro ed i 30.000 euro. Infine, sul versante amministrativo, la mano del legislatore non sembra essere stata particolarmente leggera, prevedendo sanzioni pecuniarie fino alla cifra di 300.000 euro.   1-Cfr. direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE. 2-Per quanto attiene la

ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA Leggi tutto »

Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo

Silia Gardini* e Crescenzio Santuori** – La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato negli ultimi decenni una rilevanza sempre più ampia per il diritto amministrativo. In questo contesto, il pericolo di inquinamento criminoso è fronteggiato dal legislatore attraverso la predisposizione di un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “all’origine” i contatti della Pubblica amministrazione con soggetti ritenuti potenzialmente sensibili a infiltrazioni mafiose, anche indirette. L’articolo 84, comma 1, del Codice Antimafia, D. lgs. n. 159/2011 – con l’intento di realizzare la massima anticipazione della soglia di tutela – attribuisce al Prefetto competenza al rilascio di provvedimenti amministrativi di natura cautelare e preventiva, che determinano in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la p.a. (e non solo): la comunicazione antimafia e l’informazione (o informativa) antimafia. Entrambi i provvedimenti hanno l’obiettivo di evidenziare alla Pubblica Amministrazione situazioni ostative al rilascio di atti o alla stipula contratti; il loro contenuto è, invece, significativamente differente. Se la comunicazione ha contenuto vincolato e funzione accertativa di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto indicate dall’art. 67 dello stesso Codice antimafia (applicazione di una misura di prevenzione personale, di una condanna con sentenza definiva o confermata in grado di appello, per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), l’informativa presenta un contenuto più complesso, poiché è volta a certificare – oltre a quanto già previsto in tema di comunicazione – anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, capaci di condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese interessate. Quel che caratterizza spiccatamente le informative – e rende problematico il contesto applicativo dell’istituto – è il fatto che esse si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si traduce nell’amplissima discrezionalità riconosciuta alle Prefetture in merito a questioni fisiologicamente opinabili, attinenti all’apprezzamento, attraverso elementi sintomatici e indiziari, di un rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento di una effettiva sussistenza di eventi o responsabilità. La valutazione amministrativa, in questi casi, è condotta attraverso un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio” (tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza (sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti: il Codice antimafia ne tipizza alcuni, ma non vincola l’amministrazione nella valutazione), sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. In altre parole, l’informativa antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Il quadro risulta ancor più problematico se si considera che i procedimenti amministrativi in materia – in quanto preordinati all’emanazione di “atti necessitati”, per i quali l’urgenza di agire giustifica modificazioni strutturali derivate ai fini della tutela dell’interesse pubblico – risultano slegati dal puntuale rispetto delle garanzie procedimentali, partecipative e motivazionali previste in via generale dall’ordinamento. A fronte di un fondamento essenzialmente probabilistico, gli effetti prodotti dall’istituto in capo agli operatori economici possono essere molto invasivi, al punto da indurre qualcuno a parlare a più riprese di “ergastolo imprenditoriale”. Al di là dell’espressione che si intenda utilizzare, è innegabile che la tendenza del sistema, nel difficile e complesso bilanciamento tra l’interesse pubblico e i diritti privati su cui il potere interdittivo incide, sia quella di massimizzare oltremodo la “ragion pubblica” a discapito delle imprese e delle loro prerogative costituzionalmente garantite. Tale impostazione, al netto delle nobili intenzioni del legislatore, finisce spesso per determinare effetti gravemente distorsivi, anche sul mercato e anche in capo a operatori economici (successivamente riconosciuti) virtuosi. L’informazione interdittiva antimafia, infatti, malgrado la sua formale natura provvisoria, produce sempre effetti irreparabili e definitivi sull’impresa che ne è destinataria, salvo che si riesca ad ottenere in sede giudiziaria un provvedimento sospensivo ovvero il “passaggio” allo strumento del controllo giudiziario. Ciò perché l’operatore interdetto non ha “soltanto” preclusa la possibilità di partecipare alle procedure di gara e di sottoscrivere contratti pubblici, ma si vede di fatto negato l’avvio di qualsivoglia attività economica. Il che lo espone facilmente a dissesto o fallimento, anche laddove all’esito di giudizi amministrativi e penali eventualmente avviati a propria difesa, il contestato rischio di infiltrazione mafiosa dovesse poi rivelarsi insussistente o, quantomeno, evitabile attraverso la sottoposizione a misure meno radicali e meno invasive.  Appare, dunque, evidente che – ferme restando le primarie e imprescindibili esigenze di tutela sottese alla lotta alla criminalità organizzata – l’istituto dell’informativa antimafia necessiti di essere circondato da maggiori cautele. Le distorsioni che emergono dalla prassi applicativa andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria. In questa direzione, sia pure a fronte di alcune recenti e apprezzabili aperture da parte della giurisprudenza amministrativa (in particolare in tema di istruttoria e contraddittorio procedimentale), la strada da percorrere appare ancora lunga e tortuosa. E, nelle more, le imprese muoiono.   * Avvocato amministrativista e Ricercatrice di Diritto amministrativo ** Avvocato amministrativista

Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo Leggi tutto »

Interdittive e controllo di azienda l’arretramento schiacciante della linea di tutela

di Francesco Iacopino e Giuseppe Belcastro –  Nel 2019 i penalisti italiani e buona parte dell’accademia, preso atto del “lungo processo degenerativo dei fondamentali dello Stato di diritto e (del)la conseguente crisi del garantismo penale”, accentuata dalla inarrestabile deriva giustizialista, hanno inteso lanciare un “grido di allarme” licenziando il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. In quel pamphlet, i punti 34 e 35 sono stati specificamente dedicati alle misure di prevenzione. Misure “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti” – si legge al punto 34 – (poveri, oziosi, vagabondi) e diventate, col tempo, “un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”. Chi conosce i meccanismi di funzionamento di queste misure del sospetto, fondate su fattispecie di pericolosità dai contorni indefiniti, destinati a sbiadirsi ancor di più nelle fasi di accertamento giudiziale, sa bene che esse, seppur notoriamente estranee ai principii e al corredo assiologico sul quale è edificato il nostro patto sociale, sono storicamente basate su un presupposto indefettibile: la pericolosità concreta del proposto, non più necessariamente attuale, ma quantomeno manifestatasi in una determinata forbice temporale, sì da giustificare “in differita” l’ablazione patrimoniale dell’accumulo illecito di ricchezza.  In altri termini, nel bilanciamento degli interessi in campo, la tutela dei diritti individuali cede significativamente il passo alle esigenze di sicurezza sociale, stimandosi prevalente il controllo sociale ed economico del soggetto (ritenuto) pericoloso rispetto al livello di garanzie proprie di un sistema liberale di cui lo stesso è (rectius: dovrebbe essere) portatore. In questo quadro generale, si inserisce il “sotto-sistema” normativo che ruota intorno alle c.d. interdittive antimafia e al controllo giudiziario delle aziende. Il legislatore ha esteso le maglie della prevenzione, rivolgendo l’attenzione anche agli imprenditori sani con lo scopo di proteggerli – questo nelle intenzioni – dai tentativi di infiltrazione mafiosa e di sostenerli, in ipotesi di contaminazione occasionale, nel processo di disinquinamento. Nella prassi applicativa, però, questo complesso sistema, pur ispirato in astratto a una logica aziendalistica, continua a presentare forti criticità, traducendosi troppo spesso in uno strumento di isolamento delle aziende lecite e di desertificazione dell’economia legale. L’imprenditore sano può essere destinatario di una informazione interdittiva, con tutto ciò che essa comporta in termini di incapacitazione a contrarre con la Pubblica amministrazione, per il solo “rischio” (letteralmente “eventuali tentativi”) di infiltrazione mafiosa, seppur non ancora concretizzatosi. A ciò si aggiunga che la valutazione del rischio e il potere di interdire sono affidati al Prefetto, al quale il Codice antimafia accorda margini di discrezionalità così ampi da determinare una sostanziale inutilità delle impugnazioni davanti al Giudice amministrativo, complice anche un criterio probabilistico di valutazione – quello del “più probabile che non” – che nei fatti sterilizza ogni tentativo di difesa. All’imprenditore interdetto, per sospendere gli effetti dell’interdittiva, non resta che “consegnarsi” al giudice della prevenzione e presentare domanda di controllo giudiziario. Ma è qui che si realizza il paradosso. Interdittive antimafia e controllo giudiziario operano su piani diversi e si nutrono di presupposti differenti. Per applicare la prima è sufficiente il solo rischio di infiltrazione mafiosa, per ottenere il secondo è necessario, almeno seguendo la lettera della legge, una agevolazione occasionale dell’associazione mafiosa. Nella prassi si è formato un orientamento giurisprudenziale che, adagiandosi rigidamente su un criterio letterale, non concede all’imprenditore interdetto il controllo giudiziario se non è accertata previamente l’agevolazione occasionale, difettando altrimenti il formale presupposto normativo. Ecco l’assurdo: all’imprenditore contagiato che abbia occasionalmente agevolato la criminalità organizzata (si pensi all’assunzione di un lavoratore controindicato o a una fornitura equivoca) si concede il controllo nominato dal Tribunale e di rimanere sul mercato, seppur vigilato dal controllore giudiziario. All’imprenditore che, invece, sia solo a “rischio” (magari perché riuscito a resistere al) contagio, si nega il controllo giudiziario per mancanza del presupposto dell’agevolazione occasionale. Insomma: chi è più sano rimane interdetto dallo Stato ed è destinato a morire, chi è contagiato entra nel circuito terapeutico della prevenzione e può salvarsi. Una autentica eterogenesi dei fini, frutto del profondo “divario” – per dirla con Norberto Bobbio – “tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere”, tra “effettività” e “normatività”, law in the book e law in action. Un sistema così, non solo si rivela incapace di generare alleanza tra lo Stato e il mondo sano dell’imprenditoria, nella lotta al crimine, ma genera la desertificazione dell’economia legale finendo paradossalmente per aprire spazi di mercato proprio a quelle realtà criminali che pretende di combattere. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

Interdittive e controllo di azienda l’arretramento schiacciante della linea di tutela Leggi tutto »

LA PRESCRIZIONE. TRA LA RIFORMA ORLANDO E LA NUOVA RIFORMA CARTABIA

Redatto da Sara Spanò Ernesto Ruggiero e Mariada Megna –   LA NORMA L’articolo 157 c.p. prevede: “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 c.p. e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375 terzo comma, 449 e 589, secondo e terzo comma, e 589 bis, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all’articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609 bis,609 quater, 609 quinquies e 609 octies salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609 bis ovvero dal quarto comma dell’articolo 609 quater. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti”. RATIO LEGIS L’istituto della prescrizione trova la propria ratio nel cosiddetto principio di economia dei sistemi giudiziari, nonché nell’esigenza di garantire un effettivo diritto di difesa all’imputato. Infatti, la prescrizione è considerata la più importante causa di estinzione del reato, in quanto strettamente correlata al decorso del tempo atto ad affievolire la necessità e l’interesse in capo allo Stato di punire penalmente un fatto previsto dalla legge come reato. Al contempo poi, in linea con quanto previsto in materia di equo processo dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, viene considerata rilevante la durata non troppo eccessiva del processo, così che la prescrizione rappresenta lo strumento per evitare abusi da parte del sistema giudiziario. Ne discende, quindi, che maggiore è il tempo impiegato per reprimere le condotte antigiuridiche, minore sarà l’esigenza di una tutela penale, nel pieno rispetto della concezione rieducativa della pena. COME SI CALCOLA LA PRESCRIZIONE? Per calcolare il tempo necessario ai fini della prescrizione di un dato reato si deve fare riferimento al massimo della pena edittale prevista a norma del Codice Penale. In relazione a quanto detto, è opportuno fare una distinzione: per i delitti il termine minimo di prescrizione è di sei anni, invece, per le contravvenzioni il termine minimo è di quattro anni. I reati puniti con l’ergastolo non sono suscettibili di prescrizione e inoltre, il termine massimo di sei anni viene raddoppiato nel caso di alcuni delitti considerati gravi dall’ordinamento ed elencati nel comma 6 dell’art 157 c.p. Come ad esempio, il reato di violenza sessuale o di maltrattamenti in famiglia il termine massimo di prescrizione viene raddoppiato. Ad ogni modo, per comprendere al meglio tale calcolo, a titolo esemplificativo, si può fare riferimento al reato di furto, previsto ai sensi dell’art. 624 c.p. In tal caso, al primo comma, viene previsto “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 154 euro a 516 euro”. Ebbene, innanzitutto, si parla di un delitto, ove è prevista una reclusione da sei mesi a tre anni. A mente di ciò, come precedentemente accennato, in caso di delitti, il termine minimo di prescrizione – nonostante il massimo della pena edittale prevista a norma dell’art. 624 c.p. è di tre anni – deve essere considerato nella misura di sei anni e pertanto la prescrizione massima per il reato di furto sarà sei anni e non tre anni. Tuttavia, possono verificarsi degli atti interruttivi suscettibili di far ripartire la decorrenza del termine di prescrizione che, in ogni caso, non può superare la soglia massima pari ad un ¼ del periodo prescrizionale. Chiaro è che non vi possono essere infiniti atti interruttivi, altrimenti il reato non andrebbe mai in prescrizione. Nel caso in cui, invece, siano presenti delle circostanze attenuanti ovvero circostanze aggravanti, di queste non si deve tenere assolutamente conto, a meno che non vi siano delle circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale. TABELLA ESEMPLIFICATIVA DEI TEMPI NECESSARI AL CALCOLO DELLA PRESCRIZIONE RELATIVAMENTE AL DELITTO DI FURTO ED ALLE SUE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI. REATO PRESCRIZIONE ORDINARIA PRESCRIZIONE MASSIMA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA AGGRAVATA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA REITERATA PRESCRIZIONE MASSIMA PER DELIQUENTI ABITUALI E PROFESSIONALI Art.624 c.p. (furto) 6 anni 7 anni e 6 mesi 9 anni 10 anni 12 anni Art.624-bis c.p. (furto in abitazione e furto con strappo) 7 anni 8 anni e 9 mesi 15 anni e 9 mesi 17 anni e 6 mesi 14 anni Art.625 c.p. (circostanze aggravanti) 6 anni 7 anni e 6 mesi 13 anni e 6 mesi 15 anni 12 anni Art.625-bis c.p.(Circostanze attenuanti) La norma non prevede un fatto reato La norma non prevede

LA PRESCRIZIONE. TRA LA RIFORMA ORLANDO E LA NUOVA RIFORMA CARTABIA Leggi tutto »

NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO: DANILO DOLCI E IL DIRITTO

di Domenico Bilotti – Il 28 giugno Danilo Dolci avrebbe potuto compiere cento anni. Sociologo, attivista e poeta, amante della Sicilia borghigiana, interna, sofferente, si sarebbe mal volentieri sottoposto a quel rito dei compleanni per centenari, con foto e taglio della torta. Avrebbe accettato solo per la sua gente: lui interiormente cosmopolita si era affezionato alla dignità della causa popolare. Ne era stato adottato, più che averla adottata lui stesso – o, almeno, così soleva dire. Danilo Dolci (1924-1997) è stato una delle voci più interessanti della lirica italiana nel secondo Novecento, ma è stato anche un formidabile analista nel metodo sociale: all’inizio degli anni Sessanta era in fondo l’unica contronarrazione possibile all’immagine in vespa e televisione del boom. Analizzava la depressione economica associandola soprattutto a sistemi di sperpero pubblico; riteneva le procedure al tempo vigenti incapaci di incontrare i nuovi bisogni individuali e collettivi; metteva in questione il rapporto tra cittadino e amministrazione non solo in un attento discorso teorico antiautoritario, ma anche nel concreto del welfare e nelle asimmetrie tipiche del contenzioso tra sottoposti e potere dello Stato. Forse, dovrebbe bastarci già questo per ricordarlo nella sua rettitudine, nella sua freschezza creativa, nella sua attenzione al giuridico da non giurista. Per ben altre cose, invece, la sua memoria meriterebbe il lustro di massa che al momento non ha ancora conseguito. Innanzitutto, Danilo Dolci fu uno dei più esposti teorici e pratici della nonviolenza. Non mancavano le figure che approdarono alla nonviolenza, sia pure da tutt’altro percorso: c’era il libertario Pannella, che vi giungeva dalla estrema sinistra liberale; c’era Lanza Del Vasto, che univa antropologia, ricerca storica, buddhismo e cristianesimo. C’era soprattutto Aldo Capitini, che tentava in modo originale di mescolare socialismo democratico, cooperazione internazionale e critica al diritto – in modo più generoso persino del grande teologo tedesco Karl Rahner, cui si ispira soprattutto nei primi anni Sessanta. Danilo Dolci ha forse in più, rispetto a questi grandi personaggi, una brillantezza di intuito che si potrebbe definire “geniale”. Innanzitutto, il Sud Italia, soprattutto Calabria e Sicilia, era davvero negli anni Cinquanta l’Africa in casa: analfabetismo ancora elevato, mortalità infantile a livelli che nella vicina Francia erano stati abbattuti da circa un secolo, decessi per malnutrizione! Nel Palermitano, organizza così uno sciopero della fame a staffetta nel letto di Benedetto Barretta, un bambino, appunto, morto di fame. Vista poi la legislazione in materia di scioperi e sindacati, arretratissima e punitiva, incapace di attuare la costituzione, negli stessi anni utilizza il metodo dello “sciopero al rovescio”. Se nell’Italia dei Cinquanta e Sessanta lo sciopero è ostracizzato, represso, sanzionato, vietato, se le norme ancora non ci sono e i rapporti sociali stanno cambiando in direzione delle libertà, è pur sempre vero che lo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori consiste nell’astensione dalle prestazioni. E lui organizza lo sciopero dei disoccupati: ottocento disoccupati si mettono a sistemare una strada pubblica. Vogliono il diritto al reddito, alla retribuzione, al lavoro, alla sopravvivenza. Magno scandalo: Danilo Dolci è arrestato per resistenza e oltraggio. Lo ricordiamo con l’appassionata difesa di Piero Calamandrei, scritta forse più col cuore che col codice, ma non priva (come al solito!) di cristallini momenti di dogmatica giuridica applicata alla sede giudiziaria. Primo tra tutti: la denuncia del finto formalismo dei proibizionisti e dei giustizialisti, che non conoscono le norme e i principi e non sanno farli valere nel tempo in cui essi vanno attuati. La forma esiste se è garanzia, l’equità occorre se è trasformazione. Lo “sloveno nato italiano” (nacque in terra di confine, in anni in cui la questione era tema sociale e politico forte) si scelse infine un ultimo e primo nemico: la mafia. La mafia dell’abbrutimento, del sacco edilizio, della mancanza di scolarizzazione. Vedeva approssimarsi un ottimo alleato di quella mafia: l’antimafia professionale, l’antimafia della decisione politica urlata, l’antimafia che sottobanco pronuncia il famigerato: “così fan tutti”. Aveva ragione. Come con lui, Calamandrei. Buon compleanno Danilo Dolci, spirito antico di un tempo nuovo, ancora mai arrivato.   

NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO: DANILO DOLCI E IL DIRITTO Leggi tutto »

Non c’è più tempo: ora, basta!

I penalisti chiedono l’intervento della Consulta: illegalità e disumanità nelle carceri impongono il rinvio dell’esecuzione della pena. di Veronica Manca* – “Non c’è più tempo” è il refrain principale di tutte le iniziative targate Unione delle Camere Penali Italiane dall’inizio del 2024 a oggi in materia di carcere: una tra tutte le “maratone oratorie” sui territori, voluta fortemente dalla Giunta e da Osservatorio carcere e che ha trovato il suo avvio proprio dalla Camera Penale di Catanzaro, lo scorso 29 maggio. Che non ci sia più tempo per ignorare la drammatica situazione delle carceri è qualcosa di così lampante da meravigliarsi che nulla sia ancora cambiato: sono ormai 40 le vite spezzate per suicidio, con modalità esecutive atroci e tutte per impiccagioni. Una strage di Stato: un suicidio ogni tre giorni e non solo da parte dei detenuti, perché l’intollerabilità del sistema schiaccia anche le vite umane degli operatori, con più di 3 suicidi da parte di agenti della polizia penitenziaria. In breve: secondo i dati forniti dal DAP, al 31 maggio 2024, i detenuti presenti nelle carceri sono 61.547 rispetto ad una capienza regolamentare “ufficiale” di 51.241 posti disponibili su 189 strutture. Del numero complessivo, 15.609 sono persone ristrette a titolo di custodia cautelare, con 9.382 in attesa del primo giudizio, mentre 6.227 sono condannati non definitivi (un 26% del totale). Da marzo ad aprile, in un solo mese, si è registrato un aumento della popolazione carceraria di 248 unità e si sono registrati ben 12 suicidi (con un ultimo suicidio avvenuto oggi, mentre sto scrivendo, presso il carcere di Ferrara: un collaboratore di giustizia, di 56 anni). Da aprile a maggio la crescita è continuata tanto che in questi ultimi tre mesi si sono avuti più di 500 nuovi ingressi e altri. Ad oggi sono 40 i suicidi, con un suicidio avvenuto presso il CPR di Roma. La fotografia che ne esce è di una bruttezza senza precedenti: per questo, tra le numerose azioni intraprese, la Giunta, con l’Osservatorio carcere ha offerto a tutti i penalisti una riflessione sulla criticità delle norme che governano l’esecuzione della pena, ritenendo, che, ove ce ne siano i presupposti, sia doveroso investire anche la Consulta per censuare l’illegalità con cui oggi si sconta la pena detentiva, in condizioni, appunto, disumane e senza il rispetto della dignità umana (il documento, con la nota accompagnatoria, è consultabile sul sito www.camerepenali.it). Si tratta di un ragionamento complesso diretto principalmente agli avvocati, ma che può essere colto in tal senso anche dalla magistratura di sorveglianza. Le norme censurate sono gli artt. 146 e 147 del codice penale, con cui si prevedono dei meccanismi di sospensione della pena: tra questi, non è compresa la possibilità di rinviare la pena in tutti quei casi in cui non sia possibile garantire standard di sicurezza e di esecuzione della pena conforme a Costituzione. È evidente che il sovraffollamento, il numero elevato di suicidi, la mancanza di risorse materiali e di personale e l’assenza, quanto meno ad oggi, di una riforma organica deflativa in materia penitenziaria rendono il sistema una bomba ad orologeria, prossima all’esplosione e il prezzo di vite umane da pagare è troppo alto per restare fermi in attesa del legislatore. Si chiede in altri termini che venga sollevata una questione di legittimità costituzionale degli artt. 146 e 147 c.p. e/o di uno di essi, a seconda della scelta argomentativa prescelta, nella misura in cui tali norme non consentono la sospensione dell’esecuzione della pena se scontata in condizioni disumane. La scelta della norma da censurare varia a seconda della forza argomentativa posta sulla centralità del concetto di dignità: se parametrato all’art. 146 c.p. è perché si sostiene, come è corretto, che la dignità non è bilanciabile con altri interessi e a fronte di una condizione di illegalità diffusa e sistemica non può residuare un margine di discrezionalità in capo al magistrato. Secondo tale impostazione è possibile immaginare anche nel nostro ordinamento un sistema detentivo basato sul c.d. “numero chiuso”, proprio e tipico dei Paesi del Nord oppure, anche se per via giurisprudenziale, di alcuni Stati membri degli Stati Uniti d’America, come per la California: al raggiungimento della capienza massima regolamentare scatterebbe l’obbligo di sospendere la pena. Seguendo, invece, l’altra norma di cui all’art. 147 c.p. si pone l’accento sul fatto che, per quanto il giudizio possa dirsi oggettivo, sia sempre e comunque necessario l’intervento del giudice il quale è chiamato a valutare anche i diversi profili soggettivi o altre soluzioni alternative. Secondo, quindi, un ragionamento altrettanto corretto, ma più equilibrato e rispondente a esigenze di bilanciamento, si attribuisce in ogni caso la scelta finale al magistrato di sorveglianza che, pur in una valutazione discrezionale, dovrà valutare criteri oggettivi inerenti, ad esempio, le condizioni della struttura, delle sezioni, delle celle, delle attività di trattamento, dello spazio per il pernottamento, delle condizioni igieniche, ecc., secondo quanto peraltro, previsto a livello generale dalla Corte europea nel caso Muršić c. Croazia. In entrambi i casi, si chiede alla Consulta di intervenire sulle norme, quali strumenti a chiusura di un sistema detentivo che dovrebbe operare nelle condizioni fisiologiche, mentre per i casi di patologia, come quelli di un sovraffollamento esasperante, con norme a carattere straordinario. In entrambi i casi, inoltre, i principi della Costituzione interessati sono quelli dell’art. 3, 13, co. 3 e 4, 27, co. 3, 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU. La via delle riforme è senza dubbio quella più auspicata e anche tale documento può contribuire a dare nuova linfa al dibattito fornendo al legislatore delle proposte che, in altri Paesi, vicini a noi, come la Francia o la Spagna sono diventate realtà: la Francia, che soffre, in egual misura di sovraffollamento, prevede la possibilità di rinviare, a determinate condizioni, l’esecuzione in tutti quei casi di superamento del limite massimo di detenuti e sulla base di un vaglio giurisdizionale. È vero che la questione, da noi, era già stata esaminata dalla Consulta, con sent. n. 279/2013, ma è altrettanto vero che oggi le carceri italiane

Non c’è più tempo: ora, basta! Leggi tutto »

Il diritto giurisprudenziale e i problemi del fine-vita

  di Antonio Baudi –  Introduzione sul tema della vita umana Nella complessa categoria della materia vivente la vita umana occupa una collocazione privilegiata, sistematicamente superiore a quella degli organismi del mondo vegetale e animale. In tale contesto la vita umana si presenta fenomenicamente come un dato di fatto, un esistere ricompreso tra un inizio (la nascita) e una fine (la morte). Nel contempo la vita è in sé anche un valore, anzi un valore fondamentale, perché la vita sorregge ogni altro interesse e ogni altro specifico valore, i quali, in assenza di vita, non potrebbero nemmeno configurarsi. Nella dimensione valoriale la vita umana si abbina alla dignità, la quale, essenzialmente intesa come rispetto connaturato, è ormai esplicitamente esaltata in ogni livello culturale. Quanto al tema che interessa, il fine-vita coincide banalmente con la morte, accadimento che occorre definire concettualmente nel suo profilo fattuale e, nello specifico, in quanto evento provocato da una causa umana, estranea, operante dall’esterno all’insaputa del destinatario, oppure intranea, perché cooperativa, materialmente o psichicamente, della altrui morte. In effetti si tratta di evento che più di ogni altro compromette l’esistenza umana dal momento che la morte ne determina la radicale cessazione. Il concetto di morte sembra ovvio: si muore quando cessa la vita. Eppure il concetto è dibattuto a livello scientifico e la stessa dottrina giuridica si pone il problema della precisa individuazione del tempo di accadimento. L’interesse specifico deriva dalla emergenza di situazioni in cui necessita individuarne il momento a partire dal quale sia possibile ritenere un soggetto sia morto e quando invece sia da considerare ancora in vita. La demarcazione è rilevante, anzi ai nostri fini è di portata fondamentale. Ove il soggetto fosse ancora in vita l’omicidio non potrebbe definirsi consumato e potrebbe porsi il problema legato alla liceità dell’eutanasia che, come è noto, riguarda solo il caso in cui un soggetto sia da considerare ancora in vita. L’individuazione del momento della morte assume un ulteriore rilievo in ambito sanitario, come si evince dalle più comuni regole deontologiche e dalla stessa previsione di cui all’art. 32 della Costituzione. Infatti, il dovere del medico di curare viene meno solo nel momento in cui si verifica la morte, poiché, qualora si perseverasse nel praticare cure nonostante l’intervenuto decesso, saremmo in presenza di un trattamento terapeutico inutile e sproporzionato rispetto ai prevedibili risultati, dunque contrario ai principi deontologici che vietano l’accanimento terapeutico. Prima che venissero alla luce le moderne tecniche di rianimazione, la morte veniva generalmente considerata come cessazione delle funzioni cardiache, respiratorie e nervose, dandosi così rilevanza all’aspetto meccanico (biologico) della vita piuttosto che al profilo psichico, della coscienza umana. La diversa prospettiva è stata discussa in senso critico anche dal Comitato italiano per la Bioetica, secondo cui riferire il momento della morte alla cessazione dell’attività della coscienza determina numerose incertezze; in particolare, secondo il Comitato, l’idea che la morte debba essere legata alla coscienza dell’uomo risulterebbe ambigua perché non sussistono criteri obiettivi in grado di stabilire la sicura cessazione della coscienza stessa. Le riferite impostazioni teoriche sul concetto di esistenza e, di conseguenza, il problema della esatta individuazione del tempo di morte connesso con quello sulla nozione di morte vanno confrontate con la presa di posizione del legislatore, che, a differenza di quanto accade per l’eutanasia, di cui non esiste né una definizione normativa né una regolamentazione specifica, ne ha definito in maniera precisa il confine. La disposizione, elaborata dal legislatore con riferimento ai trapianti di organi, fu subito indicata come un modello di autorevolezza scientifica, tanto che la sua ratio è stata poi trasfusa nell’art. 1 della legge 29 dicembre 1993, n. 578, ai sensi del quale “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”, quindi intesa come morte celebrale. L’identificazione normativa del concetto di morte, oltre a fornire un elemento di certezza giuridica, assume portata generale. La morte, dunque, è oggi identificata, sotto il profilo giuridico, nel momento della cessazione delle attività del sistema nervoso centrale, anche se dovessero essere ancora attive, con l’ausilio di particolari macchinari, le funzioni di altri organi.   L’imperativo di non uccidere Uccidere è verbo complesso perché, come tante altre denominazioni normative, si riferisce a due evenienze diverse: comprende da un lato il risultato, identificato nell’evento cagionato, la morte, e comprende dall’altro lato il comportamento, l’atto che ha causato la morte; con una necessaria precisazione, sia rispetto all’evento, che interessa in quanto riguardante la morte altrui, sia rispetto alla causa, perché interessa in quanto atto commesso da un essere umano. Uccidere è vietato ed il divieto fonda l’enunciato “non uccidere”, imperativo categorico negativo. Non uccidere è una regola di varia genesi. La regola ha matrice religiosa, ed in tali termini è formulato categoricamente il quinto comandamento del cristianesimo. La regola ha matrice etica, ed è condiviso in via generale che sia un male assoluto uccidere. La regola ha matrice giuridica: nello specifico il nostro codice penale punisce come il più odioso e grave dei delitti l’omicidio commesso da condotta umana e punisce il fatto sotto diversi e tipizzati profili di colpevolezza a seconda che l’evento morte sia cagionato intenzionalmente, oppure sia colposo, preterintenzionale (o commesso altrimenti, secondo inquadramento ormai superato). La diversa natura della regola, se religiosa etica o giuridica, si chiarisce meglio convertendo l’imperativo categorico in forma ipotetica. L’uccisione dal punto di vista religioso è un peccato mortale e l’autore merita l’inferno, quando sarà. L’uccisione dal punto di vista etico comporta la disistima morale e sociale: l’autore è un reprobo. La condotta omicidiaria dal punto di vista giuridico espone l’autore al processo e costui, ove se ne accerti la colpevolezza, merita una condanna a lunga pena reclusiva carceraria, se non addirittura, in casi aggravati, all’ergastolo. E’ dunque pacifico ed indiscusso che la vita altrui non sia disponibile. Per la verità la regola non è assoluta, vigente inderogabilmente in ogni tempo ed in ogni luogo. Basterebbe pensare all’uccisione del nemico in tempo di guerra o alla pena di morte quale sanzione penale: si noti in proposito che la pena di morte

Il diritto giurisprudenziale e i problemi del fine-vita Leggi tutto »

UNA PIOGGIA DI SUICIDI IN CARCERE E UN SILENZIO SENZA DIGNITÀ

In questi giorni, ma possiamo ben dire in queste ore, si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari. Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto… L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Allignato su scarti, debolezze, ipocrisie. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Gli orologi, infatti, servono per misurare il tempo che ci separa dalla prossima morte tra le sbarre. Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura  l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese. Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare (un tempo era da intendersi quale carcerazione preventiva e tale, purtroppo, è rimasta). Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio. Presso i lavori preparatorii della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria (quando ogni altra misura risultasse inidonea). Ebbene, questa regola civile viene ignorata, derisa, vilipesa, da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio. Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante (dunque con un giudizio prognostico positivo); che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati (agli arresti domestici) con un braccialetto elettronico… Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò. Egli “DEVE” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti. Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità. Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici, assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’ iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie. Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Una edilizia da ripensare tout court.  Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici (spesso tardivi) soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso. Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la frustrazione, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e con i difensori andrebbero rafforzate e disciplinate con prospettive moderne e recuperative. L’orizzonte politico, su tutto ciò, è muto; incapace di esprimersi, a meno che non sia coinvolto.  Una sola cosa è certa;  l’uomo entrò in custodia presso lo Stato ma ne uscì fuori (da una custodia). Morto. Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature; e ciò per ogni singolo suicidio. Che si metta mano, finalmente, ad un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione. Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e quelli sociali.  L’orologio continua a ticchettare; è il solo rumore percepibile; perché il silenzio di chi dovrebbe dire è assoluto; è il silenzio ipocrita di chi dovrebbe parlare, forte e chiaro, affinché ogni uomo sia giustamente rispettato e non già gettato via come un rifiuto. Ebbene, questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile.   Dobbiamo ricordare che il tema dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti Italiani 2024 faceva espresso riferimento alla odierna scottante tematica. Il 20 marzo l’astensione nazionale indetta dall’UCPI comprende tutto ciò e vuole fare uscire dall’ombra quel carcere oscuro di cui oggi parliamo con amarezza e contestuali propositi di impegno. Da domani, fino alla prossima notte dei tempi. Se non verrà scongiurata.   Catania, marzo 2024 A cura del Direttivo della Camera Penale di Catania “Serafino Famà”

UNA PIOGGIA DI SUICIDI IN CARCERE E UN SILENZIO SENZA DIGNITÀ Leggi tutto »

Avvocati democratici e separazione delle carriere: quale risorgimento?

di Alessandro Brùstia* – In un articolo recentemente apparso sul quotidiano La Stampa, Donatella Stasio, voce importante e autorevole del panorama giustizia (è stata a lungo responsabile dell’ufficio stampa della Corte Costituzionale), ha preso netta posizione contro la separazione delle carriere dei magistrati, paventando una deriva autoritaria connaturata – a suo dire – alla riforma. Non solo, la prestigiosa giornalista ha invocato anche una sorta di Risorgimento degli “avvocati democratici”, qualsiasi cosa voglia dire, chiedendo loro di contrapporsi ai penalisti dell’Unione Camere Penali e schierarsi contro la riforma, in difesa della democrazia del paese. Il sorprendente attacco ha trovato una ferma risposta dall’interno dell’Unione Camere Penali, ma ci dà ancora il destro per una riflessione sul ruolo degli avvocati penalisti nella società e per coglierne il grado di “democraticità” (seguendo sul punto la brutale semplificazione operata dalla giornalista). C’è stato chi ha acutamente sostenuto che non sono necessarie particolari dichiarazioni di fede in quanto un penalista è di per sé stesso implicitamente democratico. Infatti qualsiasi penalista, difendendo un imprenditore milionario così come l’ultimo degli ultimi nel più disperso dei tribunali italiani, difende al contempo valori e principi strettamente riconnessi a diritti umani garantiti dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali. È una posizione interessante e che non manca di affascinare, nella sua nuda semplicità: si è democratici per il mero ruolo che si ricopre e per la funzione sociale evidentemente legata alla professione svolta. Quanto poi all’Unione delle Camere Penali è davvero difficile dubitare che le battaglie dei penalisti, tutte riconducibili alla salvaguardia di principi di rango eminentemente costituzionale (diritto di difesa, presunzione di non colpevolezza, divieto di pene contrarie al senso di umanità, giusto processo…), possano non essere assistite da un marchio di democraticità doc. Quello dell’avvocatura penalistica – intesa sia a livello di singoli che di associazione – è, insomma, un impegno sociale forte, lontano da spinte corporativistiche (e, si badi, totalmente disinteressato dal punto di vista economico), che però non ha mai suggerito di escludere i relativi interlocutori politici dal novero dei democratici. Non l’abbiamo mai fatto, nemmeno nelle occasioni in cui abbiamo invano cercato alleati nella politica o tra le fila della magistratura associata rispetto a battaglie così strettamente legate ai diritti civili e umani e talmente autoevidenti da rendere francamente sorprendente una mancata condivisione. Così è stato, per esempio, per la battaglia contro la scellerata abolizione della prescrizione (fummo completamente soli in quell’occasione); così è, al momento attuale, in relazione al tentativo di smuovere le coscienze contro l’ignobile strage dei suicidi in carcere (è di questi giorni la notizia che ANM si è rifiutata di sottoscrivere un documento sul quale UCPI chiedeva la convergenza su temi così banalmente “oggettivi” come il carcere quale extrema ratio) o, ancora, la battaglia contro l’applicazione indiscriminata e barbara del 41 bis, tale da avere creato nelle relative sezioni delle carceri italiani delle autentiche enclave della Repubblica in cui i più scontati diritti sono sospesi. Bene, nemmeno di fronte a chi non concorda – e anzi osteggia – queste battaglie ci siamo mai sognati di dare, o togliere, la patente di democraticità che Donatella Stasio vorrebbe distribuire a questa o quella parte dell’avvocatura. E bene abbiamo fatto, dacché la scelta arbitraria su chi sia degno dell’interlocuzione politica, oltre che operazione di scarsa tenuta logica, è anche controproducente: chi, come i penalisti italiani, può confidare nella forza delle proprie idee non può temere (anzi, ha interesse!) che sulle stesse si apra un dibattito dalla dialettica anche aspra, ma su un piano di parità, di reciproco riconoscimento e reciproca legittimazione politica. Autoposizionarsi dalla parte dei buoni, dei genuini democratici, e additare infantilmente negli altri una devianza patologica di stampo illiberale, è esercizio che denota – questo sì – un approccio manicheo, semplicistico e drammaticamente immaturo dal punto di vista democratico. In fin dei conti delegittimare l’avversario significa solo una cosa: temere il confronto. Che, a pensarci bene, è esattamente quanto accade, da anni, per la riforma in tema di separazione delle carriere. *Presidente Camera Penale di Novara

Avvocati democratici e separazione delle carriere: quale risorgimento? Leggi tutto »

Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024

di Domenico Pasceri* – Si segnala all’attenzione dei lettori la tematica di particolare rilevanza sociale, prima ancora che giuridica, che è stata affrontata per la prima volta nel nostro Ordinamento dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 48/2024. Il tema trattato inerisce la rilevanza dell’istituto comunemente noto come “poena naturalis” e del suo rapporto con la finalità cui deve protendere la pena inflitta dallo Stato per la commissione di un illecito di rilevanza penale: ossia se sia conforme a giustizia punire l’autore di un reato colposo che sia rimasto, a sua volta, vittima del reato stesso ed abbia già patito una sofferenza interiore tale che, l’ulteriore persecuzione da parte dello Stato, risulterebbe inutile (in termini di rieducazione) oltre che sproporzionata ed eccessivamente afflittiva. La nozione di “poena naturalis”, quale concetto giuridico volto all’individuazione e alla valorizzazione di quella sofferenza interiore che l’autore del fatto illecito già subisce per gli effetti nefasti del reato stesso, è istituto già riconosciuto in alcuni ordinamenti europei come ad esempio quello tedesco, laddove è pacificamente ammessa la possibilità per il giudice di non irrogare la pena prevista dal sistema giudiziario quando il colpevole ha già subito le conseguenze “naturali” della propria condotta in misura “…talmente grav(e) che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo” (§ 60 StGB). Il caso trattato dal Tribunale rimettente era assolutamente calzante rispetto al tema trattato, in quanto ha avuto ad oggetto il decesso di un lavoratore, nipote stretto del titolare dell’azienda, che, in occasione di alcuni lavori su di un tetto, a causa della mancata attuazione di alcune misure di sicurezza, cadeva perdendo la vita. La vicenda si connotava di particolari che mettevano in risalto proprio quel patimento interiore richiesto dall’istituto in esame perché, all’arrivo dei soccorsi, questi trovano lo zio, particolarmente legato al nipote, che si disperava tentando inutilmente di rianimarlo. Inoltre, a dimostrazione del profondo legame familiare, anche durante il processo i genitori del ragazzo defunto non si costituirono parte civile. Proprio nell’alveo del principio insito nella teorica della “poena naturalis” ed in ragione del caso specifico oggetto di giudizio, il Giudice rimettente ha inteso sottoporre alla Consulta il problema dell’assenza nell’ordinamento italiano del giusto collocamento dell’istituto in commento e dei riflessi che esso avrebbe potuto avere sulla punibilità del reo, posto che, in siffatti casi «…qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne» (cfr. Sentenza Consulta par.1.1). Ed allora, con ordinanza del 20 febbraio 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso». Al fine di superare il vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni da affrontare, il giudice a quo ha correttamente evidenziato come la denunciata lacuna normativa andasse a violare i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, in ragione del fatto che, la sanzione irrogata dall’ordinamento statuario, in aggiunta alla sofferenza già patita, sarebbe percepita alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», non solo inidonea ad assolvere a quella funzione rieducativa a cui la pena stessa dovrebbe protendere, ma anche del tutto inutile nella prospettiva di ogni sua possibile declinazione finalistica, sia essa generalpreventiva, specialpreventiva o retributiva. Essa si risolverebbe, argomenta il Giudice rimettente, solo in una «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza». V’è da dire però che la Corte, seppur superando l’eccezione inerente il limite della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità (la Corte sul punto ha ribadito il principio ormai granitico secondo cui l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, trova il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte) non ha potuto addentrarsi oltre nella tematica alla stessa sottoposta in ragione della eccessiva ampiezza che la pronuncia additiva avrebbe avuto. Secondo il pronunciato della Corte, infatti, il Tribunale di Firenze non avrebbe ben definito i confini del petitum, tanto da risultare incompatibile con il tipo di pronuncia richiesta, posto che, pur ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità avrebbero poi incluso tutte le ipotesi di reato colposo (ivi comprendendo, tra l’altro, non solo i delitti ma anche le contravvenzioni), ed anche i rapporti inerenti i familiari non strettamente intesi (in ragione del novero soggettivo molto ampio indicato dall’art.307 quarto comma cp che si estende fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo e persino vincoli di affinità). Purtuttavia, (ed è questo quello che veramente conta) il pronunciato della Corte, sebbene di rigetto, ha comunque riconosciuto l’importanza e la centralità della tematica affrontata, lasciando al contempo intendere che il tema della pena naturale, se correttamente definito nei suoi confini applicativi, potrebbe trovare la giusta collocazione anche nel nostro Ordinamento per disciplinare quelle “…situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione” (da: La “Pena Naturale” al vaglio della Corte Costituzionale di Tullio Padovani).  La Corte infatti, criticando anche sotto altro profilo l’ordinanza di rimessione, ha sottolineato come l’istituto della pena naturale non può essere ricondotto nell’alveo di una pronuncia in rito (qual è la declaratoria ex art. 529 cpp), ma va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale, presupponendo con ciò il pieno accertamento delle modalità del fatto, ben potendo essa costituire “…in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva” (cfr. sentenza par.5.3.1). Ciò che si auspica, pertanto, è che, lo

Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024 Leggi tutto »

Torna in alto