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MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE.

di Francesco Iacopino* Nel nostro ambiente si afferma, simpaticamente, che avvocati e magistrati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Al di là della boutade, lo stato costituzionale di diritto, fondato sugli apriori dei diritti umani, affida all’avvocato il ruolo di mediazione tra apparato giudiziario e singolo cittadino e di garanzia nella tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona. L’avvocato ha il dovere di impegnare il magistrato, sia esso requirente o giudicante, a misurarsi con l’altro punto di vista, a confrontarsi con i risultati delle proprie azioni, perché la realtà può (e deve) essere guardata da prospettive diverse e perché nella complessità del nostro mondo è molto alto il rischio (e il prezzo) dell’errore giudiziario. L’avvocato ha, in altri termini, la responsabilità di alimentare nella giurisdizione il confronto sul terreno delle idee e dei valori costituzionali, coagulando in tale direzione – come ebbe a dire Vincenzo Maiello – le «energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto». Quindici anni fa Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino, per i tipi di Laterza ha pubblicato un libro intitolato «difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore». Scrive il procuratore nel Suo piccolo pampleth: «il rischio che può accecare e dannare il magistrato è quello di credere, a un certo punto, di dover non soltanto affermare il diritto ma la giustizia con la iniziale maiuscola. La storia però ci insegna – come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky – che coloro i quali credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano, sono particolarmente esposti al rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica. Perché chi pensa di aver trovato la Giustizia e la Verità prima o poi si sentirà in dovere di imporle agli altri. L’avvocato – con la sua presenza, il suo ruolo nel processo, il suo sguardo che ci osserva mentre operiamo ogni giorno – ci impedisce di cadere in questo baratro».  L’avvocato, con la sua professione di carità, nel difendere i diritti di chi si trova a tu per tu con il dolore, è lì a ricordare (a tutti) i destini di coloro che entrano nel circuito della penalità. È l’avvocato il tramite tra le carte e la vita degli altri: costantemente, assillantemente, giustamente. È lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevare il magistrato da quel peso indicibile. Ci ha insegnato Calamandrei che «l’ufficio più umano dell’avvocato è quello di stare ad ascoltare i clienti». Ecco perché, ancora una volta, ha ragione Borgna quando scrive che «l’avvocato è il miglior amico del pubblico ministero: lo aiuta a difendere la sua salute mentale», perché ciò che ci unisce è la condivisione del dolore degli altri, perché essere avvocato è una scelta di vita: un servizio in difesa della dignità dell’uomo. E allora, attingendo ancora agli insegnamenti di Calamandrei dobbiamo riconoscerci che il rispetto tra avvocati e magistrati non può che essere reciproco, perché obbedisce alla legge dei vasi comunicanti: non si può abbassare il livello dell’uno senza che si abbassi il livello dell’altro. Non è questione di rispetto della persona, perché per quello è sufficiente la buona educazione. È una questione di rispetto della funzione. Quel rispetto tra avvocati e magistrati nasce soltanto dalla consapevolezza della relazione di reciprocità che esiste tra le due funzioni.  Perché l’avvocato, innamorato del suo cencio nero, libero e indipendente, è colui il quale è chiamato a «difendere tutti» e «appartenere a nessuno», per usare le felici espressioni di Gian Paolo Zancan, avvocato e senatore della Repubblica: «ho difeso tutti, non sono appartenuto a nessuno». Tutti noi, tra gli attori della giurisdizione, dobbiamo recuperare la dimensione del ragionamento condiviso, individuare punti di incontro su cui edificare il miglioramento qualitativo della risposta alla domanda di giustizia, nella consapevolezza che la vera unità che dobbiamo perseguire e pazientemente ricercare, alimentandola anche nel discorso pubblico e nel pensiero comune, è quella tra avvocatura, magistratura e interessi del cittadino. In questa direzione l’avvocatura penalista sarà sempre francamente aperta al leale confronto e al dialogo costruttivo.    *Presidente Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro  

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LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

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MANIFESTAZIONE A CATANIA DEI PENALISTI CALABRESI AUTORITARISMO STRARIPANTE E DIFESA NEGATA NEI MAXIPROCESSI DELLA CALABRIA GIUDIZIARIA

…Abbiamo subìto il trattamento previsto per i sospettabili quando ci hanno costretto a lasciare l’auto in aperta campagna lontano dai parcheggi dell’aula bunker di Lamezia. Abbiamo subìto il trattamento degli asserviti quando hanno imposto l’agenda ossessiva da 170 udienze all’anno in media per sostenere la marcia forzata a garanzia della permanenza in vincoli dei presunti innocenti. Abbiamo subìto il trattamento degli invisibili senza diritto di interloquire nemmeno sulle precondizioni per l’esercizio dignitoso dei diritti (affievoliti), quando ci hanno negato anche l’opportunità di esprimere il nostro punto di vista nelle sedi nelle quali venivano messe a punto le inusitate distopiche soluzioni per rimediare all’inagibilità dell’hangar lametino. Sulla testa degli imputati e dei loro avvocati anche l’obbligata migrazione di massa verso sedi lontane. Sui loro diritti si scarica il fallimento dell’organizzazione militare della giustizia penale calabrese…. Ed ancora. Abbiamo accettato le regole aberranti del processo dematerializzato e ci hanno negato anche i “diritti minorati” contemplati dal simil processo tecnologico della contemporaneità: nel sistema di gestione militare dei maxi, i numerosi colleghi che hanno chiesto di partecipare al processo a distanza, prima hanno scoperto una nuova regola, quella dell’avvocato da collegare dal carcere più vicino a casa sua (anziché dallo studio professionale come previsto dalla norma); poi, 48 ore prima dell’inizio della causa, si son visti revocare l’umiliante invito a presentarsi in carcere. Ma non perché melius per pensare sia apparsa illegale l’escogitazione, ma perché il DAP oltre a non disporre di risorse sufficienti ritiene sconsigliabile, perché pericoloso per la sicurezza, l’andirivieni di avvocati dalle salette dedicate. Dovremmo averne abbastanza. *CHIARA ED INEQUIVOCABILE LA LINEA DI TENDENZA: I DIRITTI DELLA DIFESA NEL PROCESSO A GESTIONE MILITARE SONO COMPATIBILI SOLTANTO CON LA DIFESA CHE NON LI ESERCITA; PERCHÉ SE SCEGLIE DI ESERCITARLI -ANCHE QUELLI MINIMI- SCOPRE CHE L’EFFICIENTISSIMO SISTEMA DI SMALTIMENTO DEI “NEMICI DELLA SOCIETÀ” MESSO IN PIEDI, SI INCEPPEREBBE. PER TUTTE QUESTE RAGIONI SAREMO FUORI DALL’AULA BUNKER DI BICOCCA LUNEDÌ 3 FEBBRAIO A MANIFESTARE CONTRO L’INTOLLERABILE DEGENERAZIONE DEL SISTEMA DELLA “CALABRIA GIUDIZIARIA”. ANCHE PER I GIUDICI CHE DOVREBBERO SOFFRIRE, COME NOI, LA MORTIFICAZIONE DEL LORO RUOLO, CHE NON SI PUÒ ESPRIMERE IN SINTONIA CON L’ALTA FUNZIONE CHE SVOLGONO, SE NON È GARANTITA LA DIGNITÀ DELL’IMPUTATO E DEL SUO DIFENSORE. SAREMO SIN DALLE 9.30 DINNANZI ALL’INGRESSO DELL’AULA BUNKER DI BICOCCA, ASPETTEREMO L’INGRESSO IN AULA DELLA CORTE PER AVVIARE LA MANIFESTAZIONE ATTENDENDO I COLLEGHI IMPEGNATI NEL PROCESSO CHE LASCERANNO L’AULA IN FORMA DI SIMBOLICA PROTESTA. Rassegna stampa: GAZZETTA DEL SUD CORRIERE DELLA CALABRIA LA NOVITÀ ONLINE LA NUOVA CALABRIA QUOTIDIANO DEL SUD CATANZARO INFORMA IL LAMETINO LA-C-NEWS24 RAI NEWS LA SICILIA

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CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE

    di Antonio Baudi –  1.La riforma Cartabia sul processo penale ha inteso ridurre i tempi di durata del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e, allo scopo di alleggerire il carico del giudizio penale, ha individuato possibili alternative al processo e alla pena carceraria. All’uopo ha inciso non solo sulle norme del processo penale, ma anche mediante interventi sul sistema penale, come quelli relativi: – alla non punibilità per particolare tenuità del fatto; – alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: – alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale; – e, alla fine, anche mediante le previsioni in tema di giustizia riparativa.  Nello specifico, per quel che in questa sede interessa, la riforma Cartabia, nel rispetto delle direttive contenute nella legge delega n. 134/2021 per le modifiche al codice di procedura penale, ha generalizzato il controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio in una evidente ottica di deflazione del dibattimento. Al fine di rendere operativo il controllo in limine di fondatezza dell’accusa è stata istituzionalizzata, in aggiunta alla celebrazione dell’udienza preliminare, la c.d. udienza filtro, nella prassi identificata con la celebrazione della prima udienza dinanzi al giudice monocratico. La struttura di tale nuova udienza è disciplinata dai quattro articoli inseriti nel codice di procedura penale dopo il disposto dell’art. 554, ad iniziare dal fondamentale disposto dell’art. 554-bis che, sulla base delle prescrizioni statuite dagli artt. 550. (casi di citazione diretta a giudizio), 552 (decreto di citazione a giudizio) e 553 (trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale), regola l’andamento di siffatta udienza. Nel contempo è stato riformato in maniera omogenea il criterio di giudizio, imperniato ora sulla formulazione della “ragionevole previsione di condanna” in funzione del quale sono stati riformulati: – l’art. 408, co. 1, c.p.p. in tema di richiesta di archiviazione; – l’art. 425, co. 3, c.p.p. per l’udienza preliminare; – l’art. 544-ter, co. 1, c.p.p., ove la norma è stata trasposta anche nella nuova udienza predibattimentale; – ed è stato nel contempo abrogato l’art. 125 disp. att. c.p.p. ormai inutile. Per il vero il tema del controllo sull’esercizio dell’azione penale è antico e ricorrente. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. Occorre ribadire, in questa sede, che si tratta di scopo immanente nel sistema, ben chiaro sin dal tempo della vigenza della riforma del rito penale, cioè sin dal 1989. La realtà è stata ben diversa e, tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere ha eluso lo scopo. In linea generale, quanto ai riti alternativi, il valore dell’accusatorietà, perseguito nella disciplina del giudizio dibattimentale, avrebbe dovuto essere contenuto al massimo perché costoso e tematicamente complesso, privilegiando il legislatore le soluzioni alternative incentivate da regole premiali. Quanto poi al filtro sull’esercizio dell’azione penale, pur limitato ai processi di competenza del G.u.p., è un dato ormai evidente che lo scopo sia fallito e che tale risultato, circa il mancato funzionamento del filtro sull’esercizio dell’azione penale, integri una delle cause preminenti  dell’attuale lentezza della giustizia penale. La riforma Cartabia, come notato, ha generalizzato la funzione di verifica del controllo preliminare sull’esercizio dell’azione penale al dichiarato scopo economico e deflattivo. Il rilievo è concorde: sono trascorsi (ben) trentaquattro anni ed il legislatore si è accorto (finalmente) della eccessività del carico processuale dibattimentale e della (oggettivamente tardiva) esigenza di porvi rimedio. Ma, a mio avviso, la responsabilità, più che del legislatore, è degli orientamenti, teorico e giurisprudenziali, che sono maturati nel tempo. Per una utile comprensione della evoluzione in materia, normativa e giurisprudenziale, nonché della reale esigenza culturale sottostante, sovviene una decisione dello scrivente, adottata ai primordi della riforma. Si tratta del testo della sentenza deliberata il 6 novembre 1990, in sede di udienza preliminare e nel periodo di regime transitorio a seguito della innovativa vigenza del codice di procedura penale. Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere in tema di giudizio di bilanciamento tra circostanze che, in applicazione del disposto, all’epoca nel testo vigente, di cui all’art. 425 c.p.p., è stato riconosciuto ammissibile ai fini della rilevazione di causa estintiva del reato preclusiva del rinvio a giudizio. Se ne riporta di seguito il testo (all’epoca pubblicato sulla rivista “La giustizia penale”, 1991, III, 38 ss). Questa, la massima estratta: “Rientra nei poteri della giurisdizione preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti e di operare il giudizio di bilanciamento con le contestate aggravanti ai fini della declaratoria di una causa estintiva del reato”. (Nella specie, è stata dichiarata la prescrizione previa dichiarazione di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le contestate aggravanti). Di seguito una sintesi dello svolgimento del processo: “In assenza di atti istruttori di particolare valenza, il processo in esame, già pendente in istruzione formale, è stato trasmesso al Procuratore della Repubblica in sede ai sensi degli artt. 242 e 258 disp. trans. del nuovo codice. Su richiesta depositata in questo ufficio in data 8 gennaio 1990 veniva fissata udienza preliminare e, all’esito della discussione veniva sollevata questione dii legittimità costituzionale dell’art. 425 C.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Era evidenziata, infatti, ingiustificata parità di trattamento, oltre che preclusione di esigenze difensive, nell’ambito delle disposizioni transitorie, tra i procedimenti proseguenti con le vecchie norme e quelli sottoposti invece al nuovo rito. La regola di rinvio a giudizio del sopravvissuto organo istruttorio era ispirata alla esigenza di economia processuale, in termini di prognosi colpevolistica. L’art. 256 disp. trans. prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando «gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito della istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ed è consentito al Giudice (art. 257 disp. trans.) di “tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell’art. 69 del Codice Penale”, “ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorie di

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“IL PROBLEMA NON CONSISTE NEL DECIDERE SE È NECESSARIO SEPARARE LE CARRIERE, QUANTO PIUTTOSTO NELL’INTERROGARSI COME MAI SIANO UNITE…”

di Tullio Padovani*- In tema di separazione delle carriere possiamo prender le mosse da un’affermazione sicuramente condivisa: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrati», esercitano due funzioni radicalmente diverse. La circostanza è di tale pacifica evidenza che proprio da essa i sostenitori dell’attuale assetto normativo ritengono di trarre un argomento pragmaticamente risolutivo per la sua perpetuazione. Una volta assicurato che un pubblico ministero non possa mutare il proprio ufficio in quello di giudice se non una o due volte nel corso della carriera, e peraltro con precisi vincoli di distanza dalle sedi ricoperte, perché si dovrebbe insistere ancora nella richiesta di carriere fin dall’origine ed istituzionalmente separate? Per essere posta correttamente, la questione deve essere pregiudizialmente sottratta ad una specie di strabismo concettuale che l’affligge quale effetto surrettizio dell’assetto esistente, e riproposta in termini simmetricamente inversi. Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono: – come sono – eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali (perché l’uno – il potere di giudicare – assume ad oggetto l’altro, e cioè l’esercizio del potere d’accusa), a quale titolo si dovrebbe accettare o addirittura giustificare l’omogeneità della carriera a partire dal reclutamento e nel contesto di un unico «ordine»? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Le ragioni che ci si industria di esporre a favore della conservazione sono – pare – fondamentalmente tre: tutte inconsistenti, sia pure per ragioni diverse. Prima ragione. Per corrispondere a pieno ai postulati dello stato di diritto è necessario che giudice e pubblico ministero, pur se investiti di poteri diversi, ma ugualmente significativi in termini di garanzia delle posizioni soggettive coinvolte nel loro esercizio, condividano un’uguale «cultura della giurisdizione», su cui è quindi edificata la pari qualifica di «magistrato». Rompendo il legame genetico originario segnato dall’appartenenza ad un unico «ordine», il pubblico ministero – par di intendere – uscirebbe dal seminato del diritto (cultura è, in fondo, coltura dello spirito) e si trasformerebbe, in pericolo o in atto poco importa, in una sorta di pianta selvatica. Ma l’argomento si riduce ad una nebbiolina che il sole del mattino dissolve. Infatti, se per “giurisdizione” (oggetto dell’auspicata cultura comune) si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come lo svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione, da parte del giudice, del conflitto contenzioso, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore. La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe bensì l’unicità delle carriere, ma a condizione che a questa unicità concorressero tutti i componenti del ceto forense. Un’apocalisse che non può nemmeno definirsi tale (e cioè come un’autentica rivelazione): si tratta, infatti, della regola comune agli ordinamenti di common low. Avendo acquisito il processo accusatorio (sia pure come argutamente notava Cherif Bassiouni, mediante una semplice cartolina postale) non ci sarebbe niente di strano che ci procurassimo anche l’aria in cui esso respira. Da noi sarebbe forse troppo? Può darsi, ma allora smettiamo di invocare la «cultura della giurisdizione» per tener in piedi un tavolino con due sole gambe: non regge. Seconda ragione. Un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe – si lamenta – facile preda della funzione di governo; sarebbe, in un modo o nell’altro, alle dipendenze dell’esecutivo. Sul punto bisogna intendersi. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché «il pubblico ministero gode [e deve godere] delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, comma 4° Cost.): non si tratta certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice (e la norma costituzionale lo sottointende con l’evidenza della specificità), ma di garanzie deve trattarsi; e di certo un vincolo di dipendenza gerarchica non potrebbe concepirsi in termini di «garanzia», il cui oggetto non può evidentemente prescindere dall’assicurare l’«indipendenza» (cui si riferisce espressamente l’art. 108, comma 2 Cost. in riferimento alla posizione del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali). Ma la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si prospetta certo in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere un’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti – come con tagliente lucidità scriveva Giovanni Falcone – «se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto». Parole forti ma parole vere. La citazione del grande Magistrato (isolato e combattuto anche per queste parole) prosegue poi con la domanda retorica: «come è possibile che in un regime liberaldemocratico […] non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti?». Appunto: come è possibile? Terza ragione. Sul tavolo dell’unicità delle carriere vien calato un preteso asso: l’art. 112 Cost. secondo cui: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Così come il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2° Cost.), il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale luminosa garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Il trait d’union che unisce giudice e pubblico ministero, entrambi vincolati, l’uno alla legge, l’altro all’esercizio dell’azione penale, è dunque il ponte su cui passa un’unica carriera per entrambi. Ma, più che di un argomento si tratta piuttosto delle comiche finali. Scriveva Robert H. Jackson, nel 1940 General Attorney degli Stati Uniti d’America: «L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve

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INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2025 NEL DISTRETTO DI CORTE DI APPELLO DI CATANZARO

di Francesco Iacopino* –  Signor Presidente della Corte di Appello, Signor Procuratore Generale, Autorità tutte, il tempo a disposizione mi consente di sviluppare solo due argomenti: maxi processi e separazione delle carriere.   Il primo. Il 2024 ha consegnato alla giurisdizione la cronicizzazione dei problemi denunciati da anni, in solitudine, dall’Avvocatura. Il gigantismo processuale, complice l’allagamento a Lamezia della cattedrale nel deserto, esporrà centinaia di persone a una estenuante trasferta a Catania. La delocalizzazione del processo a 400 chilometri di distanza immola definitivamente libertà e garanzie dei cittadini sull’altare della difesa sociale. Con l’esodo in Sicilia si celebra il de profundis del diritto di difesa. I processi di massa, lo sappiamo bene, rappresentano la più alta espressione del diritto penale simbolico, con tutto ciò che deriva in termini di ribaltamento assiologico del quadro costituzionale (in primis il principio della presunzione di innocenza). Questo modo di procedere non ci ha resi più sicuri, ma solo meno liberi. Il prezzo pagato in termini di danni collaterali è altissimo. E riguarda la distruzione di vite, famiglie, affetti, aziende, tutti risucchiati nella rete sempre più capiente della pesca a strascico. Tutti macellati nel tritacarne mediatico giudiziario. A questo grido di dolore noi continueremo a dare voce, senza stancarci. Per dire basta alle indagini di massa, ai pregiudizi accusatori, alle restrizioni sommarie della libertà, agli effetti tossici prodotti dalla logica della perenne emergenza e dal diritto penale del nemico. Bisogna tornare a celebrare i processi nei Tribunali, con numeri “sostenibili”. E chiedere alla politica di dotare i territori di organici adeguati per amministrare giustizia. Cari Magistrati, con la Costituzione in mano dovreste ribellarvi per le condizioni inagibilità nelle quali vi si chiede di operare o per i suicidi in carcere, piuttosto che opporvi a una riforma costituzionale che ha il merito, indiscusso, di rafforzare il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo, riposizionando al centro della Giurisdizione, come dovrebbe essere, il Giudice.   Il secondo. Separazione delle carriere. La posizione assunta da ANM è semplicemente infondata: NON È VERO che la riforma stravolgerà l’equilibrio tra i poteri dello Stato, NON È VERO che sottrarrà spazi di indipendenza alla giurisdizione, NON È VERO che ridurrà le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini, NON È VERO che determinerà l’isolamento del pubblico ministero e il rischio di un suo assoggettamento all’esecutivo. È VERO l’esatto contrario, come vedremo da qui a poco. 1)- Le carriere unificate sono tipiche dei sistemi inquisitori; tutte le democrazie occidentali adottano modelli ordinamentali a carriere separate (eccetto Turchia e Bulgaria: vorrà dire qualcosa?). 2)- La separazione delle carriere realizza il giusto processo e rafforza le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini, nel rispetto della Costituzione, che esige un Giudice terzo e imparziale davanti a parti poste in condizioni di parità. Nel giusto processo triadico – lo ricordava Giuliano Vassalli – la separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e quella ordinamentale delle carriere sono vasi comunicanti: la prima non può essere effettiva senza la seconda. Lo aveva ben compreso Giovanni Falcone quando scrisse che il P.M. non deve avere nessuna parentela  con  il  Giudice.  Per  questa  sua  posizione,  fu  bollato  come  nemico dell’indipendenza della Magistratura. Più o meno le accuse che ci vengono rivolte oggi. La terzietà e l’imparzialità non garantiscono l’adozione di sentenze “giuste”: ne costituiscono uno dei presupposti. 3)- L’art.104 (nel testo della riforma) non toccherà affatto l’autonomia e l’indipendenza del P.M., che continuerà ad accedere alla professione per concorso, progredirà in carriera con le stesse regole di oggi e sarà garantito dalle norme sull’ordinamento giudiziario, dal suo CSM e da un Giudice disciplinare autonomo (l’Alta Corte, formata per 3/5 da magistrati). Una riforma “chirurgica”, allora, disegnata nel pieno rispetto dell’architettura costituzionale e del principio della separazione dei poteri. 4)- Cultura della giurisdizione. È fin troppo agevole osservare come, a carriere unificate, non è stato il Giudice ad aver attirato il P.M. nella sua sfera culturale, ma è accaduto il contrario. Nella prassi quotidiana le parti non sono poste in condizioni di parità. E nella percezione sociale non conta il Giudice, ma il P.M., non la sentenza, ma l’arresto. Non è la sentenza a stabilire il risultato di giustizia agli occhi del cittadino. Anzi, la sentenza, se di assoluzione o ritenuta non esemplare nella pena, è percepita come denegata giustizia. Cari Giudici, con la Costituzione in mano dovreste essere i primi a salutare con favore questa riforma, che punta a un recupero culturale, innanzitutto. Ammettere con coraggio, al pari dei vostri Colleghi che hanno avuto la forza di esporsi, che questa riforma è una conquista per la nostra democrazia e che, in realtà, l’agitazione associativa è solo frutto della paura di perdere assetti di potere finora consolidati dalla logica delle correnti. Altro che il timore del P.M. Super Poliziotto. Per chi non se ne fosse accorto, Super Poliziotto il P.M., oggi, lo diventato è già.   Concludo. Il progetto di riforma costituzionale si ispira al modello ordinamentale portoghese, adottato nel 1978, all’indomani della rivoluzione dei garofani. In quel paese, dopo 50 anni, nessuno tornerebbe indietro, essendo tutti d’accordo che “la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia e ha avuto pieno successo nella pratica”. Non lo dico io, ma Paulo Pinto di Albuquerque, giurista portoghese di fama mondiale, che ha definito, la nostra, una riforma eccellente, che rafforzerà il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo. Cari Magistrati, se vogliamo onorare insieme la Costituzione e attuarla, portarla a compimento, dobbiamo recuperare culturalmente e socialmente la grammatica del giusto processo, ritrovarci intorno al quadro assiologico disegnato dai costituenti, rafforzare il modello accusatorio e la presunzione di innocenza. La storia giudicherà questa battaglia e gli schieramenti in campo. Auguro a voi, e a noi, che anche in Italia tra qualche anno si possa riconoscere, come in Portogallo, che la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia. Significherà che avremo contribuito, insieme, al progresso della civiltà del nostro paese. Buon anno giudiziario a tutti. * Presidente della

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2025 NEL DISTRETTO DI CORTE DI APPELLO DI CATANZARO Leggi tutto »

A PROPOSITO DELLA C.D. “CULTURA DELLA GIURISDIZIONE”

  di Francesco Calabrese*   Il dibattito sulla legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario, con la previsione della separazione delle carriere tra magistrato del pubblico ministero e magistrato giudicante, si sta progressivamente infervorando. Letture dietrologiche ed argomenti ad hominem si sostituiscono sempre più spesso ad un sano confronto sui temi e sulle ragioni che ciascuna delle parti adduce a sostegno della propria posizione. L’auspicio, in questo senso, è che lo stesso si mantenga nei limiti di un confronto sui contenuti. Dunque, dovrebbe porsi in analisi l’intervento normativo, gli effetti che ne potrebbero derivare sull’assetto istituzionale e l’incidenza che gli stessi possano assumere rispetto alla situazione che è in atto. In questa prospettiva si pone, pertanto, il presente contributo.    Ovviamente, affermare che la separazione delle carriere assuma – a parere di chi scrive – un’importanza fondamentale per realizzare (rectius, cominciare a realizzare) a pieno i principi di un “giusto” processo accusatorio è imprescindibile. Ma sarebbe anche ovvio limitarsi a ribadirne la valenza solo ed esclusivamente in questa prospettiva. Attraverso queste riflessioni, dunque, ci si ripropone di analizzare in maniera approfondita uno dei temi che viene spesso addotto per contrastare la riforma in atto: la realizzazione della cosiddetta “cultura della giurisdizione”. Locuzione assai suggestiva, questa, che essenzialmente sottende una sorta di comune contesto di appartenenza tra organo giudicante e organo requirente tale per cui, essendo entrambi intrisi di tale “retaggio culturale”, difficilmente potrebbe accadere che un’indagine penale possa essere “forzata” a tal punto da risultare non ortodossa rispetto ai meccanismi di acquisizione della prova; ovvero che, prima ancora delle norme poste a garanzia della ortodossia metodologica nelle indagini del pubblico ministero, vi sarebbe questa comune base culturale che lo porrebbe quale egli stesso “giudice” delle prove in corso di formazione o da acquisire, in termini tali da garantire un equilibrio nello sviluppo della stessa attività investigativa. In ciò richiamandosi – lo si consenta – la ormai desueta figura del giudice istruttore, del tutto avulsa da un contesto di tipo schiettamente accusatorio quale dovrebbe essere il nuovo processo penale. Il riferimento viene espresso in svariate e multiformi graduazioni esplicative: dal fatto che, essendo il pubblico ministero egli stesso giudice, difficilmente potrebbe perdere quell’equilibrio valutativo che lo caratterizza; al fatto che la comune appartenenza tra organo requirente ed organo giudicante vorrebbe il primo in una posizione di fortissimo imbarazzo laddove dovesse sostenere, di fronte al secondo, un’accusa fondata su basi assolutamente infondate; alla conclusiva affermazione secondo cui, semmai, una pregressa esperienza del pubblico ministero quale organo giudicante risulti estremamente formativa sul piano culturale, tanto da renderlo maggiormente esperto ed equilibrato. Così, in questa prospettiva, vengono addotte tutta una serie di situazioni (magari anche derivanti da casi concreti che si sono verificati) in cui sarebbe dimostrato che la suddetta “cultura della giurisdizione” abbia effettivamente assunto una funzione limitatrice rispetto ad eventuali impulsi tesi a forzare le modalità di acquisizione della prova. Rispetto a questa ricostruzione, di converso, ne viene contrapposta un’altra secondo cui, in realtà, questa comune appartenenza a tale ambito culturale rischi di determinare un forte – certamente maggiore del dovuto – condizionamento in capo all’organo giudicante che, proprio in virtù di tale condivisione, rischia di riconnettere in capo al pubblico ministero, una patente di fondatezza del procedimento di acquisizione delle prove (e dei relativi risultati). Dunque – si obietta rispetto alla prima opzione – questa comune appartenenza, più che portare il pubblico ministero verso una cultura della giurisdizione sposta invece la funzione giudicante verso l’angolo della pubblica accusa; con tutte le consequenziali determinazioni che da ciò ne possano derivare in punto di realizzazione di un processo di valutazione della prova che sia equilibrato e “terzo”. Anche in questo caso si susseguono richiami a situazioni concrete in cui tali evenienze si sono verificate, ponendo in assoluto rilievo la necessità che, dunque, sia in ogni caso garantita la terzietà della funzione giurisdizionale. Orbene, già da tale preliminare – anche se approssimativa – esposizione delle due posizioni sarebbe fin troppo agevole propendere per la seconda: il rischio che la funzione giurisdizionale possa essere in alcun modo condizionata, infatti, non può essere in ogni caso commensurato rispetto a qualsivoglia garanzia delle modalità acquisitive della prova. O, se si vuole, avere un pubblico ministero che possa in alcun modo forzare le modalità acquisitive risulta chiaramente subvalente rispetto ad un mancato o inefficace controllo giurisdizionale delle suddette procedure. La comparazione, ovviamente, è fondata su basi prettamente probabilistiche, su elementi prognostici, e dunque lascia il tempo che trova; tuttavia, appare già preliminarmente imprescindibile evidenziare come i due valori in gioco (da una parte la terzietà del giudizio e, dall’altra, la ortodossia nella acquisizione probatoria) non possano essere in alcun modo messi a confronto. In ogni caso, non è su questo campo che si vuole porre il focus delle presenti riflessioni. Il tema, invece, lo si vorrebbe spostare su un piano diverso di schietta natura, per così dire, epistemologica: su quale base cognitiva è fondato l’assunto secondo cui l’appartenenza alla comune “cultura della giurisdizione” garantisca un processo acquisitivo delle prove conforme alle regole del giusto processo? In effetti, se si riflette bene su tale punto, ci si rende conto di come l’assunto secondo cui la comune appartenenza a tale milieu culturale dovrebbe garantire una corretta esplicazione dell’attività acquisitiva delle prove sia sostanzialmente autoreferenziale. E ciò non solo perché non risulta fondato su alcun elemento giustificativo sul piano generale e formale; ma soprattutto perché, nel concreto, non esiste un mezzo che, prima ancora del controllo giurisdizionale, garantisca che i meccanismi di acquisizione della prova siano stati esplicati in maniera ortodossa sol perché attivati da un pubblico ministero imbevuto di tale cultura. In buona sostanza, dunque, non sussiste alcun principio generale – né di carattere giuridico, né di carattere epistemologico – che possa in alcun modo sostenere l’assunto secondo cui l’appartenenza a tale ambito culturale determini ipso facto la garanzia di una sorta di ortodossia acquisitiva della prova. E soprattutto, non esiste alcuno strumento – di natura prettamente processuale o meno che sia – che, sia sul piano potenziale che su

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IL GIUDICE: UN FREDDO OPERATORE DEL DIRITTO?

di Maria Clausi*- Molti pensano che chi opera nel mondo del diritto nel suo agire sia guidato esclusivamente dalla logica e dalla rigida osservanza delle norme. Probabilmente per molti sarà così: il diritto e le sue logiche come esigenza suprema che non può essere piegata a nulla! In verità, il diritto è sterile se non si interpreta in modo da renderlo più vicino all’uomo. Cristo, a proposito della rigida osservanza dei numerosi divieti imposti di sabato, affermava: Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Vangelo secondo Marco, capitolo 2). E così anche Marx, nella sua critica al pensiero di Hegel, affermava: la legge esiste per l’uomo e non l’uomo per la legge. Il giudice, dunque, nello svolgimento della sua delicatissima funzione non può compiere una rigida e fredda applicazione delle norme, senza tener conto che quelle norme sono destinate a regolare una vita, una sorte; a incidere sulla storia di un uomo e della sua famiglia. Il giudice che ha una formidabile preparazione giuridica, ma una scarsa sensibilità umana, sarà un buon tecnico, non un buon giudice. Il giudice, pur evitando coinvolgimenti emotivi che potrebbero paralizzare il suo lavoro, deve necessariamente fare uso di buon senso, umanità, carità ed empatia. Egli non può spogliarsi della sua dimensione umana quando svolge la sua funzione. Un giudice deve essere anche un po’ filosofo, sociologo, psicologo e letterato e la sua cultura giuridica deve essere arricchita da quella umanistica. Egli deve saper comprendere e conoscere la realtà del suo tempo ed i fenomeni, nel loro costante divenire, che si creano in seno alla società perché questi influenzano l’agire del singolo. Specie nel settore penale il giudice deve saper essere un attento osservatore del comportamento umano e della realtà che lo circonda. Nel processo penale il giudice deve saper cogliere i contesti sociali e famigliari che hanno determinato la condotta del reo: egli deve saper essere un buon indagatore dell’animo umano. Ma soprattutto nel momento in cui siede dietro il suo scranno in udienza e quando siede dietro la sua scrivania in camera di consiglio egli deve tenere sempre a mente che dietro quel fascicolo che sta sfogliando vi sono degli esseri umani, col loro vissuto, la loro coscienza, il loro presente, il loro futuro, il loro dolore ed il loro sconforto. La lettura del codice, indispensabile ad una corretta valutazione del fatto, deve essere accompagnata dalla lettura dell’anima e deve essere sorretta da una coscienza vigile e severa, soprattutto con sé stesso. Una buona lettura del codice farà una buona sentenza, ma solo una lettura del codice illuminata dalla coscienza farà una sentenza giusta. *Giudice onorario

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LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA

di Saverio Loiero* –  La necessità di porre un freno al fenomeno della medicina difensiva è stata ed è il fondamento politico delle recenti vicende normative attinenti alla responsabilità penale del medico. La legge Balduzzi, prima, e la legge Gelli-Bianco, poi, sono state emanate proprio allo scopo di contenere la sempre più dilagante citazione in giudizio dei medici in sede penale, cui ha fatto seguito la crescente manifestazione di pratiche mediche superflue e/o eccessive rispetto al normale iter clinico. Con entrambe le riforme si è tentato di far riacquistare valore e forza normativa all’opinione, fatta propria dalla giurisprudenza formatasi già a partire dalla prima metà degli anni ottanta ed ancorata alla disposizione di cui all’art. 2236 del codice civile, volta a sottolineare la speciale difficoltà dell’arte medica ed a limitare, di conseguenza, la responsabilità del sanitario solo ai casi di imperizia grave, oltre che di negligenza e imprudenza. L’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) prevedeva, infatti, che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». La legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha, invece, inteso introdurre una disposizione ad hoc, l’art. 590 sexies del codice penale, stabilendo, in relazione ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 commessi nell’esercizio della professione sanitaria, che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Sul piano della concreta applicazione, l’ultima novella si è rivelata sin da subito di difficile configurabilità, ponendo non poche questioni di carattere interpretativo: quale fosse l’esatto ambito di applicazione della disposizione; se la stessa rivestisse carattere di causa di non punibilità ovvero di scriminante, con le ovvie conseguenze in tema di risarcimento del danno; se avesse ancora un qualche rilievo il grado della colpa; se fosse applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore o meno. A risolvere il contrasto esistente in materia, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272174, Rv. 272175 e Rv. 272176, fissando alcuni insegnamenti, oggi imprescindibili, nella valutazione della responsabilità del sanitario. L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. In sintesi, affinché l’art. 590 sexies comma 2 c.p. possa trovare applicazione, il giudicante dovrebbe verificare che il sanitario abbia correttamente individuato e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate al caso concreto ma, contestualmente, abbia commesso un errore nel momento esecutivo di esse e che tale errore esecutivo sia riconducibile all’imperizia (essendo negligenza e imprudenza escluse dalla causa di non punibilità) e solo allora dovrebbe procedere ad esaminare la gravità della colpa. È parso, all’indomani dell’intervento nomofilattico, subito evidente che la Suprema Corte abbia inteso recuperare la tradizionale distinzione fra colpa grave e colpa lieve, con notevoli ripercussioni anche in tema di successione di leggi penali nel tempo. L’abrogato articolo 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi integra, a parere delle Sezioni Unite, una parziale abolitio criminis mentre l’art. 590 sexies cod.pen. introduce una causa di non punibilità; la prima disposizione, allora, si pone come norma più favorevole rispetto alla seconda, con conseguente applicabilità a tutti i fatti commessi sino all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per i profili della negligenza o dell’imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto. Di estremo rilievo diviene, dunque, l’individuazione e la valutazione del grado della colpa, non certo di immediata comprensione, non essendo rinvenibile, com’è noto, alcun criterio codicistico utile a siffatta distinzione. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, hanno riacquistato autorevolezza in chiave soggettiva i concetti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nei quali si sostanzia l’accertamento della colpa. Ai fini della misura della colpa, assume nuova centralità l’individuazione della condotta dell’agente modello, quale comportamento alternativo lecito, rectius diligente, di talché il parametro positivo si rivela essere la distanza fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente in concreto e quella che era da attendersi. Può affermarsi, tuttavia, ad ormai sette anni dalla sua entrata in vigore, che la legge Gelli-Bianco non abbia risposto alle istanze della classe medica, soprattutto sotto il profilo penale, vanificando così l’originario intento del legislatore, dettato dalla esigenza, anche sul piano della finanza pubblica, di porre un argine alle pratiche difensive del medico. È proprio in punto di esigibilità concreta della condotta che l’interpretazione restrittiva della legge Gelli-Bianco ha mostrato tutti i suoi limiti, soprattutto nel contesto della insorta emergenza pandemica, imponendo al legislatore ulteriori interventi normativi attraverso l’introduzione del c.d. “scudo penale”. Sono stati, così, ridisegnati i confini della responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica, sancendone la punibilità solo nei casi di colpa grave e positivizzando alcuni criteri guida per il giudicante nell’esclusione della gravità della colpa.  Ebbene, tali interventi normativi hanno, certamente, reso ancor

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CITTADINANZA, PARRESIA E AVVOCATURA

di Massimo La Torre* – I. Intendo qui intrattenermi su tre grandi esperienze della storia politica e giuridica occidentale. Si tratta della cittadinanza, della parresia, o libertà radicale di parola, e dell’avvocatura. Inizio dunque con la cittadinanza. Il tema è immenso (invero tutte e tre le nozioni qui messe in gioco sono assai vaste). Di cittadinanza, in genere, si parla in tre significati. (i) La cittadinanza, dal punto di vista del diritto internazionale, si definisce come appartenenza, nazionalità. (ii) Vi è poi una definizione più vicina al diritto costituzionale e più centrale per la filosofia politica e del diritto, che è quella della partecipazione alla decisione sulla legge in una comunità politica. (iii) Vi è infine un terzo approccio alla cittadinanza, più sociologico, in cui la cittadinanza si definisce come appartenenza in termini sociali (gli inglesi parlano a tal proposito di “membership“, o “belonging“) o addirittura come appartenenza attiva, come coinvolgimento all’interno di una comunità dal punto di vista sociale, coinvolgimento relativo alla vita politica, impegno di partito od anche sindacale. Ora, chi sparla ritiene (e crede che la posizione adottata trovi conforto nella storia della nozione e della pratica di questa) che il senso centrale, il cuore della nozione corrisponda al suo significato “politico” o “costituzionale”: la partecipazione come titolarità di diritti politici.             Mi sia consentito argomentare innanzitutto a contrario. La cittadinanza non è mera “titolarità di diritti umani”. Questo è un punto molto importante: la cittadinanza – purtroppo – non è solo appartenenza o titolarità di diritti umani. Non si lascia ridurre a queste due situazioni. Su ciò ha scritto in maniera intensa e radicale una delle filosofe più interessanti del Novecento qual è Hannah Arendt, autrice di uno splendido libro come Le origini del totalitarismo[1]. Arendt riflette sulla grande tragedia del Novecento, ed arriva a questa conclusione: guai ad essere solo titolari di diritti umani. Se si è titolari di soli diritti umani si è persi. Perché? Perché non si ha cittadinanza: ciò che ci offre protezione è la cittadinanza. Ciò che ci protegge è fondamentalmente la comunità politica, la capacità di darsi delle leggi in un contesto istituzionale e di contribuire al darsi delle norme in tale contesto, unitamente alla capacità di poter rendere effettive queste norme. I diritti umani, purtroppo, non offrono nulla di ciò. Lo dà la cittadinanza. Ed ecco perché la cittadinanza viene inclusa tra i diritti umani: l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il diritto alla cittadinanza è un diritto umano fondamentale[2]. Ma se un soggetto è titolare di soli diritti umani e non gli viene concessa la cittadinanza è posto in una situazione di pregiudizio, di grave pericolo. Fondamentalmente è uno stateless, apolide, un “senza patria”. (B) Ora, la cittadinanza non è nemmeno soltanto “capacità giuridica o soggettività giuridica”. Hannah Arendt sbaglia, allorché crede che la soggettività di diritto equivalga alla cittadinanza. Chi ha compiuto gli studi del primo anno di Giurisprudenza sa bene che la soggettività giuridica non equivale – fortunatamente – alla cittadinanza. Anche il non-cittadino è soggetto di pieno diritto: egli può stipulare un contratto, acquisire ed essere titolare di diritti reali, agire in giudizio etc. È possibile una qualche attività giuridica importante ed un riconoscimento della soggettività giuridica anche per il non-cittadino. C’è tuttavia chi non vuole questo, e forse ciò non era del tutto chiaro alla Arendt. La cittadinanza però non è mera “appartenenza”. Ché questa è un criterio spesso definito in termini etnici o comunitaristici, senza che ciò implichi alcuna qualità di soggetto autonomo padrone di un proprio progetto di vita. La sudditanza è anch’essa appartenenza, ma non è ovviamente cittadinanza, che rinvia ad una posizione di autonomia e dignità. Il suddito subisce l’appartenenza, il cittadino decide su di essa. Determinante per la vigenza di uno status proprio di cittadinanza è l’attribuzione di una competenza su competenza, come accade per la sovranità di cui la cittadinanza non è che un’altra faccia. Si è cittadini e v’è cittadinanza, e si è titolari del diritto di contribuire alla produzione ella norma sulla cittadinanza. La cittadinanza non è neppure “partecipazione”, là dove questa si intenda come partecipazione “non qualificata”, nel senso sociologico menzionato prima. Non basta essere membro di un sindacato o di un partito politico, o di un comitato di quartiere per avere cittadinanza: la cittadinanza è titolarità dei diritti politici, della possibilità di contribuire ed avere accesso alla produzione della legge, della norma giuridica. Ciò significa anche che cittadinanza e democrazia sono situazioni intimamente connesse. La cittadinanza è una delle due facce della moneta dell’ordine politico democratico. L’altra faccia è la sovranità, il potere di deliberare e di statuire la norma vincolante per la comunità di riferimento. Giungo pertanto alla mia tesi centrale sulla cittadinanza. La definizione di cittadinanza che adotto non è propriamente “mia”, fa parte di una antica tradizione di pensiero. Questa di séguito ritengo sia la definizione corretta. Il cittadino è membro partecipante di una comunità politica e lo è mediante l’accesso alla produzione delle norme giuridiche, tanto generali quanto individuali, vale a dire alla legislazione e – in particolar modo – anche alla giurisdizione. Questo è un punto chiave per l’idea che qui presento. Il cittadino deve poter accedere anche alla giurisdizione, alla produzione della norma individuale (utilizzando la terminologia kelseniana, adottando pertanto la differenza tra norma generale del legislatore e norma individuale contenuta nella sentenza, nella decisione giudiziale). Il cittadino deve poter accedere a tale produzione di norme su un piede di uguaglianza con gli altri cittadini. Tale uguaglianza si specifica – questo è un punto fondamentale – nella comune libertà di chiedere e dare ragione. La cittadinanza implica il potere, una libertà, di chiedere ragioni e di dare ragioni per ciò che concerne tutti gli atti di autorità che si esige siano applicabili al cittadino stesso. La cittadinanza si inventa in Grecia, fondamentalmente, e ad Atene in particolare. La tradizione politica e culturale degli Antichi, nonostante tutti i salti, i cambiamenti e le fasi di “quiescenza” del Cristianesimo (che sconvolge il mondo classico) e

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