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UNA PIOGGIA DI SUICIDI IN CARCERE E UN SILENZIO SENZA DIGNITÀ

In questi giorni, ma possiamo ben dire in queste ore, si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari. Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto… L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Allignato su scarti, debolezze, ipocrisie. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Gli orologi, infatti, servono per misurare il tempo che ci separa dalla prossima morte tra le sbarre. Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura  l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese. Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare (un tempo era da intendersi quale carcerazione preventiva e tale, purtroppo, è rimasta). Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio. Presso i lavori preparatorii della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria (quando ogni altra misura risultasse inidonea). Ebbene, questa regola civile viene ignorata, derisa, vilipesa, da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio. Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante (dunque con un giudizio prognostico positivo); che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati (agli arresti domestici) con un braccialetto elettronico… Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò. Egli “DEVE” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti. Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità. Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici, assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’ iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie. Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Una edilizia da ripensare tout court.  Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici (spesso tardivi) soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso. Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la frustrazione, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e con i difensori andrebbero rafforzate e disciplinate con prospettive moderne e recuperative. L’orizzonte politico, su tutto ciò, è muto; incapace di esprimersi, a meno che non sia coinvolto.  Una sola cosa è certa;  l’uomo entrò in custodia presso lo Stato ma ne uscì fuori (da una custodia). Morto. Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature; e ciò per ogni singolo suicidio. Che si metta mano, finalmente, ad un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione. Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e quelli sociali.  L’orologio continua a ticchettare; è il solo rumore percepibile; perché il silenzio di chi dovrebbe dire è assoluto; è il silenzio ipocrita di chi dovrebbe parlare, forte e chiaro, affinché ogni uomo sia giustamente rispettato e non già gettato via come un rifiuto. Ebbene, questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile.   Dobbiamo ricordare che il tema dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti Italiani 2024 faceva espresso riferimento alla odierna scottante tematica. Il 20 marzo l’astensione nazionale indetta dall’UCPI comprende tutto ciò e vuole fare uscire dall’ombra quel carcere oscuro di cui oggi parliamo con amarezza e contestuali propositi di impegno. Da domani, fino alla prossima notte dei tempi. Se non verrà scongiurata.   Catania, marzo 2024 A cura del Direttivo della Camera Penale di Catania “Serafino Famà”

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Avvocati democratici e separazione delle carriere: quale risorgimento?

di Alessandro Brùstia* – In un articolo recentemente apparso sul quotidiano La Stampa, Donatella Stasio, voce importante e autorevole del panorama giustizia (è stata a lungo responsabile dell’ufficio stampa della Corte Costituzionale), ha preso netta posizione contro la separazione delle carriere dei magistrati, paventando una deriva autoritaria connaturata – a suo dire – alla riforma. Non solo, la prestigiosa giornalista ha invocato anche una sorta di Risorgimento degli “avvocati democratici”, qualsiasi cosa voglia dire, chiedendo loro di contrapporsi ai penalisti dell’Unione Camere Penali e schierarsi contro la riforma, in difesa della democrazia del paese. Il sorprendente attacco ha trovato una ferma risposta dall’interno dell’Unione Camere Penali, ma ci dà ancora il destro per una riflessione sul ruolo degli avvocati penalisti nella società e per coglierne il grado di “democraticità” (seguendo sul punto la brutale semplificazione operata dalla giornalista). C’è stato chi ha acutamente sostenuto che non sono necessarie particolari dichiarazioni di fede in quanto un penalista è di per sé stesso implicitamente democratico. Infatti qualsiasi penalista, difendendo un imprenditore milionario così come l’ultimo degli ultimi nel più disperso dei tribunali italiani, difende al contempo valori e principi strettamente riconnessi a diritti umani garantiti dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali. È una posizione interessante e che non manca di affascinare, nella sua nuda semplicità: si è democratici per il mero ruolo che si ricopre e per la funzione sociale evidentemente legata alla professione svolta. Quanto poi all’Unione delle Camere Penali è davvero difficile dubitare che le battaglie dei penalisti, tutte riconducibili alla salvaguardia di principi di rango eminentemente costituzionale (diritto di difesa, presunzione di non colpevolezza, divieto di pene contrarie al senso di umanità, giusto processo…), possano non essere assistite da un marchio di democraticità doc. Quello dell’avvocatura penalistica – intesa sia a livello di singoli che di associazione – è, insomma, un impegno sociale forte, lontano da spinte corporativistiche (e, si badi, totalmente disinteressato dal punto di vista economico), che però non ha mai suggerito di escludere i relativi interlocutori politici dal novero dei democratici. Non l’abbiamo mai fatto, nemmeno nelle occasioni in cui abbiamo invano cercato alleati nella politica o tra le fila della magistratura associata rispetto a battaglie così strettamente legate ai diritti civili e umani e talmente autoevidenti da rendere francamente sorprendente una mancata condivisione. Così è stato, per esempio, per la battaglia contro la scellerata abolizione della prescrizione (fummo completamente soli in quell’occasione); così è, al momento attuale, in relazione al tentativo di smuovere le coscienze contro l’ignobile strage dei suicidi in carcere (è di questi giorni la notizia che ANM si è rifiutata di sottoscrivere un documento sul quale UCPI chiedeva la convergenza su temi così banalmente “oggettivi” come il carcere quale extrema ratio) o, ancora, la battaglia contro l’applicazione indiscriminata e barbara del 41 bis, tale da avere creato nelle relative sezioni delle carceri italiani delle autentiche enclave della Repubblica in cui i più scontati diritti sono sospesi. Bene, nemmeno di fronte a chi non concorda – e anzi osteggia – queste battaglie ci siamo mai sognati di dare, o togliere, la patente di democraticità che Donatella Stasio vorrebbe distribuire a questa o quella parte dell’avvocatura. E bene abbiamo fatto, dacché la scelta arbitraria su chi sia degno dell’interlocuzione politica, oltre che operazione di scarsa tenuta logica, è anche controproducente: chi, come i penalisti italiani, può confidare nella forza delle proprie idee non può temere (anzi, ha interesse!) che sulle stesse si apra un dibattito dalla dialettica anche aspra, ma su un piano di parità, di reciproco riconoscimento e reciproca legittimazione politica. Autoposizionarsi dalla parte dei buoni, dei genuini democratici, e additare infantilmente negli altri una devianza patologica di stampo illiberale, è esercizio che denota – questo sì – un approccio manicheo, semplicistico e drammaticamente immaturo dal punto di vista democratico. In fin dei conti delegittimare l’avversario significa solo una cosa: temere il confronto. Che, a pensarci bene, è esattamente quanto accade, da anni, per la riforma in tema di separazione delle carriere. *Presidente Camera Penale di Novara

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Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024

di Domenico Pasceri* – Si segnala all’attenzione dei lettori la tematica di particolare rilevanza sociale, prima ancora che giuridica, che è stata affrontata per la prima volta nel nostro Ordinamento dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 48/2024. Il tema trattato inerisce la rilevanza dell’istituto comunemente noto come “poena naturalis” e del suo rapporto con la finalità cui deve protendere la pena inflitta dallo Stato per la commissione di un illecito di rilevanza penale: ossia se sia conforme a giustizia punire l’autore di un reato colposo che sia rimasto, a sua volta, vittima del reato stesso ed abbia già patito una sofferenza interiore tale che, l’ulteriore persecuzione da parte dello Stato, risulterebbe inutile (in termini di rieducazione) oltre che sproporzionata ed eccessivamente afflittiva. La nozione di “poena naturalis”, quale concetto giuridico volto all’individuazione e alla valorizzazione di quella sofferenza interiore che l’autore del fatto illecito già subisce per gli effetti nefasti del reato stesso, è istituto già riconosciuto in alcuni ordinamenti europei come ad esempio quello tedesco, laddove è pacificamente ammessa la possibilità per il giudice di non irrogare la pena prevista dal sistema giudiziario quando il colpevole ha già subito le conseguenze “naturali” della propria condotta in misura “…talmente grav(e) che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo” (§ 60 StGB). Il caso trattato dal Tribunale rimettente era assolutamente calzante rispetto al tema trattato, in quanto ha avuto ad oggetto il decesso di un lavoratore, nipote stretto del titolare dell’azienda, che, in occasione di alcuni lavori su di un tetto, a causa della mancata attuazione di alcune misure di sicurezza, cadeva perdendo la vita. La vicenda si connotava di particolari che mettevano in risalto proprio quel patimento interiore richiesto dall’istituto in esame perché, all’arrivo dei soccorsi, questi trovano lo zio, particolarmente legato al nipote, che si disperava tentando inutilmente di rianimarlo. Inoltre, a dimostrazione del profondo legame familiare, anche durante il processo i genitori del ragazzo defunto non si costituirono parte civile. Proprio nell’alveo del principio insito nella teorica della “poena naturalis” ed in ragione del caso specifico oggetto di giudizio, il Giudice rimettente ha inteso sottoporre alla Consulta il problema dell’assenza nell’ordinamento italiano del giusto collocamento dell’istituto in commento e dei riflessi che esso avrebbe potuto avere sulla punibilità del reo, posto che, in siffatti casi «…qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne» (cfr. Sentenza Consulta par.1.1). Ed allora, con ordinanza del 20 febbraio 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso». Al fine di superare il vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni da affrontare, il giudice a quo ha correttamente evidenziato come la denunciata lacuna normativa andasse a violare i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, in ragione del fatto che, la sanzione irrogata dall’ordinamento statuario, in aggiunta alla sofferenza già patita, sarebbe percepita alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», non solo inidonea ad assolvere a quella funzione rieducativa a cui la pena stessa dovrebbe protendere, ma anche del tutto inutile nella prospettiva di ogni sua possibile declinazione finalistica, sia essa generalpreventiva, specialpreventiva o retributiva. Essa si risolverebbe, argomenta il Giudice rimettente, solo in una «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza». V’è da dire però che la Corte, seppur superando l’eccezione inerente il limite della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità (la Corte sul punto ha ribadito il principio ormai granitico secondo cui l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, trova il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte) non ha potuto addentrarsi oltre nella tematica alla stessa sottoposta in ragione della eccessiva ampiezza che la pronuncia additiva avrebbe avuto. Secondo il pronunciato della Corte, infatti, il Tribunale di Firenze non avrebbe ben definito i confini del petitum, tanto da risultare incompatibile con il tipo di pronuncia richiesta, posto che, pur ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità avrebbero poi incluso tutte le ipotesi di reato colposo (ivi comprendendo, tra l’altro, non solo i delitti ma anche le contravvenzioni), ed anche i rapporti inerenti i familiari non strettamente intesi (in ragione del novero soggettivo molto ampio indicato dall’art.307 quarto comma cp che si estende fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo e persino vincoli di affinità). Purtuttavia, (ed è questo quello che veramente conta) il pronunciato della Corte, sebbene di rigetto, ha comunque riconosciuto l’importanza e la centralità della tematica affrontata, lasciando al contempo intendere che il tema della pena naturale, se correttamente definito nei suoi confini applicativi, potrebbe trovare la giusta collocazione anche nel nostro Ordinamento per disciplinare quelle “…situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione” (da: La “Pena Naturale” al vaglio della Corte Costituzionale di Tullio Padovani).  La Corte infatti, criticando anche sotto altro profilo l’ordinanza di rimessione, ha sottolineato come l’istituto della pena naturale non può essere ricondotto nell’alveo di una pronuncia in rito (qual è la declaratoria ex art. 529 cpp), ma va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale, presupponendo con ciò il pieno accertamento delle modalità del fatto, ben potendo essa costituire “…in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva” (cfr. sentenza par.5.3.1). Ciò che si auspica, pertanto, è che, lo

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Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* –  Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior. La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole. La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato.  Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato. Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale.  Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022. Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità). Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale. Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata

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SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO E MORTE PER PENA

  di Orlando Sapia – L’esecuzione penale nel corso degli ultimi decenni si è caratterizzata per il patologico fenomeno del sovraffollamento carcerario che ha portato lo Stato italiano ad essere condannato dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in svariati procedimenti, aventi ad oggetto richieste di indennizzo per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU, sino ad arrivare alla sentenza c.d. pilota emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia che, oltre agli indennizzi, ha imposto allo Stato di realizzare un’apposita azione legislativa al fine di consentire una deflazione della popolazione carceraria, così da garantire le condizioni essenziali per il rispetto dei diritti umani, tra le quali la disponibilità di almeno tre metri quadri per soggetto detenuto all’interno delle camere di detenzione. Sull’onda della sentenza CEDU sono stati adottati provvedimenti di natura legislativa al fine di evitare l’accesso al circuito dell’esecuzione penale, in senso stretto, di coloro i quali siano coinvolti nelle fasi di indagine e processuale. In questo senso si segnala la L. n. 67/2014 che ha introdotto l’istituto della messa alla prova, art. 168 bis c.p., anche per gli adulti, nei reati di competenza del tribunale monocratico, e la possibilità di declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, art. 131 bis c.p., per alcune fattispecie di reato che non destano un grande allarme sociale. Sempre sotto il profilo legislativo, con il D.L. n. 146 del 2013, convertito dalla L. n. 10 del 2014, è stata istituita la liberazione anticipata speciale che ha, temporaneamente, innalzato la detrazione pena da quarantacinque a settantacinque i giorni, per ogni semestre di buona condotta, così da favorire una più rapida diminuzione della popolazione detenuta. Al fine di fronteggiare le problematiche causate dal sovraffollamento e, così, non incorrere in violazione dei diritti umani, conseguenti alla scarsità degli spazi a disposizione per ogni soggetto detenuto, è stata introdotta con la circolare 14/07/2013 del DAP la sorveglianza dinamica che ha permesso ai soggetti detenuti, in media e bassa sicurezza, di poter vivere gli istituti di pena al di fuori delle camere di detenzione per almeno otto ore al giorno, fino ad un massimo di quattordici, in  modo da rendere più dignitosa l’esecuzione penale in un’ottica di rilancio dell’attività trattamentale.     Purtroppo, oggi, ad oltre dieci anni di distanza dalla storica pronuncia e dagli interventi legislativi/amministrativi che ne sono seguiti, la situazione all’interno degli istituti di pena continua ad essere allarmante, essendo il sovraffollamento carcerario una costante della realtà penitenziaria. Attualmente il numero dei detenuti ha superato le 60.000 unità e, con un aumento mensile di circa 400 detenuti, in breve tempo raggiungerà la soglia di criticità che valse la condanna da parte della Corte EDU nell’anno 2013.[1] La cronicità del sovraffollamento penitenziario è la diretta conseguenza di due fattori che congiuntamente sono all’origine del drammatico paradosso per cui lo Stato italiano, nell’esercizio del potere punitivo, dimostra di non avere quella civiltà che vorrebbe insegnare a chi viola i precetti penali. La prima causa è la riforma dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Trattasi a tutti gli effetti di un “frutto avvelenato” che la Prima Repubblica ha dato in lascito alla Seconda. Difatti, fu proprio al termine della X Legislatura, che venne promulgata la Legge Costituzionale n.1 del 06/03/1992. A seguito di questa riforma costituzionale è stato disposto che la legge di amnistia/indulto debba essere deliberata a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Maggioranza così elevata non sono richieste nemmeno per la deliberazione definitiva delle leggi costituzionali, con il paradosso che sarebbe più facile modificare la normativa relativa alla produzione giuridica che approvare la fonte di produzione, ovverosia la legge di clemenza[2]. Da allora si è avuta solo la legge sull’indulto del 2006, causa di forti tensioni all’interno di quell’esecutivo che di lì a poco fu sfiduciato dal Parlamento. L’altro fattore è la pervicace attuazione di politiche securitarie che producono il sistematico aumento degli edittali di pena, la continua creazione di fattispecie di reato e il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative. La promulgazione di “pacchetti sicurezza” è tanto costante quanto immotivata, sotto il profilo di quella che è la funzionalità denunciata ufficialmente, visto il costante calo degli indici di commissione di reati che si è riscontrato nel corso degli ultimi anni. È al contrario direttamente proporzionale alla raccolta del consenso elettorale, essendo attualmente sotto un profilo di finanza pubblica meno oneroso l’affermazione di un generico, quanto imprecisato, diritto alla sicurezza, rivolto alla “pancia” del paese, piuttosto che garantire la sicurezza dei diritti sociali, che trovano la loro diretta legittimazione nella Carta Costituzionale. Se a questo si aggiunge un utilizzo eccessivo della leva cautelare, tanto da riguardare in maniera tutt’altro che occasionale anche soggetti che all’esito di lunghi iter processuali sono poi assolti, ne consegue che oggi è molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne.[3] Sotto quest’ultimo profilo, si evidenzia la frequenza sistemica degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 ogni anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro.[4] Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale o migranti, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in poco più di tre mesi, sono trentadue i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni.[5] È oggi urgente che il legislatore e il suo alter ego la politica trovino il coraggio di fare ricorso agli

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Principio di autonomia della responsabilità dell’ente

a cura di avv. Francesco Mazza, avv. Francesco Catanzaro, avv. Maria Laura De Caro, avv. Serena Lacaria, avv. Alessio Russo, dott.ssa Annalaura Ludovico Da poco più di un ventennio è stata introdotta all’interno del nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti i quali divengono, così, centri di imputazione autonomi e ulteriori rispetto all’autore persona fisica del reato. L’art. 1 del d.lgs. in esame chiarisce il campo di applicazione della disciplina relativa alla “responsabilità da reato degli enti”, stabilendo che essa possa sorgere sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica sia a carico di quelli che ne sono privi. Non sono invece soggetti a tale normativa gli enti di cui al comma 3: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono attività di rilievo costituzionale. La ratio di tale esclusione va ricercata nella considerazione che, con riferimento a detti enti, le tipologie di sanzioni previste dal decreto legislativo 231/2001, quali la sanzione pecuniaria e la sanzione interdittiva, sarebbero inapplicabili o disfunzionali, perché i loro effetti negativi, lungi dal ricadere direttamente sull’ente, si produrrebbero invece in capo ai cittadini. Occorre precisare, inoltre come non sia sufficiente che tali soggetti commettano un fatto di reato, ma è necessario, affinché sorga anche la responsabilità dell’ente, che il comportamento penalmente illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, con la precisazione ex art. 5 comma 2 che, qualora il soggetto attivo del reato agisca per un interesse esclusivo proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere. Così facendo si assiste ad un superamento del dogma secondo cui “societas delinquere et puniri non potest” per il quale solo una persona fisica può rispondere della commissione di un reato e non anche un soggetto giuridico. Tuttavia, la normativa in esame, per come delineata e precisata anche dalla Suprema Corte, prevede che l’ente possa andare esente dalla responsabilità da reato, ma le condizioni di tale esenzione dipenderanno dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: Se il soggetto attivo del reato si trova in una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà sottrarsi a responsabilità solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato i modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati; Se il reo si trova in posizione subordinata, deve essere l’accusa a dimostrare in giudizio che il modello di gestione adottato non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In relazione a quanto sopra delineato appare doveroso rappresentare le posizioni dottrinali e giurisprudenziali sopravvenute, soprattutto relativamente al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8, comma 1, lett. b) del d.lgs. 231/2001.   Un esempio esplicativo della disciplina in esame è certamente riconducibile all’ipotesi di prescrizione del reato presupposto, la cui conseguenza è quella secondo cui il giudice istruttore sarà comunque tenuto a valutare e procedere tramite un percorso processuale del tutto autonomo ed infatti, essa sussiste anche nelle ipotesi in cui il reato “presupposto” si estingue, eccezion fatta per le ipotesi di amnistia. L’illecito dell’ente, pertanto, pur essendo inscindibilmente correlato alla commissione di un reato da parte di una persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia giuridica e a confermarlo è la Suprema Corte in due sentenze che si qualificano come promotrici di un pensiero per il quale si ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo. La prima sentenza in esame è la n. 21640/2023 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’interno della quale viene precisato che il giudice di merito non solo non ha accertato gli specifici profili di colpa di organizzazione, ma non ha neppure verificato se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia, ha chiarito la Corte di Cassazione, i criteri valutativi, tramite i quali la Corte d’Appello sia pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente, sono stati valutati tramite una formula del tutto generica decisamente inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità in capo all’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in quanto totalmente carente di elementi concreti indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’ente. Nel motivare quanto appena sostenuto, la Suprema Corte richiama un’altra sentenza, la n. 23401/2022 della Sesta Sezione Penale dell’11.11.2021, dep. 2022, secondo la quale: “l’addebito della responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale del soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto – normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo”. Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello organizzativo adottato, il giudice di merito è chiamato ad adottare il criterio epistemico – valutativo della c.d. “prognosi prostuma”: tale criterio si sostanzia nell’attività da parte del giudice di collocarsi, seppur idealmente, nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se, nell’ipotesi in cui si fosse osservato il modello organizzativo per come previsto, il pericolo di verificazione dell’illecito si sarebbe eliminato o quanto meno ridotto. Sarà lo stesso giudicante, pertanto, a dover dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, la carenza di quel complesso di regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, le quali trovano la loro sede naturale all’interno dei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” (MOG), meglio delineati all’interno degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. Anche la dottrina maggioritaria si trova d’accordo nel sostenere quanto affermato dalla Suprema Corte, soprattutto in relazione all’operato del giudice di merito relativamente all’adeguatezza del modello sopraindicato in quanto dovrà dimostrare, tramite una verifica concreta e non tramite un semplice criterio sillogistico per cui la commissione del reato equivale all’inidoneità dell’assetto organizzativo, se l’eventuale rispetto della normativa sancita dal MOG idoneo delineato dall’ente avrebbe portato a far sì che l’evento non si verificasse. In conclusione, la responsabilità dell’ente deriva dall’idoneità e correttezza del modello organizzativo

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Laboratorio di pasticceria presso la casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro

La Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” sostiene il progetto avviato dalla società cooperativa Mani in Libertà, con la partnership della Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro, del locale Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di Promidea e delle associazioni Liberamente ed Amici con il cuore che hanno aderito ad un bando indetto da Fondazione con il Sud, teso alla formazione professionale e all’assunzione dei detenuti. L’iniziativa ha determinato nel corso del 2020 l’avvio di un laboratorio artigianale di pasticceria, che utilizza il marchio Dolci(C)reati”, si è subito distinto per la bontà dei prodotti dolciari, preparati attribuendo prevalenza alla qualità delle materie prime e alla professionalità dei pasticcieri, rappresentando per gli interessati una straordinaria forma di riscatto e di recupero sociale anche attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro. Sebbene si tratti di una piccola realtà, il laboratorio attivo all’interno della Casa Circondariale ha le potenzialità per affermarsi come una pasticceria di eccellenza meritoria di sostegno e solidarietà. Queste le ragioni che hanno determinato la Camera penale territoriale, da sempre sensibile al tema del recupero e del reinserimento sociale dei detenuti, ad avviare interlocuzioni con l’imprenditoria, le associazioni, gli enti pubblici, quelli privati, la scuola, i professionisti e la comunità, per favorire la diffusione della produzione, la conoscenza del progetto, il suo sostegno e più in generale per sensibilizzare verso i temi del recupero sociale dei cittadini condannati. In occasione del Natale abbiamo significativamente contribuito alla vendita dei panettoni riscontrando un’importante risposta dei soggetti coinvolti, rendendo così possibile la stabilizzazione del rapporto di lavoro di uno dei pasticcieri. Il nostro impegno rimane immutato e crediamo di poter conseguire altri traguardi anche grazie alla generosità, all’interesse ed al sostegno dimostrato da alcuni imprenditori della città per un progetto che, al pari di altri sul territorio nazionale, consolida l’idea dell’attuazione della risocializzazione dei cittadini condannati attraverso la formazione professionale ed il reinserimento nel mondo del lavoro. Catanzaro 25.3.2024 Responsabili dell’Osservatorio carcere ed esecuzione penale Avv. Pietro Mancuso Avv. Vincenzo Galeota Il Presidente Del Consiglio Direttivo Avv. Francesco  Iacopino   RASSEGNA STAMPA https://shorturl.at/lquWZ https://shorturl.at/wIVZ1  

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IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico

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FERMARE I SUICIDI IN CARCERE. NON C’È PIÙ TEMPO!

  La Camera Penale di Catanzaro aderisce all’astensione nazionale di giorno 20 marzo, proclamata dall’UCPI, per chiedere a Governo e Parlamento un intervento urgente per porre fine al sovraffollamento carcerario e al dramma dei suicidi in carcere. Le politiche in materia di sicurezza realizzate dallo Stato italiano negli ultimi decenni sono la causa del fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario e delle conseguenze inumane e degradanti dello stato di detenzione, certificate persino da pronunce di condanna da parte della CEDU nei confronti della Repubblica Italiana; fra le tante si ricorda la sentenza “pilota” emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia, nel 2013. Sono passati oltre dieci anni da questa storica pronuncia e, nonostante l’indice di commissione dei reati sia in costante calo, la situazione all’interno degli istituti di pena non è mutata: il numero di detenuti è superiore alle 60.000 unità e, con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, a breve raggiungerà il livello che valse la condanna internazionale nell’anno 2013. La verità è che, a seguito di un costante quanto immotivato aumento degli edittali di pena e di una creazione spropositata di fattispecie delittuose, promulgate in esclusiva ottica di raccolta del consenso elettorale, è oggi molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne, visto il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative o l’uso eccessivo della leva cautelare, soprattutto alle nostre latitudini. Il risultato è uno Stato che con frequenza sistemica è obbligato a indennizzare i propri cittadini a causa degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro (dati tratti da Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati di B. Lattanzi e V. Maimone). Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I cittadini detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, sono venticinque i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni. È necessario che il Governo e il Parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni che possono essere immediatamente adottate e consentire l’equilibrio del sistema penitenziario sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza. Queste le ragioni dell’astensione nazionale proclamata dall’UCPI per il 20 marzo, a cui la Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro aderisce, affinché il tempo della pena sia un tempo utile a realizzare l’integrazione sociale del reo e non conduca più alla morte per pena. Catanzaro, 15 marzo 2024 Il Consiglio Direttivo   Rassegna stampa: https://shorturl.at/eEIMU https://shorturl.at/dmuDL  

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L’INARRESTABILE DERIVA DELLE INGIUSTE DETENZIONI

  di Francesco Iacopino –  La vicenda giudiziaria di Beniamino Zuncheddu ha scosso la coscienza collettiva. Arrestato a 27 anni per una “strage” mai commessa, ha sopportato per 33 interminabili anni l’ingiusta privazione della sua libertà, dei suoi sogni e della sua stessa vita, consumata per metà negli angusti spazi di un istituto di pena. Un caso eclatante di mala giustizia, tutt’altro che isolato. Il caso Zuncheddu – lo sanno bene gli addetti ai lavori – rappresenta purtroppo la punta dell’iceberg del fenomeno ben più ampio e diffuso dell’errore giudiziario, nel cui genus si inquadra la inarrestabile species dell’ingiusta detenzione, costituita dal carcere preventivo, in misura cautelare somministrata ad alte dosi nei confronti di chi si trovi catapultato nel tritacarne giudiziario del nostro Paese, in attesa di un giudizio. Come sempre, la nuda aritmetica è idonea a offrirci una prima, efficace, rappresentazione fotografica del fenomeno. E le immagini sono allarmanti. Negli ultimi trent’anni sono state detenute ingiustamente circa 30.000 persone, 1.000 all’anno, con una media di 3 al giorno. Lo Stato ha corrisposto quasi un miliardo di euro di indennizzo nei confronti delle vittime della (in)giustizia. Per quanto esondanti, però, i numeri sono tuttavia parziali e incapaci di restituirci l’effettiva dimensione drammatica della realtà. Vi sono tanti imputati, cautelati nel corso del processo e poi assolti nel giudizio di cognizione, che per paura o per stanchezza non se la sono sentita di avviare iniziative giudiziali contro lo Stato, finalizzate al riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ancora, negli anni, molte richieste sono state respinte sistematicamente da una giurisprudenza restrittiva che ha ravvisato la “colpa” dell’arrestato, ogni qual volta questi si sia avvalso durante il processo (fosse anche nelle sole fasi iniziali) del diritto al silenzio. Con evidente contraddizione di un sistema che, con una mano, riconosce il silenzio quale espressione del diritto di difesa (nel rispetto del principio del nemo tenetur se detegere) e, con l’altra, “usa” l’esercizio di quel diritto quale circostanza ostativa al riconoscimento dell’indennizzo da parte dello Stato. Oltre al danno, la beffa. Di fronte alla drammaticità del fenomeno, dobbiamo riconoscere che il nostro tempo è contrassegnato dalla esasperazione del momento punitivo, tanto nel corso del giudizio, ove sempre maggiore è l’uso intensivo, bulimico, della leva cautelare – e, in particolare, della custodia in carcere (da tempo svuotata della sua dimensione di extrema ratio) –, quanto nella fase dell’esecuzione penale, ispirata sempre più da una logica carcerocentrica. Come ha ben scritto il sociologo e antropologo francese Didier Fassin nel suo saggio “Punire. Una passione contemporanea”, viviamo in una società punitiva che negli ultimi 40 anni è progressivamente (ri)entrata nell’era del castigo. Basti pensare che in tale forbice temporale i tassi di incarcerazione sono aumentati del 180%. È la corsa folle, inarrestabile, del moderno penale vendicativo, onnivoro, insaziabile. Ad amplificare il fenomeno punitivo, l’apparato mediatico-giudiziario, che alimenta il sovradosaggio farmacologico della penalità nel tessuto sociale, oramai assuefattosi alla terapia intensiva delle manette in un circolo vizioso che non si riesce più a spezzare. E così, in una democrazia emotiva, davanti al “Tribunale del Popolo” la sentenza sociale è emessa in modo rapido e sommario, senza l’osservanza di regole formali. In barba alla presunzione di innocenza, prescindendo dallo sviluppo del processo nella sua sede naturale si assiste alla lettura di verdetti inappellabili, con danno reputazionale incalcolabile, essendo noto a tutti che l’assoluzione emessa all’esito del giudizio ordinario se, da un lato, servirà a tenere pulita la “fedina penale”, alcuna incidenza avrà invece su quella sociale. In questo stato di cose, bisogna prendere atto che il modello pan-penalistico che si è fatto progressivamente strada negli ultimi decenni, regolando spesso con la leva penale il disagio sociale, si è rivelato fallimentare. L’eccesso di penalità non ci ha restituito maggiore sicurezza collettiva. Al contrario, ha eroso gli spazi di libertà, come ci insegnano le esperienze vissute sulla carne viva dai tanti, troppi Beniamino Zuncheddu, persone della porta accanto che hanno conosciuto il volto muscolare dello Stato. Non è possibile indagare in questa sede le molteplici cause del fenomeno. Una, però, non può essere taciuta e riguarda il fattore culturale. Bisogna riallinearsi anche nel discorso pubblico e nella ragione collettiva all’orizzonte assiologico disegnato dai nostri padri costituenti. Il diritto penale, oggi, non rappresenta più la Magna Charta del reo, il limite alla pretesa punitiva dello Stato, ma uno strumento di lotta sociale. Ecco perché l’unico argine alla deriva punitiva è il recupero dell’impegno civile in difesa dei valori non negoziabili sui quali è edificata la nostra civiltà del diritto. In tale direzione, come ci insegna Vincenzo Maiello, è necessario opporre “al moderno diritto penale di lotta, una moderna lotta per il diritto”.

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