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SEPARAZIONE DELLE CARRIERE: “DIVIETO DI TRANSITO” O “DIVIETO DI COABITAZIONE” ?

di Alberto Gullino* –   La Magistratura vi si oppone, intanto, per il timore che la separazione delle carriere possa finire con il sottomettere il PM al potere esecutivo, ma – principalmente – perché essa impedirebbe un virtuoso travaso della “cultura della giurisdizione” dai magistrati giudicanti a quelli inquirenti. Il primo argomento, sinceramente, mi pare pretestuoso: non riesco a capire come la creazione di una carriera del PM separata da quella dei giudici, e, quindi con ordinamento, disciplina, e CSM autonomi, possa determinarne la sottoposizione all’esecutivo. Si tratterebbe di una mera duplicazione dei meccanismi di garanzia attualmente previsti indistintamente per la Magistratura nella sua interezza, e quindi della replica del modello attualmente vigente, concordemente ritenuto più che idoneo a garantire autonomia ed indipendenza delle toghe: non vedo perché un modello che garantisce (forse anche troppo !) autonomia e indipendenza a magistratura giudicante e magistratura inquirente, non dovrebbe invece funzionare se replicato per la sola  magistratura inquirente. Il secondo argomento soffre, a mio avviso, di un vizio logico di fondo: quello di ritenere che la identità, rectius comunanza, delle carriere tra giudici e Pubblici Ministeri sia l’unico – o comunque il più efficace – strumento per infondere in questi ultimi la “cultura della giurisdizione”. I termini della querelle sono noti: da coloro che l’avversano si sostiene che la separazione delle carriere farebbe venir meno la possibilità – oggi assicurata – di un virtuoso travaso della cultura della giurisdizione dal giudice al PM; per converso, dai suoi fautori si sostiene che essa scongiurerebbe l’effetto inverso – e perverso – di un travaso della “cultura dell’inquisizione” dal PM al giudice. E ci si affanna a citare, da una parte esempi di atti di pubblici ministeri connotati da una sensibilità ai temi della presunzione d’innocenza ed al favor rei, certamente frutto della cultura della giurisdizione, e dall’altra esempi (invero assai più numerosi) di provvedimenti giurisdizionali intrisi di cultura inquisitoria. L’errore prospettico di una simile impostazione del dibattito risiede, allora, nell’equazione “cultura della giurisdizione = unicità delle carriere”, nel senso che l’obiettivo (indubitabilmente virtuoso ed auspicabile) di un PM quanto più possibile dotato di cultura della giurisdizione sia raggiungibile solo a condizione che egli faccia parte della stessa carriera del giudice L’argomento prova troppo, perché, già sul piano generale ed astratto, NON SPIEGA perché IL TRAVASO DOVREBBE VERIFICARSI SOLO IN UNA DIREZIONE: della cultura della giurisdizione dal giudice al PM, e non – anche, in direzione inversa – di quella dell’inquisizione dal PM al giudice. Ma, soprattutto, mi pare – in sé – profondamente erroneo l’assunto che la cultura della giurisdizione possa dipendere (per di più esclusivamente) dalla comunanza di carriera con il giudice: infatti, se cultura della giurisdizione vuol dire intima capacità di valutare i fatti con terzietà ed imparzialità, è di tutta evidenza che la comunanza di carriera, anzi, è in consustanziale contrasto con i concetti stessi di imparzialità e terzietà, perché su di essa si fonda lo spirito di “colleganza” che la connota e che, come si legge sul vocabolario della lingua italiana, vuol dire “Connessione, unione”. Non è vero, dunque, che la cultura della giurisdizione possa essere assicurata dalla comune carriera. È vero – semmai – il contrario. Se a ciò si aggiunge che la comune carriera si pone in stridente contrasto con l’art. 111 della Cost., che prevede che il giusto processo si svolga tra parti in condizione di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale, non resta che concludere che la separazione delle carriere sia imposta dalla nostra legge fondamentale, oltre che dalla inconciliabilità tra i concetti di cultura della giurisdizione e comunanza (nel senso di colleganza) delle carriere. Né coglie nel segno l’obiezione che il tema della terzietà ed imparzialità del giudice appartiene al processo, ma non alla disciplina ordinamentale, sicché non sarebbe lecito trarne argomento a favore della separazione delle carriere. È fin troppo chiaro, al contrario, che l’ordinamento giudiziario ha motivo di esistere solo ed in quanto diretto a regolamentare l’istituzione ed il funzionamento della magistratura al fine di consentire l’esercizio della giurisdizione: che, infatti, secondo il 1 comma dell’art. 111 della costituzione, “si attua mediante il giusto processo”. Insomma, la funzione giurisdizionale, esercitata da magistrati istituiti e regolati dall’ordinamento giudiziario, viene esercitata attraverso il giusto processo. Con la conseguenza che è l’ordinamento giudiziario ad essere ancillare rispetto al processo, e a dover adeguarsi alle regole del giusto processo, non viceversa. Sicché, se il processo richiede un giudice terzo ed imparziale, è l’ordinamento giudiziario a dover subire le modifiche necessarie a garantire terzietà ed imparzialità, prima fra tutte la separazione delle carriere. Il punto dirimente, a mio avviso, è proprio questo: se cultura della giurisdizione vuol dire capacità di valutare il fatto, la prova, l’atto con terzietà ed imparzialità, sì da recte ius dicere, essa potrà anche essere favorita ed arricchita da un interscambio tra il ruolo di PM e quello di giudice, ma sempre a condizione che mai si verifichi la loro appartenenza contemporanea alla medesima carriera, cosa che costituisce – in sé – la negazione della giurisdizione. Una volta stabilito, pertanto, che PM e giudici debbano avere carriere separate (nel senso di appartenenza ad ordini distinti, ciascuno con una propria autoregolamentazione ed autodisciplina, senza possibilità di reciproche interferenze), non vi sarebbe più motivo di non consentire il passaggio da una carriera all’altra: la separazione dovrebbe consistere non nel divieto di transito da un ruolo ad un altro, ma nel divieto di regolamentazione comune delle due carriere. Una volta assicurata una effettiva reciproca autonomia ed indipendenza dei giudici rispetto ai PM e viceversa, non vedo perché non potrebbe ammettersi che un PM, appartenente alla relativa carriera, regolamentata da un proprio organo di autogoverno, possa, ad un certo punto transitare in quella del giudice, a sua volta regolamentata da un proprio organo di autogoverno, o che un giudice possa transitare nei ruoli del PM. Insomma, quando si parla di cultura della giurisdizione, non bisogna perdere di vista il primo di tali due termini: la cultura. Che è il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze

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LA QUESTIONE MERIDIONALE NELLA NARRATIVA DI SAVERIO STRATI

di Stefania Mantelli* Molti intellettuali e storici si sono occupati di analizzare e descrivere il divario tra il Nord e il Sud del nostro Paese, lo squilibrio economico, sociale e culturale dall’unità d’Italia in avanti, rappresentando un destino differente, per una stessa Nazione. Un enorme contributo, in tal senso, è stato fornito anche dalla letteratura sul Mezzogiorno. Alcuni autori più di altri, e alcune loro opere in particolare, segnano un percorso importante per la comprensione dei fenomeni che si vogliono ricomprendere nella c.d. “questione meridionale”. Tra tutti, non può prescindersi da Ignazio Silone con “Fontamara” e la storia dei “cafoni”, i contadini senza speranza; Giovanni Verga con “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, ricompresi nell’incompiuto ciclo dei vinti; Carlo Levi con “Cristo si è fermato ad Eboli” che lo scrittore – confinato in Lucania dal fascismo – scriverà in chiave autobiografica, fornendo un affresco sulla tragica e povera vita contadina in quei luoghi magnifici; Corrado Alvaro con “Gente in Aspromonte” che narra della dura vita dei pastori, alternando un approccio moralistico ad una prosa pregna di lirismo. L’elenco, se proseguisse, sarebbe assai lungo! In questo filone, sebbene in una maniera diversa, possiamo inserire Saverio Strati, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Lo scrittore, nato a Sant’Agata del Bianco, il 16 agosto 1924, di famiglia povera, inizia a lavorare come contadino e poi operaio edile, dedicandosi solo successivamente a completare gli studi, grazie all’aiuto economico di uno zio emigrato in America. Nel ’53, durante la frequentazione della Facoltà di Lettere e Filosofia a Messina, consegna alcuni racconti al critico e docente universitario Giacomo Debenedetti e arriva così a pubblicare l’anno successivo il primo libro con Mondadori, una raccolta di dodici racconti, “La Marchesina”. Da lì inizierà la sua carriera di scrittore, con numerosi libri che lo porteranno a vincere vari premi letterari, tra cui il premio internazionale Vaillon nel 1960 e il Campiello nel 1977. Trascorre alcuni anni in Svizzera, perché tale era la nazionalità della moglie, per poi rientrare nuovamente in Toscana, stabilizzandosi a Scandicci. Il suo meridionalismo è proprio di quelli che sono partiti per necessità, che hanno ottenuto una qualche forma di riscatto dalla povertà da cui provenivano, ma che mai hanno rinnegato le loro origini. E se Corrado Alvaro, Mario La Cava, Fortunato Seminara hanno rappresentato un Sud statico e dolente, afflitto da ataviche e arcaiche tradizioni, nonché dall’ignoranza, aderendo ad una visione fatalista e pessimista del Mezzogiorno, Strati condanna l’immobilismo della gente di Calabria del tempo e incoraggia – attraverso i suoi personaggi – al riscatto, cogliendo i segni del progresso e insinuando la speranza che un cambiamento sia possibile. Pur narrando storie di miseria, arretratezza culturale, povertà e sfruttamento, davanti alle umiliazioni egli mette anche le speranze, governato dal “pessimismo della ragione, ma anche dall’ottimismo della volontà”. I personaggi dei suoi libri sono inizialmente braccianti e pastori, che tentano di lottare per una emancipazione alla quale, per le troppe avversità della vita, spesso rinunceranno. Tuttavia, nel seguito della produzione letteraria, queste figure lasceranno lo spazio all’operaio intellettuale che si ribella e cerca di cambiare il suo destino. L’autore, infatti, avanza nel suo percorso di scrittore osservando la realtà in movimento, in una chiave neorealista. Se nella raccolta La Marchesina i racconti sono ambientati nel mondo contadino, dove la classe dei nobili rappresenta nell’immaginario l’unico benessere possibile, quale alternativa alla fatica di badare agli animali e alla terra, in una realtà di arretratezza, dove si inizia a comprendere che l’istruzione può rappresentare un mezzo per vincere le ingiustizie sociali, con l’antologia Gente in viaggio prende l’avvio il tema del viaggio, per evadere, conoscere la città, il progresso per poi scoprirne le distorsioni, le superficialità, la corruzione che fanno riemergere l’autenticità delle origini. Esce, così, fuori anche il tema dell’emigrazione, come possibilità di riscatto ed emancipazione, trattata mirabilmente in molti suoi libri, da attento osservatore e protagonista allo stesso tempo di questo strappo dalla propria terra. Strati, in questa fase, sembra interessato soprattutto agli aspetti antropologici della cultura e della società calabrese, responsabili di una certa concezione della vita. Il suo realismo, infatti, riesce a cogliere lo stretto legame tra la cultura popolare e gli aspetti sociologici e storici della nostra regione. Nella sua produzione letteraria affronta, quindi, il tema dell’emigrazione, sia quella della prima parte del Novecento, determinata dalla voglia di riscatto, per cui l’America era vista come la meta da prediligere, sia quella successiva al ventennio fascista, quale fuga verso le nazioni più ricche soprattutto in Europa, toccando, con ancora maggior dolore, quella interna verso le zone più industrializzate del Paese che, rappresentando una Italia che procede a due velocità, lascia emergere la sofferenza per la scelta di lasciare indietro il Meridione, con la conseguenza di strappare le nuove generazioni alla loro terra e alle loro famiglie. Insomma, Strati esprime una narrativa impegnata, attenta al sociale, volta alla gente comune che è portatrice e destinataria del messaggio che l’autore vuole veicolare al lettore. Tenerissimo Tibi e Tascia, storia di due bambini, nel Mezzogiorno degli anni ’30, calati in un’atmosfera di innocenza e giocosità, sebbene vivano l’infanzia in un contesto miserabile e povero. Tibi riuscirà, seppur con la pena del distacco, ad emanciparsi da tanto dolore e partirà per una vita migliore; Tàscia rimarrà in una realtà di fatica e ignoranza, emblematica della sua condizione di donna nel primo dopoguerra. In a Mani vuote, il sogno del Nuovo Mondo, tanto agognato da Emilio, il protagonista, per sfuggire all’impoverimento della famiglia, a causa della morte del padre, e ad una madre autoritaria che preferisce sfacciatamente l’altro figlio, si delinea una narrazione che analizza i rapporti familiari e sociali. La vita sperata non lo renderà felice, troppi i disagi legati all’integrazione e alle difficoltà di apprendere una nuova lingua, per cui riapparirà, dimentico delle sofferenze che lo hanno portato ad emigrare, la nostalgia del rientro in Italia. In questo romanzo, come ne La Teda (dal nome della torcia di resina con cui si faceva luce nei tuguri dove uomini e animali vivevano insieme), ambientata nel

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POSSIBILI INCOMPATIBILITÀ DEL GIUDICE DELLA PREVENZIONE: ATTI ALLA CONSULTA

  di Marco Talini* La Cassazione approfondisce il tema delle possibili incompatibilità del giudice della prevenzione e rimette un’importante questione alla Corte Costituzionale. Note a Cassazione, Sezione Sesta n. 1328 del 10.9.2024, depositata il 4.12.2024 I.Il caso.Il Tribunale Collegiale di Firenze, Ufficio delle Misure di Prevenzione, richiesto dalla Procura della Repubblica di Livorno dell’emissione di misura personale (sorveglianza speciale) e patrimoniale (sequestro e confisca di un vasto compendio immobiliare e di ingenti somme di danaro), dopo aver, in un primo tempo, restituito gli atti al PM proponente ai sensi dell’art. 20 comma 2 d.lgs 159/2011, indicando specificamente le ulteriori acquisizioni istruttorie, sia in punto di pericolosità, sia in punto di accertamenti patrimoniali utili all’emissione dei provvedimenti richiesti, ricevute le integrazioni suggerite, disponeva, in identica composizione, il sequestro di tutti i beni mobili ed immobili indicati dal PM[1]. Eseguito, quindi, il sequestro, il Tribunale, sempre nella stessa composizione, apriva il contraddittorio, fissando l’udienza per la trattazione della proposta di applicazione delle misure personali e patrimoniali. La difesa, in via preliminare, invitava il Tribunale ad astenersi, assumendo che l’aver emesso il provvedimento di restituzione degli atti ex art. 20 comma 2 d.lgs 159/2001 aveva pregiudicato la sua imparzialità nel valutare il susseguente sequestro, e che, comunque, l’aver emesso, in successione, entrambi i provvedimenti di cui all’art. 20 d.gs 159/2011, lo rendeva incompatibile a valutare la richiesta di confisca di cui all’art. 25 d.lgs 159/2011. Il Tribunale non accoglieva l’invito ad astenersi. La difesa, pertanto, presentava dichiarazione di ricusazione, cui era allegata una memoria contenente l’eccezione d’illegittimità costituzionale degli artt. 34 e/o 37 cpp nella misura in cui non è prevista l’incompatibilità, e, conseguentemente, la ricusabilità del giudice della prevenzione che, investito della richiesta di sequestro, abbia restituito gli atti al PM per l’espletamento di nuove indagini finalizzate alla concessione di tale misura, e, comunque, del giudice della prevenzione che abbia emesso il sequestro a decidere sulla confisca. La Corte d’Appello rigettava la ricusazione e la difesa proponeva ricorso per cassazione.   II.La decisioneLa Sesta Sezione della Corte di Cassazione, valendosi anche del potere di esaminare direttamente gli atti quando è censurata la legge processuale (Sez. Un. 42792 del 31.10.2001, Policastro, Rv 229092), ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. Pen., in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 della Costituzione, trasmettendo gli atti alla Corte e disponendo la sospensione del giudizio in corso (Ordinanza n. 1328 del 10.9.2024, depositata il 4.12.2024, Presidente Ercole Aprile, Relatore Fabrizio D’Arcangelo). L’ordinanza si pone in rapporto di assoluta continuità con il percorso giurisprudenziale finalizzato alla giurisdizionalizzazione costituzionalmente orientata del sistema delle misure di prevenzione e lo fa intervenendo nella fondamentale materia delle possibili incompatibilità del giudice della prevenzione, al fine di garantirne, quanto più possibile, imparzialità e terzietà. Punto di riferimento essenziale è la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 24.2.2022, n. 25951, che, come noto, superando un contrasto tra diversi orientamenti di legittimità[2], ha affermato l’applicabilità al procedimento di prevenzione del motivo di ricusazione di cui all’art. 37, comma 1 cpp – come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale con sent. n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia in precedenza espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale. In realtà quella sentenza, ampiamente richiamata dall’ordinanza in commento, ha detto molto di più sul tema dell’estensione al procedimento di prevenzione delle incompatibilità mutuate dal processo penale. Senza negare la diversità di struttura e di scopo rispetto al processo penale, le SS.UU. hanno affermato che l’attitudine della prevenzione ad incidere su diritti fondamentali quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (art. 2 del Prot. 4 CEDU) e il diritto di proprietà ed iniziativa economica (artt. 41 e 42 Cost., art. 1 Prot. Add. CEDU), impone di garantire e preservare scrupolosamente l’imparzialità del giudice. Pertanto: “Individuato il referente della giurisdizionalizzazione del procedimento applicativo delle misure di prevenzione e dell’estensione allo stesso dei principi del “giusto processo”, tra questi ultimi assume un valore assolutamente primario quello dell’imparzialità del giudice, il cui difetto comporterebbe lo svuotamento sostanziale del significato proprio di tutte le regole e le garanzie processuali, che si risolverebbero in un mero e formalistico simulacro privo di alcuna reale incidenza sul corretto esercizio dello ius dicere. Appare così evidente come la disciplina informatrice della materia – processuale in genere e quindi valevole anche per il processo di prevenzione ndr – deve essere idonea ad evitare che il decidente possa essere o anche soltanto apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda, tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente esercitate; diversamente opinando, si finirebbe per relegare il procedimento di prevenzione in un ambito contraddistinto da minor tutela, a fronte di un sistema di garanzie che è naturalmente ed inscindibilmente connesso allo ius dicere in senso proprio che non conosce aggettivizzazioni ulteriori”. Non mancano, poi, opportuni richiami alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale, che, prima delle Sezioni Unite della Cassazione, sugli stessi presupposti,  aveva affermato che le misure di prevenzione personali e patrimoniali devono soggiacere al combinato disposto delle garanzie costituzionali e convenzionali  anche nel procedimento che ne disponga la applicazione, procedimento che deve rispettare i canoni generali di ogni “giusto processo” garantito dalla legge, assicurando la piena tutela del diritto di difesa del soggetto nei cui confronti la misura sia stata richiesta. Ed in tale contesto, il prerequisito dell’imparzialità e della neutralità del giudice, costituisce uno dei più rilevanti aspetti del principio del giusto processo (Corte Cost. sent 283/2000). Assai opportuno anche il richiamo a Corte Cost. n. 179 del 2024: “il processo intanto può dirsi giusto in quanto sia garantita l’imparzialità del giudice”, e l’imparzialità “non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del Giudice, distinguendola da quella degli altri soggetti pubblici, e condiziona l’effettività del diritto di azione e difesa in

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APPUNTI PER UNA VOCE SULLA LEGITTIMA DIFESA.

  di Fabrizio Cosentino* 1. L’istituto della legittima difesa è contemplato all’art. 52 del codice penale, che nella formulazione originaria recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Preservare sé stessi o il prossimo, da un pericolo concreto (non paventato) e presente, mantenendo un principio di proporzione tra offesa e reazione difensiva o interruttiva: questi sono i principi cardine che regolano l’ermeneutica di quella che viene considerata dalla dottrina giuridica penalistica una causa di giustificazione, scriminante o esimente, che conduce a non applicare la norma punitiva, rispetto ad un fatto che in altre condizioni, sarebbe normalmente da considerare reato.            2. L’istituto era già apparso nel codice penale sabaudo del 1859 agli artt. 559, 560 e 563. In particolare, l’art. 559 del codice penale sardo stabiliva che “non vi è reato quando l’omicidio, le ferite o le percosse sono comandate dalla necessità attuale di legittima difesa di sé stesso o di altri, od anche del pericolo in atto di violento attentato” e all’art. 560 si precisava che “sono compresi nei casi di necessità attuale di legittima difesa i due seguenti: 1) se l’omicidio, le ferite, le percosse abbiano avuto luogo nell’atto di respingere di notte tempo la scalata, la rottura di recinti, di muri, o di porte d’entrata in casa o nell’appartamento abitato o nelle loro dipendenze; 2) se hanno avuto luogo nell’atto della difesa contro gli autori di furti o di saccheggio compiuti con violenza verso le persone”. Francesco Carrara, nel suo Programma del Corso del Diritto Criminale dato alle stampe a beneficio dei propri «scolari» il 10 dicembre 1859, nel discutere intorno alla «coazione», dettava i cardini della «necessaria difesa», ponendo a fondamento di fatto dell’istituto «il timore», di un male non ancora patito[1], e sotto l’aspetto giuridico la cessazione del diritto di punire nella società (e non già che la società eserciti il diritto di punire per delega del privato). Scriveva Carrara: “con l’imporre che l’innocente si lasci uccidere, si imporrebbe un disordine, e si andrebbe così a ritroso della legge di natura che è la unica base del giure penale umano. Che se vi è disordine anche nella strage di un altro innocente (come, per esempio, avviene quando l’aggressore che si uccise era un pazzo) la parità dei disordini toglie sempre il diritto di punire, facendone cessare la causa”. Nell’opinione di Carrara chi difende la propria vita o l’altrui dal pericolo di un male ingiusto, grave e non altrimenti evitabile, che minaccia la persona, esercita un “vero e sacro” diritto, anzi un vero e sacro “dovere”, perché tale è quello della conservazione della propria persona.   La nozione di legittima difesa verrà poi introdotta stabilmente nel codice Zanardelli del 1889 agli artt. 49 e 50, distinguendo due casi: la necessità di “respingere” da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta; la necessità di salvare sé o altri da un pericolo grave e imminente alla persona, senza avervi dato consapevolmente causa, e che non si poteva altrimenti evitare (commodus discessus).   3. Il codice penale del 1930 provvederà a riformulare radicalmente la previsione di legge. Dai lavori preparatori al codice penale emanato sotto il fascismo, emerge una sostanziale avversione alle novità introdotte dal c.d. codice Rocco. In particolare, era opinione della suprema magistratura, in un’ottica di adesione – con spiacevole espressione di piaggeria – alla “nuova concezione statale del Fascismo” come negazione del contratto sociale (ovvero, in senso autoritario), che la legittima difesa meritasse di essere confinata nell’ambito della difesa personale e non di qualsiasi altro diritto. Le Corti di appello intervenute sul tema mostrarono forte preoccupazione per la «inopinata» estensione della legittima difesa ai diritti di proprietà, ritenendo “troppo lata e pericolosa la tutela accordata per la difesa di qualunque diritto” (così, ad es., si esprimeva la  Corte d’Appello di Messina). La Corte d’Appello di Napoli annotava la preoccupazione per il prospettato allargamento, laddove “rimanesse in vita il giurì, notoriamente proclive ad accedere alla richiesta di detta scriminante” (Ibid., 399). Anche la Procura Generale di Palermo, si era opposta all’innovazione, richiamando l’attenzione sulla necessità di mantenere limiti alla «incolpata tutela»: “la legittimità dell’azione, che può condurre anche alla uccisione del proprio simile, non può essere conceduta, se non quando vi sia una violenza, non il pericolo di una offesa contro cui si reagisce”. Non dissimile l’atteggiamento delle Università, mentre più aperte al dialogo appaiono le posizioni assunte dagli ordini degli Avvocati. Mentre le Commissioni Reali degli Avvocati e Procuratori di Bologna, di Genova, Trieste, Udine, Pisa e Palermo manifestavano il medesimo scetticismo, per una formula legislativa che allargava il campo fino a comprendere la difesa dei diritti di proprietà, e così anche il Sindacato degli Avvocati e Procuratori di Cagliari e Lanusei, non mancarono le adesioni al progetto innovativo. Gli avvocati di Milano, ad es., consideravano “ottimo l’art. 54, che precisa il concetto della legittima difesa e costituisce un encomiabile miglioramento in confronto alla formulazione dello stesso concetto nell’art. 49, n. 2 codice vigente”. Anche per gli avvocati di Venezia, l’estensione della legittima difesa a qualsiasi diritto, “benché osteggiata dalla Corte suprema, ci sembra approvabile: la Corte si preoccupa che l’art.54 allarghi eccessivamente i confini della difesa privata, mentre questa dovrebbe essere circoscritta al caso di attacco alla persona. È strano l’appunto della Corte Suprema che, pur vigendo l’articolo 49 attuale, aveva molte volte fatto applicazione della massima di diritto comune qui continuat non attentat la quale evidentemente è di una portata molto più ampia di quella vim vi repellere licet”. In Commissione, emersero le medesime preoccupazioni sull’eccessivo allargamento dello spazio concesso alla difesa privata, inteso come una concessione al lassismo. Nel verbale del 16 marzo 1928, il commissario Gregoraci sintetizza e ribadisce la critica: “la cosa è tanto più pericolosa, in quanto, non solo i giurati ma la stessa magistratura, è già oggi troppo proclive ad ammetterla”. Era però di contrario avviso il

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MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE.

di Francesco Iacopino* Nel nostro ambiente si afferma, simpaticamente, che avvocati e magistrati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Al di là della boutade, lo stato costituzionale di diritto, fondato sugli apriori dei diritti umani, affida all’avvocato il ruolo di mediazione tra apparato giudiziario e singolo cittadino e di garanzia nella tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona. L’avvocato ha il dovere di impegnare il magistrato, sia esso requirente o giudicante, a misurarsi con l’altro punto di vista, a confrontarsi con i risultati delle proprie azioni, perché la realtà può (e deve) essere guardata da prospettive diverse e perché nella complessità del nostro mondo è molto alto il rischio (e il prezzo) dell’errore giudiziario. L’avvocato ha, in altri termini, la responsabilità di alimentare nella giurisdizione il confronto sul terreno delle idee e dei valori costituzionali, coagulando in tale direzione – come ebbe a dire Vincenzo Maiello – le «energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto». Quindici anni fa Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino, per i tipi di Laterza ha pubblicato un libro intitolato «difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore». Scrive il procuratore nel Suo piccolo pampleth: «il rischio che può accecare e dannare il magistrato è quello di credere, a un certo punto, di dover non soltanto affermare il diritto ma la giustizia con la iniziale maiuscola. La storia però ci insegna – come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky – che coloro i quali credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano, sono particolarmente esposti al rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica. Perché chi pensa di aver trovato la Giustizia e la Verità prima o poi si sentirà in dovere di imporle agli altri. L’avvocato – con la sua presenza, il suo ruolo nel processo, il suo sguardo che ci osserva mentre operiamo ogni giorno – ci impedisce di cadere in questo baratro».  L’avvocato, con la sua professione di carità, nel difendere i diritti di chi si trova a tu per tu con il dolore, è lì a ricordare (a tutti) i destini di coloro che entrano nel circuito della penalità. È l’avvocato il tramite tra le carte e la vita degli altri: costantemente, assillantemente, giustamente. È lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevare il magistrato da quel peso indicibile. Ci ha insegnato Calamandrei che «l’ufficio più umano dell’avvocato è quello di stare ad ascoltare i clienti». Ecco perché, ancora una volta, ha ragione Borgna quando scrive che «l’avvocato è il miglior amico del pubblico ministero: lo aiuta a difendere la sua salute mentale», perché ciò che ci unisce è la condivisione del dolore degli altri, perché essere avvocato è una scelta di vita: un servizio in difesa della dignità dell’uomo. E allora, attingendo ancora agli insegnamenti di Calamandrei dobbiamo riconoscerci che il rispetto tra avvocati e magistrati non può che essere reciproco, perché obbedisce alla legge dei vasi comunicanti: non si può abbassare il livello dell’uno senza che si abbassi il livello dell’altro. Non è questione di rispetto della persona, perché per quello è sufficiente la buona educazione. È una questione di rispetto della funzione. Quel rispetto tra avvocati e magistrati nasce soltanto dalla consapevolezza della relazione di reciprocità che esiste tra le due funzioni.  Perché l’avvocato, innamorato del suo cencio nero, libero e indipendente, è colui il quale è chiamato a «difendere tutti» e «appartenere a nessuno», per usare le felici espressioni di Gian Paolo Zancan, avvocato e senatore della Repubblica: «ho difeso tutti, non sono appartenuto a nessuno». Tutti noi, tra gli attori della giurisdizione, dobbiamo recuperare la dimensione del ragionamento condiviso, individuare punti di incontro su cui edificare il miglioramento qualitativo della risposta alla domanda di giustizia, nella consapevolezza che la vera unità che dobbiamo perseguire e pazientemente ricercare, alimentandola anche nel discorso pubblico e nel pensiero comune, è quella tra avvocatura, magistratura e interessi del cittadino. In questa direzione l’avvocatura penalista sarà sempre francamente aperta al leale confronto e al dialogo costruttivo.    *Presidente Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro  

MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE. Leggi tutto »

LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

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MANIFESTAZIONE A CATANIA DEI PENALISTI CALABRESI AUTORITARISMO STRARIPANTE E DIFESA NEGATA NEI MAXIPROCESSI DELLA CALABRIA GIUDIZIARIA

…Abbiamo subìto il trattamento previsto per i sospettabili quando ci hanno costretto a lasciare l’auto in aperta campagna lontano dai parcheggi dell’aula bunker di Lamezia. Abbiamo subìto il trattamento degli asserviti quando hanno imposto l’agenda ossessiva da 170 udienze all’anno in media per sostenere la marcia forzata a garanzia della permanenza in vincoli dei presunti innocenti. Abbiamo subìto il trattamento degli invisibili senza diritto di interloquire nemmeno sulle precondizioni per l’esercizio dignitoso dei diritti (affievoliti), quando ci hanno negato anche l’opportunità di esprimere il nostro punto di vista nelle sedi nelle quali venivano messe a punto le inusitate distopiche soluzioni per rimediare all’inagibilità dell’hangar lametino. Sulla testa degli imputati e dei loro avvocati anche l’obbligata migrazione di massa verso sedi lontane. Sui loro diritti si scarica il fallimento dell’organizzazione militare della giustizia penale calabrese…. Ed ancora. Abbiamo accettato le regole aberranti del processo dematerializzato e ci hanno negato anche i “diritti minorati” contemplati dal simil processo tecnologico della contemporaneità: nel sistema di gestione militare dei maxi, i numerosi colleghi che hanno chiesto di partecipare al processo a distanza, prima hanno scoperto una nuova regola, quella dell’avvocato da collegare dal carcere più vicino a casa sua (anziché dallo studio professionale come previsto dalla norma); poi, 48 ore prima dell’inizio della causa, si son visti revocare l’umiliante invito a presentarsi in carcere. Ma non perché melius per pensare sia apparsa illegale l’escogitazione, ma perché il DAP oltre a non disporre di risorse sufficienti ritiene sconsigliabile, perché pericoloso per la sicurezza, l’andirivieni di avvocati dalle salette dedicate. Dovremmo averne abbastanza. *CHIARA ED INEQUIVOCABILE LA LINEA DI TENDENZA: I DIRITTI DELLA DIFESA NEL PROCESSO A GESTIONE MILITARE SONO COMPATIBILI SOLTANTO CON LA DIFESA CHE NON LI ESERCITA; PERCHÉ SE SCEGLIE DI ESERCITARLI -ANCHE QUELLI MINIMI- SCOPRE CHE L’EFFICIENTISSIMO SISTEMA DI SMALTIMENTO DEI “NEMICI DELLA SOCIETÀ” MESSO IN PIEDI, SI INCEPPEREBBE. PER TUTTE QUESTE RAGIONI SAREMO FUORI DALL’AULA BUNKER DI BICOCCA LUNEDÌ 3 FEBBRAIO A MANIFESTARE CONTRO L’INTOLLERABILE DEGENERAZIONE DEL SISTEMA DELLA “CALABRIA GIUDIZIARIA”. ANCHE PER I GIUDICI CHE DOVREBBERO SOFFRIRE, COME NOI, LA MORTIFICAZIONE DEL LORO RUOLO, CHE NON SI PUÒ ESPRIMERE IN SINTONIA CON L’ALTA FUNZIONE CHE SVOLGONO, SE NON È GARANTITA LA DIGNITÀ DELL’IMPUTATO E DEL SUO DIFENSORE. SAREMO SIN DALLE 9.30 DINNANZI ALL’INGRESSO DELL’AULA BUNKER DI BICOCCA, ASPETTEREMO L’INGRESSO IN AULA DELLA CORTE PER AVVIARE LA MANIFESTAZIONE ATTENDENDO I COLLEGHI IMPEGNATI NEL PROCESSO CHE LASCERANNO L’AULA IN FORMA DI SIMBOLICA PROTESTA. Rassegna stampa: GAZZETTA DEL SUD CORRIERE DELLA CALABRIA LA NOVITÀ ONLINE LA NUOVA CALABRIA QUOTIDIANO DEL SUD CATANZARO INFORMA IL LAMETINO LA-C-NEWS24 RAI NEWS LA SICILIA

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CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE

    di Antonio Baudi –  1.La riforma Cartabia sul processo penale ha inteso ridurre i tempi di durata del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e, allo scopo di alleggerire il carico del giudizio penale, ha individuato possibili alternative al processo e alla pena carceraria. All’uopo ha inciso non solo sulle norme del processo penale, ma anche mediante interventi sul sistema penale, come quelli relativi: – alla non punibilità per particolare tenuità del fatto; – alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: – alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale; – e, alla fine, anche mediante le previsioni in tema di giustizia riparativa.  Nello specifico, per quel che in questa sede interessa, la riforma Cartabia, nel rispetto delle direttive contenute nella legge delega n. 134/2021 per le modifiche al codice di procedura penale, ha generalizzato il controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio in una evidente ottica di deflazione del dibattimento. Al fine di rendere operativo il controllo in limine di fondatezza dell’accusa è stata istituzionalizzata, in aggiunta alla celebrazione dell’udienza preliminare, la c.d. udienza filtro, nella prassi identificata con la celebrazione della prima udienza dinanzi al giudice monocratico. La struttura di tale nuova udienza è disciplinata dai quattro articoli inseriti nel codice di procedura penale dopo il disposto dell’art. 554, ad iniziare dal fondamentale disposto dell’art. 554-bis che, sulla base delle prescrizioni statuite dagli artt. 550. (casi di citazione diretta a giudizio), 552 (decreto di citazione a giudizio) e 553 (trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale), regola l’andamento di siffatta udienza. Nel contempo è stato riformato in maniera omogenea il criterio di giudizio, imperniato ora sulla formulazione della “ragionevole previsione di condanna” in funzione del quale sono stati riformulati: – l’art. 408, co. 1, c.p.p. in tema di richiesta di archiviazione; – l’art. 425, co. 3, c.p.p. per l’udienza preliminare; – l’art. 544-ter, co. 1, c.p.p., ove la norma è stata trasposta anche nella nuova udienza predibattimentale; – ed è stato nel contempo abrogato l’art. 125 disp. att. c.p.p. ormai inutile. Per il vero il tema del controllo sull’esercizio dell’azione penale è antico e ricorrente. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. Occorre ribadire, in questa sede, che si tratta di scopo immanente nel sistema, ben chiaro sin dal tempo della vigenza della riforma del rito penale, cioè sin dal 1989. La realtà è stata ben diversa e, tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere ha eluso lo scopo. In linea generale, quanto ai riti alternativi, il valore dell’accusatorietà, perseguito nella disciplina del giudizio dibattimentale, avrebbe dovuto essere contenuto al massimo perché costoso e tematicamente complesso, privilegiando il legislatore le soluzioni alternative incentivate da regole premiali. Quanto poi al filtro sull’esercizio dell’azione penale, pur limitato ai processi di competenza del G.u.p., è un dato ormai evidente che lo scopo sia fallito e che tale risultato, circa il mancato funzionamento del filtro sull’esercizio dell’azione penale, integri una delle cause preminenti  dell’attuale lentezza della giustizia penale. La riforma Cartabia, come notato, ha generalizzato la funzione di verifica del controllo preliminare sull’esercizio dell’azione penale al dichiarato scopo economico e deflattivo. Il rilievo è concorde: sono trascorsi (ben) trentaquattro anni ed il legislatore si è accorto (finalmente) della eccessività del carico processuale dibattimentale e della (oggettivamente tardiva) esigenza di porvi rimedio. Ma, a mio avviso, la responsabilità, più che del legislatore, è degli orientamenti, teorico e giurisprudenziali, che sono maturati nel tempo. Per una utile comprensione della evoluzione in materia, normativa e giurisprudenziale, nonché della reale esigenza culturale sottostante, sovviene una decisione dello scrivente, adottata ai primordi della riforma. Si tratta del testo della sentenza deliberata il 6 novembre 1990, in sede di udienza preliminare e nel periodo di regime transitorio a seguito della innovativa vigenza del codice di procedura penale. Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere in tema di giudizio di bilanciamento tra circostanze che, in applicazione del disposto, all’epoca nel testo vigente, di cui all’art. 425 c.p.p., è stato riconosciuto ammissibile ai fini della rilevazione di causa estintiva del reato preclusiva del rinvio a giudizio. Se ne riporta di seguito il testo (all’epoca pubblicato sulla rivista “La giustizia penale”, 1991, III, 38 ss). Questa, la massima estratta: “Rientra nei poteri della giurisdizione preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti e di operare il giudizio di bilanciamento con le contestate aggravanti ai fini della declaratoria di una causa estintiva del reato”. (Nella specie, è stata dichiarata la prescrizione previa dichiarazione di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le contestate aggravanti). Di seguito una sintesi dello svolgimento del processo: “In assenza di atti istruttori di particolare valenza, il processo in esame, già pendente in istruzione formale, è stato trasmesso al Procuratore della Repubblica in sede ai sensi degli artt. 242 e 258 disp. trans. del nuovo codice. Su richiesta depositata in questo ufficio in data 8 gennaio 1990 veniva fissata udienza preliminare e, all’esito della discussione veniva sollevata questione dii legittimità costituzionale dell’art. 425 C.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Era evidenziata, infatti, ingiustificata parità di trattamento, oltre che preclusione di esigenze difensive, nell’ambito delle disposizioni transitorie, tra i procedimenti proseguenti con le vecchie norme e quelli sottoposti invece al nuovo rito. La regola di rinvio a giudizio del sopravvissuto organo istruttorio era ispirata alla esigenza di economia processuale, in termini di prognosi colpevolistica. L’art. 256 disp. trans. prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando «gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito della istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ed è consentito al Giudice (art. 257 disp. trans.) di “tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell’art. 69 del Codice Penale”, “ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorie di

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“IL PROBLEMA NON CONSISTE NEL DECIDERE SE È NECESSARIO SEPARARE LE CARRIERE, QUANTO PIUTTOSTO NELL’INTERROGARSI COME MAI SIANO UNITE…”

di Tullio Padovani*- In tema di separazione delle carriere possiamo prender le mosse da un’affermazione sicuramente condivisa: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrati», esercitano due funzioni radicalmente diverse. La circostanza è di tale pacifica evidenza che proprio da essa i sostenitori dell’attuale assetto normativo ritengono di trarre un argomento pragmaticamente risolutivo per la sua perpetuazione. Una volta assicurato che un pubblico ministero non possa mutare il proprio ufficio in quello di giudice se non una o due volte nel corso della carriera, e peraltro con precisi vincoli di distanza dalle sedi ricoperte, perché si dovrebbe insistere ancora nella richiesta di carriere fin dall’origine ed istituzionalmente separate? Per essere posta correttamente, la questione deve essere pregiudizialmente sottratta ad una specie di strabismo concettuale che l’affligge quale effetto surrettizio dell’assetto esistente, e riproposta in termini simmetricamente inversi. Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono: – come sono – eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali (perché l’uno – il potere di giudicare – assume ad oggetto l’altro, e cioè l’esercizio del potere d’accusa), a quale titolo si dovrebbe accettare o addirittura giustificare l’omogeneità della carriera a partire dal reclutamento e nel contesto di un unico «ordine»? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Le ragioni che ci si industria di esporre a favore della conservazione sono – pare – fondamentalmente tre: tutte inconsistenti, sia pure per ragioni diverse. Prima ragione. Per corrispondere a pieno ai postulati dello stato di diritto è necessario che giudice e pubblico ministero, pur se investiti di poteri diversi, ma ugualmente significativi in termini di garanzia delle posizioni soggettive coinvolte nel loro esercizio, condividano un’uguale «cultura della giurisdizione», su cui è quindi edificata la pari qualifica di «magistrato». Rompendo il legame genetico originario segnato dall’appartenenza ad un unico «ordine», il pubblico ministero – par di intendere – uscirebbe dal seminato del diritto (cultura è, in fondo, coltura dello spirito) e si trasformerebbe, in pericolo o in atto poco importa, in una sorta di pianta selvatica. Ma l’argomento si riduce ad una nebbiolina che il sole del mattino dissolve. Infatti, se per “giurisdizione” (oggetto dell’auspicata cultura comune) si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come lo svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione, da parte del giudice, del conflitto contenzioso, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore. La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe bensì l’unicità delle carriere, ma a condizione che a questa unicità concorressero tutti i componenti del ceto forense. Un’apocalisse che non può nemmeno definirsi tale (e cioè come un’autentica rivelazione): si tratta, infatti, della regola comune agli ordinamenti di common low. Avendo acquisito il processo accusatorio (sia pure come argutamente notava Cherif Bassiouni, mediante una semplice cartolina postale) non ci sarebbe niente di strano che ci procurassimo anche l’aria in cui esso respira. Da noi sarebbe forse troppo? Può darsi, ma allora smettiamo di invocare la «cultura della giurisdizione» per tener in piedi un tavolino con due sole gambe: non regge. Seconda ragione. Un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe – si lamenta – facile preda della funzione di governo; sarebbe, in un modo o nell’altro, alle dipendenze dell’esecutivo. Sul punto bisogna intendersi. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché «il pubblico ministero gode [e deve godere] delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, comma 4° Cost.): non si tratta certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice (e la norma costituzionale lo sottointende con l’evidenza della specificità), ma di garanzie deve trattarsi; e di certo un vincolo di dipendenza gerarchica non potrebbe concepirsi in termini di «garanzia», il cui oggetto non può evidentemente prescindere dall’assicurare l’«indipendenza» (cui si riferisce espressamente l’art. 108, comma 2 Cost. in riferimento alla posizione del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali). Ma la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si prospetta certo in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere un’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti – come con tagliente lucidità scriveva Giovanni Falcone – «se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto». Parole forti ma parole vere. La citazione del grande Magistrato (isolato e combattuto anche per queste parole) prosegue poi con la domanda retorica: «come è possibile che in un regime liberaldemocratico […] non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti?». Appunto: come è possibile? Terza ragione. Sul tavolo dell’unicità delle carriere vien calato un preteso asso: l’art. 112 Cost. secondo cui: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Così come il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2° Cost.), il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale luminosa garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Il trait d’union che unisce giudice e pubblico ministero, entrambi vincolati, l’uno alla legge, l’altro all’esercizio dell’azione penale, è dunque il ponte su cui passa un’unica carriera per entrambi. Ma, più che di un argomento si tratta piuttosto delle comiche finali. Scriveva Robert H. Jackson, nel 1940 General Attorney degli Stati Uniti d’America: «L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve

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INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2025 NEL DISTRETTO DI CORTE DI APPELLO DI CATANZARO

di Francesco Iacopino* –  Signor Presidente della Corte di Appello, Signor Procuratore Generale, Autorità tutte, il tempo a disposizione mi consente di sviluppare solo due argomenti: maxi processi e separazione delle carriere.   Il primo. Il 2024 ha consegnato alla giurisdizione la cronicizzazione dei problemi denunciati da anni, in solitudine, dall’Avvocatura. Il gigantismo processuale, complice l’allagamento a Lamezia della cattedrale nel deserto, esporrà centinaia di persone a una estenuante trasferta a Catania. La delocalizzazione del processo a 400 chilometri di distanza immola definitivamente libertà e garanzie dei cittadini sull’altare della difesa sociale. Con l’esodo in Sicilia si celebra il de profundis del diritto di difesa. I processi di massa, lo sappiamo bene, rappresentano la più alta espressione del diritto penale simbolico, con tutto ciò che deriva in termini di ribaltamento assiologico del quadro costituzionale (in primis il principio della presunzione di innocenza). Questo modo di procedere non ci ha resi più sicuri, ma solo meno liberi. Il prezzo pagato in termini di danni collaterali è altissimo. E riguarda la distruzione di vite, famiglie, affetti, aziende, tutti risucchiati nella rete sempre più capiente della pesca a strascico. Tutti macellati nel tritacarne mediatico giudiziario. A questo grido di dolore noi continueremo a dare voce, senza stancarci. Per dire basta alle indagini di massa, ai pregiudizi accusatori, alle restrizioni sommarie della libertà, agli effetti tossici prodotti dalla logica della perenne emergenza e dal diritto penale del nemico. Bisogna tornare a celebrare i processi nei Tribunali, con numeri “sostenibili”. E chiedere alla politica di dotare i territori di organici adeguati per amministrare giustizia. Cari Magistrati, con la Costituzione in mano dovreste ribellarvi per le condizioni inagibilità nelle quali vi si chiede di operare o per i suicidi in carcere, piuttosto che opporvi a una riforma costituzionale che ha il merito, indiscusso, di rafforzare il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo, riposizionando al centro della Giurisdizione, come dovrebbe essere, il Giudice.   Il secondo. Separazione delle carriere. La posizione assunta da ANM è semplicemente infondata: NON È VERO che la riforma stravolgerà l’equilibrio tra i poteri dello Stato, NON È VERO che sottrarrà spazi di indipendenza alla giurisdizione, NON È VERO che ridurrà le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini, NON È VERO che determinerà l’isolamento del pubblico ministero e il rischio di un suo assoggettamento all’esecutivo. È VERO l’esatto contrario, come vedremo da qui a poco. 1)- Le carriere unificate sono tipiche dei sistemi inquisitori; tutte le democrazie occidentali adottano modelli ordinamentali a carriere separate (eccetto Turchia e Bulgaria: vorrà dire qualcosa?). 2)- La separazione delle carriere realizza il giusto processo e rafforza le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini, nel rispetto della Costituzione, che esige un Giudice terzo e imparziale davanti a parti poste in condizioni di parità. Nel giusto processo triadico – lo ricordava Giuliano Vassalli – la separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e quella ordinamentale delle carriere sono vasi comunicanti: la prima non può essere effettiva senza la seconda. Lo aveva ben compreso Giovanni Falcone quando scrisse che il P.M. non deve avere nessuna parentela  con  il  Giudice.  Per  questa  sua  posizione,  fu  bollato  come  nemico dell’indipendenza della Magistratura. Più o meno le accuse che ci vengono rivolte oggi. La terzietà e l’imparzialità non garantiscono l’adozione di sentenze “giuste”: ne costituiscono uno dei presupposti. 3)- L’art.104 (nel testo della riforma) non toccherà affatto l’autonomia e l’indipendenza del P.M., che continuerà ad accedere alla professione per concorso, progredirà in carriera con le stesse regole di oggi e sarà garantito dalle norme sull’ordinamento giudiziario, dal suo CSM e da un Giudice disciplinare autonomo (l’Alta Corte, formata per 3/5 da magistrati). Una riforma “chirurgica”, allora, disegnata nel pieno rispetto dell’architettura costituzionale e del principio della separazione dei poteri. 4)- Cultura della giurisdizione. È fin troppo agevole osservare come, a carriere unificate, non è stato il Giudice ad aver attirato il P.M. nella sua sfera culturale, ma è accaduto il contrario. Nella prassi quotidiana le parti non sono poste in condizioni di parità. E nella percezione sociale non conta il Giudice, ma il P.M., non la sentenza, ma l’arresto. Non è la sentenza a stabilire il risultato di giustizia agli occhi del cittadino. Anzi, la sentenza, se di assoluzione o ritenuta non esemplare nella pena, è percepita come denegata giustizia. Cari Giudici, con la Costituzione in mano dovreste essere i primi a salutare con favore questa riforma, che punta a un recupero culturale, innanzitutto. Ammettere con coraggio, al pari dei vostri Colleghi che hanno avuto la forza di esporsi, che questa riforma è una conquista per la nostra democrazia e che, in realtà, l’agitazione associativa è solo frutto della paura di perdere assetti di potere finora consolidati dalla logica delle correnti. Altro che il timore del P.M. Super Poliziotto. Per chi non se ne fosse accorto, Super Poliziotto il P.M., oggi, lo diventato è già.   Concludo. Il progetto di riforma costituzionale si ispira al modello ordinamentale portoghese, adottato nel 1978, all’indomani della rivoluzione dei garofani. In quel paese, dopo 50 anni, nessuno tornerebbe indietro, essendo tutti d’accordo che “la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia e ha avuto pieno successo nella pratica”. Non lo dico io, ma Paulo Pinto di Albuquerque, giurista portoghese di fama mondiale, che ha definito, la nostra, una riforma eccellente, che rafforzerà il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo. Cari Magistrati, se vogliamo onorare insieme la Costituzione e attuarla, portarla a compimento, dobbiamo recuperare culturalmente e socialmente la grammatica del giusto processo, ritrovarci intorno al quadro assiologico disegnato dai costituenti, rafforzare il modello accusatorio e la presunzione di innocenza. La storia giudicherà questa battaglia e gli schieramenti in campo. Auguro a voi, e a noi, che anche in Italia tra qualche anno si possa riconoscere, come in Portogallo, che la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia. Significherà che avremo contribuito, insieme, al progresso della civiltà del nostro paese. Buon anno giudiziario a tutti. * Presidente della

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