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UNA SVOLTA STORICA CON LA NUOVA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA

  a cura di M. Valeria Ferrara –  Come già anticipato qualche settimana fa, la Camera Penale di Catanzaro e l’Osservatorio Avvocati Minacciati hanno il piacere di confermare l’apertura alla firma della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione della professione di avvocato, avvenuta in occasione della riunione dei Ministri degli Affari Esteri tenutasi a Lussemburgo il 13 e 14 maggio 2025. Si tratta del primo strumento giuridico internazionale dedicato espressamente alla tutela dell’avvocato. La Convenzione nasce in risposta a un preoccupante incremento di atti di intimidazione, violenza, interferenze e minacce nei confronti dell’attività forense, fenomeni che minano l’autonomia e l’indipendenza della difesa, come già più volte denunciato in precedenti comunicati di questo Osservatorio. Alla firma hanno già aderito numerosi Stati: Andorra, Estonia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Belgio, l’Islanda, il Regno Unito e la Repubblica di Moldova, a conferma dell’urgenza e della rilevanza di un’azione condivisa a tutela della professione legale. Il testo della Convenzione sancisce obblighi chiari per gli Stati firmatari, imponendo la garanzia che gli avvocati possano esercitare il proprio ruolo senza subire minacce, molestie, aggressioni fisiche o indebite interferenze. Laddove tali comportamenti configurino reati, gli Stati hanno il dovere di svolgere indagini rapide, indipendenti ed efficaci. Tratta, inoltre, aspetti come il diritto di esercitare la professione, i diritti professionali, la libertà di espressione, la disciplina professionale e specifiche misure di protezione per gli avvocati e le associazioni professionali. Riconosce, poi, il ruolo fondamentale delle associazioni forensi nella promozione e nella difesa dell’indipendenza dell’avvocatura, prevedendo la loro tutela come enti autonomi e indipendenti. L’entrata in vigore del trattato sarà subordinata alla ratifica da parte di almeno otto Stati, sei dei quali dovranno essere membri del Consiglio d’Europa. Il rispetto delle disposizioni sarà monitorato da un comitato di esperti e dalle parti aderenti, in un quadro di vigilanza multilaterale. Si auspica, pertanto, una celere ratifica da parte del Parlamento italiano e si sottolinea l’importanza di un’effettiva implementazione delle tutele previste. La Convenzione rappresenta un passo imprescindibile nella costruzione di una giustizia realmente equa, nella quale l’avvocato possa esercitare il proprio mandato senza timori né condizionamenti.

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QUESTIONI ATTUALI IN MATERIA DI STALKING, OMICIDIO E FEMMINICIDIO

di Stella Feroleto* –  I DELITTI CONTRO LA PERSONA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLO STALKING, ALL’OMICIDIO VOLONTARIO COMMESSO DALL’AUTORE DI ATTI PERSECUTORI NEI CONFRONTI DELLA STESSA PERSONA OFFESA E AL REATO DI FEMMINICIDIO. SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive in tema di delitti contro la persona. 2. Omicidio volontario commesso dall’autore degli atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa. 3. La “ratio” delle aggravanti tipiche in materia di stalking nell’era della digitalizzazione. 4. La costituzione di parte civile per il risarcimento del danno non patrimoniale. 5. Riflessioni critiche sui delitti alla persona di stalking e di femminicidio: tra esigenze di tutela della persona offesa e garanzie dell’imputato. 1.CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE IN TEMA DI DELITTI CONTRO LA PERSONA Il legislatore del 1930, dopo aver dedicato particolare attenzione, nei primi titoli e capi del codice penale, ai delitti contro lo Stato e l’ordine pubblico, sul presupposto storico ed ideologico, probabilmente, che uno Stato forte sarà in grado di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, nella seconda parte del Codice Rocco, precisamente al titolo XII, Capo I, guarda con occhio prospettico privilegiato ai cosiddetti delitti contro la persona. Ed invero, in ottica storica e sistematica, maggiore rilievo assume sempre più la persona alla luce delle norme contenute nella Costituzione Repubblicana del 1948, i cui principi fondamentali ( di solidarietà sociale, di eguaglianza, di non discriminazione etc…) sono il frutto di un compromesso storico tra le maggiori forze politiche e sociali dell’epoca che, nella prospettiva di convergenza d’interessi e d’intenti verso il bene comune, hanno dato vita a quella che da molti giuristi e sociologi è stata definita “la Costituzione più bella del mondo”. In guisa evolutiva, è da evidenziarsi come, nel tempo, la concezione antropocentrica del nostro assetto sistemico è stata considerevolmente rafforzata dalla nascita, in luogo della CEE, dell’ Unione Europea, a cui fanno capo, in ottica sempre più monistica tra gli stati aderenti, la normativa originaria dei Trattati, quella derivata dei Regolamenti, delle direttive e delle decisioni, ma anche alcune Carte di fondamentale importanza quali: la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ( la quale, in verità, nonostante i tentativi di “comunitarizzazione” operati in occasione del Trattato di Lisbona, non ha ancora assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati) e la Carta di Nizza ( che, invece, ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati ), ma anche la Convenzione sui diritti del fanciullo, la Convenzione di Oviedo contro ogni forma di discriminazione, nonché la CEDAW, ossia la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. E invero, a seguito di una copiosa giurisprudenza che nel tempo ha visto dialogare – ed a volte scontrarsi – la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea (massimo organo giurisdizionale dell’Unione) riguardo ai rapporti tra la normativa nazionale e quella comunitaria, con l’importante sentenza Granital[1], è stata elaborata la cosiddetta teoria dei controlimiti, in base alla quale la normativa europea può prevalere rispetto alla normativa italiana e nel momento in cui una normativa nazionale dovesse porsi in contrasto con, ad esempio, una disposizione di un trattato europeo, il giudice a quo, senza procedere previamente alla dichiarazione di incostituzionalità – a differenza di quanto avviene ancor oggi in relazione alla normativa della CEDU per il tramite dell’interposto articolo 117 della Costituzione – ed esauriti i tentativi di interpretazione sistematica e conforme, potrà disapplicazione direttamente la disposizione nazionale contrastante con il limite, tuttavia, invalicabile dei cosiddetti controlimiti; la normativa europea, infatti, non potrà mai porsi in contrasto con i primi quindici articoli della Costituzione italiana che rappresentano il nucleo duro del nostro ordinamento democratico involvente la tutela dei diritti fondamentali della persona che non possono essere scalfiti neppure soltanto sul piano formale; oltre che sostanziale. In tale prospettiva, è da rilevarsi come, d’altronde, nel sinallagma sovranazionale la tutela dei diritti della persona abbia assunto pregnante rilievo altresì alla luce della elaborazione della più recente teoria della doppia pregiudiziale, in base alla quale, allorquando un diritto della persona venga leso sia da una normativa nazionale che europea si potrà apprestare una duplice tutela, sia davanti alla Corte Costituzionale che dinnanzi alla Corte di Giustizia dell’UE; tuttavia, la Corte Costituzionale, che all’interno del nostro assetto sistemico rappresenta il giudice della legge, nel ribadire l’importanza del suo ruolo, ha messo in evidenza come, pur restando certamente ferma la possibilità di tutela dei diritti della persona davanti alla Corte di Giustizia, sarebbe più opportuno rivolgersi previamente alla Corte Costituzionale per invocare la tutela dei diritti in quanto essa rimane l’organo ontologicamente deputato alla garanzia della Costituzione e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Tale posizione della Consulta viene, inoltre, avallata dal fatto che la differenza di tutela dinanzi al giudice delle leggi italiano è senz’altro rafforzata poiché la Corte, nel dichiarare la illegittimità costituzionale di una legge, la espunge in maniera tendenzialmente definitiva dall’ordinamento ed erga omnes. Quella, invece,  dinanzi alla Corte di Giustizia è una tutela del caso concreto che non consente di depurare definitivamente una normativa dall’ordinamento, col rischio inevitabile che la questione possa riproporsi pro futuro. In guisa sistematica appare, pertanto, evidente che, nell’attuale momento storico, l’attenzione alla tutela dei diritti della persona è particolarmente alta sia a livello sovranazionale che nazionale e ciò determina, inevitabilmente, delle ripercussioni su quello che è il diritto penale sostanziale e processuale che costituiscono, senza dubbio, gli ambiti all’interno dei quali, da una parte, si richiede una particolare sensibilità del legislatore nazionale alla spinta evolutiva del sentire sociale di riferimento; d’altra parte, essendo,  oggigiorno, molte norme frutto di una spinta emotiva dell’allarme sociale dell’opinione pubblica a cui la politica è chiamata ontologicamente a piegarsi, gli interventi legislativi in materia penale finiscono per diventare terreno di scontro tra impostazioni esegetiche a volte opposte ma forse,  per certi, versi sicuramente conciliabili.  Ne è attuale testimonianza proprio la recentissima previsione del delitto di femminicidio ad opera del disegno di legge dell’8 Marzo del 2025 che introduce all’interno del codice penale l’art. 577 bis il quale punisce chiunque (quindi sia un uomo che una donna) cagioni la morte di

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“CANNE AL VENTO”: IL DESTINO È PADRONE DELL’UOMO

di Maria Clausi* – Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, nasce in Sardegna nel 1871 da una famiglia benestante, ma, poiché all’epoca alle donne non era permesso di studiare, si ferma alla quarta elementare. Tuttavia, il suo amore per la letteratura non si spegne ed ella, in modo autonomo, si forma attraverso la lettura. Le sue scelte e la sua caparbietà fanno di lei sicuramente una donna rivoluzionaria per quei tempi, una donna che dimostra grande personalità ed indiscutibile spessore umano. Le sue opere dimostrano come l’arte sia un dono di Dio; dunque, nessun uomo può soffocare un talento e ciò fa di questa donna, della sua vita e della sua grande produzione letteraria un esempio da seguire per tutti coloro che inseguono un sogno. Tra le sue opere più conosciute vi è il romanzo “Canne al vento”: un’opera ambientata nella sua Sardegna di fine ottocento. Il romanzo racconta una società che sta cambiando: alla decadenza ed all’impoverimento degli aristocratici si sostituisce il sempre maggiore accumulo di ricchezza da parte di una nuova classe sociale e produttiva che è quella dei mercanti. Nel mondo nuovo che sta nascendo, in questo contesto economico, si insinuano, però, anche figure che la ricchezza la accumulano in maniera disonesta e spietata: gli usurai. Nel romanzo spicca, difatti, la figura di un’usuraia: Kallina che Deledda descrive come ricca anche lei ma in modo misterioso. Kallina in qualche modo si contrappone alle Pintor: tre sorelle di famiglia nobile, ma ridotte quasi in miseria. Le Pintor, con il loro palazzo cadente, sono l’emblema di quella nobiltà incapace di conservare la propria ricchezza e che l’unica cosa che riesce a conservare è lo sdegno, il disprezzo per il popolo! Sicuramente la figura centrale dell’opera è il vecchio Efix: un servo delle Pintor che cura un loro poderetto, dove ha fissato la sua dimora. Efix rimane fedele alle donne fino alla fine e cerca di aiutare il loro nipote Giacinto: figlio di un’altra sorella scappata di casa anni prima e mai tornata. Giacinto, al pari delle zie, è l’emblema della decadenza della nobiltà del tempo: di quella nobiltà che oramai è consapevole di essere stata rimpiazzata dai nuovi ricchi che pure disprezzano. Efix è il custode di un segreto, ossia la morte del padre delle donne: don Zame, ucciso mentre era alla ricerca di quella figlia che era fuggita e che aveva disonorato la famiglia. Efix è, in realtà, l’autore di quel delitto ed è questo peso che porta nel cuore che lo costringe a continuare a servire le tre donne e a cercare, seppure senza successo, a risollevare le loro sorti. Efix è tormentato da quella colpa e cerca di espiarla attraverso la sua fedeltà alle tre donne e attraverso la cura del loro poderetto che nulla gli offre se non povertà, tanto che si indebita con la spietata usuraia. La vita di Efix invita a riflettere su qualcosa su cui spesso gli uomini si interrogano: il destino! Forse nella vita di ciascun essere umano vi è un disegno già ben definito sin dalla sua nascita ed è inutile ogni ribellione contro lo stesso perché è il destino ad essere padrone della sua vita. La figura di Efix invita, altresì, a riflettere su un altro grande tema, ossia gli effetti che un delitto può avere nell’animo di chi lo compie. Spesso siamo abituati a guardare alla sofferenza della vittima e dei suoi familiari che, a volte, sopravvivendo alla stessa sono condannate a condurre una vita fatta di sfortune e di dolore. È questo ciò che accade alle sorelle Pintor: dopo la morte del padre, esse conducono una vita fatta di solitudine e di sempre maggiore impoverimento materiale. La morte di Don Zame è l’inizio del declino di quella famiglia che un tempo aveva conosciuto il prestigio e la ricchezza che gli derivava dal suo essere famiglia nobile. Quel delitto è l’inizio della sofferenza, ma non solo di quella delle figlie, anche di quella del suo assassino. Noi non ci chiediamo forse mai cosa accade nel cuore di chi il delitto lo commette. Ebbene, Efix è la voce della coscienza dell’assassino! Il delitto non può lasciare segni solo nella vita di chi lo subisce; esso necessariamente lascia segni anche nella vita di chi lo compie. Efix ci insegna che chi commette un delitto può vivere nel tormento e nel rimorso; che chi commette un delitto può andare alla ricerca costante di un perdono che si può ricevere anche mettendosi al servizio di chi ha subito le conseguenze del delitto. “Canne al vento” è, dunque, un romanzo sul destino e sulla potenza che questo esercita sulla vita dell’uomo; ma è anche un romanzo sul delitto e sul castigo che ne consegue anche senza una condanna da parte di un tribunale.   *Giudice del Tribunale di Catanzaro  

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POLITICA, CULTURA E FILOSOFIA NELL’OPERA DI CASSIODORO

di Alberto Scerbo* “Cassiodoro è l’uomo più completo del VI secolo, grande uomo politico ma, soprattutto, eroe e restauratore della cultura, della scienza morale e umanistica del suo tempo”1: questa definizione del calabrese Repaci può sembrare esagerata, ma rivela la volontà di esaltare un uomo che in diversi passi dei suoi scritti ha manifestato l’amore per la propria terra2 e che è stato capace di creare nel territorio di Squillace un monastero, il Vivarium, con un tratto di originalità, visto che, al pari di altri, comprende tanto la vita cenobitica quanto quella anacoretica e funziona come scriptorium, ma è l’unico del tempo che ha “il suo centro nella biblioteca”3. Se, quindi, la calabresità può costituire un fattore fuorviante di giudizio, è pur vero che, d’altra parte, su Cassiodoro può pesare una valutazione condizionata dal ruolo rivestito nella storia e dai cambiamenti intervenuti nelle diverse fasi della sua lunga vita. L’opera imponente delle Variae ci restituisce, infatti, la figura del più importante uomo di governo del regno dei Goti e del suo decisivo contributo all’organizzazione dell’amministrazione interna e alla definizione delle fondamentali strategie politiche, ma che si premura di ignorare le vicende pubbliche più controverse e di evitare qualunque riferimento al destino del suo predecessore Severino Boezio. Ciò favorisce l’atteggiamento malevolo di importanti studiosi come Mommsen, che trasmette il ritratto di un personaggio negativo, connotato da doppiezza e inaffidabilità, per giunta nascoste dietro un’inutile verbosità retorica4. A sostegno del suo atteggiamento adulatorio è richiamata poi la Historia Gothorum, redatta su espressa richiesta di Teoderico, con l’intento di ricostruire l’originaria nobiltà dei Goti e di presentarli come i diretti continuatori del popolo romano. Ora, per quanto si possa presumere che Cassiodoro abbia ricostruito la propria azione politica sotto la migliore luce possibile, dal suo lavoro si possono, però, enucleare alcune direttrici di fondo, in forza delle quali rivedere in maniera più equilibrata anche la sua posizione politica, per comprendere come sia il frutto di una precisa visione “filosofica”, che confluisce, con differente metodologia, nello sviluppo della successiva dimensione spirituale. Il programma strettamente politico è tracciato già nella lettera del 508 con cui si aprono le Variae e si può riassumere nella necessità di ottenere una pace stabile, nel riconoscimento di un primato del re Goto rispetto agli altri regni, nel ridimensionamento del potere di Bisanzio in Occidente e nella conseguente apertura ad una opportunità di allargamento del dominio ostrogoto. La realizzazione di questi obiettivi non è perseguita, quindi, attraverso lo strumento bellico, ma per via diplomatica e grazie ad un ben individuato piano culturale, che traspare in modo chiaro tra le righe delle proverbiali digressioni che puntellano i documenti cassiodorei5. Per ottenere il risultato sperato occorre, perciò, tradurre in concreto la linea di continuità tra mondo romano e gotico teorizzata sul piano storico. E il modo migliore non può essere che quello di consolidare la struttura del nuovo Regno sulle radici solide dell’Impero e, quindi, di rivestire di forma la forza del potere: “la custodia della civilitas è l’orizzonte in cui si deve dispiegare l’azione politica del regno goto”6. Il Regno dei Goti si propone, così, come una riproduzione del modello imperiale, sicché la conservazione e acquisizione dei tratti peculiari della civiltà romana consentono l’integrazione tra i popoli e la convivenza tra le religioni7. In questo processo il ruolo centrale è rivestito dall’applicazione del diritto romano, che propone uno schema di composizione delle liti basato sulla prudentia iuris (Romanorum), che diventa, in tal modo, il fondamento della iustitia Gothorum, incentrata sulla virtù della moderazione. I progetti politici finiscono, quindi, per rivelare come nella mente di Cassiodoro sia ben impresso il bisogno di non disperdere le tracce del passato, senza rinunciare alle potenzialità dell’innovazione, principalmente nella prospettiva di perseguire la relazione dialettica tra le diversità, etnica, religiosa e culturale, per recuperare quanto vi è in comune tra esse e procedere ad un rinnovamento dell’ordinamento della convivenza. In questa ottica le due vite di Cassiodoro appaiono meno distanti di quanto si è abitualmente tramandato. Certo, all’esteriorità della politica si sostituisce l’interiorità della religione e le norme giuridiche lasciano posto alle regole monastiche, ma lo spirito che aleggia intorno alle vasche naturali ricche di pesci non distanti dal fiume Pellena rimane quello di un vero rinnovatore, ma saldamente ancorato alla cultura antica. L’opera di mediazione svolta prima per il mantenimento degli equilibri politici si riproduce dopo nel lavoro di conciliazione tra il patrimonio della classicità e le opere della cristianità. L’emblema più significativo è costituito dai due libri delle Institutiones divinarum et saecularium litterarum: il primo con una trattazione approfondita dei più importanti temi sacri e un’analisi dei principali testi biblici, degli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori greci e latini presenti nella biblioteca vivariense, ed un secondo dedicato alle arti liberali, composte, secondo l’indicazione di Boezio, nel trivio, grammatica, retorica, dialettica, e nel quadrivio, aritmetica, musica, geometria e astronomia. Quest’opera costituisce, in realtà, una sorta di programma di recupero, conservazione e trasmissione tanto della letteratura teologica quanto di quella pagana, con la specifica volontà di superare il dualismo tra sacro e profano e di attuare un’autentica integrazione culturale tra antichità e cristianità8. Tale progetto oltrepassa il piano teorico per sedimentarsi nel vivo della pratica del monastero, dove alla preghiera e alla meditazione si accompagna l’importante opera di trascrizione e copiatura dei codici, con particolare attenzione al rispetto delle regole ortografiche e grammaticali, codificate dallo stesso Cassiodoro nell’ultimo scritto, De orthographia9, necessario per riprodurre, con le correzioni e gli emendamenti dovuti, le edizioni originali ed evitare, così, errori concettuali e scorrette interpretazioni. Ma la commistione delle culture è effettuata dallo studioso di Squillace anche attraverso l’unico testo filosofico pervenuto, il De anima. Lo scopo perseguito è certamente di tipo teologico, ma l’approccio utilizzato è più propriamente classico. Il punto di partenza è costituito, infatti, dall’insegnamento socratico del gnóti seautòn, conosci te stesso, ripreso dal frontone del tempio di Apollo a Delfi, ma che, con significati diversi, compare nell’Iliade di Omero10 ed è ripreso da Eschilo nel Prometeo incatenato11. In Socrate acquista un

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CALABRIA GIUDIZIARIA DA DIMENTICARE

Lettera aperta al presidente della sezione catanzarese di ANM. La lettura della Sua intervista a magistratura.it pubblicata nei giorni scorsi spinge a riflettere sulle ragioni per cui in Calabria sui temi sensibili non si riesce a sviluppare un sereno confronto tra magistratura e avvocati penalisti. Non è una scoperta, ce ne siamo fatti una ragione. E nemmeno varrebbe la pena di prendere penna e calamaio per acconciare repliche. Ma nel caso specifico non se ne può fare a meno perché il merito delle questioni trattate nell’intervista attiene ai diritti calpestati degli ultimi. E gli ultimi per noi son tutti quelli che nel conflitto con l’autorità ci rimettono dignità e libertà, la carne e lo spirito insieme. Si tratta quindi di argomenti da affrontare con certo rigore che non si prestano a polemiche strumentali. Il merito dunque. Non coglie nel segno quando ci rimprovera scarsa attenzione alla carenza degli organici nel distretto di Catanzaro. Vero il contrario perché le Camere Calabresi – a quanto pare nemmeno ascoltate dai diretti interessati- hanno ripetutamente denunciato le difficili condizioni, le carenze strutturali e il malsano squilibrio tra l’organico di GIP e giudici del Riesame da un lato, quello dei PM dall’altro, con inevitabili conseguenze sulla qualità del prodotto cautelare; Nemmeno sulle ragioni per le quali si imbastiscono processi di massa dalle nostre Imposte dalla tipologia di reato? No Presidente, i maxiprocessi non sono un castigo di Dio. È impopolare, ma terribilmente vero, che i maxi costruiti a misura di inevitabile ingiustizia, consentono importanti economie di scala: si impiegano 3 giudici per giudicare 220 in un unico processo di massa piuttosto che 30 per giudicarne lo stesso numero in 10 processi da 20 imputati ciascuno. È una scelta organizzativa nociva e non certo obbligata. Penalizza il diritto ad un processo giusto che soccombe sotto i colpi dell’imperante efficientismo a basso costo che dà l’impronta al sistema. Abbiamo chiesto di discutere esattamente di questo negli ultimi 5 anni; e con la forza di cui siamo capaci anche da ultimo con i documenti prodotti tra giugno ‘24 e gennaio ‘25 al culmine della mobilitazione sui temi della Calabria Giudiziaria. Nessun segno di attenzione sul punto; Apprendiamo che la “cura” Gratteri ha diffuso entusiasmo contagioso. Nessuno può impedirLe di sentirsi parte di quella temperie. Non scopriamo oggi che i grandi numeri della gestione del predestinato sono stati il prodotto di un’opera collettiva alla quale ha partecipato (con entusiasmo, pare) la magistratura giudicante saldata al potere inquirente dalla missione di sbarrare la strada al nemico comune. E non dimentichiamo che chi tra voi non si è fatto contagiare dall’entusiasmo ha pagato un prezzo molto alto. Le Camere Penali calabresi avrebbero invece peccato moltissimo, lo spiega bene nella Sua intervista, strumentalizzando dati sulle detenzioni ingiuste per attaccarvi sul punto dolente dell’errore giudiziario e delle sue Avremmo formulato accuse infondate che si sarebbero dissolte dopo i chiarimenti della Presidente della Corte d’Appello e ci saremmo anche visti costretti a revocare l’astensione basata su temerarie denunce di camuffamento dei numeri delle detenzioni ingiuste. Sappiamo bene che la categoria cui Lei appartiene è tanto influente da potersi permettere di riscrivere la storia secondo le esigenze del momento. Anche quella recente dei nostri turbolenti rapporti. Ma, perché l’opera di revisione si compia, dall’altra parte dovrebbero esserci uomini smemorati o tanto servili da essere disposti a rinunciare alla memoria. Noi, per il momento, giriamo al largo dagli uni e dagli altri. E quindi cerchiamo di riportare a galla i fatti che Lei sembra aver perso di vista: Catanzaro negli anni bui che tanti entusiasmi hanno acceso tra le vostre fila, era il luogo in cui si stabilivano priorità per le pretese cautelari del pubblico ministero dirottando invece su un binario morto istanze di libertà degli imputati; Nella primavera del 2023, la lettura superficiale delle statistiche ministeriali in materia di riparazione da detenzione ingiusta faceva pensare che Catanzaro fosse diventata un’isola felice (nel 2022 appena 800.000 euro di risarcimenti, al decimo posto tra le Corti d’Appello italiane). Si trattava di una falsa apparenza che dipendeva dall’effetto combinato della paralisi dei ruoli della riparazione per ingiusta detenzione (i fascicoli si accumulavano negli scaffali) e dal tasso singolarmente elevato di decisioni di rigetto delle richieste di risarcimento; La lettura in controluce delle statistiche elaborate dal Ministero in realtà rivelava che, in materia di ingiusta detenzione, Catanzaro aveva il record italiano di incremento dell’arretrato nel periodo 18-22 (+42%) oltre che una percentuale di rigetti, il 61%, più alta di 35 punti rispetto a quella di Reggio Calabria (26%), e di 13 punti rispetto alla media nazionale (48%). Lo denunciammo apertis verbis come siamo abituati a fare. La Presidenza della Corte d’Appello, che non aveva mai fornito i dati che le Camere Penali nei mesi precedenti avevano richiesto, dopo la pubblicazione del rapporto annuale in realtà, aveva ben poco da precisare. A parte il refrain della maestà offesa (le “Camere Penali sono istituzionalmente scorrette”), nel merito le giustificazioni espresse a proposito di tanta singolare situazione, confermavano la verità dei fatti denunziati. Spiegava la Presidente pro-tempore, che il congelamento dei ruoli della riparazione per ingiusta detenzione dipendeva soltanto dalla necessità di destinare le risorse limitate alla celebrazione dei processi con detenuti. Ma si trattava di giustificazioni deboli. Anzi debolissime. Lo dimostrava il risultato impietoso del confronto con i dati di Reggio Calabria, sede con carenze endemiche di organico e con elevatissimo numero di processi con detenuti, che tuttavia nello stesso periodo (18-22) non solo non aveva accumulato arretrato ma lo aveva ridotto del 17%, definendo il doppio delle procedure rispetto a Catanzaro (755 contro 355). Comprenderà Presidente, che una volta scoperchiata la pentola, messo a nudo il “metodo Catanzaro” di camuffamento dei danni collaterali della giustizia penale, l’astensione si tenne regolarmente. Quella e tutte le altre proclamate tra il 2021 e il 2025. Altro che costretti a revocarle. Anche perché tutte le volte in cui i penalisti calabresi hanno denunciato pratiche oppressive dei diritti di difesa, si sono scontrati con la sistematica indisponibilità delle rappresentanze istituzionali a discuterne pubblicamente. Per

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MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

di Oliviero Mazza* – 1. Riparazione e confessione. – Quando si affronta il tema della giustizia riparativa bisogna porsi una domanda preliminare: qual è il presupposto per accedere a questo procedimento incidentale1, così delineato dal meccanismo dell’invio d’ufficio ex art. 129-bis c.p.p.? I sostenitori del brave new world si nascondo dietro fumisterie verbali: non «si richiede una confessione all’imputato», trattandosi di un «percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato»2. Il primo impatto giurisprudenziale, invece, ci ha richiamato a un sano realismo giuridico: vi sono soverchie «difficoltà di ammettere un programma di giustizia riparativa in corso di un processo (e ancora più di un procedimento) allorché l’imputato (o l’indagato) contesta la fondatezza dell’accusa»3. Del resto, al di là della prevedibile interpretazione giurisprudenziale, era la logica a riportare l’interprete a una realtà normativa che, finalizzata alla riparazione di qualcosa, ne postulava prima la rottura. Detto altrimenti, la giustizia riparativa delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 non è un gioco di società e nemmeno una seduta di analisi collettiva, ma è calata integralmente nel sistema penale come forma di risoluzione alternativa del conflitto interindividuale rappresentato dal reato. A riprova di ciò, è sufficiente ricordare quali siano gli effetti penali del procedimento incidentale di mediazione: per i reati procedibili a querela, il cui novero è stato significativamente incrementato proprio dalla riforma Cartabia, la risoluzione alternativa della controversia determina la remissione di querela (art. 152 comma 2 n. 2 c.p.). Il collegamento fra il procedimento principale e quello incidentale è reso ancor più chiaro dalla previsione che, «quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati». Per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’esito riparativo determina l’applicazione di una specifica diminuente (art. 62 n. 6 c.p. che parifica la riparazione al risarcimento del danno e alle condotte riparatorie) nonché la sospensione condizionale della pena (art. 163 comma 5 c.p.). Senza dimenticare la prospettiva, tutt’altro che remota, di una surrettizia applicazione dell’archiviazione meritata – istituto abbozzato e poi abbandonato nei la vori preparatori della riforma – in seguito al buon esito della giustizia riparativa avviata per decisione del pubblico ministero. Il quadro normativo certifica che davanti al mediatore non si discute di “nudi fatti”, privi di rilevanza penale, posto che l’unico oggetto del procedimento incidentale è la “rottura” dei rapporti personali determinata dal reato, con tutte le conseguenze del caso, tanto in termini di procedibilità e di definizione del procedimento già in fase di indagini quanto di dosimetria sanzionatoria e di benefici di legge. Al di là della ricostruzione quasi esoterica della “conca riparativa”, per il giurista positivo è innegabile che l’ammissione da parte dell’imputato dei fatti che gli vengono addebitati costituisca la precondizione indispensabile per l’accesso stesso ai programmi riparativi. Del resto, il rinvio generale ai principi internazionali, contenuto nell’art. 53 comma 1 d.lgs. n. 150 del 2022, è più che sufficiente per importare nella disciplina nazionale proprio quelle regole europee che impongono, quale condizione essenziale per l’avvio del procedimento, che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso» (art. 12, c. 1, lett. c, dir. 2012/29/UE). Analoga affermazione si ritrova nel par. 30 della Raccomandazione 8(2018) del Consiglio d’Europa, secondo cui «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda». Il primo mito è dunque sfatato, la giustizia riparativa rimane, fin dalla sua matrice europea e nella sua connotazione finalistica, un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la sua responsabilità. 2. Vittimocentrismo occultato. – I conditores hanno alimentato un secondo mito, quello del sistema paritario non vittimocentrico4, e la giurisprudenza questa volta sembra prenderli in parola quando afferma che l’istituto è «del tutto disfunzionale alla tutela delle vittime dei reati a sfondo sessuale o di genere, in totale distonia con la vocazione securitaria, spesso solo apparentemente pubblicizzata, dalle norme relative a tale specifico settore»5. Non si può negare la conclamata schizofrenia normativa. Si pensi al giudice che applica una misura coercitiva all’imputato, magari il divieto di avvicinamento alla persona offesa, e al tempo stesso ordini l’invio di entrambi i soggetti in conflitto davanti al mediatore affinché possano “avvicinarsi” oppure a tutti i casi in cui l’imputato sia ristretto nella sua libertà personale in ragione del pericolo di recidiva e venga nondimeno disposto il suo invio al centro per la giustizia riparativa al fine di incontrare proprio chi si assume abbia già subito le conseguenze della condotta violenta. Al di là delle sempre più evidenti contraddizioni di un sistema penale irrazionale, la giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore fra i primi commentatori, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono giudiziale dell’imputato a condizione che compia tangibili atti di contrizione.Questo è il programma delineato dal legislatore che, in entrambe le chiavi di lettura, risulta ben lungi dalla mistica delle emozioni, attingendo a una smaccata presunzione di colpevolezza. Ogni riflessione ulteriore deve prendere le mosse, ancora una volta, dal dato di realtà giuridica: il legislatore non mette sullo stesso piano vittima e colpevole, il sistema è intriso di una cultura europea

MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA Leggi tutto »

I DIRITTI UMANI TRA NATURA E CULTURA, TRA NORMATIVITÀ E GIURIDICITÀ

di Antonio Baudi – È un dato di fatto che nella persona umana, in quanto soggetto giuridico, convergano situazioni giuridiche di vario tipo ed è anche incontestato che si compenetrino in essa una serie di diritti detti per l’appunto della personalità o, in senso generale, diritti umani. Tali diritti sono nel loro insieme i diritti fondamentali dell’essere umano, come tali dovrebbero essere riconosciuti ad ogni persona per il solo fatto di appartenere al genere umano senza distinzione alcuna e senza alcuna necessità di evidenza esterna. Tale enunciato d’esordio, nella sua ineccepibile evidenza, lascia trasparire la sottostante problematica, perché, nel momento in cui si sottolinea la connaturalità di tali diritti con la persona umana, quale che essa sia, purché vivente, se ne invoca il dovere di riconoscimento, come se tale dovere fosse da conseguire e quindi come se sussistesse uno scarto tra essere e dover essere, tra fatto e valore. Il rilievo esplicita questione di fondo: quale sia la reale genesi e natura di tali diritti che si assumono inerenti all’essere umano.    La persona umana, come essere vivente, esiste in fatto dalla nascita fino alla morte, ma, elevandosi dal mero stato fattuale dell’esistere, si erge al di sopra della (mera) sopravvivenza organica e si immerge contestualmente nel piano dei valori con portata basilare, quale centro unitario di molteplici interessi, unitarietà concentrata nell’appellativo della dignità, valore di portata fondamentale ed ormai celebrato ed esaltato a livello planetario ed oggetto di sterminata recente letteratura. La dignità possiede un plusvalore, in quanto è il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il costituzionalismo contemporaneo. La dignità si coniuga con il rispetto dovuto all’essere umano per cui, più che una dote, si identifica con la persona stessa nella sua concretezza: un individuo che sia privato della sua dignità soffre della negazione della sua stessa umanità. Questa affermazione ha come conseguenza logica e giuridica che la dignità, in quanto presupposto assiologico dei diritti fondamentali, ha valenza prioritaria rispetto alla stessa sovranità popolare ed al relativo ordine politico.  Si discute in dottrina se la categoria dei diritti della personalità sia unica (teoria monista) per cui esiste un solo diritto declinato nei suoi contenuti, oppure se sia plurima, (teoria atomistica) come di solito viene esposta e studiata, ma, quale che sia l’impostazione privilegiata, resta comunque il fondamento unitario di tutela, mediante il ricorso ad azione inibitoria o risarcitoria. Tali diritti, inerendo alla persona umana, sono inviolabili, assoluti, essenziali e necessari, indisponibili, intrasmissibili, imprescrittibili, nella loro essenza immateriali e non economici, fatto salvo il risarcimento del danno (morale) in caso di violazione. Usualmente i diritti umani sono classificati in diritti civili, politici e sociali. I diritti civili sono quelli che attengono alla personalità dell’individuo, quale la libertà di pensiero, la libertà personale, di riunione, di religione ed ancora la libertà economica. Invero, nella sfera di questi, all’individuo è garantita un ambito di arbitrio, purché il suo agire non violi i diritti civili degli altri soggetti. Per tal ragione, i diritti civili obbligano gli Stati a un atteggiamento di astensione. I diritti politici sono, invece, quelli che attengono alla formazione dello Stato democratico e comportano una libertà attiva, ossia una partecipazione dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato: tali sono, ad esempio, la libertà di associazione in partiti e i diritti elettorali. Infine, vi sono i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute, ossia i diritti derivanti dalla maturazione di esigenze nuove e nate relativamente allo sviluppo della moderna società industriale. Questi diritti, invece, implicano un comportamento attivo da parte dello Stato, il quale deve garantire ai cittadini una situazione di concretezza e certezza nella tutela degli stessi e nel riconoscimento delle relative garanzie. Nell’ambito del nostro ordinamento tali diritti hanno fondamento normativo e, nello specifico, rilievo costituzionale, comunque sostenuti anche implicitamente da principi. Tanto premesso il quesito di ordine generale che si è posto concerne la loro matrice, problema che coinvolge la stessa qualificazione di essi come diritti. La prima diffusa impostazione di pensiero è che si tratti di diritti naturali. In proposito è nota la tesi giusnaturalistica la quale ritiene che i diritti umani siano diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo e preesistenti ad ogni altra organizzazione sociale, ivi compreso lo Stato, la cui potestà sovrana è naturalmente limitata al punto che lo Stato può e deve unicamente riconoscerli. Si tratta pertanto di diritti esistenti in fatto. La tesi in questione coinvolge il concetto di natura, termine di non univoco significato. In senso generale e totalitario per i materialisti natura ricomprende l’intera realtà, quella dei corpi, sia dei non viventi come dei viventi. Nel senso più ristretto, come per gli spiritualisti, natura coincide con la sola realtà materiale, l’insieme di corpi.   Più diffusa e condivisa è la concezione intermedia: natura non è il tutto reale perché vi si oppone la sfera della cultura. Ed allora si intende per natura non solo il mondo esterno e materiale, l’insieme delle cose esistenti nello spazio e nel tempo, cose che esisterebbero comunque, anche se l’uomo non ci fosse e non ci fosse mai stato, ma anche gli organismi intesi come prodotti naturali, escludendosi, nell’ambito di tutto ciò che esiste, ogni produzione riconducibile all’intervento umano nel reale. La natura, intesa come mondo esterno e materiale, è energia che si spiega nello spazio e nel tempo, anche se ciò che la caratterizza è piuttosto lo spazio che il tempo, dimensione che meglio risalta nella vita interiore della coscienza umana. La più tipica categoria dello spazio è il corpo, stato energetico definibile in modo intuitivo come sostanza, ciò che nel suo interno essenziale (sub) non cambia (stat) anche se può subire modifiche, ma di superficie. Corpi strettamente fisici sono per esempio, una pietra, un cucchiaio, un vaso di cristallo, un blocco di marmo, un tavolo. Questi sono non solo corpi ma, come si suol dire, corpi solidi ove rilevanti forze interne di coesione molecolare ne rafforzano la compattezza. Valorizzando nella realtà esterna la dimensione temporale subentra il dinamismo degli eventi: se i fenomeni spaziali

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LA COSIDDETTA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA SISTEMA PENALE E CARTA COSTITUZIONALE

di Amedeo Di Franco* –  La vexata quaestio relativa alla cd. separazione delle carriere (o, meglio, degli statuti ordinamentali) della magistratura requirente e della magistratura giudicante si (ri)presenta sul panorama politico-istituzionale del nostro Paese nelle forme del d.d.l. costituzionale n. 1917 approvato alla Camera e trasmesso al Senato.1 Senza la pretesa di affrontare la moltitudine di implicazioni che la specifica proposta di riforma costituzionale porta con sé, le brevi osservazioni che seguono ruotano attorno al rapporto tra la c.d. separazione (o unicità) delle carriere e il sistema penale vigente in uno specifico ordinamento in un determinato momento storico. Orbene, in quest’ottica, il principio della riflessione ben può risiedere nella circostanza per la quale molti, in particolare tra gli studiosi e operatori del diritto, si sono chiesti e si chiedono tutt’ora perché cambiare e, dunque, perché “separare” le carriere. Un interrogativo, questo, che sembra provenire da uno scenario nel quale le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti siano ontologicamente unite – secondo un ordine giusnaturalistico2 – da un vincolo indissolubile (e ontologico è proprio il termine utilizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati nella mozione finale del trentaseiesimo congresso nazionale di Palermo dello scorso anno, dove si legge che: «L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme»)3. Ecco, si diceva, è come se in tale scenario qualcuno all’improvviso – come un deus ex machina, forse nelle vesti di Eride, dea spietata che gode nell’animare conflitti tra gli uomini – abbia manifestato l’intenzione di recidere tale nodo indissolubile. Appare preferibile, invece, una diversa postura nei confronti del tema, che imponga di chiedersi, innanzitutto, le ragioni per le quali le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione siano accomunate e, di conseguenza, perché siano unificati i relativi statuti ordinamentali. In questo senso, un interessante punto di partenza si può senza dubbio rinvenire nella relazione del guardasigilli fascista Dino Grandi al codice di procedura penale del 1930 di matrice inquisitoria – che sostituì quello tendenzialmente accusatorio e liberale del 1913 –, presentata alla Maestà del Re Imperatore.4 Nel testo si evince che alla base della decisione di unificare le funzioni ci fossero, in primo luogo, «ragioni di ordine politico, in quanto, superata la distinzione fondamentalmente erronea tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta. Ciò determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione». In secondo luogo, venivano in rilievo «ragioni d’ordine pratico […] perché la separazione non potrebbe giovare ai fini di una specializzazione di funzioni e, quindi, ad una più perfetta formazione dell’abito e delle attitudini dei singoli magistrati, in quanto la formazione intellettuale e professionale del magistrato, lungi dall’esser turbata, è, invece, avvantaggiata dall’esercizio di entrambe le funzioni, che offre il modo di perfezionarsi in tutti i campi del diritto. L’ordinamento, perciò, fissa l’istituto del Pubblico Ministero in armonia con l’attuale sistema». Ecco, tale sistema, che resistette, seppur con molte modificazioni, anche all’avvento della Legge fondamentale, come è noto, non è più vigente. È stato abrogato nel 1989, a vantaggio di un codice “tendenzialmente” accusatorio. Ciò nonostante, il concetto della “cultura della giurisdizione”, di cui è intrisa la relazione del guardasigilli Dino Grandi, continua tutt’ora a riecheggiare, assurgendo ad uno dei principali argomenti coi quali si ritiene irragionevole la separazione delle organizzazioni ordinamentali. Sul punto v’è dunque da chiedersi se abbia senso parlare di “cultura della giurisdizione” nell’attuale sistema di giustizia. In quest’ottica, a voler accedere alla interpretazione più restrittiva del concetto di “cultura della giurisdizione”, ci si dovrebbe riferire alla funzione dello ius dicere, esclusivo appannaggio dell’organo giudicante e, dunque, nel sistema attuale preclusa alla pubblica accusa. Se, invece, si volesse prediligere una concezione più lata di tale concetto, inteso, dunque, più ampiamente come “cultura della legalità” – o come cultura del rispetto delle regole all’interno del processo –, l’unicità delle carriere non potrebbe non includere il terzo anello del giusto processo triadico scolpito nell’art. 111 Cost., rappresentato dall’avvocato difensore.5 A ciò si aggiunga, inoltre, che non è per nulla scontato che il mantra della “cultura della giurisdizione” – anche a voler accedere alla ambigua accezione con cui viene non di rado declinata – dispensi buoni frutti; anzi, tanto può aversi un’influenza equilibratrice – e quindi virtuosa – della pubblica accusa, tanto può registrarsi, al contrario, un appiattimento della giurisdizione su posizioni inquisitorie (come, secondo autorevole dottrina penalistica, è avvenuto in plurimi casi di scelte ermeneutiche effettuate in relazione fattispecie chiave del nostro sistema penale, come la corruzione o il c.d. concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Appiattimento che rischia di mortificare la natura stessa del processo penale di stampo accusatorio. È appena il caso di ricordare, poi, la circostanza per la quale proprio l’insigne giurista che firmò il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, il Ministro, Professore, Onorevole, Giudice della Corte costituzionale e Avvocato, Giuliano Vassalli ha scritto e sostenuto in più occasioni che il processo penale per come delineato all’epoca non avrebbe assunto con pienezza i connotati del processo accusatorio in assenza della separazione delle organizzazioni ordinamentali dei magistrati e che in questo modo le funzioni non sarebbero state mai del tutto distinte. Disse, infatti, in un’intervista del 1987 che non fosse leale parlare di processo accusatorio, ove i giudici e i pubblici ministeri avessero continuato ad avere medesime carriere e a ricoprire gli stessi ruoli, essendo necessario, in tal senso, un allineamento della Carta costituzionale.6 Ancor più valore assume, poi, la profezia di Vassalli se si considera che nel 1999 è stato riformato l’art. 111 della Costituzione: da allora, invero, la nostra Legge fondamentale fa proprio il principio del giusto processo, da svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Pertanto, l’esigenza di differenziare

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UN ARTIGIANO DI GIUSTIZIA: L’EREDITÀ DI PAPA FRANCESCO E IL RUOLO DELL’AVVOCATO

Aldo Truncè* –   Con la scomparsa di Papa Francesco il mondo perde una voce potente e compassionevole, un faro di speranza ed un instancabile difensore della sacralità della persona. Papa Francesco, con la sua inconfondibile empatia, ha sempre guardato alla nostra professione con occhi di comprensione e rispetto, ricordandoci che l’avvocato non è un mero tecnico della legge, ma un artigiano di giustizia, un volto umano di un sistema che, talvolta, rischia di apparire distante e inaccessibile. “Siate difensori dei diritti, specialmente di chi non ha voce”, ci ha esortato il Pontefice.  Un appello che, per noi avvocati penalisti, assume una risonanza particolare.  Siamo sovente investiti della difesa di individui relegati ai confini del tessuto sociale, soggetti stigmatizzati come reietti, che spesso, animati da intrinseca fragilità, pusillanimità e talora da disperazione abissale, compiono scelte aberranti. La nostra missione non si esaurisce nella ricerca della migliore difesa tecnica, ma si dispiega nella tutela indefettibile della dignità intrinseca della persona e nella riaffermazione dell’essenza umana di chi è al centro del processo, o di chi sta già scontando la sua pena. Chi è in cella, isolato dalla società, conduce la sua vita come se fosse ai margini del mondo. Conosciamo bene la realtà del carcere, i volti segnati dalla sofferenza, le storie di umanità ferita. Le esortazioni di Papa Francesco, reiterate e vibranti, che ci hanno incessantemente richiamato all’impegno di schierarci al fianco degli ultimi, degli emarginati, di coloro che la società tende a relegare ai confini, si traducono per noi, avvocati, in un mandato deontologico irrinunciabile. Questo mandato diventa azione quotidiana, una prassi che affronta fragilità, disperazioni silenziose ed ingiustizie striscianti. Il monito del Pontefice “nessuno deve essere abbandonato‘ non è per noi un’astrazione teologica, ma una bussola etica che orienta ogni nostra scelta, ogni nostra strategia difensiva. Esso ci impone di non distogliere lo sguardo dalle periferie esistenziali, di non ignorare le grida di aiuto che si levano dalle celle sovraffollate, dalle aule di tribunale in cui si consumano drammi umani, dalle strade in cui vagano gli esclusi. “Stare dalla parte degli ultimi”, significa per noi, avvocati, essere capaci di ascoltare, comprendere, accogliere. Significa non limitarci alla mera apologia dei nostri assistiti che portiamo avanti quotidianamente nei Tribunali, ma impegnarci in un’opera di ricostruzione della dignità, di riaffermazione della centralità della persona, di riabilitazione sociale. Significa, in ultima analisi, restituire voce a chi non ne ha, speranza a chi l’ha perduta, umanità a chi è stato spogliato di essa. La sua voce si è levata contro l’abuso di potere e la mercificazione della giustizia, ricordandoci che il nostro compito è servire la verità e non gli interessi di parte, stando ben attenti a non piegarci a logiche economiche e del profitto, nell’esercizio della nostra professione. La sua profonda sensibilità per i detenuti ha segnato un’epoca, imprimendo un’impronta indelebile nella coscienza collettiva. “Nessuna cella è tanto isolata da escludere il Signore“, ha affermato Papa Francesco, ricordando con forza che l’inviolabilità della persona, intesa nella sua integralità di corpo e spirito, non può essere calpestata, neanche dietro le sbarre. Quest’affermazione, lungi dall’essere una mera consolazione spirituale, si traduce in un imperativo etico e giuridico: riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere umano, anche di chi ha commesso errori gravi. La sua condanna della pena come strumento di tortura, e la sua definizione dell’ergastolo come “pena di morte nascosta” che annienta la speranza, rivelano una profonda comprensione della dimensione umana del dolore e della sofferenza. In questo contesto, il gesto simbolico della lavanda dei piedi, compiuto ogni Giovedì Santo – ma non, con suo sommo dispiacere, nell’ultima ricorrenza pasquale – assume una rilevanza straordinaria. Questo rito, che rievoca l’atto di umiltà e servizio compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli, trascende la mera dimensione liturgica, per assumere una carica simbolica profonda, soprattutto in ambito penitenziale. La lavanda dei piedi rappresenta un atto di purificazione, di accoglienza, di riconoscimento della fragilità umana e di volontà di redenzione. Nel contesto carcerario, questo gesto assume una valenza ancora più intensa: lavare i piedi dei detenuti significa abbattere le barriere dell’isolamento e della stigmatizzazione, prostrarsi, inchinarsi e genuflettersi a loro, con un simbolismo potentissimo di riscatto. Papa Francesco, con la sua profonda sensibilità, ha saputo cogliere l’energia metaforica di questo gesto, traducendolo in un messaggio di speranza e di misericordia per i reclusi, in armonia con il gesto concreto del lascito di tutti i suoi averi in favore dei detenuti. La sua voce continuerà a risuonare nelle celle e nelle aule di tribunale, ricordandoci che la giustizia, per essere veramente tale, deve essere sempre accompagnata dalla compassione. Sull’eco di queste parole, noi artigiani di giustizia, continueremo il nostro cammino, perché anche nell’ombra più fitta ogni essere umano custodisce la scintilla di una possibile rinascita. *Presidente della Camera Penale di Crotone

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LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO

di Gian Luigi Gatta* – 1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma. Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società. Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi. 2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma vecchio come il diritto penale, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima. C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato. Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare». Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia va proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale. Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore. 3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e

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