LA COSIDDETTA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA SISTEMA PENALE E CARTA COSTITUZIONALE

di Amedeo Di Franco* – 

La vexata quaestio relativa alla cd. separazione delle carriere (o, meglio, degli statuti ordinamentali) della magistratura requirente e della magistratura giudicante si (ri)presenta sul panorama politico-istituzionale del nostro Paese nelle forme del d.d.l. costituzionale n. 1917 approvato alla Camera e trasmesso al Senato.1

Senza la pretesa di affrontare la moltitudine di implicazioni che la specifica proposta di riforma costituzionale porta con sé, le brevi osservazioni che seguono ruotano attorno al rapporto tra la c.d. separazione (o unicità) delle carriere e il sistema penale vigente in uno specifico ordinamento in un determinato momento storico.

Orbene, in quest’ottica, il principio della riflessione ben può risiedere nella circostanza per la quale molti, in particolare tra gli studiosi e operatori del diritto, si sono chiesti e si chiedono tutt’ora perché cambiare e, dunque, perché “separare” le carriere. Un interrogativo, questo, che sembra provenire da uno scenario nel quale le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti siano ontologicamente unite – secondo un ordine giusnaturalistico2 – da un vincolo indissolubile (e ontologico è proprio il termine utilizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati nella mozione finale del trentaseiesimo congresso nazionale di Palermo dello scorso anno, dove si legge che: «L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme»)3.

Ecco, si diceva, è come se in tale scenario qualcuno all’improvviso – come un deus ex machina, forse nelle vesti di Eride, dea spietata che gode nell’animare conflitti tra gli uomini – abbia manifestato l’intenzione di recidere tale nodo indissolubile. Appare preferibile, invece, una diversa postura nei confronti del tema, che imponga di chiedersi, innanzitutto, le ragioni per le quali le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione siano accomunate e, di conseguenza, perché siano unificati i relativi statuti ordinamentali.

In questo senso, un interessante punto di partenza si può senza dubbio rinvenire nella relazione del guardasigilli fascista Dino Grandi al codice di procedura penale del 1930 di matrice inquisitoria – che sostituì quello tendenzialmente accusatorio e liberale del 1913 –, presentata alla Maestà del Re Imperatore.4

Nel testo si evince che alla base della decisione di unificare le funzioni ci fossero, in primo luogo, «ragioni di ordine politico, in quanto, superata la distinzione fondamentalmente erronea tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta. Ciò determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione».

In secondo luogo, venivano in rilievo «ragioni d’ordine pratico […] perché la separazione non potrebbe giovare ai fini di una specializzazione di funzioni e, quindi, ad una più perfetta formazione dell’abito e delle attitudini dei singoli magistrati, in quanto la formazione intellettuale e professionale del magistrato, lungi dall’esser turbata, è, invece, avvantaggiata dall’esercizio di entrambe le funzioni, che offre il modo di perfezionarsi in tutti i campi del diritto. L’ordinamento, perciò, fissa l’istituto del Pubblico Ministero in armonia con l’attuale sistema».

Ecco, tale sistema, che resistette, seppur con molte modificazioni, anche all’avvento della Legge fondamentale, come è noto, non è più vigente. È stato abrogato nel 1989, a vantaggio di un codice “tendenzialmente” accusatorio. Ciò nonostante, il concetto della “cultura della giurisdizione”, di cui è intrisa la relazione del guardasigilli Dino Grandi, continua tutt’ora a riecheggiare, assurgendo ad uno dei principali argomenti coi quali si ritiene irragionevole la separazione delle organizzazioni ordinamentali.

Sul punto v’è dunque da chiedersi se abbia senso parlare di “cultura della giurisdizione” nell’attuale sistema di giustizia. In quest’ottica, a voler accedere alla interpretazione più restrittiva del concetto di “cultura della giurisdizione”, ci si dovrebbe riferire alla funzione dello ius dicere, esclusivo appannaggio dell’organo giudicante e, dunque, nel sistema attuale preclusa alla pubblica accusa. Se, invece, si volesse prediligere una concezione più lata di tale concetto, inteso, dunque, più ampiamente come “cultura della legalità” – o come cultura del rispetto delle regole all’interno del processo –, l’unicità delle carriere non potrebbe non includere il terzo anello del giusto processo triadico scolpito nell’art. 111 Cost., rappresentato dall’avvocato difensore.5

A ciò si aggiunga, inoltre, che non è per nulla scontato che il mantra della “cultura della giurisdizione” – anche a voler accedere alla ambigua accezione con cui viene non di rado declinata – dispensi buoni frutti; anzi, tanto può aversi un’influenza equilibratrice – e quindi virtuosa – della pubblica accusa, tanto può registrarsi, al contrario, un appiattimento della giurisdizione su posizioni inquisitorie (come, secondo autorevole dottrina penalistica, è avvenuto in plurimi casi di scelte ermeneutiche effettuate in relazione fattispecie chiave del nostro sistema penale, come la corruzione o il c.d. concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Appiattimento che rischia di mortificare la natura stessa del processo penale di stampo accusatorio.

È appena il caso di ricordare, poi, la circostanza per la quale proprio l’insigne giurista che firmò il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, il Ministro, Professore, Onorevole, Giudice della Corte costituzionale e Avvocato, Giuliano Vassalli ha scritto e sostenuto in più occasioni che il processo penale per come delineato all’epoca non avrebbe assunto con pienezza i connotati del processo accusatorio in assenza della separazione delle organizzazioni ordinamentali dei magistrati e che in questo modo le funzioni non sarebbero state mai del tutto distinte. Disse, infatti, in un’intervista del 1987 che non fosse leale parlare di processo accusatorio, ove i giudici e i pubblici ministeri avessero continuato ad avere medesime carriere e a ricoprire gli stessi ruoli, essendo necessario, in tal senso, un allineamento della Carta costituzionale.6

Ancor più valore assume, poi, la profezia di Vassalli se si considera che nel 1999 è stato riformato l’art. 111 della Costituzione: da allora, invero, la nostra Legge fondamentale fa proprio il principio del giusto processo, da svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale.

Pertanto, l’esigenza di differenziare le posizioni dell’ossimorica funzione della pubblica accusa, “parte imparziale” del processo, e le posizioni dell’organo giudicante sembrano potersi giustificare secondo ragioni di ordine logico, oltreché di ordine strettamente normativo. Si potrebbe dunque dire che la separazione delle carriere si inserisce nella nostra cornice ordinamentale come il completamento della riforma del sistema accusatorio, nei cui confronti risulta essere consustanziale.

Infine, non appaia pleonastico ribadire che sarà solo il tempo a decretare – ove venisse attuata questa riforma – il miglioramento o il peggioramento della qualità della giurisdizione (che è concetto più ampio e più alto rispetto alla mera efficienza). E proprio in quest’ottica, pur nel solco di un pieno sostegno ai principi della nostra Legge fondamentale, una Costituzione rigida ma non intangibile, non va dimenticato che le riforme si attuano per il futuro. E, dunque, pur condividendo la generale riluttanza a modificare la Carta costituzionale, appare stimolante riportare una suggestione pro futuro, riconducibile proprio a chi quella Costituzione ha contribuito ad elaborarla.

Durante la seduta del 26 novembre 1947 dell’Assemblea costituente, chiamata a discutere dell’art. 99 (ora art. 107) della Costituzione, l’Onorevole Giuseppe Bettiol propose, con un emendamento, la soppressione dell’ultimo comma che temporaneamente recitava «Il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati» (e, dunque, una tutela più ampia rispetto a quella per cui optarono i Padri costituenti e tutt’ora vigente7), motivando in questo modo: «Le funzioni del pubblico ministero non devono essere incapsulate accanto a quelle del giudice, ma devono essere tenute distinte. È proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come un organo di giustizia, mentre in tutti i regimi liberali esso è considerato come un organo del potere esecutivo».

L’On. Bettiol, tuttavia, ritirò la proposta di emendamento a favore di una diversa idea suggerita dalla Commissione Targetti, che prevedeva per il pubblico ministero le garanzie dell’ordinamento giudiziario. Il repentino cambio di rotta del giurista friulano si deve in via principale all’esortazione di Giovanni Leone, che disse: «Sono d’accordo con la Commissione e con l’onorevole Targetti nella dichiarazione che fino a quando esiste questa struttura, questo sistema di diritto sostantivo e processuale civile e penale, è opportuno che restino quelle parziali garanzie che la legge Togliatti ha conquistato al Pubblico Ministero. Quindi, non tornare indietro nei confronti della legge 31 maggio 1946, fino a quando dura l’attuale sistema giudiziario il Legislatore sarà costretto a rivedere le funzioni del pubblico ministero: se deve conservare l’attuale natura anfibia o assegnargli funzioni esclusivamente amministrative ed esecutive».

Orbene, al netto delle considerazioni sui rapporti del pubblico ministero con il Potere esecutivo – che non pare il caso di approfondire in quanto esorbitano rispetto al presente progetto di riforma costituzionale –, si può leggere in questi passaggi, a sommesso avviso di chi scrive, la consapevolezza di una elaborazione quasi “temporanea”, che non convinceva a pieno nessuno dei costituenti intervenuti in quella sede; osando, si può dunque intravedere un’apertura ad una modifica futura, quando si fosse scelto più precisamente il volto del processo penale e il ruolo del pubblico ministero al suo interno, a dimostrazione della imprescindibile correlazione che intercorre tra la scelta del tipo di sistema penale e le posizioni ordinamentali dei magistrati che operano al suo interno.

Scelta che è stata compiuta, nel 1988, tra gli altri da Giuliano Vassalli, allievo proprio di uno dei Maestri della prima metà del Novecento, che già allora accennava – come ricordato nella medesima seduta dell’Assemblea costituente.

dallo stesso Giovanni Leone – alla possibilità di impostare il processo sul tipo di quello anglosassone: il riferimento è ad un giurista del calibro di Giacomo Delitala.8

 

*Dottorando di ricerca in diritto penale presso l’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro.

(Lo scritto è la rielaborazione dell’intervento dell’Autore in occasione del Convegno “La separazione delle carriere: analisi e prospettive sul DDL costituzionale n. 1917”, tenutosi il 25 marzo 2025 presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro).

 

1 – Il testo del disegno di legge n. 1917 è consultabile al seguente indirizzo: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1917
2 – Sul punto, v. MAIELLO V., Separazone delle carriere, così salviamo il giusto processo, in Discrimen, 22 gennaio 2025.
3 – Il testo della 36esima mozione è consultabile al seguente indirizzo: https://www.associazionemagistrati.it/doc/4250/la-mozione-del-36-congresso-anm.htm
4 – In questo senso, si veda DOMINIONI O., Giudice e Pubblico Ministero. Le ragioni della «separazione delle carriere», in Studi in onore di Giorgio Marinucci (a cura di) DOLCINI E. e PALIERO C., Milano, 2006, p. 2745 ss.
5Ibidem.
6 – L’intervista del 1987, resa al Financial Times, è stata riportata alla luce da Oliviero MAZZA ne IL DUBBIO del lunedì #9 del 10 marzo 2025, dove si legge: «In Vassalli è saldissima la convinzione che non si possa ritenere nemmeno tendenzialmente accusatorio un sistema processuale che prescinda dalla separazione ordinamentale del giudice dal pubblico ministero. Stimolato dalle intelligenti domande di un giornalista anglosassone intriso della cultura processuale adversary, Vassalli ricorda che “parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice… che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli… essere colleghi eccetera, è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio”».
7 – L’art. 107, comma 4, Cost. recita: «Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario».
8 – Si riporta testualmente il prosieguo dell’intervento dell’On. Leone durante la seduta dell’Assemblea costituente del 26 novembre 1947: «Ricorderò che nel Congresso giuridico forense di Firenze, il professor Delitala accennò all’idea di organizzare il processo penale sul tipo anglosassone, nel quale il pubblico ministero appare come organo di polizia, come l’organo che raccoglie le prime prove. Ora, queste diverse prospettive, che si presentano dinanzi a noi e sulle quali non possiamo fermarci neppure per deliberarle, ma che saranno oggetto di una vasta riforma, ci dicono che allo stato attuale non possiamo togliere al pubblico ministero le garanzie conquistate, perché, avendo funzioni sia amministrative che giurisdizionali, non può essere organo del potere esecutivo».

Torna in alto