Esecuzione Penale

Non c’è più tempo: ora, basta!

I penalisti chiedono l’intervento della Consulta: illegalità e disumanità nelle carceri impongono il rinvio dell’esecuzione della pena. di Veronica Manca* – “Non c’è più tempo” è il refrain principale di tutte le iniziative targate Unione delle Camere Penali Italiane dall’inizio del 2024 a oggi in materia di carcere: una tra tutte le “maratone oratorie” sui territori, voluta fortemente dalla Giunta e da Osservatorio carcere e che ha trovato il suo avvio proprio dalla Camera Penale di Catanzaro, lo scorso 29 maggio. Che non ci sia più tempo per ignorare la drammatica situazione delle carceri è qualcosa di così lampante da meravigliarsi che nulla sia ancora cambiato: sono ormai 40 le vite spezzate per suicidio, con modalità esecutive atroci e tutte per impiccagioni. Una strage di Stato: un suicidio ogni tre giorni e non solo da parte dei detenuti, perché l’intollerabilità del sistema schiaccia anche le vite umane degli operatori, con più di 3 suicidi da parte di agenti della polizia penitenziaria. In breve: secondo i dati forniti dal DAP, al 31 maggio 2024, i detenuti presenti nelle carceri sono 61.547 rispetto ad una capienza regolamentare “ufficiale” di 51.241 posti disponibili su 189 strutture. Del numero complessivo, 15.609 sono persone ristrette a titolo di custodia cautelare, con 9.382 in attesa del primo giudizio, mentre 6.227 sono condannati non definitivi (un 26% del totale). Da marzo ad aprile, in un solo mese, si è registrato un aumento della popolazione carceraria di 248 unità e si sono registrati ben 12 suicidi (con un ultimo suicidio avvenuto oggi, mentre sto scrivendo, presso il carcere di Ferrara: un collaboratore di giustizia, di 56 anni). Da aprile a maggio la crescita è continuata tanto che in questi ultimi tre mesi si sono avuti più di 500 nuovi ingressi e altri. Ad oggi sono 40 i suicidi, con un suicidio avvenuto presso il CPR di Roma. La fotografia che ne esce è di una bruttezza senza precedenti: per questo, tra le numerose azioni intraprese, la Giunta, con l’Osservatorio carcere ha offerto a tutti i penalisti una riflessione sulla criticità delle norme che governano l’esecuzione della pena, ritenendo, che, ove ce ne siano i presupposti, sia doveroso investire anche la Consulta per censuare l’illegalità con cui oggi si sconta la pena detentiva, in condizioni, appunto, disumane e senza il rispetto della dignità umana (il documento, con la nota accompagnatoria, è consultabile sul sito www.camerepenali.it). Si tratta di un ragionamento complesso diretto principalmente agli avvocati, ma che può essere colto in tal senso anche dalla magistratura di sorveglianza. Le norme censurate sono gli artt. 146 e 147 del codice penale, con cui si prevedono dei meccanismi di sospensione della pena: tra questi, non è compresa la possibilità di rinviare la pena in tutti quei casi in cui non sia possibile garantire standard di sicurezza e di esecuzione della pena conforme a Costituzione. È evidente che il sovraffollamento, il numero elevato di suicidi, la mancanza di risorse materiali e di personale e l’assenza, quanto meno ad oggi, di una riforma organica deflativa in materia penitenziaria rendono il sistema una bomba ad orologeria, prossima all’esplosione e il prezzo di vite umane da pagare è troppo alto per restare fermi in attesa del legislatore. Si chiede in altri termini che venga sollevata una questione di legittimità costituzionale degli artt. 146 e 147 c.p. e/o di uno di essi, a seconda della scelta argomentativa prescelta, nella misura in cui tali norme non consentono la sospensione dell’esecuzione della pena se scontata in condizioni disumane. La scelta della norma da censurare varia a seconda della forza argomentativa posta sulla centralità del concetto di dignità: se parametrato all’art. 146 c.p. è perché si sostiene, come è corretto, che la dignità non è bilanciabile con altri interessi e a fronte di una condizione di illegalità diffusa e sistemica non può residuare un margine di discrezionalità in capo al magistrato. Secondo tale impostazione è possibile immaginare anche nel nostro ordinamento un sistema detentivo basato sul c.d. “numero chiuso”, proprio e tipico dei Paesi del Nord oppure, anche se per via giurisprudenziale, di alcuni Stati membri degli Stati Uniti d’America, come per la California: al raggiungimento della capienza massima regolamentare scatterebbe l’obbligo di sospendere la pena. Seguendo, invece, l’altra norma di cui all’art. 147 c.p. si pone l’accento sul fatto che, per quanto il giudizio possa dirsi oggettivo, sia sempre e comunque necessario l’intervento del giudice il quale è chiamato a valutare anche i diversi profili soggettivi o altre soluzioni alternative. Secondo, quindi, un ragionamento altrettanto corretto, ma più equilibrato e rispondente a esigenze di bilanciamento, si attribuisce in ogni caso la scelta finale al magistrato di sorveglianza che, pur in una valutazione discrezionale, dovrà valutare criteri oggettivi inerenti, ad esempio, le condizioni della struttura, delle sezioni, delle celle, delle attività di trattamento, dello spazio per il pernottamento, delle condizioni igieniche, ecc., secondo quanto peraltro, previsto a livello generale dalla Corte europea nel caso Muršić c. Croazia. In entrambi i casi, si chiede alla Consulta di intervenire sulle norme, quali strumenti a chiusura di un sistema detentivo che dovrebbe operare nelle condizioni fisiologiche, mentre per i casi di patologia, come quelli di un sovraffollamento esasperante, con norme a carattere straordinario. In entrambi i casi, inoltre, i principi della Costituzione interessati sono quelli dell’art. 3, 13, co. 3 e 4, 27, co. 3, 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU. La via delle riforme è senza dubbio quella più auspicata e anche tale documento può contribuire a dare nuova linfa al dibattito fornendo al legislatore delle proposte che, in altri Paesi, vicini a noi, come la Francia o la Spagna sono diventate realtà: la Francia, che soffre, in egual misura di sovraffollamento, prevede la possibilità di rinviare, a determinate condizioni, l’esecuzione in tutti quei casi di superamento del limite massimo di detenuti e sulla base di un vaglio giurisdizionale. È vero che la questione, da noi, era già stata esaminata dalla Consulta, con sent. n. 279/2013, ma è altrettanto vero che oggi le carceri italiane

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SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO E MORTE PER PENA

  di Orlando Sapia – L’esecuzione penale nel corso degli ultimi decenni si è caratterizzata per il patologico fenomeno del sovraffollamento carcerario che ha portato lo Stato italiano ad essere condannato dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in svariati procedimenti, aventi ad oggetto richieste di indennizzo per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU, sino ad arrivare alla sentenza c.d. pilota emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia che, oltre agli indennizzi, ha imposto allo Stato di realizzare un’apposita azione legislativa al fine di consentire una deflazione della popolazione carceraria, così da garantire le condizioni essenziali per il rispetto dei diritti umani, tra le quali la disponibilità di almeno tre metri quadri per soggetto detenuto all’interno delle camere di detenzione. Sull’onda della sentenza CEDU sono stati adottati provvedimenti di natura legislativa al fine di evitare l’accesso al circuito dell’esecuzione penale, in senso stretto, di coloro i quali siano coinvolti nelle fasi di indagine e processuale. In questo senso si segnala la L. n. 67/2014 che ha introdotto l’istituto della messa alla prova, art. 168 bis c.p., anche per gli adulti, nei reati di competenza del tribunale monocratico, e la possibilità di declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, art. 131 bis c.p., per alcune fattispecie di reato che non destano un grande allarme sociale. Sempre sotto il profilo legislativo, con il D.L. n. 146 del 2013, convertito dalla L. n. 10 del 2014, è stata istituita la liberazione anticipata speciale che ha, temporaneamente, innalzato la detrazione pena da quarantacinque a settantacinque i giorni, per ogni semestre di buona condotta, così da favorire una più rapida diminuzione della popolazione detenuta. Al fine di fronteggiare le problematiche causate dal sovraffollamento e, così, non incorrere in violazione dei diritti umani, conseguenti alla scarsità degli spazi a disposizione per ogni soggetto detenuto, è stata introdotta con la circolare 14/07/2013 del DAP la sorveglianza dinamica che ha permesso ai soggetti detenuti, in media e bassa sicurezza, di poter vivere gli istituti di pena al di fuori delle camere di detenzione per almeno otto ore al giorno, fino ad un massimo di quattordici, in  modo da rendere più dignitosa l’esecuzione penale in un’ottica di rilancio dell’attività trattamentale.     Purtroppo, oggi, ad oltre dieci anni di distanza dalla storica pronuncia e dagli interventi legislativi/amministrativi che ne sono seguiti, la situazione all’interno degli istituti di pena continua ad essere allarmante, essendo il sovraffollamento carcerario una costante della realtà penitenziaria. Attualmente il numero dei detenuti ha superato le 60.000 unità e, con un aumento mensile di circa 400 detenuti, in breve tempo raggiungerà la soglia di criticità che valse la condanna da parte della Corte EDU nell’anno 2013.[1] La cronicità del sovraffollamento penitenziario è la diretta conseguenza di due fattori che congiuntamente sono all’origine del drammatico paradosso per cui lo Stato italiano, nell’esercizio del potere punitivo, dimostra di non avere quella civiltà che vorrebbe insegnare a chi viola i precetti penali. La prima causa è la riforma dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Trattasi a tutti gli effetti di un “frutto avvelenato” che la Prima Repubblica ha dato in lascito alla Seconda. Difatti, fu proprio al termine della X Legislatura, che venne promulgata la Legge Costituzionale n.1 del 06/03/1992. A seguito di questa riforma costituzionale è stato disposto che la legge di amnistia/indulto debba essere deliberata a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Maggioranza così elevata non sono richieste nemmeno per la deliberazione definitiva delle leggi costituzionali, con il paradosso che sarebbe più facile modificare la normativa relativa alla produzione giuridica che approvare la fonte di produzione, ovverosia la legge di clemenza[2]. Da allora si è avuta solo la legge sull’indulto del 2006, causa di forti tensioni all’interno di quell’esecutivo che di lì a poco fu sfiduciato dal Parlamento. L’altro fattore è la pervicace attuazione di politiche securitarie che producono il sistematico aumento degli edittali di pena, la continua creazione di fattispecie di reato e il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative. La promulgazione di “pacchetti sicurezza” è tanto costante quanto immotivata, sotto il profilo di quella che è la funzionalità denunciata ufficialmente, visto il costante calo degli indici di commissione di reati che si è riscontrato nel corso degli ultimi anni. È al contrario direttamente proporzionale alla raccolta del consenso elettorale, essendo attualmente sotto un profilo di finanza pubblica meno oneroso l’affermazione di un generico, quanto imprecisato, diritto alla sicurezza, rivolto alla “pancia” del paese, piuttosto che garantire la sicurezza dei diritti sociali, che trovano la loro diretta legittimazione nella Carta Costituzionale. Se a questo si aggiunge un utilizzo eccessivo della leva cautelare, tanto da riguardare in maniera tutt’altro che occasionale anche soggetti che all’esito di lunghi iter processuali sono poi assolti, ne consegue che oggi è molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne.[3] Sotto quest’ultimo profilo, si evidenzia la frequenza sistemica degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 ogni anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro.[4] Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale o migranti, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in poco più di tre mesi, sono trentadue i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni.[5] È oggi urgente che il legislatore e il suo alter ego la politica trovino il coraggio di fare ricorso agli

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L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   ABSTRACT  1) La questione di legittimità al vaglio della corte costituzionale – 2) La costituzionalizzazione dell’ergastolo e il regime dell’ostatività- 3) Ostatività, tolleranza zero e ruolo dello stato – 4) Tra diritto penale massimo e diritto penale del nemico – 5) La giurisprudenza ed i recenti indirizzi: sent. n. 149/18 c.c. – sentenza viola cedu – sentenza n. 253 del 2019 c.c. – 6) 4 bis e circuito penitenziario differenziato  1) La questione di legittimità rimessa dalla Corte di Cassazione, I Sezione, con ordinanza del 3 Giugno 2020 alla Corte Costituzionale ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso  in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter della medesima legge o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. Visto, nel caso oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale, l’essersi formato il c.d giudicato esecutivo di segno negativo in ordine all’impossibile e/o inesigibile collaborazione, la circostanza della mancata collaborazione ha precluso il vaglio di quanto dedotto nel merito, a sostegno della richiesta di liberazione condizionale, da parte del ricorrente. Con ciò, si è elevata la presenza o meno della collaborazione a criterio, da un lato, esclusivo al fine di vagliare l’assenza di legami con l’ambiente criminale di appartenenza e, dall’altro, escludente rispetto ad altri elementi che in concreto potrebbero essere validi al fine di valutare la presenza dei sopraddetti legami criminali e, quindi, escludere la pericolosità sociale del condannato. Ne consegue che l’esistenza di preclusioni assolute alla valutazione/concessione della liberazione condizionale realizza, pur laddove vi siano progressi del condannato in termini di risocializzazione, una violazione del dettato costituzionale in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost.  La Suprema  Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19) ha ritenuto la questione di costituzionalità rilevante e non manifestamente infondata, dal momento che le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e, l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Ancora una volta si pone un confronto tra principi sottostanti ad istituti giuridici posti a tutela di differenti e, forse, antitetici interessi sociali, prima, e beni giuridici, dopo. Da una parte le ragioni dello Stato nell’esercizio del potere legittimo della forza, dall’altra le ragioni del cittadino nel pretendere che questo esercizio legittimo della forza non sia egemonizzato dalle esigenze di sicurezza sociale, ma trovi il suo baricentro nella funzione di rieducazione/risocializzazione della pena.   LEGGI TUTTO Ergastolo ostativo tra diritto e ragion di stato

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Un anno di covid-19 nel mondo penitenziario

ABSTRACT Il tortuoso percorso della tutela dei diritti umani al tempo del giustizialismo di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   Sommario: 1. Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. – 2. Populismo penale e sovraffollamento penitenziario – 3. Il contenimento del virus nel mondo penitenziario tra misure deflattive e sirene del giustizialismo. – 4. Le carceri un anno dopo: i dati. – 5. Una buona occasione per ripensare il sistema penale. 1- Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. Nelle giornate del 6, 7 e 8 marzo dell’anno passato, all’inizio dell’emergenza sanitaria nazionale ed appena prima del lockdown di giorno 9, le rivolte dei detenuti infiammarono buona parte degli istituti penitenziari italiani, riportandoci indietro di mezzo secolo. Era dagli anni settanta, infatti, che non si assisteva ad una rivolta così generalizzata delle carceri. Erano gli anni in cui la vita penitenziaria era regolata dal vetusto regolamento Rocco e tra i mezzi di disciplina vi erano anche i letti di contenzione. Gli effetti più drammatici delle recenti rivolte si ebbero nell’istituto penitenziario di Modena nel quale, al termine dei disordini, si contarono tredici detenuti morti. Secondo la ricostruzione dei principali media nazionali, i detenuti persero la vita perché, entrati nell’infermeria della casa circondariale modenese, assunsero grossi quantitativi di metadone, trovando così la morte. Alcuni di essi morirono nell’istituto penitenziario S. Anna di Modena, altri nel corso del trasferimento presso altri istituti penitenziari, dal momento che, a seguito della rivolta, fu ordinata la traduzione della maggior parte dei reclusi presso altri siti, visto la parziale inagibilità dell’istituto modenese. Gli eventi descritti hanno comportato l’apertura di procedimenti di indagine al fine di accertare il reale svolgimento dei fatti e la causa dei decessi. Recentemente, la Procura della Repubblica di Modena ha avanzato richiesta di archiviazione rispetto al decesso di otto detenuti della locale casa circondariale perché la morte sarebbe stata causata dall’overdose di metadone avvenuta nel corso della rivolta… LEGGI TUTTO Un anno di covid nel mondo penitenziario

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Stop all’ergastolo ostativo: “Sì alla speranza e alla funzione rieducativa della pena”

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   In data 23 marzo si è svolta dinanzi alla Corte Costituzionale l’udienza avente ad oggetto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Al termine dell’udienza la Corte ha riservato la decisione. La storia Francesco Saverio Pezzino, condannato all’ergastolo per il delitto di omicidio volontario, avvenuto in contesto mafioso e quindi aggravato, dopo aver scontato oltre trenta anni di carcere ha avanzato istanza di liberazione condizionale al competente Tribunale di Sorveglianza. Il Tribunale di Sorveglianza non ha rigettato l’istanza, ma ha dichiarato l’inammissibilità della stessa, poiché Pezzino nel corso della propria detenzione non ha mai collaborato con la giustizia. In sostanza il tribunale non ha operato alcuna valutazione in ordine al percorso detentivo dell’istante e all’eventuale ravvedimento dello stesso. La questione di legittimità Avverso la declaratoria di inammissibilità la difesa del condannato ha avanzato ricorso in Cassazione e nel corso del giudizio è stata sollevata la questione oggi al vaglio della Corte Costituzionale.  La quaestio ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. In particolare, le disposizioni che disciplinano l’ergastolo ostativo sarebbero, secondo il tessuto argomentativo dell’ordinanza di rimessione, in violazione degli articoli 3 (principio di eguaglianza), 27 (funzione rieducativa della pena e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità) e 117 (obbligo di compatibilità della normativa interna con quella internazionale) della Costituzione. La funzione della pena Infatti, la Corte di Cassazione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19), ha evidenziato come le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza  n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena”. Per meglio comprendere la problematica è necessario, almeno per un momento, mettere da parte le ansie securitarie, oggi molto in voga, e tenere in debito conto la funzione della pena nel suo divenire storico. Ad esempio, la pena dell’ergastolo ha conosciuto un lungo e lento percorso di costituzionalizzazione, iniziato nel 1962 con l’introduzione della liberazione condizionale e poi continuato con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma Gozzini del 1986. Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro ravvedimento alla liberazione condizionale. Al contrario, nel caso della ostatività, avviene che la vigente normativa ripristina una disciplina che è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come concepita dal legislatore del 1930, ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena, salvo l’ipotesi di collaborazione con la giustizia. Presunzione assoluta e preclusione ostativa La problematica sta proprio in questa piega della “vicenda” normativa, cioè l’aver equiparato, mediante una presunzione di carattere assoluto, la mancata collaborazione alla presenza di legami con la criminalità organizzata e ad indice di pericolosità sociale. Difatti, nel caso in cui il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari conseguenza di altri fattori quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’ostatività, pur non essendo la scelta di non collaborare necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Sotto altro aspetto, speculare e contrario, può avvenire che qualcuno decida di collaborare con la giustizia ed in gergo “pentirsi” solo al fine di godere dei benefici che ne conseguono, senza aver posto in essere alcun percorso di rivisitazione critica del proprio passato criminale. L’eventuale accoglimento Qualora la Corte dovesse ritenere fondata la questione sollevata, ne discenderebbe che la presunzione dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale potrebbe caratterizzarsi, quantomeno, in termini di relatività.  Eliminando un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, si ridarebbe, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza sia in ordine alla effettiva pericolosità del condannato che rispetto al sicuro ravvedimento dello stesso. Difatti, è bene ricordare che, contrariamente a chi sostiene che in caso di accoglimento ci sarebbe l’apertura delle carceri con la fuoriuscita dei peggiori criminali, i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione si basa sulle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. Pare evidente che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema penitenziario. Una pronuncia di accoglimento sarebbe un segno civiltà a garanzia dello stato di diritto. (Pubblicato su Calabria 7, 28/03/21)

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Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo

di Orlando Sapia, Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.” La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo. La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità  dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso. Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale. In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare. La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone. (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)

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Storica Sentenza della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo

di Orlando Sapia –  La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.” La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo. La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità  dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso. Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale. In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia. In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare. La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone.   (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)

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La sentenza Viola, una pronuncia di civiltà

di Orlando Sapia – La Grande Camera della CEDU, in data 8/10/19, ha rigettato il ricorso presentato dall’Italia contro la decisione della I sezione della medesima Corte che, in data 13 giugno, aveva accolto il ricorso avanzato da Marcello Viola per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 3 “Divieto di Tortura”. In particolare, detto articolo dispone che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Il Viola nel suo ricorso ha sostenuto che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari (permessi, lavoro all’esterno, semilibertà e liberazione condizionale), essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione, oltre che dell’art. 27 della Costituzione italiana che prevede la funzione rieducativa della pena. L’introduzione dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario avviene a seguito di decreto d’urgenza, successivamente convertito nella Legge n. 203 del 1991.  All’indomani delle stragi di mafia si stabilì che i condannati per i delitti di prima fascia, riferibili al crimine organizzato, potessero godere dei benefici solo se avessero collaborato con la giustizia. In sostanza si costruì un circuito penitenziario differenziato, che di tutta evidenza mirava e mira a soddisfare esigenze di indagine e di sicurezza interna, anche a scapito della funzione rieducativa della pena. Orbene la problematica diviene ancora più intensa allorquando il reo è stato condannato all’ergastolo, poiché l’assenza di collaborazione diviene, in questa logica, sintomo di mancata rieducazione e, quindi, osta alla concessione di quei benefici, che fanno dell’ergastolo, anziché una pena perpetua, una pena a esecuzione progressiva. L’introduzione e lo sviluppo dell’art. 4 bis si iscrive in un contesto, inizialmente di emergenza e successivamente di populismo penale, che segna una presa di distanza dal percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e dalla centralità della funzione rieducativa della pena. In particolare, la Corte EDU in sentenza afferma: “la Corte dubita della libertà della predetta scelta e anche dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato”. In tal senso, si prende in considerazione la possibilità che la scelta della mancata collaborazione possa dipendere da altri fattori, ad esempio il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunti, e non sia necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale. Stando così le cose, l’ergastolo ostativo è un “ergastolo senza speranza”. Gli effetti della sentenza Viola comportano a carico dello Stato italiano l’obbligo “di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena” (cit. sentenza Viola). Altro effetto è l’influenza che la decisione della Corte EDU potrà avere sulla giurisprudenza costituzionale e di legittimità italiana. Il primo banco di prova si sta avvicinando, essendo prevista per il 22 ottobre udienza dinanzi alla Corte Costituzionale per vagliare una nuova questione sulla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis. In sostanza, la situazione è ben diversa da quella narrata da alcuni esponenti della politica nazionale, per i quali la sentenza CEDU rappresenterebbe il via libera per mafiosi e terroristi. Un esempio su tutti: per ottenere la liberazione condizionale è necessario aver scontato 26 anni di pena e che vi sia la prova del sicuro ravvedimento del condannato. Tale concessione passa attraverso il vaglio attento e severo della magistratura di sorveglianza che non è certo incline a fare regali. La sentenza Viola è certamente una pronuncia di civiltà a garanzia dello stato di diritto, che si spera conduca il legislatore a mettere mano alla vigente disciplina, così da renderla conforme alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. (Pubblicato su Quotidiano del Sud, 11/10/19)

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