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LA COSIDDETTA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA SISTEMA PENALE E CARTA COSTITUZIONALE

di Amedeo Di Franco* –  La vexata quaestio relativa alla cd. separazione delle carriere (o, meglio, degli statuti ordinamentali) della magistratura requirente e della magistratura giudicante si (ri)presenta sul panorama politico-istituzionale del nostro Paese nelle forme del d.d.l. costituzionale n. 1917 approvato alla Camera e trasmesso al Senato.1 Senza la pretesa di affrontare la moltitudine di implicazioni che la specifica proposta di riforma costituzionale porta con sé, le brevi osservazioni che seguono ruotano attorno al rapporto tra la c.d. separazione (o unicità) delle carriere e il sistema penale vigente in uno specifico ordinamento in un determinato momento storico. Orbene, in quest’ottica, il principio della riflessione ben può risiedere nella circostanza per la quale molti, in particolare tra gli studiosi e operatori del diritto, si sono chiesti e si chiedono tutt’ora perché cambiare e, dunque, perché “separare” le carriere. Un interrogativo, questo, che sembra provenire da uno scenario nel quale le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti siano ontologicamente unite – secondo un ordine giusnaturalistico2 – da un vincolo indissolubile (e ontologico è proprio il termine utilizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati nella mozione finale del trentaseiesimo congresso nazionale di Palermo dello scorso anno, dove si legge che: «L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme»)3. Ecco, si diceva, è come se in tale scenario qualcuno all’improvviso – come un deus ex machina, forse nelle vesti di Eride, dea spietata che gode nell’animare conflitti tra gli uomini – abbia manifestato l’intenzione di recidere tale nodo indissolubile. Appare preferibile, invece, una diversa postura nei confronti del tema, che imponga di chiedersi, innanzitutto, le ragioni per le quali le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione siano accomunate e, di conseguenza, perché siano unificati i relativi statuti ordinamentali. In questo senso, un interessante punto di partenza si può senza dubbio rinvenire nella relazione del guardasigilli fascista Dino Grandi al codice di procedura penale del 1930 di matrice inquisitoria – che sostituì quello tendenzialmente accusatorio e liberale del 1913 –, presentata alla Maestà del Re Imperatore.4 Nel testo si evince che alla base della decisione di unificare le funzioni ci fossero, in primo luogo, «ragioni di ordine politico, in quanto, superata la distinzione fondamentalmente erronea tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta. Ciò determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione». In secondo luogo, venivano in rilievo «ragioni d’ordine pratico […] perché la separazione non potrebbe giovare ai fini di una specializzazione di funzioni e, quindi, ad una più perfetta formazione dell’abito e delle attitudini dei singoli magistrati, in quanto la formazione intellettuale e professionale del magistrato, lungi dall’esser turbata, è, invece, avvantaggiata dall’esercizio di entrambe le funzioni, che offre il modo di perfezionarsi in tutti i campi del diritto. L’ordinamento, perciò, fissa l’istituto del Pubblico Ministero in armonia con l’attuale sistema». Ecco, tale sistema, che resistette, seppur con molte modificazioni, anche all’avvento della Legge fondamentale, come è noto, non è più vigente. È stato abrogato nel 1989, a vantaggio di un codice “tendenzialmente” accusatorio. Ciò nonostante, il concetto della “cultura della giurisdizione”, di cui è intrisa la relazione del guardasigilli Dino Grandi, continua tutt’ora a riecheggiare, assurgendo ad uno dei principali argomenti coi quali si ritiene irragionevole la separazione delle organizzazioni ordinamentali. Sul punto v’è dunque da chiedersi se abbia senso parlare di “cultura della giurisdizione” nell’attuale sistema di giustizia. In quest’ottica, a voler accedere alla interpretazione più restrittiva del concetto di “cultura della giurisdizione”, ci si dovrebbe riferire alla funzione dello ius dicere, esclusivo appannaggio dell’organo giudicante e, dunque, nel sistema attuale preclusa alla pubblica accusa. Se, invece, si volesse prediligere una concezione più lata di tale concetto, inteso, dunque, più ampiamente come “cultura della legalità” – o come cultura del rispetto delle regole all’interno del processo –, l’unicità delle carriere non potrebbe non includere il terzo anello del giusto processo triadico scolpito nell’art. 111 Cost., rappresentato dall’avvocato difensore.5 A ciò si aggiunga, inoltre, che non è per nulla scontato che il mantra della “cultura della giurisdizione” – anche a voler accedere alla ambigua accezione con cui viene non di rado declinata – dispensi buoni frutti; anzi, tanto può aversi un’influenza equilibratrice – e quindi virtuosa – della pubblica accusa, tanto può registrarsi, al contrario, un appiattimento della giurisdizione su posizioni inquisitorie (come, secondo autorevole dottrina penalistica, è avvenuto in plurimi casi di scelte ermeneutiche effettuate in relazione fattispecie chiave del nostro sistema penale, come la corruzione o il c.d. concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Appiattimento che rischia di mortificare la natura stessa del processo penale di stampo accusatorio. È appena il caso di ricordare, poi, la circostanza per la quale proprio l’insigne giurista che firmò il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, il Ministro, Professore, Onorevole, Giudice della Corte costituzionale e Avvocato, Giuliano Vassalli ha scritto e sostenuto in più occasioni che il processo penale per come delineato all’epoca non avrebbe assunto con pienezza i connotati del processo accusatorio in assenza della separazione delle organizzazioni ordinamentali dei magistrati e che in questo modo le funzioni non sarebbero state mai del tutto distinte. Disse, infatti, in un’intervista del 1987 che non fosse leale parlare di processo accusatorio, ove i giudici e i pubblici ministeri avessero continuato ad avere medesime carriere e a ricoprire gli stessi ruoli, essendo necessario, in tal senso, un allineamento della Carta costituzionale.6 Ancor più valore assume, poi, la profezia di Vassalli se si considera che nel 1999 è stato riformato l’art. 111 della Costituzione: da allora, invero, la nostra Legge fondamentale fa proprio il principio del giusto processo, da svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Pertanto, l’esigenza di differenziare

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UN ARTIGIANO DI GIUSTIZIA: L’EREDITÀ DI PAPA FRANCESCO E IL RUOLO DELL’AVVOCATO

Aldo Truncè* –   Con la scomparsa di Papa Francesco il mondo perde una voce potente e compassionevole, un faro di speranza ed un instancabile difensore della sacralità della persona. Papa Francesco, con la sua inconfondibile empatia, ha sempre guardato alla nostra professione con occhi di comprensione e rispetto, ricordandoci che l’avvocato non è un mero tecnico della legge, ma un artigiano di giustizia, un volto umano di un sistema che, talvolta, rischia di apparire distante e inaccessibile. “Siate difensori dei diritti, specialmente di chi non ha voce”, ci ha esortato il Pontefice.  Un appello che, per noi avvocati penalisti, assume una risonanza particolare.  Siamo sovente investiti della difesa di individui relegati ai confini del tessuto sociale, soggetti stigmatizzati come reietti, che spesso, animati da intrinseca fragilità, pusillanimità e talora da disperazione abissale, compiono scelte aberranti. La nostra missione non si esaurisce nella ricerca della migliore difesa tecnica, ma si dispiega nella tutela indefettibile della dignità intrinseca della persona e nella riaffermazione dell’essenza umana di chi è al centro del processo, o di chi sta già scontando la sua pena. Chi è in cella, isolato dalla società, conduce la sua vita come se fosse ai margini del mondo. Conosciamo bene la realtà del carcere, i volti segnati dalla sofferenza, le storie di umanità ferita. Le esortazioni di Papa Francesco, reiterate e vibranti, che ci hanno incessantemente richiamato all’impegno di schierarci al fianco degli ultimi, degli emarginati, di coloro che la società tende a relegare ai confini, si traducono per noi, avvocati, in un mandato deontologico irrinunciabile. Questo mandato diventa azione quotidiana, una prassi che affronta fragilità, disperazioni silenziose ed ingiustizie striscianti. Il monito del Pontefice “nessuno deve essere abbandonato‘ non è per noi un’astrazione teologica, ma una bussola etica che orienta ogni nostra scelta, ogni nostra strategia difensiva. Esso ci impone di non distogliere lo sguardo dalle periferie esistenziali, di non ignorare le grida di aiuto che si levano dalle celle sovraffollate, dalle aule di tribunale in cui si consumano drammi umani, dalle strade in cui vagano gli esclusi. “Stare dalla parte degli ultimi”, significa per noi, avvocati, essere capaci di ascoltare, comprendere, accogliere. Significa non limitarci alla mera apologia dei nostri assistiti che portiamo avanti quotidianamente nei Tribunali, ma impegnarci in un’opera di ricostruzione della dignità, di riaffermazione della centralità della persona, di riabilitazione sociale. Significa, in ultima analisi, restituire voce a chi non ne ha, speranza a chi l’ha perduta, umanità a chi è stato spogliato di essa. La sua voce si è levata contro l’abuso di potere e la mercificazione della giustizia, ricordandoci che il nostro compito è servire la verità e non gli interessi di parte, stando ben attenti a non piegarci a logiche economiche e del profitto, nell’esercizio della nostra professione. La sua profonda sensibilità per i detenuti ha segnato un’epoca, imprimendo un’impronta indelebile nella coscienza collettiva. “Nessuna cella è tanto isolata da escludere il Signore“, ha affermato Papa Francesco, ricordando con forza che l’inviolabilità della persona, intesa nella sua integralità di corpo e spirito, non può essere calpestata, neanche dietro le sbarre. Quest’affermazione, lungi dall’essere una mera consolazione spirituale, si traduce in un imperativo etico e giuridico: riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere umano, anche di chi ha commesso errori gravi. La sua condanna della pena come strumento di tortura, e la sua definizione dell’ergastolo come “pena di morte nascosta” che annienta la speranza, rivelano una profonda comprensione della dimensione umana del dolore e della sofferenza. In questo contesto, il gesto simbolico della lavanda dei piedi, compiuto ogni Giovedì Santo – ma non, con suo sommo dispiacere, nell’ultima ricorrenza pasquale – assume una rilevanza straordinaria. Questo rito, che rievoca l’atto di umiltà e servizio compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli, trascende la mera dimensione liturgica, per assumere una carica simbolica profonda, soprattutto in ambito penitenziale. La lavanda dei piedi rappresenta un atto di purificazione, di accoglienza, di riconoscimento della fragilità umana e di volontà di redenzione. Nel contesto carcerario, questo gesto assume una valenza ancora più intensa: lavare i piedi dei detenuti significa abbattere le barriere dell’isolamento e della stigmatizzazione, prostrarsi, inchinarsi e genuflettersi a loro, con un simbolismo potentissimo di riscatto. Papa Francesco, con la sua profonda sensibilità, ha saputo cogliere l’energia metaforica di questo gesto, traducendolo in un messaggio di speranza e di misericordia per i reclusi, in armonia con il gesto concreto del lascito di tutti i suoi averi in favore dei detenuti. La sua voce continuerà a risuonare nelle celle e nelle aule di tribunale, ricordandoci che la giustizia, per essere veramente tale, deve essere sempre accompagnata dalla compassione. Sull’eco di queste parole, noi artigiani di giustizia, continueremo il nostro cammino, perché anche nell’ombra più fitta ogni essere umano custodisce la scintilla di una possibile rinascita. *Presidente della Camera Penale di Crotone

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LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO

di Gian Luigi Gatta* – 1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma. Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società. Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi. 2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma vecchio come il diritto penale, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima. C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato. Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare». Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia va proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale. Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore. 3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e

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QUESTIONI INTERPRETATIVE IRRISOLTE NELLA TUTELA PENALE DELLA PRIVACY

di Tommaso Passarelli* –  1. Esigenze criminologiche e stratificazione legislativa. Dal punto di vista criminologico, fin dall’avvento dell’informatica, siano sorti specifici bisogni di tutela del diritto alla riservatezza e, in particolare, della protezione dei dati personali, sovente gestiti da banche dati pubbliche e private[1]. Da lungo tempo, infatti, l’esigenza maggiormente avvertita è quella di garantire alla persona il controllo sull’utilizzo dei propri dati effettuato mediante i programmatori informatici, poiché il funzionamento della rete internet è basato sulla profilazione degli utenti, che nello spazio virtuale condividono una gran quantità di informazioni personali. Proprio quest’ultimo aspetto riflette una intrinseca tensione tra l’espansione dello spazio digitale, che invade aree sempre maggiori nella vita delle persone a causa dell’elevata diffusione dei dati, e le suddette esigenze di tutela, ciò che ha spinto alcuni autori a teorizzare un moderno habeas data, sulla scia del più classico habeas corpus. La materia è caratterizzata da frequenti novelle legislative – innervate dai dicta provenienti dal diritto sovranazionale – finalizzate ad adeguare la tutela legale dei dati personali alla costante evoluzione tecnologica, che li espone a sempre più sofisticate forme di illecita diffusione nello spazio web. In questo senso, il Regolamento UE n. 679 del 27 aprile 2016, noto come G.D.P.R. (General data protection regulation), ha sostituito la previgente disciplina dettata dalla dir. 95/46/CE. In Italia, esso è stato recepito col d.lgs. n. 101 del 10 agosto 2018, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria. La legislazione domestica, in subiecta materia, era ferma alle statuizioni del d.lgs. n. 196/2003, che a sua volta aveva sostituito la primigenia disciplina di cui alla L. n. 675 del 31 dicembre 1996. Sul piano sovranazionale, la protezione dei dati personali è riconosciuta e garantita come diritto fondamentale della persona all’art. 8, c. 1, della C.D.F.U.E. (c.d. “Carta di Nizza) e all’art. 16, c. 1, del T.F.U.E. . Anche la Convenzione EDU, all’art. 8, contempla la protezione dei dati personali, che assume rilievo onde garantire il rispetto del diritto alla vita privata e familiare, il quale si alimenta dell’autodeterminazione informativa della persona e consente di rivendicare il diritto alla riservatezza dei dati raccolti, trattati e diffusi in guisa da investirne direttamente gli interessi. Le predette operazioni, pertanto, non devono eccedere la soglia della ragionevole prevedibilità in capo all’utente medio. Emerge chiara, sulla scorta di questa ricostruzione di sintesi, la dimensione transnazionale del diritto alla privacy, in ragione della globale circolazione dei dati personali, che comporta la necessità di predisporre tutele e garanzie altrettanto ampie, in ossequio al principio di proporzionalità. Seguendo il solco tracciato dal diritto sovranazionale, gli Stati membri, infatti, predispongono, nell’esercizio della loro autonomia legislativa, discipline di protezione coerenti, onde assicurare un livello omogeneo di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone.   2. Il reato di “Trattamento illecito di dati” ex 167 d.lgs. n. 196/2003. La tutela penale dei dati personali è affidata, nel nostro ordinamento, alla fattispecie di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 196/2003[2], che nella sua veste attuale si apre con la clausola di riserva che recita «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Quest’ultima evidenzia l’attenuato disvalore penale attribuito al delitto in parola, rimarcato anche dal ridotto editto sanzionatorio, da sei mesi a un anno e sei mesi. Sotto questo profilo, giova fin da subito rilevare come il comma 6 preveda anche una diminuzione di pena per il caso in cui, sulla scorta dell’idem factum, sia applicata e riscossa una sanzione amministrativa pecuniaria. Con questa previsione, il legislatore ha contemperato l’afflittività derivante dalla congiunta irrogazione di sanzioni penali e amministrative, in ossequio al principio del ne bis in idem[3]. Nello specifico, al comma 1 sono sanzionate le condotte finalizzate a produrre un profitto (illecito) in capo agli agenti o a terze persone, ovvero a cagionare un danno all’interessato. Si configura così l’elemento soggettivo del dolo specifico, rappresentato proprio da questa doppia e alternativa finalità. Successivamente, viene individuato l’evento giuridico del reato nel solo nocumento arrecato al soggetto passivo, e non anche nella concreta realizzazione del profitto. A parere di chi scrive, si tratta di una precisa scelta di politica criminale, volta a sanzionare le azioni realmente dannose perpetrate nei confronti dei titolari dei dati personali, in ossequio alla ratio legis sottesa alla disposizione – orientata, sul piano assiologico, a tutelare la riservatezza e la privacy della persona – e al fine di selezionare gli aspetti di maggior disvalore penale. Il soggetto attivo è individuato in “chiunque”, configurando così un reato comune. Non si condivide, sul punto, la tesi, invero minoritaria, volta a promuovere un’interpretazione restrittiva della fattispecie, declinata alla stregua di un reato proprio, secondo la quale solo i soggetti istituzionalmente deputati alla tenuta dei dati potrebbero integrare il tipo legale. Questa tesi, infatti, introduce per via ermeneutica elementi qualificanti che il legislatore non ha inteso adottare, ciò che escluderebbe indebitamente dal novero dei destinatari del precetto tutti quei soggetti che facciano un uso illecito dei dati altrui senza essere in alcun modo predisposti, professionalmente o istituzionalmente, al loro trattamento, così da aprire la strada ad estese aree di impunità. Proseguendo, il comma 2 configura una diversa ipotesi di reato, che strutturalmente ricalca il modello di cui al comma 1. In questa sede, tuttavia, è sanzionato il trattamento dei dati sensibili (quali i dati genetici e biometrici) e giudiziari. Rispetto alla previsione di cui al comma precedente, questi dati si presentano dunque “qualificati” da un maggior grado di invasività e involgono aspetti sensibili della personalità del titolare, ciò che connota le condotte offensive di un disvalore penale superiore, rappresentato dalla più elevata pena della reclusione da uno a tre anni. Ai sensi del comma 3, poi, alla medesima pena soggiace anche colui che trasferisca i predetti dati verso Paesi esteri e organizzazioni internazionali, all’infuori del perimetro tracciato dagli artt. 45, 46 e 49 del GDPR. Ai commi 4-5, infine, è affidata la disciplina dei rapporti tra l’azione del P.M. e quella del Garante per la protezione dei dati personali in ordine alla gestione delle notizie di reato afferenti al trattamento

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L’ALGORITMO BUONO

di Roberto Staro* – Il 14 giugno 2024, per la prima volta, un Pontefice ha partecipato ad un summit mondiale, il G7 svoltosi in Puglia sotto la Presidenza italiana, ed ha concentrato la sua attenzione sull’intelligenza artificiale sottoponendo alla platea degli Stati partecipanti spunti di riflessione di sicuro interesse. Invero, già negli anni precedenti la Santa Sede aveva dimostrato una particolare attenzione verso questa “nuova frontiera” ed ha sollecitato, mediante la Pontificia Accademia per la Vita, una profonda analisi del fenomeno, delle sue implicazioni pratiche ma anche morali, del necessario confronto tra fede e scienza. Al di là della sensibilità religiosa di ciascuno, non v’è dubbio che le parole del Santo Padre siano state pertinenti perché rivolte a difesa dell’uomo, inteso come essere umano che deve intendersi comunque epicentro di qualsivoglia innovazione tecnologica, nei cui confronti lo strumento dell’intelligenza artificiale non può – e non deve – limitarne la capacità di scelta, di evoluzione e di controllo. Il presente articolo si propone, seguendone le tracce, di completare il lavoro già presentato su questa rivista(1) e di affiancare alle domande emerse in quella sede quella, forse di più difficile soluzione, avente ad oggetto la delimitazione del confine tra gli orizzonti di sviluppo dell’intelligenza artificiale e l’etica. In questa ricerca, per fortuna, non sarò da solo, bensì farò richiamo alle parole ed agli argomenti rivolti dal Pontefice alla platea mondiale(2) ed alla ispirazione che sarò capace di trarne.   L’IA, “strumento affascinante e tremendo” I due aggettivi usati per descrivere l’intelligenza artificiale accompagnano il sostantivo “strumento”, ed è attorno a questa parola che Papa Francesco ha costruito il suo intervento. Sottolineare la dimensione strumentale delle intelligenze artificiali (plurale usato tanto nel messaggio per la LVIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali quanto nel messaggio per la LVII Giornata mondiale della pace), è la modalità che ha permesso al Santo Padre di sottolineare la dimensione umanistica della tecnologia. Questa premessa potrebbe apparire scontata ma, all’interno di una rivoluzione tecnologica così penetrante al punto da essere capace di stravolgere il concetto delle fonti del sapere (ad esempio attraverso l’affinamento della c.d. “IA generativa”), assume il valore di un assioma irrinunciabile. Secondo le parole del Santo Padre “si potrebbe partire dalla constatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno <strumento>. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego”. L’IA allora non è nient’altro che uno strumento, al pari di qualsivoglia utensile, ed appartiene alla storia evolutiva dell’uomo. Ma, allo stesso tempo, è ciò che più ci differenzia dal mondo animale. E che, inoltre, ci rapporta con l’ambiente nel quale viviamo, tanto che “non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti”. Una riflessione sulla tecnologia non è quindi tesa a restringere le maglie dello sviluppo e della scoperta scientifica ma, al contrario, è la dimostrazione della centralità dell’individuo nel creato e della sua responsabilità a sfruttare bene (o per il bene) la capacità di incidere nell’ambiente che lo circonda. “Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica” Lo sviluppo tecnologico non ci deve far paura; la volontà di evolversi è intrinseca all’uomo perché “siamo esseri sbilanciati verso il fuori di noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. […] da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità”. Il messaggio è che la tecnologia, tutta la tecnologia, è legata alla natura proprio dell’uomo, al suo essere proiettato verso l’altro, verso un’alterità. La tecnologia non solo dunque non è neutra, ma è sempre un’espressione della natura relazionale dell’uomo, un’espressione di bellezza perché manifesta la capacità e il desiderio dell’uomo di “essere per”, di proiettarsi verso l’altro. La tecnologia, quindi, non è dannosa in quanto, mutuando un concetto già espresso da molto tempo dal Santo Padre(3), abbia in sé, per sua natura, un seme di bellezza e di apertura al trascendente che deve essere colto e valorizzato. E ciò può essere fatto soltanto dall’uomo e per l’uomo. Lo scienziato o l’esploratore sono sempre condotti da un desiderio di scoperta che migliori la condizione dell’uomo, che ne allarghi gli orizzonti, che tenda all’infinito. In qualunque campo o settore della ricerca il fine ultimo è costituito dal superamento del limite. La domanda, pertanto, non è nel distinguere una tecnologia buona da una cattiva, bensì nel circoscriverne il suo utilizzo per il bene o per il male.   La differenza tra scelta e decisione L’elemento nuovo dell’IA è costituito dal fatto che, a differenza di qualunque tecnologia precedente, può essere in grado di compiere una scelta in autonomia, ossia di valutare (rectius, di selezionare) all’interno di un dedalo pressoché sconfinato di dati quali siano quelli da valorizzare per rispondere compiutamente alla domanda che gli viene posta. È la c.d. logica dell’algoritmo il quale, tuttavia, massimizza la capacità della mente umana di analizzare e sintetizzare tutti i dati universalmente raccolti per fornire un risultato che, in termini statistici, sia il più preciso possibile. Il tema relativo ai rischi ed alle opportunità di un tale meccanismo sono stati già trattati nel mio precedente lavoro, per cui evito di ripetermi. Il discorso del Santo Padre propone, tuttavia, un’ulteriore fianco di approfondimento; la questione, infatti, non è sulla capacità dell’intelligenza artificiale di setacciare l’intero arcobaleno dei dati (di cui essa è stata fornita) per estrarne quello più pertinente alla nostra domanda, sulla base delle specifiche che abbiamo impostato. Il problema risiede, invece, nella necessità di confrontarsi con la prospettiva che l’intelligenza artificiale possa, in luogo di estrapolare una risposta, generarla ex novo. “[…] l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con queste modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato”. Su questo piano molto scivoloso si incontrano, da un lato, la volontà e la capacità dell’uomo di

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IL MERITO PROCESSUALE, TRA ACCUSATORIO ED INQUISITORIO

di Antonio Baudi Dopo essermi intrattenuto nei due precedenti scritti su merito cautelare e merito preliminare dovrei ora completare l’impegno in tema di merito processuale, tema coinvolgente l’inquisitorietà (come esemplarmente nel giudizio abbreviato che implica rinuncia al dibattimento e al contraddittorio quale metodo acquisitivo della prova di matrice accusatoria) e l’accusatorietà (operante per l’appunto nei giudizi dibattimentali). Nella loro essenza risalta il rigoroso divergere tra i due opposti sistemi, l’uno che privilegia il monodico potere del giudice, quale depositario della verità, nonché il ricorso all’applicazione di misure cautelari, l’altro che privilegia la verità come obiettivo finale risultato del contraddittorio tra i soggetti principali del processo e che esclude compromissioni preprocessuali di libertà personale. Tale rigore è smentito dal sistema vigente, che si vuole a procedura mista, e dagli stessi principi della carta costituzionale come sanciti con gli artt. 13 e il 27.    Il primo disposto, di cui all’art. 13, evoca l’inquisitorietà. Esso esordisce proclamando che “la libertà personale è inviolabile”.  Precisa quindi che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e casi e modi previsti dalla legge”. Però “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”, fermo restando che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Persiste con l’enunciato dell’ultimo comma, una terminologia antisistema: “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. Il secondo disposto, di cui all’art. 27, dispone che “La responsabilità è personale” ed esalta la presunzione di innocenza quando detta che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Nel rispetto della dignità personale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ulteriori notazioni sono emerse dall’esperienza ed è su queste che intendo soffermarmi. In sede di riunione indetta dal CSM tra tutti i dirigenti delle sezioni dei giudici per le indagini preliminari (in breve “i capi Gip”) sono state conosciute, me presente, realtà sorprendenti. In un ufficio del Nord si era formata la prassi per cui in sede dibattimentale la pena non era mai inflitta al di sotto della media edittale e, in tal modo, era scongiurato l’accesso al giudizio dibattimentale risultando oltremodo favorito il giudizio abbreviato, ove, in caso di condanna, la pena, muovendo dalla base minimale, era premialmente ridotta di un terzo. Quell’ufficio era elogiato per la sua straordinaria efficienza. In altro grande ufficio, sempre del Nord, l’inoltro nella cancelleria dibattimentale monocratica dei fascicoli del PM avveniva con due giorni di anticipo rispetto alla data di udienza per problemi organizzativi. Ne conseguiva che il giudice era inevitabilmente indotto a consultare entrambi i fascicoli e quindi aveva una totale conoscenza degli atti, il che gli consentiva di spadroneggiare nel processo in funzione di una decisione ormai formata come nel passato. Difatti quel giudice era in grado di definire tutti i processi calendarizzati in udienza. Tutto questo ho constatato di persona essendo parte civile nell’ultimo processo da definire. Numeri statistici alla mano anche tale ufficio era elogiato per la sua efficienza! In entrambi i casi la logica del sistema del codice e della riforma era brillantemente aggirato in funzione dell’efficienza e della giustizia in concreto. Quando, nel prosieguo delle audizioni, si ascoltarono altri presidenti, del centro sud, emergeva una opposta realtà e le statistiche denunciavano il ritardo nei giudizi e l’anomalo accumularsi dell’arretrato. Occorre in proposito rammentare che Il nuovo codice è stato approvato all’unanimità e nei commenti dell’epoca si precisava che in tanto il sistema avrebbe funzionato in quanto era vantaggioso optare per il giudizio abbreviato e ridurre al minimo i giudizi accusatori. Sarebbero state necessarie, a mio avviso, due concorrenti evenienze; che i giudizi del merito preliminare bloccassero accuse prive di prognosi di fondatezza nel merito e che i difensori convincessero gli assistiti sui vantaggi della premialità. Ed invece i controlli preliminari si sono, anche con il diffuso favore dottrinario, risolti in un comodo ed irriflessivo rinvio a giudizio e nell’eccessivo sovraccarico era una meta allungare i tempi ed agevolare la maturazione della prescrizione. Sul rapporto tra Giustizia ideale e Giustizia reale, o meglio sui metodi per l’efficienza del sistema, in concreto ormai fallimentare, è bene evitare qualsiasi ulteriore commento.

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«GLI AVVOCATI E LA LIBERTÀ» L’OMAGGIO DI CALAMANDREI ALLA PROFESSIONE

di Piero Calamandrei* – “Gli avvocati e la libertà. I meno rassegnati e i meno proni alle follie del ventennio”. (L’editoriale che Calamandrei scrisse, poco prima della caduta del fascismo, sul Corriere della Sera – 25 AGOSTO 1943) «Di tutti gli Ordini professionali, quello che più ha sofferto nel profondo l’oltraggio di questa goffa e umiliante tirannia durata vent’anni è stato il nostro, l’Ordine degli avvocati: perché noi, a differenza di tante altre professioni, non abbiamo mai trovato nel nostro quotidiano lavoro il pretesto per distrarci dalla realtà politica che ci attorniava e per rasserenarsi in altri cieli ( quante volte abbiamo invidiato il letterato che anche in tempi di oppressione può passare le giornate a conversare col suo Ariosto, o l’astronomo che viaggia tra le costellazione dove non comandano i gerarchi di questo mondo!) ma abbiamo incontrato ogni giorno, anzi dieci volte al giorno, nel maneggio delle leggi che costituisce la nostra quotidiana fatica, la conferma esasperante della nostra vergogna, il “memento” implacabile, scaturente da ogni atto del nostro ministero, dell’avvilimento in cui eravamo caduti. Noi soli, insieme con la magistratura, abbiamo vissuto questo tormento delle leggi che si sbriciolavano come cartapesta tarlata tra le mani di chi voleva servirsene: e se qualcuno ha potuto sorridere della scherzosa formula con cui il fascismo fu definito come un “regime rigidamente autoritario temperato da una autoritaria indisciplina”, questa frase sapeva d’amaro per noi avvocati, ai quali la giornaliera esperienza insegnava che se il rigido autoritarismo aveva abolito la libertà, la totalitaria indisciplina aveva posto al luogo di esso l’arbitro individuale e la corruzione ufficialmente tollerata, e la triste beffa delle leggi illusorie, alle quali non credeva neanche il legislatore. Proprio per questa particolare sensibilità professionale con cui gli avvocati sono pronti a reagire contro l’ingiustizia e a considerare la ribellione alla legalità come il più elementare dei loro doveri, essi sono stati in questo ventennio, nella grande loro maggioranza, i meno rassegnati e i meno proni. L’esercizio dell’avvocatura in tempi di servitù e di illegalismo, richiede spesso, anche se chi sta fuori non se ne accorge, una resistenza che in certi casi può arrivare l’eroico. Chi ha considerato l’avvocatura come un’arte di giuochi dialettici, come un torneo di quella vuota retorica pacchiana, di cui in questi due decenni gli esempi più memorabili non sono venuti dagli avvocati, non deve dimenticare che specialmente negli anni immediatamente seguenti all’avvento del “regime”, l’esercizio del patrocinio forense è stato un duro tirocinio di coraggio civile e di abnegazione spinta talvolta fino al sacrificio della vita. Assommano a centinaia i processi penali in cui gli avvocati sapevano in anticipo che, se avessero parlato in difesa delle libertà, all’uscita dall’aula avrebbero trovato i bastonatori comandati, pronti a sfogarsi in dieci contro il difensore inerme: eppure quegli avvocati parlarono come dettava la loro coscienza, senza tremar per le minacce, e sfidarono le percosse e pagarono col loro sangue. E non si deve dimenticare il fenomeno, ignoto a tutte le altre professioni, delle sistematiche devastazioni degli studi legali: ci fu un periodo in cui, in tutte le città italiane, venne di moda tra i condottieri di spedizioni punitive, dar l’assalto agli studi degli avvocati e incendiarli; e i casi furono così numerosi che si potrebbe fare un lungo albo d’onore di legali, tutti scelti tra i più probi e valorosi, che, dopo aver visto distrutti dalle fiamme i loro archivi e la loro biblioteca, dovettero andarsene in esilio a ricominciare in povertà il loro lavoro. I saccheggiatori credevano in questo modo di bruciare per sempre la libertà e la giustizia: e non si accorgevano, sciagurati, che riuscivano soltanto a ridurre in cenere un mucchio di carte stracce! E non minore è stata l’abnegazione degli avvocati che in tempi più recenti, hanno esercitato, incuranti dei sospetti e dello spionaggio, il patrocinio dinanzi al Tribunale speciale sfidando, l’odio di qualche inquisitore ( il cui nome sarà trasmesso ai posteri) che li guardava dal suo banco con cupidi occhi di aguzzino. A un difensore che io conosco, uno di questi cosiddetti giudici non poté trattenersi dal ringhiare un giorno: “Avvocato quando potrò vedere anche voi dentro quella gabbia?”. E infatti, prima di essere travolto con tutto il sinistro suo consesso, gli riuscì di trascinarvelo. E’ naturale dunque che su questa professione, la quale per tradizione e per vocazione è stata sempre più fermamente di ogni altra attaccata alla libertà, si sia cercato in questo ventennio di avvolgere bavagli sempre più stretti per asservirla: il potere disciplinare trasformato in spionaggio di eterodossia politica: la iscrizione al “partito” imposta ai nuovi   professionisti come condizione di esercizio professionale; e sopra tutto la ingerenza governativa penetrata nelle tradizionale autonomia dell’Ordine attraverso i “direttori” dei sindacati forensi, che anziché liberamente eletti dalla maggioranza con votazioni fatte sul serio, erano imposti dall’alto e approvati sempre “per acclamazione”. Il risultato di siffatta scelta dall’alto è stato questo: che a far parte degli organi disciplinari dei sindacati forensi, specialmente di quelli alla periferia, sono stati assai spesso chiamati anziché i professionisti più stimati per la loro proprietà e per la loro dottrina, i piccoli avventurieri della professione che facevano della intimidazione politica a uno specchietto per attirare i clienti. Proprio in questa mancanza e in questa conseguente degenerazione degli organi disciplinari, incapaci di colpire con energia il malcostume ovunque affiorasse, si deve forse ricercare la principale causa di un curioso fenomeno, dilagato in questi venti anni, che si potrebbe chiamare “il nepotismo professionale”. Lo storico che tra qualche decennio volesse prendersi il gusto di scorrere i ruoli delle cause discusse dinanzi alla Corte di Cassazione, dai quali appaiono anche i nomi dei difensori, si accorgerebbe con sorpresa che mentre il nome di certi difensori vi ricorreva con ritmo costante, che indicava l’estimazione da essi raggiunta e meritatamente mantenuta nei decenni, ogni tanto scappavano fuori all’improvviso come meteore per star sull’orizzonte un anno due e poi subito spegnersi, nomi di avvocati fino a ieri ignoti, intorno ai quali sembrava che da un giorno all’altro i clienti avessero fatto ressa

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UN PRINCIPIO DISABITATO: L’UMANITÀ DELLE PENE

di Vittorio Manes* –  I costituenti non avrebbero potuto essere più chiari: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, recita senza indugi la prima parte dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, a cui fa eco l’art. 3 della CEDU, vietando perentoriamente, oltre la tortura, tutte le “pene o i trattamenti inumani e degradanti”. Ma questo basilare canone di civiltà – scolpito in molte costituzioni e carte dei diritti nel panorama internazionale – è molto più risalente, ed è parte dei presupposti stessi del legittimo esercizio della potestà punitiva, ossia dei minima moralia – per così dire – che il Leviatano deve sempre rispettare: regola di esclusione, dunque, ed al contempo condizione di legittimazione dello ius puniendi. Nel suo nucleo assiologico, esso ci ricorda che la pena non può mai essere barbarie, che lo Stato non deve mai abbassarsi al livello del crimine, anche dell’autore del reato più efferato, spregevole e odioso: ed anzi, ammonisce che, in una democrazia matura, il potere deve sempre avere il coraggio di combattere persino la criminalità più spietata – come scrisse il presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak – con una mano legata dietro la schiena. Anche e soprattutto durante la fase esecutiva della pena, quando il reo è consegnato nelle mani dello stato, ed è privato delle sue libertà più intime e primordiali: ma non per ciò può essere privato di quel valore che non si acquista per meriti né può perdersi per demeriti, la dignità umana, appunto. È questa soglia insuperabile, che vieta di rispondere alla brutalità con la brutalità, alla violenza con la violenza, alla crudeltà con crudeltà, che separa, del resto, “pena” e “vendetta”. E che incarna l’essenza stessa dello stato di diritto, dove il potere assoggetta se stesso alla preeminenza del diritto. È appena il caso di rammentare quante e quanto significative siano le implicazioni di questo fondamentale limite al potere di punire, rappresentando un argine insuperabile – ad esempio – contro pene corporali come contro la pena detentiva perpetua, dove il divieto di trattamenti inumani è posto in corrispondenza biunivoca con il diritto alla speranza (right to hope), rendendo ammissibile l’ergastolo solo se de iure e de facto “riducibile” con la liberazione condizionale; ed offrendo anche fondamentali indicazioni di senso in ordine ai “parametri minimi di umanità” che devono essere rispettati nella fase di esecuzione della pena detentiva (in termini di spazio vitale in cella, di salubrità dell’ambiente, di contatti affettivi, etc.), conformemente a quanto del resto stabilisce l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975), secondo il quale “[i]l trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Sennonché, a dispetto del suo lignaggio e della sua portata “grandangolare”, a noi pare che questo principio sia rimasto in ombra, e per molti aspetti sia stato dimenticato: peggio, forse, che sia dato quasi per scontato. Anche dalla Corte costituzionale, e dalla sua giurisprudenza, dove la finalità rieducativa ha via via guadagnato sempre maggior spazio, mentre il principio di umanità della pena – fondamento e limite della pena pubblica – fatica a trovare una compiuta valorizzazione. Ne è prova la stessa, coraggiosa sentenza sulla c.d. affettività in carcere, la sentenza n. 10 del 2024, che non ha nemmeno considerato questo parametro (pur evocato dal giudice rimettente). Olimpica indifferenza ovvero ossequio formale nei confronti di una livrea che si ritiene troppo altisonante per essere scomodata? Eppure dovremmo chiederci se questo principio, così carico di possibili eccedenze assiologiche e di potenziali ricadute ermeneutiche, sia oggi davvero rispettato. L’attuale situazione delle carceri ed un tasso di sovraffollamento tornato a livelli intollerabili, con il crescente ed assillante numero dei suicidi, sono lì a ricordarci, dolenti, la distanza siderale da ogni canone di umanità.  E le condizioni nei centri di permanenza per i rimpatri sono testimonianze non meno dolorose. Una analoga distanza, del resto, è segnata dalla tolleranza ormai diffusa per le misure perennemente emergenziali che accompagnano il c.d. carcere duro, spesso al prezzo di una “desertificazione affettiva” che considera, di fatto, il detenuto come un “microbo sociale”; o dalla triste assuefazione collettiva per pene infamanti, afflittive non solo dell’immagine ma della stessa dignità della persona, come la spettacolarizzazione mediatica della condanna prima del processo. Dobbiamo prendere atto, in realtà, di una distanza non solo dai principi, ma dalla cultura che li cementa: il lessico della politica, del resto, evoca ormai quotidianamente il carcere come luogo di marcescenza, piuttosto che come luogo di recupero del reo, e ciclicamente invoca – di fronte alle più crude vicende di violenza di genere – trattamenti contrari al senso di umanità, come la sterilizzazione farmacologica di funzioni biologiche essenziali o la c.d. “castrazione chimica”. Serve, dunque, una rinnovata consapevolezza, giuridica e prima ancora culturale, forse proprio partendo dal lessico delle garanzie e dei diritti: dove il principio di umanità ambisca ad essere concepito e riconosciuto come diritto fondamentale ad una pena umana. Non si tratta, è chiaro, di una palingenesi puramente estetica o didascalica. A questo diritto dovrebbe infatti corrispondere un obbligo positivo di tutela da parte dello Stato: obbligo giuridicamente vincolante per il suo primo e principale garante ed immediatamente giustiziabile davanti alle corti, di fronte alle sue conclamate violazioni. Con gli avvocati che dovranno essere lì, pronti a sorvegliarlo e a denunciarne le ferite. (Editoriale di Ante Litteram n. 2 – settembre 2024)   *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna – Direttore di “Diritto di difesa”

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TORNARE A SAN GIORGIO PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO

Parla il Presidente UCPI, Avv. Francesco Petrelli di Stefania Mantelli* –  Nelle giornate del 14 e 15 marzo sull’isola di San Giorgio Maggiore, nella laguna di Venezia, presso il complesso monumentale sede della prestigiosa Fondazione Cini, si è tenuto l’evento organizzato dall’Unione Camere penali italiane, dal titolo “Tornare a San Giorgio per un nuovo codice accusatorio”. La scelta di iniziare questo percorso presso la Fondazione Cini ha una forte carica simbolica ed evocativa essendo stata sede dei lavori del convegno svoltosi dal 15 al 17 settembre 1961, sotto la guida del Prof. Francesco Carnelutti, con la presenza dei più grandi giuristi dell’epoca (tra essi Giovanni Conso, Franco Cordero, Alfredo De Marsico, Remo Pannain, Giandomenico Pisapia, Giuseppe Sabatini, Giuliano Vassalli) e di alti magistrati (tra tutti, Giuseppe Lattanzi). È stata una due giorni ricca di spunti e suggestioni, per i preziosi contributi forniti dagli altrettanto autorevoli relatori che si sono avvicendati nei vari tavoli di lavoro. 1) Presidente Petrelli, l’Unione delle Camere penali italiane da Lei presieduta, ha sentito l’urgenza di avviare i lavori per una proposta di riforma del codice di rito. Rendere omaggio alla tradizione, diceva Gustav Mahler, non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco. Ed è per questo che l’Unione, nel solco della sua migliore tradizione umanistica e liberale, ha avvertito l’esigenza di dare un contributo per il ripristino della vocazione accusatoria del codice di rito, ripartendo proprio da San Giorgio. Le chiedo, quindi, quali siano i punti di contatto tra la situazione attuale e quella dell’epoca e dove ritiene possano ravvisarsi i rischi involutivi del sistema attuale. «Non credo vi siano molti punti di contatto fra il contesto nel quale i giuristi da lei citati si incontrarono a San Giorgio e quello che stiamo attualmente vivendo. All’epoca si trattava di superare un modello inquisitorio (quello cd. “garantito” che dopo la “riformetta” del 1955 muoveva i suoi primi passi) che aveva nel nostro Paese solide radici politiche e culturali, mentre oggi per noi si tratta di recuperare un modello, quello accusatorio, che è stato vittima di molteplici attacchi e di una originaria ripulsione da parte della magistratura, una sorta di “rigetto” immunitario a difesa di un ordinamento giudiziario impostato su antiquate basi paternalistiche e autoritarie. Non si tratta di rendere omaggio a una tradizione, ma di prendere atto di una inemendabilità di un codice che oramai non conserva molto della sua originaria matrice. Si tratta piuttosto di riaffermare l’originalità di un modello che può essere ancora vitale. Ecco, vedo un possibile punto di contatto solo nella carica propulsiva che al tempo nasceva, e che oggi nasce, da un medesimo senso di inadeguatezza del processo penale del proprio tempo a rispondere alle esigenze di giustizia, di essere al passo con i criteri minimi di una modernità intesa innanzitutto come rispetto della dignità della persona e degli standard di garanzia nella formazione e nella valutazione della prova. Standard che sono stati del tutto stravolti dall’irrompere dell’efficientismo all’interno del nostro codice. Si tratta in verità di una erosione nata già con le prime risposte securitarie degli anni ‘90, ma che ha progressivamente occupato tutti gli spazi valoriali del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza propri del giusto processo, fino all’attacco finale operato dal PNRR. La passione con la quale l’accademia ha accolto questa iniziativa e l’entusiasmo con il quale l’avvocatura sta contribuendo al progetto conferma la vitalità dell’idea. Mi piace in proposito citare chi era presente, giovanissimo, ai lavori del 1961, Franco Cordero che nel 2000 pensava che la cosa migliore da fare sarebbe stata “ricominciare da capo, umilmente, con le idee più chiare e meno parole”».       2) Presidente Petrelli, ritiene che la riforma del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. ed il rafforzamento del principio della presunzione di innocenza, operato con la Direttiva 2016/343/UE ed il conseguente d.lgs. n. 188/2021, abbiano comunque rappresentato un freno a questa tendenza involutiva? In questa ottica, pensa che la proposta del CNF per l’inserimento “dell’avvocato in Costituzione” potrebbe avere l’effetto di rinsaldare il ruolo della difesa, nonché la libertà e l’autonomia del professionista? In cosa rappresenterebbe una novità rispetto a quanto sancito dall’art. 24 Cost.? «Si tratta di questioni molto diverse che non possono essere poste sul medesimo piano. Gli interventi realizzati al fine di recepire la Direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza, sono stati solo dei palliativi del tutto inadeguati, che operano solo sugli epifenomeni degenerativi del modello processuale senza rimuoverne le cause. Ben diverso l’impatto della riforma del 1999 che ebbe il pregio straordinario di “costituzionalizzare” i fondamenti del nostro codice accusatorio ed in particolare quello del contraddittorio come statuto epistemologico della prova. Quella blindatura del giusto processo, calata nell’ambito delle sentenze del 1992 e della successiva riforma del 1996, ha costituito certamente una conquista ed un punto di non ritorno. Calata invece nel contesto attuale certamente pone in evidenza l’indispensabilità della riforma ordinamentale della magistratura, al fine di realizzare la “terzietà” del giudice, senza la quale il modello accusatorio resta di fatto inattuabile. Credo che la mancata realizzazione della terzietà del giudice costituisca uno dei maggiori fattori erosivi del modello, prima ancora dei molteplici ed improvvidi interventi del legislatore. Quanto alla proposta di inserire l’avvocato in costituzione, non ne ho mai ben compresa l’utilità, ma ne ho piuttosto intravisto i rischi. L’avvocato nella nostra visione è già in costituzione perché il suo ruolo è implicitamente inverato nell’art. 24 e nel diritto di difesa, mentre una sua diversa formalizzazione rischierebbe di sottrarlo al contesto di libertà, autonomia e indipendenza, che sono fondamentali per il pieno esercizio della funzione, e di attrarlo invece in un improprio ambito istituzionale».          3) Le riforme disorganiche di questi ultimi anni, per come emerge anche dall’esperienza giudiziaria, sembrano avere di nuovo dato centralità alla fase delle indagini preliminari, e quindi anche al ruolo delle Procure, a discapito del dibattimento che, in quanto sede privilegiata del contraddittorio e della formazione della prova, dovrebbe essere in verità il cuore del processo penale. Pensa che questo spostamento di asse sia anche frutto dell’eccessiva mediatizzazione del

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DECRETO SICUREZZA: L’OPINIONE DEL PROFESSORE ADELMO MANNA*

di Danilo Iannello** e Orlando Sapia*** Professore, in Parlamento è in discussione il c.d. pacchetto sicurezza, DDL n.1660, qual è il suo giudizio al riguardo? Si tratterebbe, qualora approvato, di una misura necessaria che risponde a reali esigenze del Paese o, piuttosto, ad un’azione di propaganda finalizzata ad intercettare il consenso della “pancia” del Paese? «Il D.D.L. AC 1660-A, più noto come “Pacchetto sicurezza”, già approvato dalla Camera dei Deputati il 18 settembre 2024, ed ora all’esame del Senato – su cui l’Unione delle Camere penali italiane ha deliberato il 30 settembre 2024 lo stato di agitazione «per la evidente violazione delle norme in esso contenute ai principi costituzionali e sovranazionali» (cfr. Sistema penale, Documenti, 2 ottobre 2024, ed infatti il presente scritto prende spunto anche dalla Relazione dallo scrivente tenuta alla Manifestazione Nazionale indetta dall’Ucpi dal titolo “No al Pacchetto Sicurezza. Con la Costituzione in difesa del diritto penale liberale”, Roma, 5 novembre 2024) – proprio per quanto osservato sinora non risponde a reali esigenze di tutela della collettività, ma, ad iniziare dal c.d. Decreto no party, per proseguire con il c.d. Decreto Caivano, appare espressione di un diritto penale c.d. simbolico-espressivo, o, se si preferisce, “populistico-sicuritario”. Esso, infatti, mira a placare, ovviamente senza riuscirci, i c.d. “bisogni emotivi di pena”, espressi dalla popolazione. In altri termini, non si tratta di un esempio di diritto penale come extrema ratio, bensì di un modello ispirato al c.d. “diritto penale totale”, stigmatizzato giustamente dal compianto Filippo Sgubbi (SGUBBI F., Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna, 2019), per cui non appare esserci realmente spazio nemmeno per la depenalizzazione dei reati minori (cfr. C. SANNINO, Incontro ANM-Governo dagli organici alle carceri gli otto punti delle toghe, in La Repubblica, 5 marzo 2025, p. 28)». Tra i reati di cui si prevede l’introduzione vi sono la rivolta all’ interno degli istituti di pena e all’ interno dei cpr. Tali fattispecie di reato verrebbero integrate addirittura con forme di resistenza passiva. Questa anticipazione della soglia di punibilità quanto è compatibile con il principio di tassatività e tipicità del reato? «L’incriminazione all’interno degli istituti di pena e dei CPR della “resistenza passiva”, in primo luogo risulta addirittura di carattere più “autoritario”, rispetto allo stesso codice penale Rocco del 1930, che, infatti, punisce all’art. 337, la “resistenza a pubblico ufficiale” che è “attiva”, perché richiede l’uso della violenza o della minaccia per opporsi ad un pubblico agente, mentre compie un atto d’ufficio o di servizio. In secondo luogo, il contrasto non è solo nei confronti del sub-principio, o corollario della stretta legalità, ovverosia la tassatività, di cui all’art. 25, comma 2, Cost. – giacché in effetti la condotta di resistenza passiva non risulta tipizzata, potendo esprimersi nelle più diverse modalità – ma anche con il principio di offensività, (su cui cfr., di recente, MANES V., Il principio di offensività. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005). L’ordine pubblico non risulta, infatti, chiaramente leso o messo concretamente in pericolo, tanto che addirittura è lecito dubitare che si sia di fronte ad un tipico “fatto di reato”, secondo la tradizione penalistica di carattere garantista risalente alla fondamentale, seppur risalente, opera di DELITALA G., Il “fatto” nella teoria generale del reato, Padova, 1930. Si ha, invece, l’impressione che, legiferando in tal modo, riemergano alcuni stilemi del diritto penale nazionalsocialista, come la “colpa d’autore” ed il “tipo normativo d’autore”, nonché la “colpa per la condotta di vita”. Oppure, se si vuole fare riferimento ai giorni nostri, appare applicabile ai detenuti ed agli internati nei CPR che resistono “passivamente”, laddove, per l’appunto, il relativo “fatto” integrerà reato, la tesi per cui saremo di fronte ad un’ipotesi di “diritto penale del nemico”, prefigurato da Günther JAKOBS, Terroristen als Personen im Recht?, in ZStW, 2005, p. 839 ss., nel senso del soggetto che, con il suo comportamento, si pone contro l’ordine costituito e, quindi, lo Stato, per cui non è degno di essere qualificato e trattato giuridicamente addirittura come “persona”, a cui si applica, invece, il diritto penale tradizionale del cittadino, di carattere garantista». Sempre sotto un profilo di compatibilità costituzionale delle due normative, come valuta l’equiparazione delle categorie dei trattenuti e dei detenuti sotto il profilo della responsabilità penale nei reati che si vorrebbero introdurre? «Sussiste, a nostro giudizio, una netta differenza fra coloro che si rivoltano all’interno degli istituti di pena e coloro che così si comportano nei CPR, perché questi ultimi sono privati della libertà personale non in quanto abbiano previamente commesso un “reato”, bensì la loro detenzione, come afferma giustamente il costituzionalista Gaetano AZZARITI (La pace attraverso il diritto. Una conferenza internazionale per la sicurezza, in ID (a cura di), Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra?, Napoli, 2022, p. 3 s.) è di carattere “amministrativo” e ciò costituisce, a ben considerare, una vera e propria “contradictio in terminis”, perché riveste una funzione puramente custodiale, nonostante che il soggetto non abbia commesso reati, né sia qualificato malato di mente, per il quale è, come noto, consentito il TSO, ma soltanto per 10 giorni. In tal modo potrebbe profilarsi una questione di legittimità costituzionale fra le due categorie di soggetti qui in discorso, con riguardo all’art. 13 Cost., in relazione al principio di eguaglianza/ragionevolezza, a causa della equiparazione irragionevole delle due forme di detenzione, ovverosia il carcere, da un lato, ed il CPR, dall’altro, dovute, però, a presupposti originariamente del tutto diversi. Ciò nonostante, il Ministro dell’Interno, dott. Matteo Piantedosi, annuncia la istituzione di altri cinque Cpr. (cfr. La Repubblica, 5 marzo 2025, p. 19)». In un contesto di sovraffollamento carcerario, di violazione storica in Italia dei diritti dei soggetti reclusi, sotto un profilo di gestione politica, la volontà legislativa di rendere punibili penalmente le forme di protesta (pensiamo alla c.d. battitura) avverso le condizioni di vita degradanti degli istituti di pena e dei Cpr, è un eccesso isolato o espressione di una volontà politica che vuole gestire il conflitto sociale all’insegna della “tolleranza zero”? «L’art. 18 del più

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