INTERVISTA A LUIGI FERRAJOLI

di Leo Pallone* – 

Luigi Ferrajoli(1) è certamente da annoverare tra i filosofi del diritto più autorevoli e più  letti nel mondo, il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli.

Per i suoi meriti e la sua fama è stato insignito del titolo di “doctor honoris causa” in decine di Università in tutto il mondo. È autore di numerosissimi libri, tradotti in più lingue, tra i quali i recenti Perché una costituzione per la terra? (Giappichelli 2021); Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio (Feltrinelli 2022); Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale (Laterza 2024).

Per la rivista  “Ante Litteram” è motivo di orgoglio poter offrire ai propri lettori le riflessioni di un Maestro con una lunga storia nella difesa dei diritti fondamentali.

Professore Lei ha ricoperto il ruolo di giudice dal 1967 al 1975, anni che preparano e caratterizzano la contestazione sessantottesca, anni di profonda trasformazione della cultura dei giudici, questa esperienza ha inciso nella sua formazione? Ha influito sulla sua concezione generale del diritto?

«I miei anni di giudice – ero Pretore a Prato – hanno influito profondamente sulla mia formazione. La  pratica giudiziaria impostami dall’enorme lavoro – quale giudice civile e insieme penale (tali erano allora, cumulativamente, le competenze pretorili) in una città industriale come Prato – mi fece scendere dal cielo della logica e della teoria alla realtà concreta dell’applicazione del diritto. Ma la ragione più importante del ruolo svolto sulla mia formazione da quella lontana esperienza è un’altra. Sperimentai direttamente, sul piano esistenziale, quella che è poi diventata una delle tesi principali della mia teoria del diritto: la triplice divaricazione deontica che sempre sussiste tra giustizia e diritto positivo, tra costituzione e legislazione e tra legislazione e pratica giuridica, sia essa giudiziaria o poliziesca o amministrativa, e perciò le tante forme di ingiustizia, di invalidità costituzionale e di ineffettività che sempre pesano sul diritto».

Lei ha contribuito a fondare Magistratura democratica, un momento importante e straordinario che lasciava intravedere un nuovo modo di essere magistrato, un modello alternativo in polemica con una giustizia che gravitava sostanzialmente nell’orbita del potere. Le rivendicazioni di quella generazione di magistrati, il congresso di Gardone, che cosa hanno lasciato in dote alle nuove generazioni?

«L’intera Associazione Nazionale dei magistrati, con il congresso di Gardone del 1965, scoprì l’enorme distanza (la seconda divaricazione cui ho sopra accennato) tra Costituzione e codici fascisti. Magistratura Democratica fu il gruppo, fortemente minoritario, che prese sul serio il carattere rivoluzionario della Costituzione. Ricordo che all’indomani della legge del 1970 che introdusse il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost., arrivammo a promuovere – fu una mia proposta, che avanzai al congresso di Trieste dell’Associazione nazionale, ma che fu accolta solo da M.D. – la raccolta delle firme a sostegno dell’eliminazione dal codice penale dei reati d’opinione. Non riuscimmo a raccogliere le 500.000 firme necessarie (ne raccogliemmo solo 360.000). Ma quell’esperienza – la raccolta delle firme nelle strade, nelle case del popolo e nelle fabbriche – cambiò il nostro rapporto con la società, contraddicendo radicalmente la vecchia figura paludata del giudice tradizionale.

Sul piano della giurisprudenza la difesa della Costituzione si manifestò in quella che allora chiamammo “giurisprudenza alternativa” (a quella allora dominante) e che consisteva nella rigorosa interpretazione della legge alla luce dei principi costituzionali e nella massa di eccezioni di incostituzionalità con cui inondammo la Corte costituzionale. Più in generale, la consapevolezza dell’enorme distanza tra Costituzione e codici fascisti informò un nostro atteggiamento radicalmente critico nei confronti del diritto positivo che eravamo tenuti ad applicare e che era ancora prevalentemente di origine fascista. Fu sulla base di quell’atteggiamento critico nei confronti del diritto vigente, e più in generale delle politiche illiberali e antisociali di cui esso era espressione, che maturò l’indipendenza del potere giudiziario quale potere contro-maggioritario. Il valore dell’indipendenza, allora esercitata e rivendicata da una piccola minoranza, divenne, sul nostro esempio, un valore dell’intera magistratura. Purtroppo questa sua espansione è stata accompagnata, talora, da cadute corporative ed anche, purtroppo, da abusi e da arbitrii, cui può porre un freno soltanto la critica pubblica da parte dei giuristi e, soprattutto, degli stessi magistrati».

Magistratura Democratica riduce le distanze tra la Costituzione e la legislazione ordinaria. In buona sostanza, sottolineavate la forza della Costituzione come principale fonte di legittimazione sia della legislazione che della giurisdizione. Da una burocratica e acritica applicazione della legge, alla sua interpretazione per mezzo dei principi costituzionali, una necessità ancora attuale e, soprattutto, condivisa?

«Sicuramente è una necessità oggi più attuale che mai, certamente più attuale che allora. È passato mezzo secolo da quando ho cessato il mio lavoro di giudice. Da allora, dopo la breve stagione riformatrice degli anni Settanta, il diritto italiano ha subito, soprattutto in questi ultimi 30 anni, una progressiva involuzione, quale riflesso e prodotto, del resto, della più generale regressione intellettuale e morale dell’intera vita pubblica del nostro paese (e non solo del nostro paese). La guerra, benché ripudiata dalla nostra Costituzione, è tornata ad essere il normale strumento di soluzione delle controversie internazionali; con un incredibile capovolgimento del senso delle parole, i pacifisti sono screditati come irresponsabili ed estremisti e i bellicisti sono accreditati come responsabili, moderati e benpensanti. La fine dei partiti quali luoghi di partecipazione e di formazione della volontà popolare, la comunicazione politica non più dal basso verso l’alto ma dall’alto verso il basso, i conseguenti processi di personalizzazione della politica determinati anche dall’abbandono del sistema elettorale proporzionale, la generale passivizzazione e spoliticizzazione della società e il tramonto della Costituzione dall’orizzonte della politica hanno prodotto un pesante abbassamento della nostra vita pubblica e una vera crisi della nostra democrazia. Abbiamo assistito a una sostanziale demolizione del diritto del lavoro e delle garanzie dei diritti dei lavoratori. E si è sviluppata una pesante involuzione del nostro diritto e della nostra giustizia penale, all’insegna della massima disuguaglianza: diritto penale minimo e garantismo del privilegio a favore dei potenti, tramite la formazione negli anni del berlusconismo di un vero e proprio corpus iuris ad personam sviluppato ampiamente dall’attuale governo, e diritto penale massimo e disumano contro i deboli, dalle pene nella pena di ben due regimi di carcere duro all’uso e all’abuso delle misure di prevenzione di memoria fascista contro mendicanti, prostitute e soprattutto giovani attivisti politici, fino alla legislazione vergognosa nei confronti dei migranti».

La magistratura italiana, vive oggi una crisi profonda di legittimazione che rischia di offuscare il ruolo della giurisdizione quale dimensione essenziale della democrazia.

Una credibilità contaminata dagli scandali che hanno investito le forme del suo autogoverno. Professore, al netto delle tante strumentalizzazioni, la magistratura è stata compromessa nella sua indipendenza e nella sua imparzialità?

«La magistratura è oggi più che mai un presidio basilare dello stato di diritto. Di fronte alle pretese di onnipotenza avanzate dall’attuale maggioranza, diventa più necessaria che mai la sua indipendenza quale limite agli abusi e capacità di censura delle illegalità dei pubblici poteri. La perdita di legittimazione subita in questi anni dalla magistratura è dovuta, oltre che alla mai interrotta campagna diffamatoria condotta contro la giurisdizione da gran parte dei media, all’abbassamento della sua cultura democratica e costituzionale. Si tratta di un riflesso del più generale abbassamento di tale cultura nella vita pubblica e nella società. Ma si tratta anche dell’effetto di due veleni che hanno contagiato la magistratura. Il primo è il populismo giudiziario, soprattutto di quei magistrati che in Spagna chiamano “giudici stella”, che ha prodotto un abbassamento delle garanzie e un inasprimento delle pene. Il secondo, che è alla base delle deviazioni nell’azione di autogoverno del Consiglio superiore della magistratura emerse con lo scandalo Palamara e ampiamente sovradimensionate dai media, è il carrierismo dei giudici, che la mia generazione era riuscita ad abbattere e che le riforme Castelli e Mastella del 2005 e del 2006 hanno reintrodotto, rafforzando, in violazione degli artt. 101 e 107 della Costituzione sulla soggezione dei giudici soltanto alla legge e sull’uguaglianza dei magistrati, i poteri dei capi degli uffici e in particolare dei capi delle Procure».

Separazione delle carriere, è innegabile che il pubblico ministero è andato acquisendo, nel fare giustizia, un ruolo autonomo sempre crescente, d’altro canto è essenziale per la democrazia ribadire la necessità dell’indipendenza del pubblico ministero. Professore, tralasciando polemiche e provocazioni, è azzardato pensare che i PM non vogliono perdere il loro potere?

«La separazione tra giudici e pubblici ministeri, anche nelle carriere, è una condizione essenziale dell’imparzialità dei giudici. Ma essa non ha nulla a che vedere con l’indipendenza del pubblico ministero, la quale si fonda, sul piano teorico, sulla sua appartenenza al potere giudiziario, e perciò sulla separazione dei poteri, e sul suo ruolo di garanzia del corretto esercizio delle sue attività di indagine. Ed è assicurata, sul piano costituzionale, dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale stabilita dall’art. 112 della Costituzione, anche a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».

Il suo impegno ha sempre privilegiato l’analisi e la critica delle quotidiane ingiustizie in danno soprattutto dei soggetti più deboli,  ha sempre sostenuto l’abolizione dell’ergastolo, chiarendo come questa misura si ponga contro “i principi costituzionali dell’umanità della pena e della funzione rieducativa della stessa”. Professore, il suo Maestro, Norberto Bobbio, diceva, “la battaglia per il garantismo penale è sempre stata una battaglia di minoranza”, lei pensa che (oggi) sia possibile andare oltre quella minoranza?

«È non solo possibile, ma necessario. Purtroppo è anche improbabile. Ma è compito della cultura politica democratica la diffusione della cultura garantista a livello di massa».

A Roma, nel 2020,  nasce il primo movimento di opinione volto a redigere una Costituzione globale della Terra, quale ultima risposta praticabile alle crisi altrettanto globali che ci minacciano, due anni dopo pubblica il libro Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, un libro che mette a nudo verità dolorose: degradazione ambientale, crisi alimentari, guerre, disuguaglianze inaccettabili, violazioni di diritti umani. Professore esiste veramente una alternativa a tanta scempiaggine , esiste un modo per frenare gli egoismi che deturpano i colori bellissimi dei nostri tramonti e delle nostre albe? Che sfregiano il sorriso di creature incolpevoli?

«Non solo tale alternativa esiste, ma è la sola alternativa razionale e realistica a un futuro di catastrofi che potrebbe provocare, se non si farà nulla, l’estinzione dell’umanità.

Sul piano teorico il progetto di un costituzionalismo globale, quale espansione delle categorie del costituzionalismo a livello planetario in attuazione di quell’embrione di costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte dei diritti umani, è nato dall’implicazione logica che nei miei lavori – in particolare nei miei Principia iuris del 2007 – ho identificato tra la proclamazione dei diritti fondamentali universalmente attribuiti a tutti e l’obbligo giuridico di introdurre le necessarie garanzie e le connesse istituzioni di garanzia: il disarmo globale e totale a garanzia della pace, un demanio planetario a garanzia dei beni vitali della natura, servizi sanitari, scolastici e assistenziali globali e gratuiti a garanzia dei diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza. La radicale differenza, rispetto alle tante carte dei diritti esistenti, sia nazionali che internazionali, del nostro progetto di Costituzione della Terra in 100 articoli, consiste da un lato nella sua rigidità, cioè nella sua sopraordinazione a qualunque altra fonte, statale o internazionale; dall’altro, e soprattutto, nella previsione e nell’imposizione, quali limiti e vincoli ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali, delle garanzie sopra elencate. 

Sul piano politico, il progetto è nato dalla consapevolezza che ci sono problemi globali che non fanno parte dell’agenda politica dei governi nazionali, anche se dalla loro soluzione dipende la sopravvivenza dell’umanità: non solo la crescita delle disuguaglianze, la fame nel mondo, la svalutazione e lo sfruttamento globale del lavoro, ma anche il riscaldamento climatico e il pericolo di una guerra nucleare, come quella nella quale può oggi degenerare l’aggressione russa all’Ucraina.

Questi problemi non sono, né possono essere affrontati dalle politiche nazionali, inerti e impotenti perché ancorate agli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali e ai tempi brevi delle elezioni e dei sondaggi. È d’altro canto fallito quell’embrione di costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte internazionali dei diritti umani, a causa del fatto che esse difettano dei due requisiti che come ho sopra ricordato formano i tratti distintivi del nostro progetto di una Costituzione della Terra: in primo luogo non sono costituzioni rigide, sopraordinate alle fonti statali, ma sono al contrario contraddette dalla conservazione, nell’art. 2 della carta dell’Onu, della sovranità degli Stati, dai quali sono perciò impunemente violate; in secondo luogo, e soprattutto, non sono state introdotte le loro norme di attuazione, cioè i divieti di lesioni e gli obblighi di prestazioni che ne sono le garanzie. Pace, uguaglianza e diritti fondamentali sono perciò rimasti sulla carta, per la grande maggioranza del genere umano, quali promesse non mantenute.

La sola alternativa a questo fallimento è l’espansione oltre lo Stato del costituzionalismo rigido. È infatti certo che 8 miliardi di persone, 193 Stati sovrani, nove dei quali dotati di armamenti nucleari, un anarco-capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile non potranno a lungo sopravvivere senza produrre catastrofi in grado di mettere in pericolo l’abitabilità del pianeta e la stessa sopravvivenza dell’umanità. È questo un dato di fatto, che impone un salto di civiltà, cioè l’espansione del costituzionalismo oltre lo Stato, all’altezza dei poteri globali da cui provengono le minacce al nostro futuro: una Costituzione della Terra, ripeto, quale costituzione rigida, sopraordinata agli Stati, che istituisca un demanio planetario dei beni comuni della natura, la messa al bando delle armi, funzioni globali di garanzia dei diritti umani – cioè servizi sanitari e scolastici globali e l’alimentazione di base per tutti – e un fisco globale realmente progressivo. Non è un sogno, se non per quanti al sogno preferiscono l’incubo».

*Direttore della rivista Ante litteram
(1)Emerito di Filosofia del diritto nell’Università di Roma Tre

(Già pubblicato in Ante Litteram n. 2 – settembre 2024)

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