Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024

di Domenico Pasceri* –

Si segnala all’attenzione dei lettori la tematica di particolare rilevanza sociale, prima ancora che giuridica, che è stata affrontata per la prima volta nel nostro Ordinamento dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 48/2024.
Il tema trattato inerisce la rilevanza dell’istituto comunemente noto come “poena naturalis” e del suo rapporto con la finalità cui deve protendere la pena inflitta dallo Stato per la commissione di un illecito di rilevanza penale: ossia se sia conforme a giustizia punire l’autore di un reato colposo che sia rimasto, a sua volta, vittima del reato stesso ed abbia già patito una sofferenza interiore tale che, l’ulteriore persecuzione da parte dello Stato, risulterebbe inutile (in termini di rieducazione) oltre che sproporzionata ed eccessivamente afflittiva.

La nozione di “poena naturalis”, quale concetto giuridico volto all’individuazione e alla valorizzazione di quella sofferenza interiore che l’autore del fatto illecito già subisce per gli effetti nefasti del reato stesso, è istituto già riconosciuto in alcuni ordinamenti europei come ad esempio quello tedesco, laddove è pacificamente ammessa la possibilità per il giudice di non irrogare la pena prevista dal sistema giudiziario quando il colpevole ha già subito le conseguenze “naturali” della propria condotta in misura “…talmente grav(e) che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo” (§ 60 StGB).

Il caso trattato dal Tribunale rimettente era assolutamente calzante rispetto al tema trattato, in quanto ha avuto ad oggetto il decesso di un lavoratore, nipote stretto del titolare dell’azienda, che, in occasione di alcuni lavori su di un tetto, a causa della mancata attuazione di alcune misure di sicurezza, cadeva perdendo la vita. La vicenda si connotava di particolari che mettevano in risalto proprio quel patimento interiore richiesto dall’istituto in esame perché, all’arrivo dei soccorsi, questi trovano lo zio, particolarmente legato al nipote, che si disperava tentando inutilmente di rianimarlo. Inoltre, a dimostrazione del profondo legame familiare, anche durante il processo i genitori del ragazzo defunto non si costituirono parte civile.
Proprio nell’alveo del principio insito nella teorica della “poena naturalis” ed in ragione del caso specifico oggetto di giudizio, il Giudice rimettente ha inteso sottoporre alla Consulta il problema dell’assenza nell’ordinamento italiano del giusto collocamento dell’istituto in commento e dei riflessi che esso avrebbe potuto avere sulla punibilità del reo, posto che, in siffatti casi «…qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne» (cfr. Sentenza Consulta par.1.1).

Ed allora, con ordinanza del 20 febbraio 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».
Al fine di superare il vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni da affrontare, il giudice a quo ha correttamente evidenziato come la denunciata lacuna normativa andasse a violare i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, in ragione del fatto che, la sanzione irrogata dall’ordinamento statuario, in aggiunta alla sofferenza già patita, sarebbe percepita alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», non solo inidonea ad assolvere a quella funzione rieducativa a cui la pena stessa dovrebbe protendere, ma anche del tutto inutile nella prospettiva di ogni sua possibile declinazione finalistica, sia essa generalpreventiva, specialpreventiva o retributiva. Essa si risolverebbe, argomenta il Giudice rimettente, solo in una «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza».

V’è da dire però che la Corte, seppur superando l’eccezione inerente il limite della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità (la Corte sul punto ha ribadito il principio ormai granitico secondo cui l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, trova il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte) non ha potuto addentrarsi oltre nella tematica alla stessa sottoposta in ragione della eccessiva ampiezza che la pronuncia additiva avrebbe avuto.
Secondo il pronunciato della Corte, infatti, il Tribunale di Firenze non avrebbe ben definito i confini del petitum, tanto da risultare incompatibile con il tipo di pronuncia richiesta, posto che, pur ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità avrebbero poi incluso tutte le ipotesi di reato colposo (ivi comprendendo, tra l’altro, non solo i delitti ma anche le contravvenzioni), ed anche i rapporti inerenti i familiari non strettamente intesi (in ragione del novero soggettivo molto ampio indicato dall’art.307 quarto comma cp che si estende fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo e persino vincoli di affinità).

Purtuttavia, (ed è questo quello che veramente conta) il pronunciato della Corte, sebbene di rigetto, ha comunque riconosciuto l’importanza e la centralità della tematica affrontata, lasciando al contempo intendere che il tema della pena naturale, se correttamente definito nei suoi confini applicativi, potrebbe trovare la giusta collocazione anche nel nostro Ordinamento per disciplinare quelle “…situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione” (da: La “Pena Naturale” al vaglio della Corte Costituzionale di Tullio Padovani). 
La Corte infatti, criticando anche sotto altro profilo l’ordinanza di rimessione, ha sottolineato come l’istituto della pena naturale non può essere ricondotto nell’alveo di una pronuncia in rito (qual è la declaratoria ex art. 529 cpp), ma va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale, presupponendo con ciò il pieno accertamento delle modalità del fatto, ben potendo essa costituire “…in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva (cfr. sentenza par.5.3.1).

Ciò che si auspica, pertanto, è che, lo spiraglio lasciato dall’obiter della Consulta possa essere di ispirazione per una futura istanza di costituzionalità, o meglio ancora per una riforma legislativa che, nei casi limite sopra indicati, possa ridare alla “pena” la sua giusta collocazione finalistica che, a parere di chi scrive (e non solo) non è quella di “punire tanto per punire”.

*Responsabile Osservatorio Costituzione e Giusto Processo

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