Oltre la norma

GIANNI VERSACE E LA MODA, SUA UNICA RAGIONE DI VITA

di Angela La Gamma* – Tra i personaggi che hanno dato lustro alla nostra terra una posizione primaria deve certamente essere riconosciuta a Gianni Versace (Giovanni Maria Versace era il suo nome completo) poliedrico stilista, dal carattere schivo, volitivo ma, al contempo, dolce e gentile che ha fatto della moda la sua ragione di vita. Il 2 dicembre 1946, in un’Italia in fase di rinascita, a Reggio Calabria, veniva al mondo quello che può essere definito un uomo dal talento impareggiabile, di quelli che è difficile non notare e che ha portato avanti i valori della cultura e dell’ingegno calabresi e della Magna Graecia, dando lustro all’Italia nel mondo attraverso una genialità difficilmente eguagliabile. Gianni Versace era un ragazzo innamorato della bellezza ed uno stilista che ha saputo innovare la moda del XX secolo grazie alle sue intuizioni: sin da bambino gattonava tra pizzi e merletti nella sartoria della madre Franca (Francesca Olandese) e, appena adolescente, era già il principale collaboratore di quest’ultima, la quale si fidava ciecamente del suo istinto e di quelle che possiamo definire delle vere e proprie premonizioni sulle evoluzioni degli stili in un’Italia dalla ritrovata creatività e vitalità. Nel 1972, a soli 24 anni, Gianni Versace ha disegnato la sua prima collezione da stilista, la Florentine Flowers: un successo clamoroso e, nel 1978, aiutato dall’adorato fratello Santo, ha fondato la casa di  moda che portava il suo nome. Il resto è storia nota. Ciò che mi piacerebbe portare all’attenzione dei lettori di questa rubrica è qualche aneddoto relativo alla vita dello stilista, tratto dalla biografia ufficiale, redatta dal giornalista Tony Di Corcia, che ci dà un quadro di come l’ambizione, il talento, la determinazione siano in grado di superare tutti i confini e raggiungere vette altissime ed insperate. Chi mai, infatti, avrebbe potuto anche solo immaginare che questo ragazzo reggino, nato e cresciuto tra forbici, aghi e stoffe (il padre gestiva il laboratorio di confezione), dalla piccola sartoria di Via Gullì sarebbe arrivato a portare le sue creazioni in giro per il mondo ed a diventare un’icona inconfondibile della moda made in Italy? Di certo non lo avrebbero mai potuto immaginare i maestri ed i professori di Gianni, il quale non potrà, sicuramente, essere ricordato come un amante della scuola e dello studio: sin dalle scuole elementari, infatti, i genitori sono costretti a mandarlo a ripetizioni. Non va meglio alle medie: Gianni veniva accompagnato sin dentro la scuola dal fratello Santo, ma poi usciva dalla finestra per andare ad ammirare i resti del tempio greco, andare in via Marina; qualsiasi cosa pur di non restare seduto dietro ad un banco. Dopo le medie Versace si iscrive al liceo classico Tommaso Campanella: un vero disastro! Da lì passa all’istituto per geometri, dove era bravo solo in agraria ed in costruzioni, ma il suo insegnante sosteneva che avrebbe potuto specializzarsi solo nelle costruzioni rurali e quindi lo faceva esercitare esclusivamente nella progettazione di porcili, stalle e conigliere…non è difficile intuire quale sia stato il suo epilogo formativo: nell’anno scolastico 1967/68 non viene ammesso agli esami di stato e, quindi, tutt’altro che addolorato, Gianni decide di non diplomarsi. Nulla da fare. Il suo habitat è nella sartoria della madre e, poi, nell’atelier: qui si sente a suo agio come “un feto nel liquido amniotico”. Sin da bambino, per esercitarsi nell’imitazione della madre, Gianni si divertiva a realizzare gli abitini per le bambole delle sue amichette, utilizzando ritagli della sartoria; ad 11 anni ha scoperto quanto fosse esaltante cucire, piegare un tessuto, far risplendere una giacca nera grazie a dei bottoni preziosi: le sue mani ancora bambine detestavano l’imprecisione. La sartoria era tutto il mondo di questo fanciullo, affatto interessato a ciò che accadeva fuori, al pallone, alle passeggiate sul lungomare con gli amichetti, ai gelati da Cesare: lui voleva stare con sua madre, con l’adorata sorella Donatella, con l’ago tra le dita. La sua era una passione irrefrenabile, totalizzante: una passione di quelle che induce a vivere tutto ciò che la riguarda in maniera intensa, estatica, forse eccessiva, ma mai sbagliata. Tra stoffe, pizzi e merletti Gianni riconosceva sè stesso e riconosceva anche che i tempi cambiavano rapidamente:  nei primi anni 70, ad esempio, Versace ha intuito che si andava rapidamente affermando la moda confezionata, segno tangibile che il vento di democrazia che soffiava in quel periodo storico si insinuava in ogni settore sociale. La madre assecondava questo figlio geniale, fidandosi ciecamente del suo talento, della sua spiccata intuitività ed è per questo che alla sartoria è stata aggiunta una boutique. Questa, ben presto, è diventata il mondo esclusivo di Gianni: i rappresentanti dovevano rispettare alla lettera le sue richieste, le clienti pendevano dalle sue labbra. Racconta Di Corcia, che una volta entrò in boutique una delle migliori clienti, Raffaella De Carolis, Miss Italia 1962 e moglie di un armatore, alla quale Franca era riuscita a far comprare cinque vestiti tra i più costosi. Improvvisamente entra Gianni. La cliente, appena lo vede cerca il suo consenso e lui, senza alcun indugio, gliene fa restituire due in quanto “non adatti a lei”. Quello che però deve far riflettere e che riflette il fulcro di quello che era il carattere e l’amore che Versace aveva per l’estetica e tutto ciò che ne fosse concernente è stata la risposta data alle, immaginabili e comprensibili, rimostranze della mamma Franca: “Mamma- questa è la risposta tratta dalla biografia di Di Corcia- chiunque veda una persona vestita da noi deve chiedersi: che bello? Dove lo ha preso? Se invece si chiede dove l’ha presa ‘sta roba e storce il muso, tu perdi un cliente. Si vende per amore, non per commercio”. E proprio questo amore assoluto ed incondizionato per la moda ha portato un ancora giovane Gianni Versace a realizzare il suo sogno: disegnare, a soli 24 anni, una collezione, la Florentine Flowers, la quale, debuttata nel 1972, in una Firenze che era diventata il fulcro della moda italiana, immediatamente ha raggiunto un successo planetario. Anche la nascita di questo brand ha una

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PANPENALISMO E TENUTA DEMOCRATICA

di Orlando Sapia*– Aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che si riscontrano nelle innovazioni legislative che, nel corso degli ultimi decenni, hanno riguardato il sistema penale attuale. Chiaramente, queste scelte politiche in materia penale, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale. Un ruolo che sempre più appare dissonante rispetto al sistema di valori cristallizzato dalla Costituzione italiana. Un sistema penale che va in direzione opposta e contraria rispetto al paradigma garantista, il cui principio ordinatore è quello di limitare l’uso della forza, operando in due direzioni: “come sistema di limiti alla libertà selvaggia dei consociati, tramite la proibizione, l’accertamento e la punizione come reati delle offese ai diritti altrui o ad altri beni o interessi stipulati come fondamentali; e come sistema di limiti alla potestà punitiva dello Stato, tramite garanzie penali e processuali, le quali precludono la proibizione delle azioni inoffensive o incolpevoli e la punizione di quelle offensive e colpevoli senza un loro corretto accertamento”1. Il finalismo teleologico è orientato ad assicurare la migliore risposta nel bilanciamento degli interessi dei cittadini e delle vittime rispetto ai diritti dell’indagato/imputato/condannato. L’idea di fondo è quella della riduzione della violenza, anche nella punizione del reo, poiché la pena secondo l’art. 27 Cost. ha l’obiettivo di rieducare/ riaggregare il reo nel consesso sociale, così come chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/19902.  Tuttavia, negli ultimi trenta anni, l’azione legislativa ho prodotto una proliferazione  delle fattispecie di reato e l’innalzamento degli edittali di pena, in alcuni casi proprio dei minimi così sottraendo al giudice di merito la possibilità di realizzare una corretta dosimetria della pena da irrogare3. Sarebbe troppo lungo in questa sede operare una ricostruzione degli svariati “pacchetti sicurezza” che si sono succeduti, ma è di certo possibile ripercorrere quello che è avvenuto, per lo meno, nel corso dell’attuale legislatura. Già al suo incipit la XIX Legislatura si è caratterizzata con l’essere in perfetta continuità con le precedenti, attraverso l’introduzione, di cui non si sentiva la necessità, del reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione. Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina prevedendo  la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 TUI), ma soprattutto l’introduzione del nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis Dlgs. n. 286/98), in cui se all’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persona la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale. Si prosegue con il D.L. n. 123/23 c.d. Decreto Caivano che traendo origine sempre da fatti di cronaca, avvenuti per l’appunto a Caivano, rappresenta un ulteriore di esempio di atto avente forza di legge che viene emanato in via di urgenza, senza nessuna necessità, ma sull’onda delle emozioni di piazza. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene delle norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione. Fortunatamente non sono passate quelle proposte che avrebbero voluto un abbassamento dell’età ai fini dell’imputabilità, che per adesso permane a quattordici anni. Tuttavia, l’effetto è stato immediato, essendo aumentati in maniera esponenziali i minori detenuti negli IPM, proprio a causa del proliferare delle misure cautelari custodiali. 496 minori e giovani adulti detenuti nei 17 istituti penali per minorenni in Italia, al 15 gennaio 2024. Si tratta di un numero record, rende noto l’associazione Antigone nel settimo rapporto sulla giustizia minorile, evidenziando che il decreto “ha introdotto una serie di misure che stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto”4. Infine, annunciato con il comunicato n. 59, il Consiglio dei Ministri, in data 16/11/23, ha approvato un disegno di legge sempre in materia di sicurezza, che è attualmente al vaglio delle competenti commissioni parlamentari, ma che desta preoccupazione essendo informato dalla medesima logica securitaria che ha caratterizzato i precedenti “pacchetti sicurezza”, ovverosia la creazione di fattispecie delittuose nuove e l’aumento degli edittali di pena in relazione ai reati già esistenti. Tra le novità, risalta la norma che renderà da obbligatorio a facoltativo il differimento pena per le donne incinte e le madri con prole fino a un anno, così aprendo le porte degli istituti penitenziari ai bambini, di certo incolpevoli, al seguito delle madri. È di tutta evidenza una normativa pensata nei riguardi delle donne di etnia rom, che rappresenta un esercizio normativo ispirato al diritto penale d’autore. Il D.D.L. prevede, altresì, l’introduzione di due nuove fattispecie di reato finalizzate a mantenere la sicurezza degli istituti penitenziari e delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, punendo gli episodi di rivolta, che possono essere integrati non solo da atti

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INTERVISTA A LUIGI FERRAJOLI

di Leo Pallone* –  Luigi Ferrajoli(1) è certamente da annoverare tra i filosofi del diritto più autorevoli e più  letti nel mondo, il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli. Per i suoi meriti e la sua fama è stato insignito del titolo di “doctor honoris causa” in decine di Università in tutto il mondo. È autore di numerosissimi libri, tradotti in più lingue, tra i quali i recenti Perché una costituzione per la terra? (Giappichelli 2021); Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio (Feltrinelli 2022); Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale (Laterza 2024). Per la rivista  “Ante Litteram” è motivo di orgoglio poter offrire ai propri lettori le riflessioni di un Maestro con una lunga storia nella difesa dei diritti fondamentali. Professore Lei ha ricoperto il ruolo di giudice dal 1967 al 1975, anni che preparano e caratterizzano la contestazione sessantottesca, anni di profonda trasformazione della cultura dei giudici, questa esperienza ha inciso nella sua formazione? Ha influito sulla sua concezione generale del diritto? «I miei anni di giudice – ero Pretore a Prato – hanno influito profondamente sulla mia formazione. La  pratica giudiziaria impostami dall’enorme lavoro – quale giudice civile e insieme penale (tali erano allora, cumulativamente, le competenze pretorili) in una città industriale come Prato – mi fece scendere dal cielo della logica e della teoria alla realtà concreta dell’applicazione del diritto. Ma la ragione più importante del ruolo svolto sulla mia formazione da quella lontana esperienza è un’altra. Sperimentai direttamente, sul piano esistenziale, quella che è poi diventata una delle tesi principali della mia teoria del diritto: la triplice divaricazione deontica che sempre sussiste tra giustizia e diritto positivo, tra costituzione e legislazione e tra legislazione e pratica giuridica, sia essa giudiziaria o poliziesca o amministrativa, e perciò le tante forme di ingiustizia, di invalidità costituzionale e di ineffettività che sempre pesano sul diritto». Lei ha contribuito a fondare Magistratura democratica, un momento importante e straordinario che lasciava intravedere un nuovo modo di essere magistrato, un modello alternativo in polemica con una giustizia che gravitava sostanzialmente nell’orbita del potere. Le rivendicazioni di quella generazione di magistrati, il congresso di Gardone, che cosa hanno lasciato in dote alle nuove generazioni? «L’intera Associazione Nazionale dei magistrati, con il congresso di Gardone del 1965, scoprì l’enorme distanza (la seconda divaricazione cui ho sopra accennato) tra Costituzione e codici fascisti. Magistratura Democratica fu il gruppo, fortemente minoritario, che prese sul serio il carattere rivoluzionario della Costituzione. Ricordo che all’indomani della legge del 1970 che introdusse il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost., arrivammo a promuovere – fu una mia proposta, che avanzai al congresso di Trieste dell’Associazione nazionale, ma che fu accolta solo da M.D. – la raccolta delle firme a sostegno dell’eliminazione dal codice penale dei reati d’opinione. Non riuscimmo a raccogliere le 500.000 firme necessarie (ne raccogliemmo solo 360.000). Ma quell’esperienza – la raccolta delle firme nelle strade, nelle case del popolo e nelle fabbriche – cambiò il nostro rapporto con la società, contraddicendo radicalmente la vecchia figura paludata del giudice tradizionale. Sul piano della giurisprudenza la difesa della Costituzione si manifestò in quella che allora chiamammo “giurisprudenza alternativa” (a quella allora dominante) e che consisteva nella rigorosa interpretazione della legge alla luce dei principi costituzionali e nella massa di eccezioni di incostituzionalità con cui inondammo la Corte costituzionale. Più in generale, la consapevolezza dell’enorme distanza tra Costituzione e codici fascisti informò un nostro atteggiamento radicalmente critico nei confronti del diritto positivo che eravamo tenuti ad applicare e che era ancora prevalentemente di origine fascista. Fu sulla base di quell’atteggiamento critico nei confronti del diritto vigente, e più in generale delle politiche illiberali e antisociali di cui esso era espressione, che maturò l’indipendenza del potere giudiziario quale potere contro-maggioritario. Il valore dell’indipendenza, allora esercitata e rivendicata da una piccola minoranza, divenne, sul nostro esempio, un valore dell’intera magistratura. Purtroppo questa sua espansione è stata accompagnata, talora, da cadute corporative ed anche, purtroppo, da abusi e da arbitrii, cui può porre un freno soltanto la critica pubblica da parte dei giuristi e, soprattutto, degli stessi magistrati». Magistratura Democratica riduce le distanze tra la Costituzione e la legislazione ordinaria. In buona sostanza, sottolineavate la forza della Costituzione come principale fonte di legittimazione sia della legislazione che della giurisdizione. Da una burocratica e acritica applicazione della legge, alla sua interpretazione per mezzo dei principi costituzionali, una necessità ancora attuale e, soprattutto, condivisa? «Sicuramente è una necessità oggi più attuale che mai, certamente più attuale che allora. È passato mezzo secolo da quando ho cessato il mio lavoro di giudice. Da allora, dopo la breve stagione riformatrice degli anni Settanta, il diritto italiano ha subito, soprattutto in questi ultimi 30 anni, una progressiva involuzione, quale riflesso e prodotto, del resto, della più generale regressione intellettuale e morale dell’intera vita pubblica del nostro paese (e non solo del nostro paese). La guerra, benché ripudiata dalla nostra Costituzione, è tornata ad essere il normale strumento di soluzione delle controversie internazionali; con un incredibile capovolgimento del senso delle parole, i pacifisti sono screditati come irresponsabili ed estremisti e i bellicisti sono accreditati come responsabili, moderati e benpensanti. La fine dei partiti quali luoghi di partecipazione e di formazione della volontà popolare, la comunicazione politica non più dal basso verso l’alto ma dall’alto verso il basso, i conseguenti processi di personalizzazione della politica determinati anche dall’abbandono del sistema elettorale proporzionale, la generale passivizzazione e spoliticizzazione della società e il tramonto della Costituzione dall’orizzonte della politica hanno prodotto un pesante abbassamento della nostra vita pubblica e una vera crisi della nostra democrazia. Abbiamo assistito a una sostanziale demolizione del diritto del lavoro e delle garanzie dei diritti dei lavoratori. E si è sviluppata una pesante involuzione del nostro diritto e della nostra giustizia penale, all’insegna della massima disuguaglianza: diritto penale minimo e garantismo del privilegio a favore dei potenti, tramite la formazione negli anni del berlusconismo di un vero e

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“CANNE AL VENTO”: IL DESTINO È PADRONE DELL’UOMO

di Maria Clausi* – Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, nasce in Sardegna nel 1871 da una famiglia benestante, ma, poiché all’epoca alle donne non era permesso di studiare, si ferma alla quarta elementare. Tuttavia, il suo amore per la letteratura non si spegne ed ella, in modo autonomo, si forma attraverso la lettura. Le sue scelte e la sua caparbietà fanno di lei sicuramente una donna rivoluzionaria per quei tempi, una donna che dimostra grande personalità ed indiscutibile spessore umano. Le sue opere dimostrano come l’arte sia un dono di Dio; dunque, nessun uomo può soffocare un talento e ciò fa di questa donna, della sua vita e della sua grande produzione letteraria un esempio da seguire per tutti coloro che inseguono un sogno. Tra le sue opere più conosciute vi è il romanzo “Canne al vento”: un’opera ambientata nella sua Sardegna di fine ottocento. Il romanzo racconta una società che sta cambiando: alla decadenza ed all’impoverimento degli aristocratici si sostituisce il sempre maggiore accumulo di ricchezza da parte di una nuova classe sociale e produttiva che è quella dei mercanti. Nel mondo nuovo che sta nascendo, in questo contesto economico, si insinuano, però, anche figure che la ricchezza la accumulano in maniera disonesta e spietata: gli usurai. Nel romanzo spicca, difatti, la figura di un’usuraia: Kallina che Deledda descrive come ricca anche lei ma in modo misterioso. Kallina in qualche modo si contrappone alle Pintor: tre sorelle di famiglia nobile, ma ridotte quasi in miseria. Le Pintor, con il loro palazzo cadente, sono l’emblema di quella nobiltà incapace di conservare la propria ricchezza e che l’unica cosa che riesce a conservare è lo sdegno, il disprezzo per il popolo! Sicuramente la figura centrale dell’opera è il vecchio Efix: un servo delle Pintor che cura un loro poderetto, dove ha fissato la sua dimora. Efix rimane fedele alle donne fino alla fine e cerca di aiutare il loro nipote Giacinto: figlio di un’altra sorella scappata di casa anni prima e mai tornata. Giacinto, al pari delle zie, è l’emblema della decadenza della nobiltà del tempo: di quella nobiltà che oramai è consapevole di essere stata rimpiazzata dai nuovi ricchi che pure disprezzano. Efix è il custode di un segreto, ossia la morte del padre delle donne: don Zame, ucciso mentre era alla ricerca di quella figlia che era fuggita e che aveva disonorato la famiglia. Efix è, in realtà, l’autore di quel delitto ed è questo peso che porta nel cuore che lo costringe a continuare a servire le tre donne e a cercare, seppure senza successo, a risollevare le loro sorti. Efix è tormentato da quella colpa e cerca di espiarla attraverso la sua fedeltà alle tre donne e attraverso la cura del loro poderetto che nulla gli offre se non povertà, tanto che si indebita con la spietata usuraia. La vita di Efix invita a riflettere su qualcosa su cui spesso gli uomini si interrogano: il destino! Forse nella vita di ciascun essere umano vi è un disegno già ben definito sin dalla sua nascita ed è inutile ogni ribellione contro lo stesso perché è il destino ad essere padrone della sua vita. La figura di Efix invita, altresì, a riflettere su un altro grande tema, ossia gli effetti che un delitto può avere nell’animo di chi lo compie. Spesso siamo abituati a guardare alla sofferenza della vittima e dei suoi familiari che, a volte, sopravvivendo alla stessa sono condannate a condurre una vita fatta di sfortune e di dolore. È questo ciò che accade alle sorelle Pintor: dopo la morte del padre, esse conducono una vita fatta di solitudine e di sempre maggiore impoverimento materiale. La morte di Don Zame è l’inizio del declino di quella famiglia che un tempo aveva conosciuto il prestigio e la ricchezza che gli derivava dal suo essere famiglia nobile. Quel delitto è l’inizio della sofferenza, ma non solo di quella delle figlie, anche di quella del suo assassino. Noi non ci chiediamo forse mai cosa accade nel cuore di chi il delitto lo commette. Ebbene, Efix è la voce della coscienza dell’assassino! Il delitto non può lasciare segni solo nella vita di chi lo subisce; esso necessariamente lascia segni anche nella vita di chi lo compie. Efix ci insegna che chi commette un delitto può vivere nel tormento e nel rimorso; che chi commette un delitto può andare alla ricerca costante di un perdono che si può ricevere anche mettendosi al servizio di chi ha subito le conseguenze del delitto. “Canne al vento” è, dunque, un romanzo sul destino e sulla potenza che questo esercita sulla vita dell’uomo; ma è anche un romanzo sul delitto e sul castigo che ne consegue anche senza una condanna da parte di un tribunale.   *Giudice del Tribunale di Catanzaro  

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POLITICA, CULTURA E FILOSOFIA NELL’OPERA DI CASSIODORO

di Alberto Scerbo* “Cassiodoro è l’uomo più completo del VI secolo, grande uomo politico ma, soprattutto, eroe e restauratore della cultura, della scienza morale e umanistica del suo tempo”1: questa definizione del calabrese Repaci può sembrare esagerata, ma rivela la volontà di esaltare un uomo che in diversi passi dei suoi scritti ha manifestato l’amore per la propria terra2 e che è stato capace di creare nel territorio di Squillace un monastero, il Vivarium, con un tratto di originalità, visto che, al pari di altri, comprende tanto la vita cenobitica quanto quella anacoretica e funziona come scriptorium, ma è l’unico del tempo che ha “il suo centro nella biblioteca”3. Se, quindi, la calabresità può costituire un fattore fuorviante di giudizio, è pur vero che, d’altra parte, su Cassiodoro può pesare una valutazione condizionata dal ruolo rivestito nella storia e dai cambiamenti intervenuti nelle diverse fasi della sua lunga vita. L’opera imponente delle Variae ci restituisce, infatti, la figura del più importante uomo di governo del regno dei Goti e del suo decisivo contributo all’organizzazione dell’amministrazione interna e alla definizione delle fondamentali strategie politiche, ma che si premura di ignorare le vicende pubbliche più controverse e di evitare qualunque riferimento al destino del suo predecessore Severino Boezio. Ciò favorisce l’atteggiamento malevolo di importanti studiosi come Mommsen, che trasmette il ritratto di un personaggio negativo, connotato da doppiezza e inaffidabilità, per giunta nascoste dietro un’inutile verbosità retorica4. A sostegno del suo atteggiamento adulatorio è richiamata poi la Historia Gothorum, redatta su espressa richiesta di Teoderico, con l’intento di ricostruire l’originaria nobiltà dei Goti e di presentarli come i diretti continuatori del popolo romano. Ora, per quanto si possa presumere che Cassiodoro abbia ricostruito la propria azione politica sotto la migliore luce possibile, dal suo lavoro si possono, però, enucleare alcune direttrici di fondo, in forza delle quali rivedere in maniera più equilibrata anche la sua posizione politica, per comprendere come sia il frutto di una precisa visione “filosofica”, che confluisce, con differente metodologia, nello sviluppo della successiva dimensione spirituale. Il programma strettamente politico è tracciato già nella lettera del 508 con cui si aprono le Variae e si può riassumere nella necessità di ottenere una pace stabile, nel riconoscimento di un primato del re Goto rispetto agli altri regni, nel ridimensionamento del potere di Bisanzio in Occidente e nella conseguente apertura ad una opportunità di allargamento del dominio ostrogoto. La realizzazione di questi obiettivi non è perseguita, quindi, attraverso lo strumento bellico, ma per via diplomatica e grazie ad un ben individuato piano culturale, che traspare in modo chiaro tra le righe delle proverbiali digressioni che puntellano i documenti cassiodorei5. Per ottenere il risultato sperato occorre, perciò, tradurre in concreto la linea di continuità tra mondo romano e gotico teorizzata sul piano storico. E il modo migliore non può essere che quello di consolidare la struttura del nuovo Regno sulle radici solide dell’Impero e, quindi, di rivestire di forma la forza del potere: “la custodia della civilitas è l’orizzonte in cui si deve dispiegare l’azione politica del regno goto”6. Il Regno dei Goti si propone, così, come una riproduzione del modello imperiale, sicché la conservazione e acquisizione dei tratti peculiari della civiltà romana consentono l’integrazione tra i popoli e la convivenza tra le religioni7. In questo processo il ruolo centrale è rivestito dall’applicazione del diritto romano, che propone uno schema di composizione delle liti basato sulla prudentia iuris (Romanorum), che diventa, in tal modo, il fondamento della iustitia Gothorum, incentrata sulla virtù della moderazione. I progetti politici finiscono, quindi, per rivelare come nella mente di Cassiodoro sia ben impresso il bisogno di non disperdere le tracce del passato, senza rinunciare alle potenzialità dell’innovazione, principalmente nella prospettiva di perseguire la relazione dialettica tra le diversità, etnica, religiosa e culturale, per recuperare quanto vi è in comune tra esse e procedere ad un rinnovamento dell’ordinamento della convivenza. In questa ottica le due vite di Cassiodoro appaiono meno distanti di quanto si è abitualmente tramandato. Certo, all’esteriorità della politica si sostituisce l’interiorità della religione e le norme giuridiche lasciano posto alle regole monastiche, ma lo spirito che aleggia intorno alle vasche naturali ricche di pesci non distanti dal fiume Pellena rimane quello di un vero rinnovatore, ma saldamente ancorato alla cultura antica. L’opera di mediazione svolta prima per il mantenimento degli equilibri politici si riproduce dopo nel lavoro di conciliazione tra il patrimonio della classicità e le opere della cristianità. L’emblema più significativo è costituito dai due libri delle Institutiones divinarum et saecularium litterarum: il primo con una trattazione approfondita dei più importanti temi sacri e un’analisi dei principali testi biblici, degli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori greci e latini presenti nella biblioteca vivariense, ed un secondo dedicato alle arti liberali, composte, secondo l’indicazione di Boezio, nel trivio, grammatica, retorica, dialettica, e nel quadrivio, aritmetica, musica, geometria e astronomia. Quest’opera costituisce, in realtà, una sorta di programma di recupero, conservazione e trasmissione tanto della letteratura teologica quanto di quella pagana, con la specifica volontà di superare il dualismo tra sacro e profano e di attuare un’autentica integrazione culturale tra antichità e cristianità8. Tale progetto oltrepassa il piano teorico per sedimentarsi nel vivo della pratica del monastero, dove alla preghiera e alla meditazione si accompagna l’importante opera di trascrizione e copiatura dei codici, con particolare attenzione al rispetto delle regole ortografiche e grammaticali, codificate dallo stesso Cassiodoro nell’ultimo scritto, De orthographia9, necessario per riprodurre, con le correzioni e gli emendamenti dovuti, le edizioni originali ed evitare, così, errori concettuali e scorrette interpretazioni. Ma la commistione delle culture è effettuata dallo studioso di Squillace anche attraverso l’unico testo filosofico pervenuto, il De anima. Lo scopo perseguito è certamente di tipo teologico, ma l’approccio utilizzato è più propriamente classico. Il punto di partenza è costituito, infatti, dall’insegnamento socratico del gnóti seautòn, conosci te stesso, ripreso dal frontone del tempio di Apollo a Delfi, ma che, con significati diversi, compare nell’Iliade di Omero10 ed è ripreso da Eschilo nel Prometeo incatenato11. In Socrate acquista un

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I DIRITTI UMANI TRA NATURA E CULTURA, TRA NORMATIVITÀ E GIURIDICITÀ

di Antonio Baudi – È un dato di fatto che nella persona umana, in quanto soggetto giuridico, convergano situazioni giuridiche di vario tipo ed è anche incontestato che si compenetrino in essa una serie di diritti detti per l’appunto della personalità o, in senso generale, diritti umani. Tali diritti sono nel loro insieme i diritti fondamentali dell’essere umano, come tali dovrebbero essere riconosciuti ad ogni persona per il solo fatto di appartenere al genere umano senza distinzione alcuna e senza alcuna necessità di evidenza esterna. Tale enunciato d’esordio, nella sua ineccepibile evidenza, lascia trasparire la sottostante problematica, perché, nel momento in cui si sottolinea la connaturalità di tali diritti con la persona umana, quale che essa sia, purché vivente, se ne invoca il dovere di riconoscimento, come se tale dovere fosse da conseguire e quindi come se sussistesse uno scarto tra essere e dover essere, tra fatto e valore. Il rilievo esplicita questione di fondo: quale sia la reale genesi e natura di tali diritti che si assumono inerenti all’essere umano.    La persona umana, come essere vivente, esiste in fatto dalla nascita fino alla morte, ma, elevandosi dal mero stato fattuale dell’esistere, si erge al di sopra della (mera) sopravvivenza organica e si immerge contestualmente nel piano dei valori con portata basilare, quale centro unitario di molteplici interessi, unitarietà concentrata nell’appellativo della dignità, valore di portata fondamentale ed ormai celebrato ed esaltato a livello planetario ed oggetto di sterminata recente letteratura. La dignità possiede un plusvalore, in quanto è il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il costituzionalismo contemporaneo. La dignità si coniuga con il rispetto dovuto all’essere umano per cui, più che una dote, si identifica con la persona stessa nella sua concretezza: un individuo che sia privato della sua dignità soffre della negazione della sua stessa umanità. Questa affermazione ha come conseguenza logica e giuridica che la dignità, in quanto presupposto assiologico dei diritti fondamentali, ha valenza prioritaria rispetto alla stessa sovranità popolare ed al relativo ordine politico.  Si discute in dottrina se la categoria dei diritti della personalità sia unica (teoria monista) per cui esiste un solo diritto declinato nei suoi contenuti, oppure se sia plurima, (teoria atomistica) come di solito viene esposta e studiata, ma, quale che sia l’impostazione privilegiata, resta comunque il fondamento unitario di tutela, mediante il ricorso ad azione inibitoria o risarcitoria. Tali diritti, inerendo alla persona umana, sono inviolabili, assoluti, essenziali e necessari, indisponibili, intrasmissibili, imprescrittibili, nella loro essenza immateriali e non economici, fatto salvo il risarcimento del danno (morale) in caso di violazione. Usualmente i diritti umani sono classificati in diritti civili, politici e sociali. I diritti civili sono quelli che attengono alla personalità dell’individuo, quale la libertà di pensiero, la libertà personale, di riunione, di religione ed ancora la libertà economica. Invero, nella sfera di questi, all’individuo è garantita un ambito di arbitrio, purché il suo agire non violi i diritti civili degli altri soggetti. Per tal ragione, i diritti civili obbligano gli Stati a un atteggiamento di astensione. I diritti politici sono, invece, quelli che attengono alla formazione dello Stato democratico e comportano una libertà attiva, ossia una partecipazione dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato: tali sono, ad esempio, la libertà di associazione in partiti e i diritti elettorali. Infine, vi sono i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute, ossia i diritti derivanti dalla maturazione di esigenze nuove e nate relativamente allo sviluppo della moderna società industriale. Questi diritti, invece, implicano un comportamento attivo da parte dello Stato, il quale deve garantire ai cittadini una situazione di concretezza e certezza nella tutela degli stessi e nel riconoscimento delle relative garanzie. Nell’ambito del nostro ordinamento tali diritti hanno fondamento normativo e, nello specifico, rilievo costituzionale, comunque sostenuti anche implicitamente da principi. Tanto premesso il quesito di ordine generale che si è posto concerne la loro matrice, problema che coinvolge la stessa qualificazione di essi come diritti. La prima diffusa impostazione di pensiero è che si tratti di diritti naturali. In proposito è nota la tesi giusnaturalistica la quale ritiene che i diritti umani siano diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo e preesistenti ad ogni altra organizzazione sociale, ivi compreso lo Stato, la cui potestà sovrana è naturalmente limitata al punto che lo Stato può e deve unicamente riconoscerli. Si tratta pertanto di diritti esistenti in fatto. La tesi in questione coinvolge il concetto di natura, termine di non univoco significato. In senso generale e totalitario per i materialisti natura ricomprende l’intera realtà, quella dei corpi, sia dei non viventi come dei viventi. Nel senso più ristretto, come per gli spiritualisti, natura coincide con la sola realtà materiale, l’insieme di corpi.   Più diffusa e condivisa è la concezione intermedia: natura non è il tutto reale perché vi si oppone la sfera della cultura. Ed allora si intende per natura non solo il mondo esterno e materiale, l’insieme delle cose esistenti nello spazio e nel tempo, cose che esisterebbero comunque, anche se l’uomo non ci fosse e non ci fosse mai stato, ma anche gli organismi intesi come prodotti naturali, escludendosi, nell’ambito di tutto ciò che esiste, ogni produzione riconducibile all’intervento umano nel reale. La natura, intesa come mondo esterno e materiale, è energia che si spiega nello spazio e nel tempo, anche se ciò che la caratterizza è piuttosto lo spazio che il tempo, dimensione che meglio risalta nella vita interiore della coscienza umana. La più tipica categoria dello spazio è il corpo, stato energetico definibile in modo intuitivo come sostanza, ciò che nel suo interno essenziale (sub) non cambia (stat) anche se può subire modifiche, ma di superficie. Corpi strettamente fisici sono per esempio, una pietra, un cucchiaio, un vaso di cristallo, un blocco di marmo, un tavolo. Questi sono non solo corpi ma, come si suol dire, corpi solidi ove rilevanti forze interne di coesione molecolare ne rafforzano la compattezza. Valorizzando nella realtà esterna la dimensione temporale subentra il dinamismo degli eventi: se i fenomeni spaziali

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UN ARTIGIANO DI GIUSTIZIA: L’EREDITÀ DI PAPA FRANCESCO E IL RUOLO DELL’AVVOCATO

Aldo Truncè* –   Con la scomparsa di Papa Francesco il mondo perde una voce potente e compassionevole, un faro di speranza ed un instancabile difensore della sacralità della persona. Papa Francesco, con la sua inconfondibile empatia, ha sempre guardato alla nostra professione con occhi di comprensione e rispetto, ricordandoci che l’avvocato non è un mero tecnico della legge, ma un artigiano di giustizia, un volto umano di un sistema che, talvolta, rischia di apparire distante e inaccessibile. “Siate difensori dei diritti, specialmente di chi non ha voce”, ci ha esortato il Pontefice.  Un appello che, per noi avvocati penalisti, assume una risonanza particolare.  Siamo sovente investiti della difesa di individui relegati ai confini del tessuto sociale, soggetti stigmatizzati come reietti, che spesso, animati da intrinseca fragilità, pusillanimità e talora da disperazione abissale, compiono scelte aberranti. La nostra missione non si esaurisce nella ricerca della migliore difesa tecnica, ma si dispiega nella tutela indefettibile della dignità intrinseca della persona e nella riaffermazione dell’essenza umana di chi è al centro del processo, o di chi sta già scontando la sua pena. Chi è in cella, isolato dalla società, conduce la sua vita come se fosse ai margini del mondo. Conosciamo bene la realtà del carcere, i volti segnati dalla sofferenza, le storie di umanità ferita. Le esortazioni di Papa Francesco, reiterate e vibranti, che ci hanno incessantemente richiamato all’impegno di schierarci al fianco degli ultimi, degli emarginati, di coloro che la società tende a relegare ai confini, si traducono per noi, avvocati, in un mandato deontologico irrinunciabile. Questo mandato diventa azione quotidiana, una prassi che affronta fragilità, disperazioni silenziose ed ingiustizie striscianti. Il monito del Pontefice “nessuno deve essere abbandonato‘ non è per noi un’astrazione teologica, ma una bussola etica che orienta ogni nostra scelta, ogni nostra strategia difensiva. Esso ci impone di non distogliere lo sguardo dalle periferie esistenziali, di non ignorare le grida di aiuto che si levano dalle celle sovraffollate, dalle aule di tribunale in cui si consumano drammi umani, dalle strade in cui vagano gli esclusi. “Stare dalla parte degli ultimi”, significa per noi, avvocati, essere capaci di ascoltare, comprendere, accogliere. Significa non limitarci alla mera apologia dei nostri assistiti che portiamo avanti quotidianamente nei Tribunali, ma impegnarci in un’opera di ricostruzione della dignità, di riaffermazione della centralità della persona, di riabilitazione sociale. Significa, in ultima analisi, restituire voce a chi non ne ha, speranza a chi l’ha perduta, umanità a chi è stato spogliato di essa. La sua voce si è levata contro l’abuso di potere e la mercificazione della giustizia, ricordandoci che il nostro compito è servire la verità e non gli interessi di parte, stando ben attenti a non piegarci a logiche economiche e del profitto, nell’esercizio della nostra professione. La sua profonda sensibilità per i detenuti ha segnato un’epoca, imprimendo un’impronta indelebile nella coscienza collettiva. “Nessuna cella è tanto isolata da escludere il Signore“, ha affermato Papa Francesco, ricordando con forza che l’inviolabilità della persona, intesa nella sua integralità di corpo e spirito, non può essere calpestata, neanche dietro le sbarre. Quest’affermazione, lungi dall’essere una mera consolazione spirituale, si traduce in un imperativo etico e giuridico: riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere umano, anche di chi ha commesso errori gravi. La sua condanna della pena come strumento di tortura, e la sua definizione dell’ergastolo come “pena di morte nascosta” che annienta la speranza, rivelano una profonda comprensione della dimensione umana del dolore e della sofferenza. In questo contesto, il gesto simbolico della lavanda dei piedi, compiuto ogni Giovedì Santo – ma non, con suo sommo dispiacere, nell’ultima ricorrenza pasquale – assume una rilevanza straordinaria. Questo rito, che rievoca l’atto di umiltà e servizio compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli, trascende la mera dimensione liturgica, per assumere una carica simbolica profonda, soprattutto in ambito penitenziale. La lavanda dei piedi rappresenta un atto di purificazione, di accoglienza, di riconoscimento della fragilità umana e di volontà di redenzione. Nel contesto carcerario, questo gesto assume una valenza ancora più intensa: lavare i piedi dei detenuti significa abbattere le barriere dell’isolamento e della stigmatizzazione, prostrarsi, inchinarsi e genuflettersi a loro, con un simbolismo potentissimo di riscatto. Papa Francesco, con la sua profonda sensibilità, ha saputo cogliere l’energia metaforica di questo gesto, traducendolo in un messaggio di speranza e di misericordia per i reclusi, in armonia con il gesto concreto del lascito di tutti i suoi averi in favore dei detenuti. La sua voce continuerà a risuonare nelle celle e nelle aule di tribunale, ricordandoci che la giustizia, per essere veramente tale, deve essere sempre accompagnata dalla compassione. Sull’eco di queste parole, noi artigiani di giustizia, continueremo il nostro cammino, perché anche nell’ombra più fitta ogni essere umano custodisce la scintilla di una possibile rinascita. *Presidente della Camera Penale di Crotone

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L’ALGORITMO BUONO

di Roberto Staro* – Il 14 giugno 2024, per la prima volta, un Pontefice ha partecipato ad un summit mondiale, il G7 svoltosi in Puglia sotto la Presidenza italiana, ed ha concentrato la sua attenzione sull’intelligenza artificiale sottoponendo alla platea degli Stati partecipanti spunti di riflessione di sicuro interesse. Invero, già negli anni precedenti la Santa Sede aveva dimostrato una particolare attenzione verso questa “nuova frontiera” ed ha sollecitato, mediante la Pontificia Accademia per la Vita, una profonda analisi del fenomeno, delle sue implicazioni pratiche ma anche morali, del necessario confronto tra fede e scienza. Al di là della sensibilità religiosa di ciascuno, non v’è dubbio che le parole del Santo Padre siano state pertinenti perché rivolte a difesa dell’uomo, inteso come essere umano che deve intendersi comunque epicentro di qualsivoglia innovazione tecnologica, nei cui confronti lo strumento dell’intelligenza artificiale non può – e non deve – limitarne la capacità di scelta, di evoluzione e di controllo. Il presente articolo si propone, seguendone le tracce, di completare il lavoro già presentato su questa rivista(1) e di affiancare alle domande emerse in quella sede quella, forse di più difficile soluzione, avente ad oggetto la delimitazione del confine tra gli orizzonti di sviluppo dell’intelligenza artificiale e l’etica. In questa ricerca, per fortuna, non sarò da solo, bensì farò richiamo alle parole ed agli argomenti rivolti dal Pontefice alla platea mondiale(2) ed alla ispirazione che sarò capace di trarne.   L’IA, “strumento affascinante e tremendo” I due aggettivi usati per descrivere l’intelligenza artificiale accompagnano il sostantivo “strumento”, ed è attorno a questa parola che Papa Francesco ha costruito il suo intervento. Sottolineare la dimensione strumentale delle intelligenze artificiali (plurale usato tanto nel messaggio per la LVIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali quanto nel messaggio per la LVII Giornata mondiale della pace), è la modalità che ha permesso al Santo Padre di sottolineare la dimensione umanistica della tecnologia. Questa premessa potrebbe apparire scontata ma, all’interno di una rivoluzione tecnologica così penetrante al punto da essere capace di stravolgere il concetto delle fonti del sapere (ad esempio attraverso l’affinamento della c.d. “IA generativa”), assume il valore di un assioma irrinunciabile. Secondo le parole del Santo Padre “si potrebbe partire dalla constatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno <strumento>. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego”. L’IA allora non è nient’altro che uno strumento, al pari di qualsivoglia utensile, ed appartiene alla storia evolutiva dell’uomo. Ma, allo stesso tempo, è ciò che più ci differenzia dal mondo animale. E che, inoltre, ci rapporta con l’ambiente nel quale viviamo, tanto che “non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti”. Una riflessione sulla tecnologia non è quindi tesa a restringere le maglie dello sviluppo e della scoperta scientifica ma, al contrario, è la dimostrazione della centralità dell’individuo nel creato e della sua responsabilità a sfruttare bene (o per il bene) la capacità di incidere nell’ambiente che lo circonda. “Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica” Lo sviluppo tecnologico non ci deve far paura; la volontà di evolversi è intrinseca all’uomo perché “siamo esseri sbilanciati verso il fuori di noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. […] da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità”. Il messaggio è che la tecnologia, tutta la tecnologia, è legata alla natura proprio dell’uomo, al suo essere proiettato verso l’altro, verso un’alterità. La tecnologia non solo dunque non è neutra, ma è sempre un’espressione della natura relazionale dell’uomo, un’espressione di bellezza perché manifesta la capacità e il desiderio dell’uomo di “essere per”, di proiettarsi verso l’altro. La tecnologia, quindi, non è dannosa in quanto, mutuando un concetto già espresso da molto tempo dal Santo Padre(3), abbia in sé, per sua natura, un seme di bellezza e di apertura al trascendente che deve essere colto e valorizzato. E ciò può essere fatto soltanto dall’uomo e per l’uomo. Lo scienziato o l’esploratore sono sempre condotti da un desiderio di scoperta che migliori la condizione dell’uomo, che ne allarghi gli orizzonti, che tenda all’infinito. In qualunque campo o settore della ricerca il fine ultimo è costituito dal superamento del limite. La domanda, pertanto, non è nel distinguere una tecnologia buona da una cattiva, bensì nel circoscriverne il suo utilizzo per il bene o per il male.   La differenza tra scelta e decisione L’elemento nuovo dell’IA è costituito dal fatto che, a differenza di qualunque tecnologia precedente, può essere in grado di compiere una scelta in autonomia, ossia di valutare (rectius, di selezionare) all’interno di un dedalo pressoché sconfinato di dati quali siano quelli da valorizzare per rispondere compiutamente alla domanda che gli viene posta. È la c.d. logica dell’algoritmo il quale, tuttavia, massimizza la capacità della mente umana di analizzare e sintetizzare tutti i dati universalmente raccolti per fornire un risultato che, in termini statistici, sia il più preciso possibile. Il tema relativo ai rischi ed alle opportunità di un tale meccanismo sono stati già trattati nel mio precedente lavoro, per cui evito di ripetermi. Il discorso del Santo Padre propone, tuttavia, un’ulteriore fianco di approfondimento; la questione, infatti, non è sulla capacità dell’intelligenza artificiale di setacciare l’intero arcobaleno dei dati (di cui essa è stata fornita) per estrarne quello più pertinente alla nostra domanda, sulla base delle specifiche che abbiamo impostato. Il problema risiede, invece, nella necessità di confrontarsi con la prospettiva che l’intelligenza artificiale possa, in luogo di estrapolare una risposta, generarla ex novo. “[…] l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con queste modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato”. Su questo piano molto scivoloso si incontrano, da un lato, la volontà e la capacità dell’uomo di

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«GLI AVVOCATI E LA LIBERTÀ» L’OMAGGIO DI CALAMANDREI ALLA PROFESSIONE

di Piero Calamandrei* – “Gli avvocati e la libertà. I meno rassegnati e i meno proni alle follie del ventennio”. (L’editoriale che Calamandrei scrisse, poco prima della caduta del fascismo, sul Corriere della Sera – 25 AGOSTO 1943) «Di tutti gli Ordini professionali, quello che più ha sofferto nel profondo l’oltraggio di questa goffa e umiliante tirannia durata vent’anni è stato il nostro, l’Ordine degli avvocati: perché noi, a differenza di tante altre professioni, non abbiamo mai trovato nel nostro quotidiano lavoro il pretesto per distrarci dalla realtà politica che ci attorniava e per rasserenarsi in altri cieli ( quante volte abbiamo invidiato il letterato che anche in tempi di oppressione può passare le giornate a conversare col suo Ariosto, o l’astronomo che viaggia tra le costellazione dove non comandano i gerarchi di questo mondo!) ma abbiamo incontrato ogni giorno, anzi dieci volte al giorno, nel maneggio delle leggi che costituisce la nostra quotidiana fatica, la conferma esasperante della nostra vergogna, il “memento” implacabile, scaturente da ogni atto del nostro ministero, dell’avvilimento in cui eravamo caduti. Noi soli, insieme con la magistratura, abbiamo vissuto questo tormento delle leggi che si sbriciolavano come cartapesta tarlata tra le mani di chi voleva servirsene: e se qualcuno ha potuto sorridere della scherzosa formula con cui il fascismo fu definito come un “regime rigidamente autoritario temperato da una autoritaria indisciplina”, questa frase sapeva d’amaro per noi avvocati, ai quali la giornaliera esperienza insegnava che se il rigido autoritarismo aveva abolito la libertà, la totalitaria indisciplina aveva posto al luogo di esso l’arbitro individuale e la corruzione ufficialmente tollerata, e la triste beffa delle leggi illusorie, alle quali non credeva neanche il legislatore. Proprio per questa particolare sensibilità professionale con cui gli avvocati sono pronti a reagire contro l’ingiustizia e a considerare la ribellione alla legalità come il più elementare dei loro doveri, essi sono stati in questo ventennio, nella grande loro maggioranza, i meno rassegnati e i meno proni. L’esercizio dell’avvocatura in tempi di servitù e di illegalismo, richiede spesso, anche se chi sta fuori non se ne accorge, una resistenza che in certi casi può arrivare l’eroico. Chi ha considerato l’avvocatura come un’arte di giuochi dialettici, come un torneo di quella vuota retorica pacchiana, di cui in questi due decenni gli esempi più memorabili non sono venuti dagli avvocati, non deve dimenticare che specialmente negli anni immediatamente seguenti all’avvento del “regime”, l’esercizio del patrocinio forense è stato un duro tirocinio di coraggio civile e di abnegazione spinta talvolta fino al sacrificio della vita. Assommano a centinaia i processi penali in cui gli avvocati sapevano in anticipo che, se avessero parlato in difesa delle libertà, all’uscita dall’aula avrebbero trovato i bastonatori comandati, pronti a sfogarsi in dieci contro il difensore inerme: eppure quegli avvocati parlarono come dettava la loro coscienza, senza tremar per le minacce, e sfidarono le percosse e pagarono col loro sangue. E non si deve dimenticare il fenomeno, ignoto a tutte le altre professioni, delle sistematiche devastazioni degli studi legali: ci fu un periodo in cui, in tutte le città italiane, venne di moda tra i condottieri di spedizioni punitive, dar l’assalto agli studi degli avvocati e incendiarli; e i casi furono così numerosi che si potrebbe fare un lungo albo d’onore di legali, tutti scelti tra i più probi e valorosi, che, dopo aver visto distrutti dalle fiamme i loro archivi e la loro biblioteca, dovettero andarsene in esilio a ricominciare in povertà il loro lavoro. I saccheggiatori credevano in questo modo di bruciare per sempre la libertà e la giustizia: e non si accorgevano, sciagurati, che riuscivano soltanto a ridurre in cenere un mucchio di carte stracce! E non minore è stata l’abnegazione degli avvocati che in tempi più recenti, hanno esercitato, incuranti dei sospetti e dello spionaggio, il patrocinio dinanzi al Tribunale speciale sfidando, l’odio di qualche inquisitore ( il cui nome sarà trasmesso ai posteri) che li guardava dal suo banco con cupidi occhi di aguzzino. A un difensore che io conosco, uno di questi cosiddetti giudici non poté trattenersi dal ringhiare un giorno: “Avvocato quando potrò vedere anche voi dentro quella gabbia?”. E infatti, prima di essere travolto con tutto il sinistro suo consesso, gli riuscì di trascinarvelo. E’ naturale dunque che su questa professione, la quale per tradizione e per vocazione è stata sempre più fermamente di ogni altra attaccata alla libertà, si sia cercato in questo ventennio di avvolgere bavagli sempre più stretti per asservirla: il potere disciplinare trasformato in spionaggio di eterodossia politica: la iscrizione al “partito” imposta ai nuovi   professionisti come condizione di esercizio professionale; e sopra tutto la ingerenza governativa penetrata nelle tradizionale autonomia dell’Ordine attraverso i “direttori” dei sindacati forensi, che anziché liberamente eletti dalla maggioranza con votazioni fatte sul serio, erano imposti dall’alto e approvati sempre “per acclamazione”. Il risultato di siffatta scelta dall’alto è stato questo: che a far parte degli organi disciplinari dei sindacati forensi, specialmente di quelli alla periferia, sono stati assai spesso chiamati anziché i professionisti più stimati per la loro proprietà e per la loro dottrina, i piccoli avventurieri della professione che facevano della intimidazione politica a uno specchietto per attirare i clienti. Proprio in questa mancanza e in questa conseguente degenerazione degli organi disciplinari, incapaci di colpire con energia il malcostume ovunque affiorasse, si deve forse ricercare la principale causa di un curioso fenomeno, dilagato in questi venti anni, che si potrebbe chiamare “il nepotismo professionale”. Lo storico che tra qualche decennio volesse prendersi il gusto di scorrere i ruoli delle cause discusse dinanzi alla Corte di Cassazione, dai quali appaiono anche i nomi dei difensori, si accorgerebbe con sorpresa che mentre il nome di certi difensori vi ricorreva con ritmo costante, che indicava l’estimazione da essi raggiunta e meritatamente mantenuta nei decenni, ogni tanto scappavano fuori all’improvviso come meteore per star sull’orizzonte un anno due e poi subito spegnersi, nomi di avvocati fino a ieri ignoti, intorno ai quali sembrava che da un giorno all’altro i clienti avessero fatto ressa

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UN PRINCIPIO DISABITATO: L’UMANITÀ DELLE PENE

di Vittorio Manes* –  I costituenti non avrebbero potuto essere più chiari: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, recita senza indugi la prima parte dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, a cui fa eco l’art. 3 della CEDU, vietando perentoriamente, oltre la tortura, tutte le “pene o i trattamenti inumani e degradanti”. Ma questo basilare canone di civiltà – scolpito in molte costituzioni e carte dei diritti nel panorama internazionale – è molto più risalente, ed è parte dei presupposti stessi del legittimo esercizio della potestà punitiva, ossia dei minima moralia – per così dire – che il Leviatano deve sempre rispettare: regola di esclusione, dunque, ed al contempo condizione di legittimazione dello ius puniendi. Nel suo nucleo assiologico, esso ci ricorda che la pena non può mai essere barbarie, che lo Stato non deve mai abbassarsi al livello del crimine, anche dell’autore del reato più efferato, spregevole e odioso: ed anzi, ammonisce che, in una democrazia matura, il potere deve sempre avere il coraggio di combattere persino la criminalità più spietata – come scrisse il presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak – con una mano legata dietro la schiena. Anche e soprattutto durante la fase esecutiva della pena, quando il reo è consegnato nelle mani dello stato, ed è privato delle sue libertà più intime e primordiali: ma non per ciò può essere privato di quel valore che non si acquista per meriti né può perdersi per demeriti, la dignità umana, appunto. È questa soglia insuperabile, che vieta di rispondere alla brutalità con la brutalità, alla violenza con la violenza, alla crudeltà con crudeltà, che separa, del resto, “pena” e “vendetta”. E che incarna l’essenza stessa dello stato di diritto, dove il potere assoggetta se stesso alla preeminenza del diritto. È appena il caso di rammentare quante e quanto significative siano le implicazioni di questo fondamentale limite al potere di punire, rappresentando un argine insuperabile – ad esempio – contro pene corporali come contro la pena detentiva perpetua, dove il divieto di trattamenti inumani è posto in corrispondenza biunivoca con il diritto alla speranza (right to hope), rendendo ammissibile l’ergastolo solo se de iure e de facto “riducibile” con la liberazione condizionale; ed offrendo anche fondamentali indicazioni di senso in ordine ai “parametri minimi di umanità” che devono essere rispettati nella fase di esecuzione della pena detentiva (in termini di spazio vitale in cella, di salubrità dell’ambiente, di contatti affettivi, etc.), conformemente a quanto del resto stabilisce l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975), secondo il quale “[i]l trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Sennonché, a dispetto del suo lignaggio e della sua portata “grandangolare”, a noi pare che questo principio sia rimasto in ombra, e per molti aspetti sia stato dimenticato: peggio, forse, che sia dato quasi per scontato. Anche dalla Corte costituzionale, e dalla sua giurisprudenza, dove la finalità rieducativa ha via via guadagnato sempre maggior spazio, mentre il principio di umanità della pena – fondamento e limite della pena pubblica – fatica a trovare una compiuta valorizzazione. Ne è prova la stessa, coraggiosa sentenza sulla c.d. affettività in carcere, la sentenza n. 10 del 2024, che non ha nemmeno considerato questo parametro (pur evocato dal giudice rimettente). Olimpica indifferenza ovvero ossequio formale nei confronti di una livrea che si ritiene troppo altisonante per essere scomodata? Eppure dovremmo chiederci se questo principio, così carico di possibili eccedenze assiologiche e di potenziali ricadute ermeneutiche, sia oggi davvero rispettato. L’attuale situazione delle carceri ed un tasso di sovraffollamento tornato a livelli intollerabili, con il crescente ed assillante numero dei suicidi, sono lì a ricordarci, dolenti, la distanza siderale da ogni canone di umanità.  E le condizioni nei centri di permanenza per i rimpatri sono testimonianze non meno dolorose. Una analoga distanza, del resto, è segnata dalla tolleranza ormai diffusa per le misure perennemente emergenziali che accompagnano il c.d. carcere duro, spesso al prezzo di una “desertificazione affettiva” che considera, di fatto, il detenuto come un “microbo sociale”; o dalla triste assuefazione collettiva per pene infamanti, afflittive non solo dell’immagine ma della stessa dignità della persona, come la spettacolarizzazione mediatica della condanna prima del processo. Dobbiamo prendere atto, in realtà, di una distanza non solo dai principi, ma dalla cultura che li cementa: il lessico della politica, del resto, evoca ormai quotidianamente il carcere come luogo di marcescenza, piuttosto che come luogo di recupero del reo, e ciclicamente invoca – di fronte alle più crude vicende di violenza di genere – trattamenti contrari al senso di umanità, come la sterilizzazione farmacologica di funzioni biologiche essenziali o la c.d. “castrazione chimica”. Serve, dunque, una rinnovata consapevolezza, giuridica e prima ancora culturale, forse proprio partendo dal lessico delle garanzie e dei diritti: dove il principio di umanità ambisca ad essere concepito e riconosciuto come diritto fondamentale ad una pena umana. Non si tratta, è chiaro, di una palingenesi puramente estetica o didascalica. A questo diritto dovrebbe infatti corrispondere un obbligo positivo di tutela da parte dello Stato: obbligo giuridicamente vincolante per il suo primo e principale garante ed immediatamente giustiziabile davanti alle corti, di fronte alle sue conclamate violazioni. Con gli avvocati che dovranno essere lì, pronti a sorvegliarlo e a denunciarne le ferite. (Editoriale di Ante Litteram n. 2 – settembre 2024)   *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna – Direttore di “Diritto di difesa”

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