Oltre la norma

LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

di Vincenzo Comi* Prima che lo tsunami dell’intelligenza artificiale travolga la nostra professione è doveroso affrontare l’argomento esaminando sinteticamente le regole esistenti e le prospettive di interpretazione. Non è retorica, ma ne va della sopravvivenza del nostro ceto e la deontologia rappresenta la chiave necessaria per affacciarci a questa nuova frontiera. Siamo in una fase di grande e veloce sviluppo dell’intelligenza artificiale. Proprio in questi momenti è necessario riflettere e immaginare il futuro per assicurare un utilizzo responsabile e deontologicamente corretto di questi nuovi e sconosciuti strumenti nella nostra professione forense. Il presupposto indispensabile di un uso responsabile è la conoscenza e in particolare della tecnologia posta a fondamento del sistema utilizzato, le criticità che derivano dall’apprendimento automatico in assenza di interpretazione, il rischio del linguaggio e dei contenuti massivi che possono prestare il fianco a letture fuori dal contesto reale o disallineate rispetto al presupposto fattuale del ragionamento giuridico. Il rispetto della normativa vigente a livello nazionale ed europeo in tema di intelligenza artificiale è un altro presupposto necessario per un comportamento eticamente corretto dell’avvocato oltre che la verifica della compatibilità dell’offerta del servizio di fornitura del servizio con gli standard deontologici. Il nostro codice deontologico vigente non contiene alcun riferimento all’intelligenza artificiale, ma già nelle istituzioni forensi europee inizia a intravedersi una certa attenzione. Abbiamo, infatti, le indicazioni della Federazione Europea degli Avvocati che ha pubblicato le prime linee guida della Commissione nuove tecnologie. Si tratta di prime riflessioni legate all’attuale situazione di sviluppo alla luce della diffusione della ChatGPT, attiva dal 30 novembre 2022. Dalle criticità emerse nell’uso incauto della CHAT GPT sono nate le prime discussioni che hanno portato alla elaborazione delle linee guida: queste riguardano la comprensione della tecnologia, la consapevolezza dei limiti, la normativa e l’aggiornamento, il ruolo delle competenze umane, il rispetto della deontologia e quindi del segreto professionale, la protezione dei dati personali e la comunicazione con i clienti. L’intelligenza artificiale già da qualche tempo imperversa e crea problemi nel mondo legale. Oggi l’uso di CHAT GPT è diffuso nel mercato globale dei servizi legali. C’è l’esempio della start-up americana DO NOT PAY che ha lanciato la pubblicità del Robolawyer: un milione di dollari a chi avesse accettato di farsi rappresentare in tribunale dall’avvocato robot. Il caso dello studio legale americano Levidow che ha ammesso di aver presentato un caso contenente citazioni di casi falsi che avevano ottenuto dalla chat box GPT ha fatto scoprire il fenomeno delle allucinazioni del sistema. Le linee guida rappresentano un punto di partenza per individuare le buone prassi in un fenomeno che si dovrà necessariamente governare per evitare conseguenze irreparabili nella nostra professione. Sono sette prassi chiave per “mantenere alti standard etici, salvaguardare la riservatezza dei clienti e assicurare un utilizzo consapevole e responsabile dell’intelligenza artificiale generativa e dei modelli linguistici di grandi dimensioni nel contesto legale”. La base di partenza per esaminare il rapporto dei limiti dell’intelligenza artificiale e la nostra professione è la normativa professionale vigente, che nel nostro Stato è abbastanza recente, ma non attuale rispetto all’evoluzione della professione degli ultimi anni. I principi contenuti nell’articolo 3 della legge 247 del 2012 rappresentano il fondamento delle norme di comportamento e si tratta di principi che delimitano il perimetro della liceità del comportamento dell’avvocato. La qualità dell’esercizio del diritto di difesa dell’avvocato (persona) è al centro dei doveri deontologici contenuti nel nuovo codice. L’articolo 1 offre una dimostrazione plastica di tale centralità essendo particolarmente ispirato alla difesa penale: “l’avvocato tutela in ogni sede il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio”. La tutela del diritto di difesa non è per nulla scontata ma anzi impone l’indispensabile opera dell’avvocato che ne assicuri il rispetto nell’interesse del proprio assistito e di tutti i cittadini coinvolti in un procedimento penale. Il codice deontologico affida all’avvocato l’onere di assicurare nel processo la regolarità del giudizio e il rispetto delle regole del contraddittorio. Ciò comporta per l’avvocato il dovere di possedere competenza tecnica e consapevolezza del proprio ruolo di difensore dei diritti fondamentali dei propri assistiti. In questo contesto si inserisce la deontologia in relazione all’intelligenza artificiale ed è subito chiara la rilevanza e i limiti che sono contenuti nelle raccomandazioni della Federazione degli Ordini Europei: competenza, segreto professionale, privacy prima di ogni altro. La regolarità del giudizio e del contraddittorio impone che l’avvocato si attivi attraverso l’esercizio del diritto di difesa effettiva. Pertanto, a monte c’è una deontologia della categoria prima che del singolo affinché si introduca negli ordinamenti una tecnologia compatibile con tale funzione del ceto. Questa premessa riguarda la regolamentazione e di conseguenza le condotte dei singoli avvocati per far rispettare i diritti fondamentali delle persone coinvolte nel processo. Il dovere di competenza disciplinato dall’articolo 14 è molto importante anche nella prospettiva dell’uso dell’intelligenza artificiale. Da questo scaturiscono le previsioni disciplinari dell’articolo 26 in tema di adempimento del mandato. L’accettazione di un incarico professionale presuppone la competenza a svolgerlo e costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o la nomina quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita. La competenza consiste nella conoscenza del funzionamento della tecnologia usata, e il pericolo della mancanza di interpretazione dei prodotti forniti dalle chat o da altri sistemi di intelligenza artificiale. L’avvocato non può sostituire in alcun modo il proprio intervento, la propria capacità critica e in sostanza la propria competenza. Ovviamente in alternativa verrebbe meno il profilo del dovere di competenza. La competenza e la professione forense sono una endiadi indissolubile della vita umana prima che professionale, con l’unica alternativa possibile che è l’eliminazione della figura dell’avvocato, circostanza questa inimmaginabile oltre che da rifiutare con fermezza. Già oggi la vita professionale si caratterizza per una difficile visione del futuro. I grossi studi tendono a impostare l’organizzazione con una visione manageriale nella quale a capo della law firm si pone più un imprenditore o manager piuttosto che un avvocato. In questo contesto il pericolo

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IL SISTEMA PENALE E I SUOI NEMICI

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –  L’approccio critico al sistema penale ha lo scopo di valorizzare la “ideologia della libertà, dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione che è consustanziale, “necessaria” all’esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere”[1]. Ciò significa che l’attenzione del giurista deve essere indirizzata a contrastare la deriva autoritaria e la passione punitiva dei poteri pubblici e, al contrario, a valorizzare la costruzione di un sistema di limiti e a preservare e rafforzare il complesso delle libertà e dei diritti fondamentali.  Queste finalità, semplici, ma vitali, sono state purtroppo contraddette dall’indirizzo costantemente adottato dalle istituzioni di procedere nei termini di un rafforzamento dei poteri “di polizia” e di un’accentuazione delle istanze repressive, in accordo con l’attuazione di una legislazione “emergenziale” senza fine. Una prospettiva che, con il tempo, si è posta come un connotato strutturale, quasi qualificante, dell’ordinamento giuridico, alimentato da sempre nuove, e differenti, emergenze, che ha prodotto una moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, invadendo in modo incisivo i più diversi ambiti dell’esistenza. In verità, si è assistito ad un progressivo arretramento dello Stato in tema di aiuto ed intervento in favore dei soggetti più svantaggiati e alla graduale contrazione delle politiche sociali a tutti i livelli, sicché le scelte del potere politico si sono orientate verso un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. A specifico supporto dei programmi nebulosi, spesso improvvisati, di politica criminale, ma in piena aderenza alle pretese emotive sostenute dalla collettività, il più delle volte indotte dalle grida “propagandistiche” di una classe dirigente interessata a mascherare gli autentici problemi economici e sociali dietro il velo immaginario della paura. E con la precisa volontà di precostituirsi sacche di consenso politico, affidandosi alla risposta “irrazionale” della pancia della collettività[2]. Si è prodotto, così, un autentico mutamento di paradigma, che ha maggiormente ridotto lo spazio operativo del mondo dei giuristi e della società libera finalizzato a restringere i confini di manovra della forza dello Stato[3]. E ha fatto esplodere l’idea che alla materia penalistica vada affidato un compito eminentemente repressivo, quasi espressivo di un sentimento vendicativo, capace di svolgere un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, “le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing”[4], in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Un sistema in cui “l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assunto a religione di massa”[5], sicché l’aspetto rilevante non è dato tanto dalla ricerca della verità o dalla realizzazione della giustizia, quanto dalla sacralizzazione dell’azione punitiva, che ottunde la riflessione e neutralizza i problemi sociali, che permangono, ma vengono celati tra le pieghe delle punizioni. Le forme finiscono in tal modo a prevalere sui contenuti, di modo che si soprassiede sugli effetti perversi di un sistema penale che si sostiene sull’accanimento repressivo, ma finge di ignorare le lungaggini processuali causate da un fenomeno di overload del contenzioso, e i conseguenti e(o)rrori giudiziari, che non appaiono più effetti fisiologici dell’ordinamento, ma ormai patologici, in ragione dei numeri spropositati. Senza dimenticare le questioni spinose collegate all’esecuzione penale e alle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Chiaramente, queste scelte politiche, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale, che appare sempre più dissonante rispetto alla tavola di valori cristallizzata dalla Costituzione italiana, dove sono fissati i punti fondamentali di un modello garantista di stretta legalità, in cui l’esercizio del potere punitivo è improntato ad un paradigma che ha la finalità di garantire quell’insieme di diritti propri dell’uomo indagato, imputato e eventualmente condannato nelle fasi che via via si possono susseguire. E che mira ad una riduzione delle fattispecie penali, da una parte, e ad una previsione proporzionale ed equilibrata delle pene, dall’altra, in considerazione della loro essenziale finalità rieducativa, secondo quanto disposto dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1990[6]. Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione certamente tardiva, laddove le riforme sono intervenute, mentre per altri aspetti risulta completamente assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354, il nuovo codice di procedura penale è stato varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930, che si è tentato, con scarsi risultati, di rendere costituzionalmente orientato. Inoltre, il legislatore, a partire dagli anni novanta del secolo passato, ha realizzato una legislazione complessivamente repressiva, nella quale la strettoia delle garanzie si è andata progressivamente assottigliando. Uno sguardo rapido, a titolo esemplificativo, agli ultimi interventi riformatori può essere utile per focalizzare il percorso compiuto dal legislatore italiano. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo (art. 624 bis c.p.), per la rapina (art. 628 c.p.) e per l’estorsione (art. 629 c.p.). Il dato che colpisce è che le modifiche realizzate hanno riguardato i minimi edittali delle pene, con ciò enfatizzando la furia repressiva statale e avvalorando l’idea di pubblici ministeri e giudici considerati alla stregua di “magistrati di scopo”, chiamati alla più severa determinazione delle pene in concreto. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018 convertito dalla Legge n. 132 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici”, fino ad un massimo di sei anni di reclusione. È stata, inoltre, data nuova linfa vitale al reato di mendicità, abrogato con i provvedimenti di depenalizzazione del 1999, e reintrodotto quale “esercizio molesto di accattonaggio”, art. 669 bis c.p. Analoga operazione è stata realizzata con il reato di “blocco

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