LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO
di Gian Luigi Gatta* – 1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma. Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società. Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi. 2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma vecchio come il diritto penale, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima. C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato. Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare». Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia va proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale. Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore. 3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e
LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO Leggi tutto »