Oltre la norma

ETTORE RANDAZZO, AVVOCATO E SCRITTORE

di Lucia Randazzo* – Martedì 24 giugno 2025, presso la suggestiva cornice del The Siracusa International Institute of Criminal Justice and Human Rights a Siracusa, si è tenuto un sentito evento in memoria di mio padre Ettore, difensore appassionato e scrittore raffinato, protagonista della cultura giuridica siciliana e nazionale. L’incontro è stato organizzato dal Rotary Club Monti Climiti di Siracusa, insieme all’associazione La.P.E.C.[1] e Giusto Processo “Ettore Randazzo”, con l’intento di ricordare non solo l’avvocato ma anche la sua produzione letteraria. A dare avvio all’incontro sono stati i saluti istituzionali del Segretario del The Siracusa Institute, Dott. Filippo Musca, che ha brevemente tratteggiato le principali cariche ricoperte da mio padre nel corso della sua carriera, sottolineandone il ruolo di guida morale e culturale all’interno della comunità forense e soprattutto all’interno del The Siracusa Institute (già Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) di cui è stato anche Presidente del Consiglio Regionale Scientifico. A seguire, è intervenuto il Presidente del Rotary, Dott. Aurelio Alicata, che ha ribadito l’impegno del Club nel valorizzare figure che hanno saputo coniugare l’eccellenza professionale con l’impegno sociale e umano sottolineando la sua personale ammirazione per le sue idee su carcerazione preventiva, ragionevole durata del processo e soprattutto sulla separazione delle carriere.  L’incontro, articolato e ricco di contributi, è stato condotto con competenza e sensibilità dalla giornalista Dott.ssa Laura Valvo che, dopo aver tratteggiato la carriera di mio padre con sensibilità e intensità, ha saputo guidare gli interventi con equilibrio e partecipazione, creando un clima di profondo ascolto e condivisione. Ad aprire la serie degli interventi è stata mia madre, Elisabetta Guidi, anch’ella avvocato e compagna di una vita, che ha condiviso un ricordo intenso e affettuoso, rievocando la gioia che mio padre provava nello scrivere. Elisabetta ha spiegato che il suo intento era quello di celebrare mio padre anche come scrittore. La volontà di Ettore era quella di avvicinare anche gli appartenenti al mondo non giuridico alla giustizia. Per ricordare a tutti che la Giustizia è la nostra base, ha rammentato che siamo un paese meraviglioso con una cultura giuridica antica di cui dobbiamo essere fieri. Se siamo in un paese democratico, è grazie alla Giustizia e al Giusto Processo, tanto amato da Ettore. “Un Giusto Processo che deve essere applicato secondo le regole, con un Giudice terzo e al di sopra delle parti, con un Pubblico Ministero che ricerca la verità e con un Difensore. Questo diritto meraviglioso di Difesa del cittadino. Un ruolo sociale che i media non riconoscono perché gli avvocati sono talvolta ritratti, in modo ingiusto, come “intrighini, pasticcioncelli”. No! L’avvocato è il tutore del diritto di difesa, colui che deve accompagnare chi incorre nelle maglie della giustizia ed è normale che sia giudicato secondo le regole”.  Ettore si divertiva scrivendo. Era un po’ un modo di staccare la tensione emotiva dall’intenso mestiere del Difensore. Con tono partecipe e vivace, Elisabetta ha offerto al pubblico una descrizione pittoresca del romanzo Doppio inganno[2], a lei dedicato “Ad Elisabetta con i perché di una vita”, ambientato nella magica Ortigia, dove il confine tra realtà e finzione si fa sottile e letterario incuriosendo gli intervenuti sulla trama del romanzo. “Doppio inganno è un libro particolarmente bello, non solo perché traspare un amore per la Giustizia, ma traspare un amore per Siracusa, la bella Ortigia, qui chiamata Pantalica Marina, che è idealizzata. Si parla di un isolotto, che è separato da un ponte dal resto della città, con una bellissima porta spagnola, che purtroppo è stata abbattuta. Si entra in carrozza e, chi entra, apprezza la bellezza, i silenzi, il profumo di zagara, di gelsomino. Questi vicoletti ti riportano lontano.  La storia è un giallo: si parla di una famiglia siracusana, in cui i personaggi si vogliono molto bene, con un senso forte della famiglia. C’è un peso su questa famiglia, una vicenda non risolta, che non vi dico… perché dovete leggerlo”. Ettore è riuscito a fare capire l’atmosfera che si vive a Siracusa e soprattutto l’incanto di Ortigia. Questo isolotto magico senza tempo.   Mio zio Marcello Randazzo, anche lui avvocato, ha introdotto il libro Il pieghevole dei sogni[3]: “Una storia di famiglia che è soprattutto una storia di scelte, di sogni sacrificati, di tensioni tra il dovere verso gli altri e la fedeltà a sé stessi. Attraverso le vicende di tre generazioni — il primo Enea, il figlio Ernesto, e il secondo Enea — Ettore ci racconta un conflitto universale: quello tra gli obblighi familiari e le aspirazioni più intime… E in tutto questo, ci sono altri due protagonisti che accompagnano la vita della famiglia Latomia: lo stabilimento tipografico e l’incantevole Ortigia. Lo stabilimento, posto al pian terreno del palazzo di famiglia, con le sue macchine che lavorano instancabilmente — Tu-tu tu-tum, tu-tu Tu-tum… — quasi un respiro meccanico, costante e ipnotico. Un “mostro ammaliatore”, così lo percepiscono i suoi eredi: fonte di orgoglio e di sostentamento, ma anche di vincoli, di obblighi, di rinunce. È quel battito delle macchine che scandisce i giorni e le notti di tre generazioni di Latomia, accompagnando la vita familiare come un sottofondo inevitabile, familiare, e talvolta ingombrante. E poi Ortigia: un’isola abitata sin dalla preistoria, ideale e idealizzata nelle sue strade millenarie, nei suoi profumi, nella luce limpida che si riflette sul mare, nei canti degli uccellini del mattino. Ortigia diventa nel romanzo un personaggio essa stessa, un teatro della memoria e della vita, un luogo dove passato e presente si intrecciano in modo indissolubile. In ogni vicolo, in ogni scorcio di mare, in ogni angolo di questa terra antica, il lettore può avvertire quella sottile malinconia che solo i luoghi intrisi di storia sanno trasmettere.  I temi trattati da Ettore sono temi universali che spesso tutti noi, in prima persona, o nel momento in cui sono i nostri figli a dover scegliere il proprio percorso di vita, ci troviamo ad affrontare” (…)“Ecco: nelle pieghe di questo romanzo non c’è solo la storia di una famiglia, non c’è solo una riflessione sulla giustizia.  C’è, soprattutto, l’Uomo che

ETTORE RANDAZZO, AVVOCATO E SCRITTORE Leggi tutto »

LA TENTAZIONE AUTORITARIA: COLPIRE L’AUTONOMIA E L’INDIPENDENZA DEGLI AVVOCATI

di Ezio Menzione* – Colpisce e induce a riflettere il fatto che due paesi così diversi si stiano scagliando contro l’indipendenza degli avvocati: Turchia e USA. Certo la differenza è grande: diversi i presupposti, diversi alcuni degli scopi perseguiti (mentre altri sono comuni), diversi i metodi e gli strumenti di intervento. Vediamo da vicino le due realtà, poi passiamo a confrontarle e a richiamare quanto accade anche in altri paesi ed infine traiamo alcune conclusioni per quanto riguarda l’Italia, anche alla luce di alcuni richiami storici. *   *   * Ci eravamo “abituati”, ammesso che a certe violazioni si possa fare l’abitudine, a constatare che in certi paesi gli avvocati venivano attaccati dal governo perché difendevano gli oppositori del governo stesso. È così in maniera massiccia in Turchia, ma anche nelle Filippine e in alcuni paesi dell’America Latina e altrove. Si tratta, in genere, di paesi dalle democrazie deboli perché non ancora compiute (perennemente incompiute) o in crisi (perennemente in crisi). Prendiamo il caso della Turchia. Dall’ascesa al potere di Erdogan, cioè da quando divenne primo ministro  e dunque ben prima di diventare Presidente della Repubblica e quindi della trasformazione del paese in una repubblica presidenziale, l’esecutivo da lui presieduto colpì con l’accusa di terrorismo gli avvocati che difendevano persone accusate di terrorismo e specificamente di essere terroristi del PKK, il partito curdo dei lavoratori, considerato terrorista dalla Turchia e dall’Europa e dagli USA, ma non dall’ONU: insomma nella lista nera stesa dagli USA dopo l’11 settembre 2001 e recepita dall’Europa. Gli avvocati dei terroristi venivano e vengono perseguiti secondo un paradigma molto comune in queste situazioni: non per avere compiuto atti di terrorismo, ma perché difendevano i terroristi e le accuse erano e sono appartenenza a vario titolo e con varie responsabilità ad associazione terroristica ed eversiva. Al reato associativo di solito si abbinava anche il reato (o più reati) di propaganda sovversiva e siccome il codice penale turco non prevede la continuazione fra reati, ogni singolo episodio di propaganda vale circa un anno di reclusione che, al momento della condanna, va a sommarsi al reato associativo. E la propaganda consiste in dichiarazioni rilasciate alla stampa a commento dell’andamento di un processo oppure interventi in convegni giuridici e occasioni simili. Insomma, il ben noto paradigma secondo cui il difensore deve rispondere dello stesso reato dell’accusato che sta difendendo ha cominciato a colpire in maniera massiccia dall’inizio degli anni 2000 e non accenna ad affievolirsi. Talora il target di questa vera e propria persecuzione erano e sono avvocati appartenenti o vicini ad associazioni – per esempio il CHD o lo OHD – che della difesa degli oppositori al regime avevano fatto la propria “specializzazione”, per cui difendevano anche le vittime di sciagure sul lavoro, o le vittime dei femminicidi o le vittime di sfratti di occupanti o residenti in aree destinate alla gentrificazione e così via. Ma non sempre gli avvocati perseguitati facevano parte o riferimento a strutture di difesa o a studi professionali o associazioni, molto spesso si trattava e si tratta di avvocati singoli, impegnati magari in un solo processo per terrorismo o associazione sovversiva. Lo schema descritto viene comunemente e massicciamente utilizzato anche contro i giornalisti (ed anche contro le testate, chiudendole in via amministrativa) con la differenza che mentre i giornalisti talora vengono assolti, gli avvocati assolti non lo sono stati mai: e le pene comminate non stanno nella condizionale, ma sommano a tre, cinque, dieci anni e su su fino a 13, 18, 20 e più. Avvocati e giornalisti che osano schierarsi o almeno prendere in considerazione le ragioni degli oppositori: è chiaro l’intento di colpire i singoli, ma altrettanto chiara è l’intenzione di intimidire le due categorie, dissuadendo i possibili interessati dallo schierarsi. Durante i tre anni di stato di emergenza che seguirono il tentativo di colpo di stato del luglio 2016, tramite apposito decreto, si sancì che l’avvocato sotto processo con accusa di terrorismo non potesse difendere in nessun processo della stessa natura. Da un anno, però, Erdogan ha posto in essere un nuovo schema di attacco per minare l’indipendenza degli avvocati, prendendo di mira l’autonomia della avvocatura stessa. Circa un anno fa si tennero le elezioni del nuovi consigli dell’ordine (il termine non è appropriato, sarebbe meglio bar association, dato il carattere semiprivatistico della compagine, ma uso consiglio dell’ordine o COA per farmi capire meglio) e a Istanbul, dove sono iscritti 65.000 avvocati (il più grande ordine al mondo) fu eletto un presidente, Ibrahim  Kaboglu, anziano costituzionalista, che proviene dalle fila del maggior partito di opposizione, il CHP, che nelle ultime politiche e  presidenziali – era il 2023 –  per un soffio non ebbe la maggioranza. L’intero consiglio si colloca in area d’opposizione, anche se è sempre difficile capire lo schieramento di appartenenza dei singoli consiglieri. Dopo pochi mesi dall’insediamento il consiglio uscì con un comunicato in cui, a fronte dell’uccisione con un drone turco di due giornalisti siriani che stavano per oltrepassare la frontiera Siria-Turchia, si chiedeva una indagine “accurata e imparziale”. È partita immediatamente dalla Procura di Istanbul una incriminazione contro il Presidente del COA e dieci consiglieri, per aver “attentato alla nazione” e per diffusione di notizie atte a sovvertire l’ordine pubblico”; “propaganda per un’organizzazione terroristica” e “diffusione pubblica di informazioni ingannevoli”. Reati, perlopiù,  di opinione di cui è costellato il codice penale turco. Il codice di procedura, in questi casi, prevede due ordini di procedimenti: uno civile, in cui la Procura richiede che il COA decada e l’altro in sede penale per i reati contestati. Il procedimento dinnanzi ad un giudice monocratico civile si è tenuto nel marzo scorso e con un’unica sbrigativa udienza è stata accolta la richiesta della procura. Fortunatamente la sentenza è appellabile ed è stata appellata e non è esecutiva fino alla definitività. In sede penale, dove si procede contro il Presidente e 10 consiglieri, si è già tenuta la prima udienza, ma ha subìto un rinvio a settembre prossimo perché uno dei dieci, arrestato al suo arrivo all’aeroporto da Strasburgo dove era andato

LA TENTAZIONE AUTORITARIA: COLPIRE L’AUTONOMIA E L’INDIPENDENZA DEGLI AVVOCATI Leggi tutto »

IL MUSABA: LA VISIONE DI NIK SPATARI

di Nicola Tavano* – Il MUSABA è un’isola. Il MUSABA è una macchia di colore che si fa largo in un territorio brullo. Il MUSABA ricorda da vicino il disegno utopistico della Città del Sole di Tommaso Campanella, a cui il suo (co)creatore, Nik Spatari, ha dedicato diverse opere. E il MUSABA è un luogo eccezionale, proprio come Nik Spatari. Spatari nasce a Mammola nel 1929. Sin da giovanissimo, manifesta una spiccata propensione per le arti, tanto da vincere, a soli nove anni, il suo primo premio internazionale. Ancora bambino, perde l’udito ma ciò non gli impedisce di perfezionare, da assoluto autodidatta, le sue capacità artistiche. Poco più che ventenne, comincia ad allargare i suoi orizzonti valicando i confini italiani, stabilendosi, sul finire degli anni ‘50, a Losanna. In quel periodo, conosce Hiske Maas, sua compagna di vita e artefice, insieme allo stesso Spatari, negli anni successivi, del MUseo di SAnta BArbara. Si trasferiscono a Parigi, dove Spatari frequenta e collabora con personaggi del calibro di Le Corbusier, Jean Cocteau, Max Ernst e Pablo Picasso. Nel 1966 decidono di tornare in Italia. Dapprima a Milano, dove fondano una galleria d’arte e, poco dopo, in Calabria. Dopo un breve soggiorno a Chiaravalle Centrale, dove Spatari realizza alcune opere per il convento dei Frati Minori Cappuccini, decidono di stabilirsi nel suo paese natio, Mammola, in località Santa Barbara, dove sostanzialmente Spatari è rimasto fino alla fine dei suoi giorni, continuando incessantemente a lavorare alla sua creatura. La coppia, infatti, ottiene in concessione dalla curia il complesso monastico di Santa Barbara, ormai in rovina e sommerso dai rovi. Negli anni, la loro pervicacia consente al neonato Parco museale di raggiungere le dimensioni attuali, con diverse e successive annessioni di territori limitrofi. Il loro percorso è stato, però, tutto fuorché sereno. Oltre alle comprensibili difficoltà insite nella creazione di un’impresa di tal fatta, le traversie giudiziarie che hanno dovuto superare sono state moltissime e, a tratti, inspiegabili. Il MUSABA ha dovuto subire, nel corso della sua vita, plurimi sequestri e ordini di demolizione da parte dell’autorità amministrativa e della magistratura, anche penale. Anche Nik Spatari e Hiske Maas sono stati sottoposti a misure personali coercitive in relazione ad accuse rivelatesi sempre infondate. Emblematica appare la promulgazione di una Legge regionale dei primi anni ‘90 con la quale si definiva il complesso “Santa Barbara” come “monumento bizantino”. Da qui le accuse, nei confronti della coppia, di danneggiamento del patrimonio archeologico ma anche, in un secondo momento, di truffa e corruzione che hanno comportato, a loro carico, anche quaranta giorni di arresti domiciliari. Basta dare un’occhiata a qualche foto di repertorio per accorgersi dell’inverosimiglianza delle accuse: “Santa Barbara” non era altro che un’accozzaglia di pietre che nulla, ormai, avevano di artistico o culturale. Ciononostante, il processo è andato avanti e solo a metà degli anni 2000 è arrivata l’assoluzione. Incomprensibile appare, tutt’oggi, l’ostracismo della classe dirigente a un progetto che, pur sbocciato splendidamente, avrebbe potuto assumere una dimensione certamente più ampia di quella raggiunta. Dalla prima mostra realizzata appendendo alcune tele di Spatari alle mura ancora diroccate del convento, numerosissime sono, oggi, le opere che animano il parco ed il territorio circostante, alcune delle quali visibili anche da grande distanza. Certamente la più iconica è il “sogno di Giacobbe”, da molti definito – pur con le dovute differenze – la “Cappella Sistina Calabrese”. Realizzata nel primo lustro degli anni ‘90, la tecnica pittorica è singolare, forse unica nel suo genere. Sagome di legno dipinte e appese, attaccate sulla volta e sull’abside della Chiesa interamente ristrutturata (o, meglio, ricostruita) per volontà dello Spatari. L’effetto, enfatizzato dai contrasti  cromatici, è unico, dinamico. Sembra quasi che i personaggi si avvicinino all’osservatore. L’opera è quasi autobiografica. É lo stesso autore ad affermare: “Giacobbe è l’uomo a me simile. Per sognare, vagare negli spazi dell’imprevedibile, alla ricerca del sé e del mondo che ci circonda; l’amore, la lotta, il domani, l’infinito immaginario”.  Ancora, ma non solo, a tema biblico è il mosaico monumentale, iniziato nel 2006 e mai portato a compimento a causa della morte dello Spatari nel 2020. Trentasette pannelli, alcuni dei quali rimasti allo stato di bozza, che si estendono su circa 1400 metri quadri. Dieci di essi sono dedicati a una rivisitazione dello “Stendardo di UR”, opera sumerica risalente a quasi cinquemila anni fa, conservata presso il British Museum di Londra, raffigurante scene, di pace e di guerra, della città che, secondo la tradizione biblica, avrebbe dato i natali al patriarca Abramo. Gli altri pannelli sono dedicati ad altri episodi biblici, fino ad arrivare alla nascita ed alla morte in croce di Gesù. La geometria è alla base dei mosaici. Un’intricata rete di linee, insieme a una mirabile armonia di colori, viene utilizzata per dare profondità e direzionalità nel percorso visivo. Lo scopo dell’autore è di visualizzare una simbologia capace di catturare l’attenzione di chi osserva. Il mosaico monumentale adorna le mura della foresteria del parco, capace di dare alloggio a 22 persone. L’idea di fondo del parco museale, infatti, è quella di ospitare artisti di varia provenienza ed estrazione le cui opere sono visibili tuttora all’interno del MUSABA. L’accoglienza era ed è alla base della visione di Nik Spatari e di Hiske Maas. Non era infrequente, fino a pochissimo tempo prima della sua morte, incontrare Spatari e osservarlo all’opera. Accadeva che, immerso nel suo lavoro, non si accorgesse che una piccola folla si radunasse alle sue spalle. Una volta resosi conto della presenza di altre persone, la reazione consisteva in un largo sorriso. Dal canto suo, Hiske accoglieva ed accoglie gli ospiti del MUSABA con una familiarità disarmante, non disdegnando di intrattenerli con aneddoti della loro vita. La loro apertura e generosità erano evidenti a chiunque visitasse il MUSABA: accadeva spesso che Spatari si spendesse personalmente con le persone che gli si avvicinavano, sempre pronto a realizzare e donare un loro ritratto stilizzato. L’architetto Paolo Portoghesi, convinto sostenitore di Spatari, ha avuto modo di affermare che “il lavoro svolto dalla fondazione restituisce alla natura tutto il

IL MUSABA: LA VISIONE DI NIK SPATARI Leggi tutto »

LA CONDITIO INHUMANA NEI CENTRI DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA

di Donatella Loprieno* 1. Qualche fatto – In una coraggiosa, quanto isolata, sentenza del Tribunale di Crotone del 20121, il giudice dell’epoca si interrogava sulla legittimità delle condizioni di trattenimento dei cittadini stranieri alla stregua del divieto di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3 della CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della relativa Corte. Dopo aver richiamato le principali sentenze in cui il Giudice di Strasburgo aveva proceduto ad affinare la giurisprudenza sulla violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti2, il giudice crotonese rilevava, senza mezzi termini, che «dall’esame del fascicolo fotografico (in atti), nonché dall’ispezione diretta dei luoghi, è risultato che gli imputati sono stati trattenuti nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Isola Capo Rizzuto in strutture che – nel loro complesso – sono al limite della decenza, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere esseri umani. E si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza». Si richiamava, nel caso di specie, la configurabilità della legittima difesa per le condotte di danneggiamento e resistenza aggravata dei tre imputati anzitutto «in ragione dell’ingiustizia dell’offesa ai loro diritti fondamentali, primo tra tutti (in ordine assiologico) quello alla loro dignità umana, lesa da condizioni di trattenimento indecenti». Le condotte dei tre imputati apparivano agli occhi del giudice come la sola forma di manifestazione di protesta efficace quantomeno per impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del centro. Tra il 10 e l’11 agosto del 2013, un’altra rivolta, scatenata probabilmente dalla morte “sospetta” di un ospite marocchino, rese temporaneamente inagibile una parte del CIE di Sant’Anna3. Dalla vicenda succintamente richiamata sono passati dodici anni durante i quali un numero impressionante di altre rivolte, con relativa devastazione di ambienti, e proteste eclatanti si sono consumate all’interno dei centri di detenzione amministrativa sparsi sul territorio nazionale. L’ultima di cui si ha contezza, nel momento in cui si scrive, è avvenuta nel CPR di Milo a Trapani il 16 novembre 2024. Notizie di stampa riferiscono che cinque agenti del reparto mobile di Palermo sono rimasti feriti nel tentativo di sedare la rivolta. Sempre dalla stampa si apprende che un esponente di rilievo del SAO auspica “che venga approvato al più presto al Senato il ddl sicurezza. Tale ddl, sostenuto da tempo dal SAP, prevede l’inasprimento delle pene per chi usa violenza e resistenza a pubblico ufficiale, nel caso di specie, la modifica del ddl 1236 del 2024 art. 26, secondo cui coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni”. Che questa sia una soluzione per porre fine al ciclo della violenza nei centri di detenzione amministrativa per persone migranti è dato dubitare, e non poco. E prima di argomentarne le ragioni in punta di diritto, occorre – io credo – insistere sui “fatti” facendoci guidare però da alcuni punti fermi. Tra questi, al momento, basti richiamare come la Corte Edu ha, da sempre, ritenuto che gli standard di tutela di cui all’art. 3, CEDU pur essendo stati elaborati avuto riguardo al contesto penitenziario, si applicano ad ogni forma di privazione della libertà personale, in qualsiasi posto essa si realizzi e certamente anche (e, forse) soprattutto all’interno dei CPR. Di ciò è testimonianza una sentenza molto recente che il giudice di Strasburgo ha adottato con riferimento alla detenzione amministrativa di una donna con evidenti vulnerabilità di natura psichiatrica all’interno del CPR di Ponte Galeria a Roma. Accogliendo la richiesta di adozione di un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 39 CEDU, nella decisione n. 17499/2024 del 3 luglio 2024, la Corte Edu ha ordinato al Governo italiano la liberazione della donna in detenzione amministrativa e il trasferimento in una struttura adeguata al suo stato di salute, incompatibile, alla luce dell’art. 3 CEDU, con lo stato detentivo. Detto in altri termini e più chiari termini, la detenzione in un CPR (in una cella di isolamento) di una persona con problemi di salute mentale è contraria a divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Duole ammetterlo ma il caso di Camelia ed il trattamento disumano ad essa inflitto non è da considerare l’eccezione bensì la regola. Nei CPR le violazioni dei diritti fondamentali della persona umana sono sistemiche e non ci sono meccanismi atti ad evitare che tali violazioni possano degenerare in trattamenti inumani, degradanti e crudeli se in tortura. 2. I rapporti – Per capire cosa succede davvero nei luoghi in cui si consuma la detenzione amministrativa occorrerebbe leggere i numerosi rapporti che, nel corso degli anni, diverse ONG (ma anche associazioni e singoli giornalisti) hanno coraggiosamente elaborato e pubblicato a cominciare dal Report di Medici senza Frontiere del 20044. In realtà, e paradossalmente, occorrerebbe ritornare a leggere il “Rapporto della Commissione per le verifiche e le strategie nei Centri di accoglienza e Permanenza Temporanea”, meglio noto come Rapporto De Mistura, consegnato a fine gennaio 2007 dopo un semestre di lavoro e visite sul campo. Con toni pacati ma fermi, nel Rapporto si suggeriva una rivisitazione dell’allora sistema normativo nel senso di ricondurre le espulsioni alla loro natura di provvedimenti necessari da applicarsi come ultima ratio e di proponeva il superamento dei CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza, così si chiamavano all’epoca) «attraverso un processo di svuotamento […] di tutte le categorie di persone per le quali non c’è bisogno di trattenimento». Nel 2016, per arrivare a tempi più recenti, Amnesty International ha pubblicato Hotspot Italy. How EU’s flagship approach leads to violations of refugee and migrant rights, al cui interno la parola “tortura” compare ben 49 volte. E ancora i report Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia, a cura della

LA CONDITIO INHUMANA NEI CENTRI DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA Leggi tutto »

LA TORTURA IMPERITA

di Fausto Giunta* 1. La lunga storia della tortura registra un’importante svolta con l’avvento dell’età moderna. Dalle severe critiche di Cesare Beccaria diparte un filone di pensiero, di impronta razionalista e personalista, che domina, per il vero non incontrastato, il dibattito odierno. Utilizzata fin dall’antichità come legittimo strumento investigativo e probatorio, la tortura costituisce in molti ordinamenti giuridici un delitto gravemente punito, anche in ottemperanza alle richieste provenienti da fonti costituzionali e convenzionali. Per il vero rimangono sul tappeto anche proposte favorevoli a un suo impiego sorvegliato (addirittura medicalmente assistito) finalizzato a contrastare le più temibili forme di criminalità organizzata, come il terrorismo globale. Nel continente europeo, però, queste fughe in avanti sono opinioni isolate. Da noi, come noto, il delitto di tortura è stato inserito all’art. 613-bis c.p. dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. Si tratta di una fattispecie incriminatrice che, avversata già prima della sua entrata in vigore, ha continuato a esserlo anche dopo. Alla ritenuta inopportunità di criminalizzare l’operato delle Polizie di Stato, impegnate nel contrasto del crimine, si sono aggiunte le censure concernenti la formulazione della fattispecie incriminatrice. Non è azzardato affermare che la nuova figura di reato è riuscita a scontentare quasi tutti. Ciò ha alimentato critiche ulteriori e ancora più radicali, che sono sfociate nella proposta di legge n. 623 (presentata alla Camera dei deputati il 23 novembre 2022), avente ad oggetto l’abolizione del delitto di nuovo conio. A quest’ultimo proposito si fanno valere due argomenti, l’uno non veritiero, l’altro poco persuasivo. Da un lato, si ridimensiona la preoccupante entità del fenomeno criminoso, confermata, se mai occorresse, dalla cronaca degli ultimi tempi. Dall’altro lato, si sostiene la superfluità dell’innovazione, rilevando che il suo spazio operativo è già occupato da altre fattispecie incriminatrici: dalle percosse alle lesioni, dalle minacce al sequestro di persona. In realtà, la tortura è concetto poliedrico, che comprende vessazioni non sempre riconducibili agli anzidetti tipi criminosi. Del tutto fondati sono invece gli appunti mossi alla formulazione della fattispecie, foriera di questioni interpretative che, almeno in parte, si sarebbero potute evitare adottando una tecnica legislativa più accorta. Essendo logorroica e pletorica, la nuova figura di reato costituisce un fulgido esempio di insipienza legislativa.   2. La complessità del tema affonda le radici già nel terreno dell’oggettività giuridica. Per il nostro codice, la tortura è un delitto contro la libertà morale. La collocazione sistematica, tuttavia, ha un valore puramente indicativo del bene tutelato. Se si guarda alla notevole varietà dei fatti astrattamente rientranti nel delitto di tortura, ci si avvede agevolmente che il comune denominatore offensivo consiste nella dignità personale. La tortura può ledere anche altri beni della persona (oltre alla libertà morale, quella personale, nonché l’integrità fisica e psichica). Da qui la sua natura di reato eventualmente plurioffensivo. Un giudizio adesivo merita la scelta politico-criminale del nostro legislatore concernente la latitudine dell’intervento punitivo. Più che mai in un diritto penale di ispirazione liberale, va assoggettata a pena non solo la tortura con abuso dei poteri coercitivi pubblici, ma anche quella che si verifica nel contesto di relazioni private, caratterizzate dalla posizione di supremazia dell’agente rispetto alle vittime potenziali. Si rende necessario, pertanto, tracciare un duplice e problematico confine operativo, l’uno tra la tortura c.d. di Stato e l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), l’altro tra la tortura privata (o anche detta comune) e i maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.). Quanto al primo, considerato che l’interferenza normativa riguarda il fatto commesso dal pubblico ufficiale, il discrimine sembrerebbe dipendere dal grado di arbitrarietà della condotta, più marcato nella tortura di quanto non sia nell’abuso di misure di rigore, che sono pur sempre disciplinate dalla legge. Il confine con i maltrattamenti, invece, andrebbe ricercato nella maggiore sofferenza prodotta dai singoli atti di tortura.   3. Ma le problematiche attinenti alla struttura del reato interessano anche i rapporti interni al disposto dell’art. 613-bis c.p. Il legislatore non ha provveduto a scindere con la dovuta nettezza le due ipotesi di tortura, che avrebbero meritato di essere collocate in altrettanti articoli di legge, ciascuno con la sua rubrica. Si sarebbe chiarita in tal modo l’autonomia delle figure di reato. Invece, la loro previsione contestuale e l’anteposta collocazione della tortura comune ha indotto l’orientamento prevalente a qualificare quest’ultima come reato-base e a relegare la ben più grave tortura c.d. di Stato al ruolo di fattispecie circostanziale con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla sua attrazione nel vortice del bilanciamento con eventuali attenuanti concorrenti ex art. 69 c.p. Ad un attento esame, però, questa conclusione non è obbligata. Il fatto descritto dal secondo comma dell’art. 613-bis c.p. è simile a quello del primo comma sotto il profilo della condotta, non anche per il resto. Ciò riabilita la tesi che si tratti di figure autonome di reato, accomunate dal groviglio delle problematiche concernenti le molteplici modalità esecutive.   4. Secondo il disposto dell’art. 613-bis, comma 1, c.p., la tortura è integrata da tre distinte condotte, necessariamente attive e rilevanti anche singolarmente, quali le violenze, le minacce gravi e l’agire con crudeltà. Mentre le prime due sono tipizzate con un lessico ben noto alla parte speciale, la terza condotta, nel riproporre la dicitura della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p., sembrerebbe consistere in comportamenti anche doverosi o altrimenti leciti posti in essere con modalità tanto gratuite, quanto efferate o umilianti. Il requisito della “crudeltà”, in mancanza di altre connotazioni dell’agire illecito, allenta la determinatezza della fattispecie incriminatrice nell’intento di abbracciare condotte torturanti non rientranti nella violenza o nella minaccia (come la deprivazione del sonno già conosciuta in epoca medievale e magnificata dal giurista Ippolito Marsili perché efficace pur senza affliggere il corpo). A ciò si aggiunga che di “crudeltà” si può parlare tanto al singolare, quanto al plurale. Il canone dell’interpretazione sistematica inclina per la seconda opzione. Questa preferenza non implica, però, che la tortura sia un reato abituale; essa semmai rompe le simmetrie che intercorrono con il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. Le condotte

LA TORTURA IMPERITA Leggi tutto »

ALGORITMI E PREVENZIONE: TRA NUMERI, LINGUAGGIO E GARANZIE

di Fabrizio Costarella* e Ottavio Porto** Nel contemporaneo scenario giuridico, l’espansione del paradigma preventivo rappresenta un mutamento strutturale delle forme di repressione penale. Non si tratta più soltanto di un aumento quantitativo delle misure di prevenzione, ma di una progressiva sostituzione funzionale del processo penale con strumenti alternativi, nei quali le garanzie costituzionali risultano ridimensionate o, talora, del tutto elise. In tale contesto, si profila il rischio che il principio della responsabilità personale accertata venga progressivamente sostituito da valutazioni di pericolosità basate su elementi indiziari, prognostici, e talvolta statistici, privi di un reale contraddittorio. Questo scenario prefigura una vera e propria inversione metodologica, dove la “certezza della pena” diventa, paradossalmente, espressione di una incertezza del diritto, frammentato da prassi giurisprudenziali, estensioni interpretative e criteri probatori informali. In tale deriva trova attualità la massima pitagorica secondo cui “tutto è numero”. Se, per il filosofo di Crotone, il numero era la chiave dell’ordine cosmico, nella declinazione tecnologica contemporanea esso diventa invece strumento di previsione e categorizzazione sociale. Gli algoritmi, utilizzati in funzione preventiva, si ergono a nuovi criteri di giudizio, riducendo la complessità del comportamento umano a variabili computabili. A ciò si accompagna la trasformazione del linguaggio giuridico, sempre più assorbito dal lessico tecnico e predittivo dell’intelligenza artificiale. Come ricordava Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo“: quando la lingua del diritto viene riscritta in codice computazionale, cambia anche la nostra concezione di colpa, responsabilità, libertà. L’introduzione di strumenti informatici come il Sistema Giove, fondato su logiche di polizia predittiva, segna una soglia epistemologica critica. Si tratta di una piattaforma che consente l’incrocio automatizzato di banche dati di diversa natura – giudiziaria, amministrativa, anagrafica – con l’obiettivo di identificare pattern ricorrenti associabili a fenomeni criminali ad alto impatto sociale. Il principio è quello della previsione del rischio: identificare soggetti potenzialmente pericolosi prima che compiano reati, così da attivare misure di prevenzione personale o patrimoniale. In tale modello investigativo, l’indagine si sposta dal fatto alla probabilità, dalla responsabilità accertata alla pericolosità supposta. La razionalità garantista, fondata sulla verifica rigorosa delle prove e sul contraddittorio, viene progressivamente erosa dalla logica predittiva e dalla statistica induttiva. Questa tecnica stocastica si inserisce in una più ampia tendenza, comune a diversi ordinamenti, che fa ricorso a tecnologie basate su machine learning, profilazione automatica e analisi comportamentale predittiva. Tali strumenti – se non rigorosamente regolati – rischiano di introdurre nel procedimento di prevenzione elementi discriminatori, amplificando bias preesistenti nei dati di addestramento: etnia, orientamento sessuale, contesto socioeconomico. Il cuore del problema è epistemologico: chi programma l’algoritmo determina il diritto implicito che esso codifica. Eppure, il controllo giudiziale su questi strumenti è spesso ostacolato dalla loro opacità, dall’assenza di accesso ai dati, e dalla mancanza di supervisione esperta. In questo scenario, la giustizia si espone al rischio di automazione non controllata della discrezionalità. Da questa prospettiva, risulta illuminante la riflessione sulla dimensione mistica e simbolica del potere punitivo pubblico. In epoca medievale, il potere giudiziario del sovrano si configurava come espressione di un ordine trascendente e non riducibile alla razionalità amministrativa. Per Kantorowicz, ad esempio, il sovrano incarnava due nature: un corpo fisico, destinato a morire, e un corpo politico immortale, simbolo della continuità e infallibilità dell’autorità statale. In tale dualismo, la giustizia non era semplicemente esercitata, ma incarnata: il giudice sovrano non agiva come la legge, ma era la legge, in una sovrapposizione tra diritto umano e ordine cosmico. Come la figura del re taumaturgo di Bloch, che si fondava sulla credenza collettiva che il sovrano fosse dotato di un potere miracoloso, capace di guarire per sola imposizione delle mani, non per abilità medica, ma per una legittimazione trascendente, collettivamente condivisa. Anche in quel contesto, il potere pubblico si fondava su una narrazione mistica di giustizia e ordine, accettata perché sentita come parte di un disegno superiore. Tale convinzione conferiva al potere una legittimazione carismatica e quasi liturgica, che legava l’autorità politica al destino spirituale della comunità. L’intelligenza artificiale – nella sua radicale opacità e nella sua pretesa di oggettività neutrale – spezza questo legame simbolico tra autorità e comunità. Non solo rimuove il volto del giudice, ma lo sostituisce con un’entità che non può essere né creduta né contestata sul piano del senso, perché priva di un’origine simbolica condivisa. Così facendo, si introduce una nuova mitologia impersonale, in cui il calcolo prende il posto della fede, e il rischio non è più il sopruso umano, ma l’arbitrio meccanico della macchina. La giustizia viene svincolata da ogni elemento simbolico e umano, recedendo il vincolo collettivo di senso tra governanti e governati e sublimando d’altro canto la dimensione misterica dell’auctoritas, il cui esercizio diviene nuovamente incomprensibile al volgo, smaterializzando la sua secolarizzazione illuministica. In tale modello, l’eccezione si fa norma e il sospetto diventa criterio di azione. La grammatica stessa del diritto moderno, fondata sulla responsabilità personale e sul principio di legalità, risulta sovvertita. Non è più necessario un atto, ma una correlazione statistica; non una colpa, ma un rischio. In chiave politico-filosofica contemporanea, questa trasformazione può essere letta alla luce della riflessione di Giorgio Agamben sul paradigma del “governo attraverso la sicurezza”: una logica in cui il diritto viene progressivamente svuotato, sostituito da pratiche amministrative orientate alla gestione dei rischi e dei comportamenti. La prevenzione algoritmica – fondata su una razionalità tecnico-statistica – si configura come uno stato di eccezione permanente, dove la sospensione delle garanzie è normalizzata, invisibile, addirittura automatica. Qui si innesta una riflessione centrale sul rapporto tra dittatura e stato di eccezione, così come tematizzato da Carl Schmitt e Ernst Fraenkel. Per Schmitt, il sovrano è “colui che decide sullo stato di eccezione”: il momento fondativo del potere politico si manifesta quando, in nome dell’emergenza, si sospende l’ordine normativo per salvaguardarlo. In questo senso, la prevenzione algoritmica si pone come una forma tecnicizzata e automatizzata della decisione sovrana, dove l’eccezione non è più pronunciata da un soggetto politico, ma è incorporata nel funzionamento stesso del sistema. Fraenkel, nel suo celebre Il doppio Stato, aveva mostrato come, nella Germania nazista,

ALGORITMI E PREVENZIONE: TRA NUMERI, LINGUAGGIO E GARANZIE Leggi tutto »

LA LEGGE A GUANTANAMO: TORMENTO O BENEDIZIONE?

di Joseph Margulies* Quando penso agli ultimi vent’anni, mi viene in mente la frase dei Grateful Dead: «Lately it occurs to me, what a long strange trip it’s been». I. Come Mai Guantanamo? Immagino che la storia sia familiare, ma molto brevemente, per capire come si sia arrivati a Guantanamo, dobbiamo capire che gli attacchi sono stati interpretati, immediatamente, non come un reato ma come un atto di guerra, e che in questa guerra, l’obiettivo più importante era l’intelligence. Tutto ciò che è avvenuto in risposta all’undici settembre, negli Stati Uniti e in gran parte dell’Occidente, Italia inclusa, si fa risalire a questa comprensione: questa era, ed è, una guerra di intelligence. Siete consapevoli, ad esempio, che tutte le vostre comunicazioni elettroniche possono essere lette dalla NSA. Naturalmente, l’11 settembre è stato un reato. Ma l’obiettivo primario dopo l’11 settembre non è stato quello di risolvere il reato – cioè, arrestare i responsabili e perseguirli – ma prevenire il prossimo attacco. L’amministrazione Bush ha capito, quasi dal primo giorno, che ci sarebbero state operazioni militari in Afghanistan, e che queste operazioni avrebbero portato alla cattura di sospetti prigionieri di Al Qaeda. E poi? Cosa dovrebbe accadere? La risposta era semplice: gli Stati Uniti hanno voluto sviluppare una tipologia di interrogatorio che permettesse di svuotare il contenuto della testa di un prigioniero. Avevano bisogno di un luogo, o diversi luoghi, dove qualsiasi interrogatorio potesse essere condotto in ogni momento, senza alcun controllo giudiziario o vincolo giuridico. Hanno voluto liberarsi dai limiti imposti dal diritto nazionale e internazionale. Secondo l’amministrazione Bush gli interrogatori nel mondo dopo l’11 settembre non dovevano più essere soggetti a nessuna restrizione, a eccezione di quelle che essi stessi si sarebbero volontariamente posti. La maggior parte di questi è stata condotta dai militari americani nelle basi in Afghanistan e Guantanamo. Per raggiungere la massima flessibilità, gli Stati Uniti hanno gettato via la Convenzione di Ginevra. La natura e la brutalità degli interrogatori militari varia moltissimo. Alcune persone vengono interrogate solo brevemente; tuttavia, molte altre centinaia, incluse praticamente tutte le persone trasferite a Guantanamo, sono state soggette a svariati abusi, inclusi la deprivazione del sonno, la manipolazione ambientale, posizioni di stress, umiliazioni fisiche e sessuali e violenze. Abbiamo intentato Rasul v. Bush per rispondere a questo vuoto, questo posto senza i freni della legge. Abbiamo detto in Rasul che non c’è una prigione fuori la legge. Abbiamo voluto inserire la legge in un posto dove, ed a un tempo quando, non c’era ricettività della legge. Che dev’essere un modo per contestare la legittimità legale e fattuale della detenzione in un tribunale, e per mostrare che – in ogni caso particolare – lo Stato ha commesso un errore. Punto. E abbiamo vinto. La Corte Suprema ha detto che i detenuti potrebbero contestare le basi della loro detenzione in tribunale.   II. La Legge Come Tormento Anche se abbiamo vinto, la legge ha fallito a Guantanamo, in almeno tre sensi. a. La Legge Come Complice Primo, la legge ha permesso all’amministrazione Bush di creare Guantanamo. Ha permesso la tortura e le prigioni segrete. La legge ha permesso l’intera architettura del regime di detenzione dopo l’undici settembre. In realtà, il regime non sarebbe stato possibile senza la legge. Negli Stati Uniti, veneriamo la legge, e soprattutto la Costituzione. Non è possibile creare un nuovo aspetto della vita americana senza prima dimostrare che è coerente con la Costituzione, e non solo con le parole ma anche con lo spirito della Costituzione. E quindi l’amministrazione ha dovuto stravolgere e contorcere la legge per adattarla a un luogo come Guantanamo ed a una pratica come la tortura. E l’ha fatto. Come ho scritto in un libro, What Changed When Everything Changed, 911 and the Making of National Identity, l’amministrazione ha reimmaginato ciò che la legge consente per preservare il nostro mito di innocenza e purezza. In questo senso, la legge è complice nel tormento. La legge fa parte del nostro incubo dopo 9/11 tanto quanto la tortura che ha permesso. b. La Legge Come Falsa Speranza Anche la legge ha fallito in un senso diverso. In Rasul, non abbiamo vinto un risultato, ma un processo. Quando il tribunale – ogni tribunale – crea un processo, vogliamo credere che sia vero, che sia reale. Vogliamo credere che i risultati del processo saranno divisi tra le parti perché i fatti non favoriranno sempre una parte rispetto all’altra, e quindi le regole che risolvono i casi non favoriranno una parte rispetto all’altra. Che, insomma, ci sia una possibilità di vittoria per tutte le parti. Altrimenti, non è un processo, è una finzione. Quella è la speranza di ogni processo e della legge che l’ha creato. In questo caso – in Rasul – abbiamo ottenuto il diritto di obbligare lo Stato a mostrare le basi legali e fattuali della detenzione di un detenuto. Ma la Corte Suprema ha lasciato i dettagli del processo ai tribunali di grado inferiore, e loro hanno creato un processo in cui lo Stato non può mai perdere e i detenuti non possono mai vincere. Mai. I dettagli non sono importanti ora; ci sono varie presunzioni a favore delle prove dello Stato. Ma il punto è solamente che non è un processo vero. È solo l’aspetto di un processo. È l’opportunità di entrare il tribunale e di iniziare il processo, ma come in un processo alle streghe, tutti conoscono l’esito prima che inizi. c. La Legge Come Mito Anche la legge ha fallito in un terzo senso, un senso più complesso. In un modo collegato al mito della legge. Cioè, purtroppo, esiste un mito negli Stati Uniti che la legge funziona. Che la legge possa limitare il potere. E quando abbiamo vinto Rasul, tutti i giornali e le riviste e la TV hanno detto, “Guarda. Ci piace dire che siamo un paese di leggi e non di uomini, ed è vero. Anche in tempo di guerra, la legge funziona”. In questo senso, la legge rafforza il suo stesso mito. Per me, questo è il

LA LEGGE A GUANTANAMO: TORMENTO O BENEDIZIONE? Leggi tutto »

L’«UNICA SOLUZIONE POSSIBILE»… È UN’ALTRA. ANCORA CONTRO LA TORTURA

di Marina Lalatta Costerbosa* – Nel suo libro Salvare una vita si può, il filosofo utilitarista Peter Singer scrive: «Prendiamo come esempio l’argomentazione secondo cui la tortura è una pratica da condannare in qualunque caso. Vista la ben documentata propensione di carcerieri e polizia a compiere atti di violenza sui prigionieri e la bassa probabilità di ottenere informazioni utili per mezzo della tortura, sembra verosimile che condannando in toto tale pratica si raggiungano i risultati migliori. Tuttavia, potrei argomentare che se mi trovassi nella assai improbabile condizione in cui solo torturando un terrorista sarebbe possibile evitare l’esplosione di una bomba atomica nel centro di New York, sarebbe mio dovere torturare il terrorista. A volte il mio dovere di individuo non coincide con ciò che prescrive il migliore dei codici morali»1. In una prospettiva simile incontriamo anche la tesi di Michael Walzer sul politico dalle mani sporche. Walzer, nel suo Political Action: The Problem of Dirty Hands, capovolge le note pagine del saggio Sulla pace perpetua nelle quali Kant ci offriva una visione alta della politica e della filosofia proponendone l’intreccio, sì da favorirne il reciproco sostegno. Come aveva osservato in una sua intensa intervista quasi due secoli dopo Hannah Arendt,  Kant è stato il filosofo anche autenticamente «politico»2. Per Kant il politico, il «politico morale», nulla ha a che fare con il «moralista politico». Il politico “morale” è colui che tenta di costruire e di sostenere la pubblica libertà di espressione e di pensiero per ogni cittadino, la «libertà della penna», al fine di creare quelle condizioni esterne di possibilità (il diritto) in grado di assicurare il rispetto di ciascuno nella sua autonomia. In una sorta di eroicizzazione del politico disposto a «intrare nel male, necessitato», secondo Walzer, il “politico morale” è, al contrario, disposto a ricorrere, ove indispensabile, anche alla spregiudicatezza, persino alla tortura. Anzi, il politico “morale” lo si riconoscerebbe per lui proprio dalle «mani sporche», che denoterebbero non illegittimità, bensì assenza di ipocrisia e assunzione di responsabilità3. A essere così capovolto è il ragionamento kantiano, e pure l’intendimento di Sartre sotteso al dramma teatrale del 1948 «Le mani sporche», in cui veniva sollevato il problema relativo alla possibilità di esercitare il potere in modo innocente. La risposta di Sartre, con riferimento specifico alla tortura, era stata consegnata alla nota introduttiva di Tortura, la testimonianza tristemente toccante del giornalista Henri Alleg, il racconto delle torture da lui subite in Algeria per mano francese4. È un testo prezioso, in cui Sartre denuncia la sistematica e devastante futilità della tortura, «vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori di portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo, se applica la question dovrà sempre ricominciare» 5. Si tortura per torturare, il suo scopo è solo apparentemente legato al contenuto di verità delle informazioni o alla loro utilità. È esibizione tremenda di potere fine a se stessa, destinata a reiterarsi. Nella stessa scia di Walzer, e più di recente di Singer, si era collocato invece in passato Niklas Luhmann. In una conferenza tenuta a Heidelberg nel 1992, il noto sociologo aveva proposto l’ormai consueto scenario tipico dell’argomento della bomba a orologeria, ritraendo una grande quantità di terroristi (di destra e di sinistra) in possesso di diverse bombe atomiche, pronti a usarle6. Su questo sfondo egli arrivava a formulare la domanda cruciale e, dal suo punto di vista, solo retorica, relativa a cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. La conclusione è che accederemmo al terreno della tortura, dimostrando coi fatti che nessuna norma possa più dirsi valida in senso assoluto, neppure quella che vieti il ricorso alla tortura. Evidente qui la doppia fallacia dell’argomentazione: da un lato, la fallacia dell’analogia tra l’individuo privato e lo Stato (di diritto), e dall’altro, la fallacia dello scenario apocalittico, immaginato nella fantasia per trarre conclusioni valide nella realtà.  Come è noto, sono numerosi gli argomenti che nel dibattito internazionale, in corso da più di vent’anni, vengono avanzati per sostenere la compatibilità della tortura con un diritto democratico. Altrettanti e più forti sono però i controargomenti che si possono presentare per confutarne la correttezza e l’ammissibilità, logica e politico-morale7. Tra questi vorrei qui soffermarmi soltanto su due falsi argomenti, forse tra quelli che più di frequente ricorrono, mostrando la loro grande capacità persuasiva; inossidabili nonostante l’intrinseca precarietà teorica. Sono gli stessi falsi argomenti che vengono utilizzati spesso per giustificare le guerre, le presunte guerre “giuste”. Il primo è stato definito «argomento dei danni collaterali». Così lo descrive Ernesto Garzon Valdés nel suo bel saggio Guerra e diritti umani. «L’espressione “danni collaterali” – afferma – è un eufemismo per designare la morte di civili innocenti e la distruzione di obiettivi non militari come scuole, ospedali, musei o fabbriche destinate a una produzione non militare. Il ricorso all’argomento dei “danni collaterali” è una variante dell’argomento del doppio effetto che consente di giustificare un qualsiasi danno, purché l’intenzione del soggetto agente non sia di provocare un danno, bensì quella di perseguire un bene. La debolezza morale di questa argomentazione è nota»8. In questo contesto Garzon Valdés introduce l’argomento per contestarne la validità se usato in particolare per legittimare guerre d’intervento umanitario; la stessa obiezione che avanza per questo caso vale tuttavia senz’altro quando essa viene impiegata a favore della tortura in un contesto democratico. Si tratta di un vecchio argomento, risalente persino all’etica tomista, ma, appunto, in un ambito discorsivo e teorico ben diverso, fondato su presupposti teologici e metafisici. Se trasferito su di un terreno che non può essere né l’una cosa né l’altra, pena l’inattuale uscita da uno scenario politico e giuridico laico e democratico, non può che cedere a fronte dell’obiezione secondo la quale «contro l’’argomento dell’irrilevanza dei danni collaterali‘ si può muovere l’argomento della fallacia morale del “doppio effetto”»9, della sua non pertinenza, giusta la sua implicita, ma costitutiva, relativizzazione

L’«UNICA SOLUZIONE POSSIBILE»… È UN’ALTRA. ANCORA CONTRO LA TORTURA Leggi tutto »

TORTURA UNO SGUARDO DAL PONTE

di Tullio  Padovani* –  Sommario: 1. La fine del processo ordalico. – 2. L’introduzione della tortura giudiziaria. – 3. La resistenza alla sua eliminazione e forme di sopravvivenza. – 4. La Convenzione internazionale del 1994 e la sua problematica attuazione nell’ordinamento italiano. 1. La tortura è un mostro che ha dominato la scena del processo penale per molti secoli, dopo esservisi introdotta sulla scia di una grande riforma di civiltà: mai forse l’eterogenesi dei fini ebbe modo di esprimersi con più paradossale inversione. Prima che la tortura fagocitasse nel giudizio penale i mezzi di ricerca della prova, la decisione sulla responsabilità o la risoluzione del conflitto giudiziario era infatti basata sul sistema delle ordalie, e cioè su una procedura probatoria il cui esito veniva affidato al “giudizio di Dio”, espresso mediante un giuramento, un duello, oppure sottoponendo una delle parti, o entrambe, ad una situazione di grave pericolo personale. L’esito della prova determinava la risoluzione della controversia e, comunque, il contenuto simmetrico della decisione. Il presupposto dell’ordalia era pertanto costituito da una sorta di “scommessa” religiosa: Dio avrebbe salvato l’innocente, identificando il responsabile. Di qui la necessità di un appropriato rituale che corroborasse la dimensione “religiosa” e ne assicurasse l’efficacia decisoria: il necessario intervento di un chierico, la somministrazione preventiva dell’eucarestia e la benedizione delle armi. Il progresso segnato dalla civiltà dopo l’anno mille consentì di scorgere, con evidenza progressivamente crescente, l’assurdità blasfema di un simile sistema processuale. Il passo decisivo per il suo superamento fu compiuto da papa Innocenzo III, uomo di profonda cultura, con il IV Concilio Lateranense del 1215. Tra le molte decisioni destinate ad avere stabile ripercussione nella struttura della Chiesa (tra le molte il celibato obbligatorio dei preti), il capitolo XVIII delle deliberazioni conciliari sancì anche il divieto tassativo ai chierici di prestare il proprio ministero per lo svolgimento di un rito ordalico, che, in questo modo, veniva privato del sostegno “religioso”. Avrebbe certo potuto sopravvivere ugualmente in gestione “laica”, anche se con minore “dignità”, ma a scongiurare una tale persistenza (probabilmente manifestatasi dopo l’adozione del divieto rivolto ai chierici), intervenne il Concilio di Valladolid, convocato da Giovanni XXII nel 1322, il cui capitolo XVII comminò la scomunica latae sententiae a chiunque avesse preso parte ad un giudizio ordalico. La portata generale del divieto e la sua sanzione da parte della Chiesa nei confronti della totalità dei fedeli schiudeva così le porte della modernità. L’ordalia, riconosciuta come una patente violazione di una prescrizione del decalogo: non nominare il nome di Dio invano, si profilava così in tutta la sua dissennata infondatezza. Non potendo in alcun modo garantire l’intervento di Dio nell’esito della prova, esponeva gli innocenti al rischio di un’ingiusta condanna, mentre offriva ai colpevoli l’opportunità di un arbitrario salvacondotto. Peraltro, la struttura dell’ordalia sopravvisse, sotto diverse spoglie, in quelli che diventeranno gli ordinamenti di common law. La forza soprannaturale sarà sostituita dalla forza dei cittadini riuniti: la giuria, composta da dodici persone, membri della stessa comunità cui appartiene l’imputato (e, quindi, suoi «pari»), chiamati a pronunciare un giudizio unanime, dopo aver assistito ad un “duello” giudiziario da parte di accusa e difesa rispettivamente impegnate nell’esibizione delle prove a carico ed a discarico in presenza e sotto il controllo di un arbitro imparziale: il giudice. Il numero (dodici erano gli apostoli) e l’esito (la convergenza unanime delle opinioni) “assicuravano” la fondatezza del verdetto immotivato, che appariva quindi assunto all’esito di uno scontro che, in termini simbolici, rispecchiava e riproduceva l’originario duello ordalico. 2. Ben diverso fu l’esito dell’abolizione del giudizio ordalico nell’Europa continentale, dove si afferma l’idea che la giustizia si legittima soltanto se il suo fondamento è costituito non da una verità per così dire “stipulativa”, raggiunta all’esito di una contesa giudiziaria attraverso il verdetto unanime della giuria, ma da una verità “materiale” intesa come obiettiva adaequatio intellectus et rei. La sua ricerca viene perciò affidata ad un funzionario pubblico qualificato – il giudice – che la ricercherà secondo un metodo razionale. Il sistema probatorio disponibile appare tuttavia periclitante: le prove dirette non sono sempre disponibili; quelle indirette sono sempre inaffidabili. Il criterio di risoluzione del dubbio si staglia all’orizzonte mediante il recupero di un vetusto istituto già noto al diritto romano, ma progressivamente emarginato dal sistema giudiziario: la tortura probatoria, che si inserisce, se non come esito ineludibile, certo come strumento ritenuto consentaneo all’obiettivo primario assegnato al nascente processo inquisitorio: per l’appunto, la ricerca della verità materiale. Molto rapidamente la tortura entrò dunque a vele spiegate nel processo penale dell’Europa continentale e vi permase sino al XVII secolo, con risultati a dir poco rovinosi. In effetti, la percezione dell’inaffidabilità delle dichiarazioni ottenute attraverso i tormenti apparve chiara anche prima che la riforma illuministica la denunciasse con impeto e vigore, determinando la soppressione dell’odioso istituto. Ma il valore simbolico della confessione, anche se ottenuta all’esito di tormenti reiterati e insopportabili, rintuzzò a lungo le obiezioni razionali opposte a una tale barbarie. In realtà, poiché la tortura avrebbe dovuto essere disposta solo in presenza di indizi qualificati di reità, la sua successiva adozione finiva col costituire, in termini di costruzione dell’accusa, solo una sorta di “conferma”. Ma come ha giustamente rilevato Antoine Garapon (Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, 2007, p. 150), «il processo inquisitorio somiglia a una scommessa progressiva sulla colpevolezza dell’imputato»: ogni sua fase trae fondamento dalla precedente e ne convalida la prospettiva, per cui gli indizi sufficienti a torturare corroborano e convalidano la confessione, pur estorta tra atroci dolori. Sintetizzando le ragioni di fondo della battaglia contro la tortura giudiziaria Cesare Beccaria, nel XVI capitolo Dei delitti e delle pene, scriveva che essa «è un mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti». D’altra parte, l’unanimità della condanna si spezza quando si tratta di valutare la plausibilità di una particolare forma di tortura, compresa nella formula quaestio in caput sociorum, applicata a chi avesse già confessato la propria responsabilità (o fosse raggiunto da prova certa di essa), per indurlo a rivelare i nomi dei complici la

TORTURA UNO SGUARDO DAL PONTE Leggi tutto »

CORSO E RICORSO DELLA TORTURA: COSA È CAMBIATO

di Leo Pallone* “… Nulla è cambiato. Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze. Il gesto delle mani che proteggono il capo è rimasto però lo stesso. Il corpo si torce, si dimena e divincola, fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, illividisce, si gonfia, sbava e sanguina”. Wisława Szymborska   Parlare di tortura, oggi, sembra anacronistico. Nondimeno, si può nascondere un fenomeno che prepotentemente si fa largo tra passato e presente, l’uso della tortura accompagna da millenni l’umanità, essa ricompare nelle guerre, nelle dittature, nelle carceri e come strumento di lotta al terrorismo internazionale, molteplici circostanze tese a dimostrare l’attualità di un crimine così antico, un fenomeno, dunque, che il tempo non ha logorato.    “Ante litteram”, la nostra rivista, approfitta della disponibilità di illustri studiosi-giuristi per riallacciare i fili di una riflessione e di una discussione che s’inerpica nel solco della storia e lo attraversa sino ai nostri giorni. Un percorso culturale, scientifico e giuridico, un approccio plurale, dinamico e integrato, che scompone i contrasti e le perplessità sulla legittimità e sui limiti di uno strumento crudele che sguazza nel dolore e nella sofferenza, che corrompe ed annulla diritti sociali indivisibili dalla dignità. Un’analisi, che tiene conto dei diversi atteggiamenti ideali, delle numerose fonti prescrittive che sono importantissime nel delineare il concetto di “tortura”. Mi riferisco, in particolare, al Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU, approvato dall’assemblea generale il 13 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia il 25 ottobre 1977;  alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950; alla dichiarazione dell’Assemblea delle nazioni unite del 1975; alla Convenzione del 1984; allo statuto della Corte penale internazionale. Che cosa è la tortura? Voltaire, uno dei padri dell’illuminismo settecentesco, risolse dicendo che “… la tortura è stata inventata da dei ladri che essendo entrati presso un avaro e non trovando il suo tesoro, gli fecero soffrire mille tormenti fino che costui non ebbe svelato il luogo dove il tesoro si trovava”. Ma cinque secoli avanti a lui un re di Castiglia, Alfonso X il saggio, aveva risposto alla medesima domanda asserendo solennemente che “… la tortura è una forma di pena che trovarono gli amanti della giustizia per scoprire e conoscere la verità sui delitti che si commettono nascostamente”. Alfonso, il saggio, esalta la funzione giudiziaria o punitiva della tortura e, così facendo, contribuisce al suo consolidamento; Voltaire, invece, prescinde dalla finalità giudiziaria o punitiva e valorizza il carattere del tormento come fatto comune, al di fuori di qualsiasi contesto giudiziario o punitivo, per screditarla e affrettarne l’inesorabile decadenza. Parecchi secoli dopo, Alan Dershowitz, famoso avvocato penalista, difensore delle garanzie giuridiche e dello stato di diritto, in un suo lavoro Why terrorism works, affrontando problemi legati alle nuove forme di terrorismo, si sofferma anche sulla questione della tortura. Dershowitz, sostiene che si dovrebbe legalizzare la tortura nei confronti dei sospettati di terrorismo. Il noto avvocato vuole scongiurare il pericolo che la tortura possa essere usata fuori dalla legge, senza le garanzie di un sistema legale. Dershowitz, porta ad esempio gli spaventosi fatti dell’11 settembre. Tragici avvenimenti che hanno comportato “scelte drammatiche”. Scelte che lasciavano intendere anche il ricorso alla tortura per ottenere informazioni necessarie a impedire il ripetersi di avvenimenti simili. È possibile trovare limiti giuridici alla tortura? La risposta – come un invisibile filo di Arianna, attraversa i labirinti della storia, una traccia che diventa solco profondo su un tema di grande rilievo in termini di civiltà giuridica – si sagoma attraverso i contributi dei nostri autori. Un focus monografico sulla tortura che “Ante Litteram” ha avuto il privilegio di acquisire e divulgare. Un sentito ringraziamento agli autori dei contributi: Tullio Padovani, Marina Lalatta Costerbosa, Joseph Margulies, Fausto Giunta, Donatella Loprieno. In chiusura, ancora una volta l’attenzione è rivolta a un figlio di questa terra, un calabrese che si è distinto nel “Suo campo operativo” dando lustro alla nostra regione. Nicola Tavano ricorda l’opera straordinaria dell’artista Nik Spatari e del suo sogno di Giacobbe scolpito nel Museo di Santa Barbara (MuSaBa). Uno straordinario dipinto, tridimensionale, di 240 metri quadrati che copre tutto lo spazio della volta e dell’abside della cappella antica dell’abbazia di Santa Barbara – ex monastero situato nel comune di Mammola, in provincia di Reggio Calabria – conosciuta come la “Cappella Sistina calabrese”. *Direttore Ante Litteram (Già pubblicato su Ante Litteram n.3 – dicembre 2024)

CORSO E RICORSO DELLA TORTURA: COSA È CAMBIATO Leggi tutto »

Torna in alto