Diritto Sostanziale

QUESTIONI ATTUALI IN MATERIA DI STALKING, OMICIDIO E FEMMINICIDIO

di Stella Feroleto* –  I DELITTI CONTRO LA PERSONA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLO STALKING, ALL’OMICIDIO VOLONTARIO COMMESSO DALL’AUTORE DI ATTI PERSECUTORI NEI CONFRONTI DELLA STESSA PERSONA OFFESA E AL REATO DI FEMMINICIDIO. SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive in tema di delitti contro la persona. 2. Omicidio volontario commesso dall’autore degli atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa. 3. La “ratio” delle aggravanti tipiche in materia di stalking nell’era della digitalizzazione. 4. La costituzione di parte civile per il risarcimento del danno non patrimoniale. 5. Riflessioni critiche sui delitti alla persona di stalking e di femminicidio: tra esigenze di tutela della persona offesa e garanzie dell’imputato. 1.CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE IN TEMA DI DELITTI CONTRO LA PERSONA Il legislatore del 1930, dopo aver dedicato particolare attenzione, nei primi titoli e capi del codice penale, ai delitti contro lo Stato e l’ordine pubblico, sul presupposto storico ed ideologico, probabilmente, che uno Stato forte sarà in grado di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, nella seconda parte del Codice Rocco, precisamente al titolo XII, Capo I, guarda con occhio prospettico privilegiato ai cosiddetti delitti contro la persona. Ed invero, in ottica storica e sistematica, maggiore rilievo assume sempre più la persona alla luce delle norme contenute nella Costituzione Repubblicana del 1948, i cui principi fondamentali ( di solidarietà sociale, di eguaglianza, di non discriminazione etc…) sono il frutto di un compromesso storico tra le maggiori forze politiche e sociali dell’epoca che, nella prospettiva di convergenza d’interessi e d’intenti verso il bene comune, hanno dato vita a quella che da molti giuristi e sociologi è stata definita “la Costituzione più bella del mondo”. In guisa evolutiva, è da evidenziarsi come, nel tempo, la concezione antropocentrica del nostro assetto sistemico è stata considerevolmente rafforzata dalla nascita, in luogo della CEE, dell’ Unione Europea, a cui fanno capo, in ottica sempre più monistica tra gli stati aderenti, la normativa originaria dei Trattati, quella derivata dei Regolamenti, delle direttive e delle decisioni, ma anche alcune Carte di fondamentale importanza quali: la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ( la quale, in verità, nonostante i tentativi di “comunitarizzazione” operati in occasione del Trattato di Lisbona, non ha ancora assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati) e la Carta di Nizza ( che, invece, ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati ), ma anche la Convenzione sui diritti del fanciullo, la Convenzione di Oviedo contro ogni forma di discriminazione, nonché la CEDAW, ossia la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. E invero, a seguito di una copiosa giurisprudenza che nel tempo ha visto dialogare – ed a volte scontrarsi – la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea (massimo organo giurisdizionale dell’Unione) riguardo ai rapporti tra la normativa nazionale e quella comunitaria, con l’importante sentenza Granital[1], è stata elaborata la cosiddetta teoria dei controlimiti, in base alla quale la normativa europea può prevalere rispetto alla normativa italiana e nel momento in cui una normativa nazionale dovesse porsi in contrasto con, ad esempio, una disposizione di un trattato europeo, il giudice a quo, senza procedere previamente alla dichiarazione di incostituzionalità – a differenza di quanto avviene ancor oggi in relazione alla normativa della CEDU per il tramite dell’interposto articolo 117 della Costituzione – ed esauriti i tentativi di interpretazione sistematica e conforme, potrà disapplicazione direttamente la disposizione nazionale contrastante con il limite, tuttavia, invalicabile dei cosiddetti controlimiti; la normativa europea, infatti, non potrà mai porsi in contrasto con i primi quindici articoli della Costituzione italiana che rappresentano il nucleo duro del nostro ordinamento democratico involvente la tutela dei diritti fondamentali della persona che non possono essere scalfiti neppure soltanto sul piano formale; oltre che sostanziale. In tale prospettiva, è da rilevarsi come, d’altronde, nel sinallagma sovranazionale la tutela dei diritti della persona abbia assunto pregnante rilievo altresì alla luce della elaborazione della più recente teoria della doppia pregiudiziale, in base alla quale, allorquando un diritto della persona venga leso sia da una normativa nazionale che europea si potrà apprestare una duplice tutela, sia davanti alla Corte Costituzionale che dinnanzi alla Corte di Giustizia dell’UE; tuttavia, la Corte Costituzionale, che all’interno del nostro assetto sistemico rappresenta il giudice della legge, nel ribadire l’importanza del suo ruolo, ha messo in evidenza come, pur restando certamente ferma la possibilità di tutela dei diritti della persona davanti alla Corte di Giustizia, sarebbe più opportuno rivolgersi previamente alla Corte Costituzionale per invocare la tutela dei diritti in quanto essa rimane l’organo ontologicamente deputato alla garanzia della Costituzione e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Tale posizione della Consulta viene, inoltre, avallata dal fatto che la differenza di tutela dinanzi al giudice delle leggi italiano è senz’altro rafforzata poiché la Corte, nel dichiarare la illegittimità costituzionale di una legge, la espunge in maniera tendenzialmente definitiva dall’ordinamento ed erga omnes. Quella, invece,  dinanzi alla Corte di Giustizia è una tutela del caso concreto che non consente di depurare definitivamente una normativa dall’ordinamento, col rischio inevitabile che la questione possa riproporsi pro futuro. In guisa sistematica appare, pertanto, evidente che, nell’attuale momento storico, l’attenzione alla tutela dei diritti della persona è particolarmente alta sia a livello sovranazionale che nazionale e ciò determina, inevitabilmente, delle ripercussioni su quello che è il diritto penale sostanziale e processuale che costituiscono, senza dubbio, gli ambiti all’interno dei quali, da una parte, si richiede una particolare sensibilità del legislatore nazionale alla spinta evolutiva del sentire sociale di riferimento; d’altra parte, essendo,  oggigiorno, molte norme frutto di una spinta emotiva dell’allarme sociale dell’opinione pubblica a cui la politica è chiamata ontologicamente a piegarsi, gli interventi legislativi in materia penale finiscono per diventare terreno di scontro tra impostazioni esegetiche a volte opposte ma forse,  per certi, versi sicuramente conciliabili.  Ne è attuale testimonianza proprio la recentissima previsione del delitto di femminicidio ad opera del disegno di legge dell’8 Marzo del 2025 che introduce all’interno del codice penale l’art. 577 bis il quale punisce chiunque (quindi sia un uomo che una donna) cagioni la morte di

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MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

di Oliviero Mazza* – 1. Riparazione e confessione. – Quando si affronta il tema della giustizia riparativa bisogna porsi una domanda preliminare: qual è il presupposto per accedere a questo procedimento incidentale1, così delineato dal meccanismo dell’invio d’ufficio ex art. 129-bis c.p.p.? I sostenitori del brave new world si nascondo dietro fumisterie verbali: non «si richiede una confessione all’imputato», trattandosi di un «percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato»2. Il primo impatto giurisprudenziale, invece, ci ha richiamato a un sano realismo giuridico: vi sono soverchie «difficoltà di ammettere un programma di giustizia riparativa in corso di un processo (e ancora più di un procedimento) allorché l’imputato (o l’indagato) contesta la fondatezza dell’accusa»3. Del resto, al di là della prevedibile interpretazione giurisprudenziale, era la logica a riportare l’interprete a una realtà normativa che, finalizzata alla riparazione di qualcosa, ne postulava prima la rottura. Detto altrimenti, la giustizia riparativa delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 non è un gioco di società e nemmeno una seduta di analisi collettiva, ma è calata integralmente nel sistema penale come forma di risoluzione alternativa del conflitto interindividuale rappresentato dal reato. A riprova di ciò, è sufficiente ricordare quali siano gli effetti penali del procedimento incidentale di mediazione: per i reati procedibili a querela, il cui novero è stato significativamente incrementato proprio dalla riforma Cartabia, la risoluzione alternativa della controversia determina la remissione di querela (art. 152 comma 2 n. 2 c.p.). Il collegamento fra il procedimento principale e quello incidentale è reso ancor più chiaro dalla previsione che, «quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati». Per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’esito riparativo determina l’applicazione di una specifica diminuente (art. 62 n. 6 c.p. che parifica la riparazione al risarcimento del danno e alle condotte riparatorie) nonché la sospensione condizionale della pena (art. 163 comma 5 c.p.). Senza dimenticare la prospettiva, tutt’altro che remota, di una surrettizia applicazione dell’archiviazione meritata – istituto abbozzato e poi abbandonato nei la vori preparatori della riforma – in seguito al buon esito della giustizia riparativa avviata per decisione del pubblico ministero. Il quadro normativo certifica che davanti al mediatore non si discute di “nudi fatti”, privi di rilevanza penale, posto che l’unico oggetto del procedimento incidentale è la “rottura” dei rapporti personali determinata dal reato, con tutte le conseguenze del caso, tanto in termini di procedibilità e di definizione del procedimento già in fase di indagini quanto di dosimetria sanzionatoria e di benefici di legge. Al di là della ricostruzione quasi esoterica della “conca riparativa”, per il giurista positivo è innegabile che l’ammissione da parte dell’imputato dei fatti che gli vengono addebitati costituisca la precondizione indispensabile per l’accesso stesso ai programmi riparativi. Del resto, il rinvio generale ai principi internazionali, contenuto nell’art. 53 comma 1 d.lgs. n. 150 del 2022, è più che sufficiente per importare nella disciplina nazionale proprio quelle regole europee che impongono, quale condizione essenziale per l’avvio del procedimento, che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso» (art. 12, c. 1, lett. c, dir. 2012/29/UE). Analoga affermazione si ritrova nel par. 30 della Raccomandazione 8(2018) del Consiglio d’Europa, secondo cui «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda». Il primo mito è dunque sfatato, la giustizia riparativa rimane, fin dalla sua matrice europea e nella sua connotazione finalistica, un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la sua responsabilità. 2. Vittimocentrismo occultato. – I conditores hanno alimentato un secondo mito, quello del sistema paritario non vittimocentrico4, e la giurisprudenza questa volta sembra prenderli in parola quando afferma che l’istituto è «del tutto disfunzionale alla tutela delle vittime dei reati a sfondo sessuale o di genere, in totale distonia con la vocazione securitaria, spesso solo apparentemente pubblicizzata, dalle norme relative a tale specifico settore»5. Non si può negare la conclamata schizofrenia normativa. Si pensi al giudice che applica una misura coercitiva all’imputato, magari il divieto di avvicinamento alla persona offesa, e al tempo stesso ordini l’invio di entrambi i soggetti in conflitto davanti al mediatore affinché possano “avvicinarsi” oppure a tutti i casi in cui l’imputato sia ristretto nella sua libertà personale in ragione del pericolo di recidiva e venga nondimeno disposto il suo invio al centro per la giustizia riparativa al fine di incontrare proprio chi si assume abbia già subito le conseguenze della condotta violenta. Al di là delle sempre più evidenti contraddizioni di un sistema penale irrazionale, la giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore fra i primi commentatori, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono giudiziale dell’imputato a condizione che compia tangibili atti di contrizione.Questo è il programma delineato dal legislatore che, in entrambe le chiavi di lettura, risulta ben lungi dalla mistica delle emozioni, attingendo a una smaccata presunzione di colpevolezza. Ogni riflessione ulteriore deve prendere le mosse, ancora una volta, dal dato di realtà giuridica: il legislatore non mette sullo stesso piano vittima e colpevole, il sistema è intriso di una cultura europea

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LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO

di Gian Luigi Gatta* – 1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma. Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società. Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi. 2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma vecchio come il diritto penale, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima. C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato. Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare». Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia va proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale. Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore. 3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e

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QUESTIONI INTERPRETATIVE IRRISOLTE NELLA TUTELA PENALE DELLA PRIVACY

di Tommaso Passarelli* –  1. Esigenze criminologiche e stratificazione legislativa. Dal punto di vista criminologico, fin dall’avvento dell’informatica, siano sorti specifici bisogni di tutela del diritto alla riservatezza e, in particolare, della protezione dei dati personali, sovente gestiti da banche dati pubbliche e private[1]. Da lungo tempo, infatti, l’esigenza maggiormente avvertita è quella di garantire alla persona il controllo sull’utilizzo dei propri dati effettuato mediante i programmatori informatici, poiché il funzionamento della rete internet è basato sulla profilazione degli utenti, che nello spazio virtuale condividono una gran quantità di informazioni personali. Proprio quest’ultimo aspetto riflette una intrinseca tensione tra l’espansione dello spazio digitale, che invade aree sempre maggiori nella vita delle persone a causa dell’elevata diffusione dei dati, e le suddette esigenze di tutela, ciò che ha spinto alcuni autori a teorizzare un moderno habeas data, sulla scia del più classico habeas corpus. La materia è caratterizzata da frequenti novelle legislative – innervate dai dicta provenienti dal diritto sovranazionale – finalizzate ad adeguare la tutela legale dei dati personali alla costante evoluzione tecnologica, che li espone a sempre più sofisticate forme di illecita diffusione nello spazio web. In questo senso, il Regolamento UE n. 679 del 27 aprile 2016, noto come G.D.P.R. (General data protection regulation), ha sostituito la previgente disciplina dettata dalla dir. 95/46/CE. In Italia, esso è stato recepito col d.lgs. n. 101 del 10 agosto 2018, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria. La legislazione domestica, in subiecta materia, era ferma alle statuizioni del d.lgs. n. 196/2003, che a sua volta aveva sostituito la primigenia disciplina di cui alla L. n. 675 del 31 dicembre 1996. Sul piano sovranazionale, la protezione dei dati personali è riconosciuta e garantita come diritto fondamentale della persona all’art. 8, c. 1, della C.D.F.U.E. (c.d. “Carta di Nizza) e all’art. 16, c. 1, del T.F.U.E. . Anche la Convenzione EDU, all’art. 8, contempla la protezione dei dati personali, che assume rilievo onde garantire il rispetto del diritto alla vita privata e familiare, il quale si alimenta dell’autodeterminazione informativa della persona e consente di rivendicare il diritto alla riservatezza dei dati raccolti, trattati e diffusi in guisa da investirne direttamente gli interessi. Le predette operazioni, pertanto, non devono eccedere la soglia della ragionevole prevedibilità in capo all’utente medio. Emerge chiara, sulla scorta di questa ricostruzione di sintesi, la dimensione transnazionale del diritto alla privacy, in ragione della globale circolazione dei dati personali, che comporta la necessità di predisporre tutele e garanzie altrettanto ampie, in ossequio al principio di proporzionalità. Seguendo il solco tracciato dal diritto sovranazionale, gli Stati membri, infatti, predispongono, nell’esercizio della loro autonomia legislativa, discipline di protezione coerenti, onde assicurare un livello omogeneo di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone.   2. Il reato di “Trattamento illecito di dati” ex 167 d.lgs. n. 196/2003. La tutela penale dei dati personali è affidata, nel nostro ordinamento, alla fattispecie di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 196/2003[2], che nella sua veste attuale si apre con la clausola di riserva che recita «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Quest’ultima evidenzia l’attenuato disvalore penale attribuito al delitto in parola, rimarcato anche dal ridotto editto sanzionatorio, da sei mesi a un anno e sei mesi. Sotto questo profilo, giova fin da subito rilevare come il comma 6 preveda anche una diminuzione di pena per il caso in cui, sulla scorta dell’idem factum, sia applicata e riscossa una sanzione amministrativa pecuniaria. Con questa previsione, il legislatore ha contemperato l’afflittività derivante dalla congiunta irrogazione di sanzioni penali e amministrative, in ossequio al principio del ne bis in idem[3]. Nello specifico, al comma 1 sono sanzionate le condotte finalizzate a produrre un profitto (illecito) in capo agli agenti o a terze persone, ovvero a cagionare un danno all’interessato. Si configura così l’elemento soggettivo del dolo specifico, rappresentato proprio da questa doppia e alternativa finalità. Successivamente, viene individuato l’evento giuridico del reato nel solo nocumento arrecato al soggetto passivo, e non anche nella concreta realizzazione del profitto. A parere di chi scrive, si tratta di una precisa scelta di politica criminale, volta a sanzionare le azioni realmente dannose perpetrate nei confronti dei titolari dei dati personali, in ossequio alla ratio legis sottesa alla disposizione – orientata, sul piano assiologico, a tutelare la riservatezza e la privacy della persona – e al fine di selezionare gli aspetti di maggior disvalore penale. Il soggetto attivo è individuato in “chiunque”, configurando così un reato comune. Non si condivide, sul punto, la tesi, invero minoritaria, volta a promuovere un’interpretazione restrittiva della fattispecie, declinata alla stregua di un reato proprio, secondo la quale solo i soggetti istituzionalmente deputati alla tenuta dei dati potrebbero integrare il tipo legale. Questa tesi, infatti, introduce per via ermeneutica elementi qualificanti che il legislatore non ha inteso adottare, ciò che escluderebbe indebitamente dal novero dei destinatari del precetto tutti quei soggetti che facciano un uso illecito dei dati altrui senza essere in alcun modo predisposti, professionalmente o istituzionalmente, al loro trattamento, così da aprire la strada ad estese aree di impunità. Proseguendo, il comma 2 configura una diversa ipotesi di reato, che strutturalmente ricalca il modello di cui al comma 1. In questa sede, tuttavia, è sanzionato il trattamento dei dati sensibili (quali i dati genetici e biometrici) e giudiziari. Rispetto alla previsione di cui al comma precedente, questi dati si presentano dunque “qualificati” da un maggior grado di invasività e involgono aspetti sensibili della personalità del titolare, ciò che connota le condotte offensive di un disvalore penale superiore, rappresentato dalla più elevata pena della reclusione da uno a tre anni. Ai sensi del comma 3, poi, alla medesima pena soggiace anche colui che trasferisca i predetti dati verso Paesi esteri e organizzazioni internazionali, all’infuori del perimetro tracciato dagli artt. 45, 46 e 49 del GDPR. Ai commi 4-5, infine, è affidata la disciplina dei rapporti tra l’azione del P.M. e quella del Garante per la protezione dei dati personali in ordine alla gestione delle notizie di reato afferenti al trattamento

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VIETARE È IL CONTRARIO DI REGOLAMENTARE: A PROPOSITO DI REATI UNIVERSALI E GPA E DEL FALLIMENTO (ENNESIMO) DEL DIRITTO PENALE MASSIMO

di Aurora Matteucci* Nel marzo del 2023 è uscito, per Einaudi, il libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”. Un’introspezione spietata, senza sconti, a tratti violenta, mani e piedi dentro l’ossessione di un desiderio che non si realizza – quello di diventare madre – incastrato nei territori ameni della medicalizzazione esasperata. Una vertiginosa ricerca del sé, in costante bilico tra esigenza di affermazione professionale, clessidre che scorrono senza sosta, idee e desideri che cadono in frantumi di fronte alla dissociazione tra la dimensione biologica del tempo e quella sociale. Lattanzi racconta, attraverso la sua esperienza, quella di molte altre donne che (legittimamente) hanno sorvegliato per anni il desiderio di maternità considerandolo rimandabile ad un dopo indefinito che non arriva più. Una storia, la sua, che lascia senza fiato, ma che al contempo restituisce ossigeno per raccontare le cose che non si ha il coraggio di raccontare, estraendole, una ad una, dalla polvere dei molti cliché che segnano, con il marchio dell’ipocrisia, ampia parte di quel che ruota intorno alla maternità e, più in generale, alla genitorialità.  Quando si ha a che fare, poi, con la gestazione per altri (il c.d. utero in affitto secondo una scelta lessicale spudoratamente negativa) il dibattito è ridotto ad una sfida tra assolutismi etici, slogan urlati, luoghi comuni tanto più odiosi quanto più irrispettosi delle implicazioni umane che ne sono coinvolte: si pensi alle difficoltà di un’intera generazione sul piano riproduttivo; o ancora alle strettoie ideologiche che impediscono alle coppie omosessuali di realizzare un progetto di famiglia alternativo a quello tradizionale. Molte persone, per ragioni diverse, di fronte al bivio tra impossibilità di fare altrimenti e tentativo di realizzare un desiderio, ricorrono all’estero, nei paesi in cui è consentita, per affidarsi alla gpa[1]. Questo perché in Italia è un reato. Tra i molti luoghi comuni che alitano le ragioni del divieto assoluto contro la gpa (e che la filosofa Chiara Lalli nel suo podcast “Affittasi Utero” per Fandango ha rigorosamente smascherato) ve n’è uno che suona quasi come un rimprovero cui dovrebbe corrispondere persino un senso di colpa: perché non ricorrere all’adozione? Perché, al netto della libertà di ognuno di decidere come e se diventare genitore, la strada dell’adozione è un labirinto esasperante riservato alle sole coppie sposate o conviventi stabilmente da almeno di 3 anni. Eterosessuali, si intende.  Qualsiasi analisi dell’esistente che abbia a che fare con il tentativo di regolamentare fenomeni complessi come quello del far venire al mondo qualcuno, attraversati, più di altri, da implicazioni biologiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche, deve inevitabilmente fare i conti con la straordinaria varietà delle biografie che ne costituiscono il presupposto, deve numerarle, nominarle, identificare i percorsi della vita che, ad un certo punto, finiscono sull’orlo di decisioni laceranti: condurre un’esistenza segnata dal lutto di un desiderio irrisolto, provare altrimenti a superarlo e vivere, ugualmente, una vita felice, oppure affidarsi alle possibilità che l’evoluzione scientifica offre? Sono domande, queste, completamente dimenticate nel discorso pubblico ormai dominato, non solo in questo settore, da un ipertrofico ricorso al divieto, alla sanzione, alla criminalizzazione di scelte etiche non in linea con il pensiero dominante. È quello che è accaduto nel dibattito politico che ha condotto, lo scorso 4 novembre 2024, all’approvazione della legge 169 che ha esteso la criminalizzazione del ricorso alla surrogazione di maternità anche a quella commessa all’estero da cittadino italiano. Una pesante mannaia che non tiene in considerazione almeno due aspetti. Anzitutto esiste, anche per coloro che ricorrono alla gpa e che non contribuiscono alla gestazione con il proprio patrimonio genetico (dunque per i c.d. genitori d’intenzione, non biologici), il diritto alla piena realizzazione di una famiglia. Diritto che la Corte europea, nel noto parere consultivo del 10.4.2019[2], ritiene ricadente entro il raggio di azione dell’art. 8 Cedu, purché connesso sempre al riconoscimento del c.d. best interest of child. Si sa bene, per carità, che in Italia questo diritto viene dosato con il contagocce, affidato com’è al percorso tortuoso dell’adozione in casi particolari. Eppure, non è revocabile in dubbio. Le due sentenze a Sezioni unite della Cassazione civile (la n. 12913 del 2019 e la n. 38162 del 2022) stanno lì a ricordarci che, seppur declinato come interesse del minore alla propria famiglia (e non del genitore intenzionale), questo diritto esiste, salvo sempre il limite – moloch inscalfibile – dell’ordine pubblico (sic!)[3]. Ma il divieto assoluto, universale, del ricorso alla gpa dimentica anche che le donne non sono un corpo muto (prendo in prestito la felice espressione di M. Nicchi, Una donna non è un corpo muto, in CRS, 20.4.2023) e che silenziare la voce di chi decide, consapevolmente e scientemente, di disporre del proprio corpo per la realizzazione di desideri altrui, non porta a niente di buono. Men che meno usare il diritto penale massimo per tutelare una dignità che la titolare, quando è libera di autodeterminarsi, non ritiene in alcun modo offesa. Occorrerebbe, invece, – secondo la lezione di Luigi Ferrajoli- fare ricorso al diritto penale in misura “minima”, usarlo con l’unico scopo di offrire uno strumento di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che, in sua assenza, si produrrebbero.  Un approccio, questo, decisamente soppiantato dall’uso egemonico del diritto penale, onnivoro catalizzatore di istanze repressive e strumento di regolamentazione a senso unico – mediante il divieto e la sanzione- dei fenomeni sociali. Che il punire sia passione contemporanea (per citare D. Fassin) è questione nota e da tempo oggetto di acute critiche e riflessioni. Non è il caso di attardarsi su questo, se non per sottolineare come, anche con l’estensione territoriale dell’incriminazione del reato di surrogazione di maternità, punito oggi urbi et orbi ad opera della L. 169/2024, si è inteso agitare lo strumento penale a dispetto di una regolamentazione seria della materia, capace di interagire in modo più adeguato con le numerose domande che solleva, inevitabilmente, il ricorso a questa pratica e che hanno a che fare con desideri complessi, con il dolore dei fallimenti riproduttivi, con le potenzialità, non sempre a misura umana, della scienza e della medicina. È una

VIETARE È IL CONTRARIO DI REGOLAMENTARE: A PROPOSITO DI REATI UNIVERSALI E GPA E DEL FALLIMENTO (ENNESIMO) DEL DIRITTO PENALE MASSIMO Leggi tutto »

USURA E REATI “A DUPLICE SCHEMA”: QUANDO IL TENTATIVO È GIÀ CONSUMAZIONE. UN MODELLO ALTERNATIVO È POSSIBILE?

di Pietro Luigi Riillo* – SOMMARIO: 1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie – 2. Il tentativo – 3. Un modello alternativo – 4. La replicabilità del modello nelle fattispecie corruttive, ma non in quella concussiva o di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. – 5. Conclusioni.   1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie Il reato di usura, disciplinato all’art. 644 c.p., può essere delineato attraverso due aspetti caratterizzanti: il primo relativo alla fissazione di una soglia legale oltre la quale è da ritenersi integrata la presunzione di usurareità del tasso; il secondo, invece, concerne l’eliminazione – attraverso l’iter riformatore degli anni ‘90 – del requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo (e delle sue condizioni di difficoltà economiche), rinvenibile ora nella circostanza aggravante di cui all’art. 644, comma 5, n. 3, c.p. La norma punisce chiunque “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità[i], interessi o altri vantaggi usurari”. Prima dell’entrata in vigore della L. 7 marzo 1996 n. 108, dottrina e giurisprudenza fissavano la consumazione del delitto di usura attraverso la “stipula” dell’accordo usurario[ii]. L’effettivo versamento degli interessi, d’altra parte, rappresentava una (eventuale) consecutio post-factum. Di diverso avviso – a seguito dell’introduzione dell’art. 644-ter c.p.[iii] – la giurisprudenza formatasi in ordine al momento consumativo della fattispecie. Difatti, qualora alla promessa seguisse poi una dazione “effettiva” (anche se rateale), quest’ultima – in quanto porzione del fatto – deve essere considerata parte integrante della fattispecie concreta[iv]. Alla luce di ciò, parrebbe giustificata l’adozione dottrinal-giurisprudenziale circa la natura a duplice schema del delitto in esame, potendosi configurare sia un “modello unitario” della condotta, allorquando alla promessa di versare interessi o vantaggi usurari (ed alla relativa accettazione) non seguisse la dazione vera e propria, e sia attraverso il modello “a condotta frazionata” (di natura eventuale), incidente sul calcolo della prescrizione e, conseguentemente, pure in ordine al tempus commissi delicti[v]. Sul medesimo schema distintivo si incastona, altresì, la duplice natura di reato di pericolo o di danno della fattispecie in esame. La struttura oggettiva del reato, difatti, alla luce del proprio carattere mutevole, fa dipendere la propria realtà naturalistica in ordine alla possibilità che la condotta si sia limitata alla sola accettazione della promessa da parte dell’agente (in tal caso ci si troverebbe di fronte ad un reato di pericolo), o all’eventualità che, dopo l’accettazione della promessa, sia avvenuta la dazione vera e propria (in un’unica soluzione o ratealmente), di tal guisa si avrebbe la tramutazione, post-factum, in reato di danno. Il legislatore, pertanto, ha scelto di punire già la fase (strumentale) della stipulazione dell’accordo, quale momento perfezionante la fattispecie, a nulla rilevando, in termini di punibilità, se ad essa seguisse (o addirittura potesse seguire), la dazione economica vera e propria. Il disvalore perseguito dalla norma risiede, dunque, semplicemente nella dazione o nell’accordo di corrispondere interessi o vantaggi usurari, supportato sul piano soggettivo dalla consapevolezza (dolo generico) dell’agente di superare il tasso soglia stabilito dalla legge (usura “in astratto”) o dalla sproporzione tra la prestazione fornita e la controprestazione richiesta (usura “in concreto”). Questo avviene a prescindere dall’iniziativa del reo nel promuovere l’operazione illecita di finanziamento e dall’eventuale accettazione volontaria delle condizioni usurarie da parte della vittima. Più articolato appare, peraltro, eseguire una ricognizione in ordine al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Non è univoco, difatti, capire quale sia il bene che la norma ha inteso porre alla sua tutela anticipata. Sul punto, la questione non ha trovato soddisfacimento neppure a seguito della riforma del 1996. Secondo un orientamento dottrinale prevalente, occorre ritenere come il bene giuridico non debba individuarsi nel patrimonio individuale della persona – fisica o giuridica[vi] che sia – bensì nella tutela del mercato creditizio[vii] o, in alternativa, nella correttezza dei rapporti economici[viii] o delle obbligazioni nascenti dai rapporti di credito al fine di porre un limite al costo del denaro[ix]. Inoltre, prendendo le mosse dal testo normativo dell’art. 644 c.p., la Corte di Cassazione, Sez. II, ha osservato[x] come “ai fini dell’integrazione del delitto di usura non è richiesta una condotta induttiva da parte di chi pone in essere la condotta usuraria, rilevando unicamente l’usurareità oggettiva delle condizioni pattuite”. All’interno del provvedimento dei giudici di legittimità, è stato pertanto escluso che ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie, ricorra la necessità che il soggetto agente debba realizzare una qualche condotta “preparatoria” di natura induttiva, neppure di tipo intimidatorio[xi]. Di tal guisa, è l’accordo tra le parti a rappresentare l’elemento costitutivo della fattispecie. Sul punto, il Supremo Consesso – nella medesima pronuncia – teneva a precisare come “il nucleo essenziale dell’elemento oggettivo consiste ora nel «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità»” e che “nonostante il fatto che la formulazione legislativa «si fa dare o promettere» sembri presupporre l’iniziativa dell’usuraio, non rileva neppure il fatto che l’iniziativa di dare il via alla negoziazione usuraria sia stata presa dal soggetto che ha necessità del prestito”. Pertanto, esclusa dalla condotta tipica ogni genere di attività “pre-contrattuale” – l’attuale struttura oggettiva del reato di usura si sviluppa attraverso diverse fasi, alcune delle quali penalmente irrilevanti ed altre, invece, determinanti l’effettiva consumazione del reato.  La fase preliminare può consistere sia nell’attività di procacciamento – ossia nella ricerca attiva del soggetto agente, disposto a concedere denaro a condizioni usurarie – e sia nell’attività di ricerca del capitale a interessi usurari da parte del “soggetto debole” del contratto. Tali attività, pur essendo potenzialmente sintomatiche di un contesto illecito, non hanno rilevanza penale diretta, sebbene possano giustificare l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti del soggetto agente. Successivamente, si verifica la fase della trattativa, nella quale le parti avviano un negoziato circa le condizioni del contratto usurario. Anche in questa fase, l’ordinamento non attribuisce rilevanza penale alla condotta, trattandosi di una mera negoziazione priva di effetti giuridici vincolanti, fatta sempre salva l’applicabilità di misure di sicurezza nei confronti dell’agente. La successiva

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APPUNTI PER UNA VOCE SULLA LEGITTIMA DIFESA.

  di Fabrizio Cosentino* 1. L’istituto della legittima difesa è contemplato all’art. 52 del codice penale, che nella formulazione originaria recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Preservare sé stessi o il prossimo, da un pericolo concreto (non paventato) e presente, mantenendo un principio di proporzione tra offesa e reazione difensiva o interruttiva: questi sono i principi cardine che regolano l’ermeneutica di quella che viene considerata dalla dottrina giuridica penalistica una causa di giustificazione, scriminante o esimente, che conduce a non applicare la norma punitiva, rispetto ad un fatto che in altre condizioni, sarebbe normalmente da considerare reato.            2. L’istituto era già apparso nel codice penale sabaudo del 1859 agli artt. 559, 560 e 563. In particolare, l’art. 559 del codice penale sardo stabiliva che “non vi è reato quando l’omicidio, le ferite o le percosse sono comandate dalla necessità attuale di legittima difesa di sé stesso o di altri, od anche del pericolo in atto di violento attentato” e all’art. 560 si precisava che “sono compresi nei casi di necessità attuale di legittima difesa i due seguenti: 1) se l’omicidio, le ferite, le percosse abbiano avuto luogo nell’atto di respingere di notte tempo la scalata, la rottura di recinti, di muri, o di porte d’entrata in casa o nell’appartamento abitato o nelle loro dipendenze; 2) se hanno avuto luogo nell’atto della difesa contro gli autori di furti o di saccheggio compiuti con violenza verso le persone”. Francesco Carrara, nel suo Programma del Corso del Diritto Criminale dato alle stampe a beneficio dei propri «scolari» il 10 dicembre 1859, nel discutere intorno alla «coazione», dettava i cardini della «necessaria difesa», ponendo a fondamento di fatto dell’istituto «il timore», di un male non ancora patito[1], e sotto l’aspetto giuridico la cessazione del diritto di punire nella società (e non già che la società eserciti il diritto di punire per delega del privato). Scriveva Carrara: “con l’imporre che l’innocente si lasci uccidere, si imporrebbe un disordine, e si andrebbe così a ritroso della legge di natura che è la unica base del giure penale umano. Che se vi è disordine anche nella strage di un altro innocente (come, per esempio, avviene quando l’aggressore che si uccise era un pazzo) la parità dei disordini toglie sempre il diritto di punire, facendone cessare la causa”. Nell’opinione di Carrara chi difende la propria vita o l’altrui dal pericolo di un male ingiusto, grave e non altrimenti evitabile, che minaccia la persona, esercita un “vero e sacro” diritto, anzi un vero e sacro “dovere”, perché tale è quello della conservazione della propria persona.   La nozione di legittima difesa verrà poi introdotta stabilmente nel codice Zanardelli del 1889 agli artt. 49 e 50, distinguendo due casi: la necessità di “respingere” da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta; la necessità di salvare sé o altri da un pericolo grave e imminente alla persona, senza avervi dato consapevolmente causa, e che non si poteva altrimenti evitare (commodus discessus).   3. Il codice penale del 1930 provvederà a riformulare radicalmente la previsione di legge. Dai lavori preparatori al codice penale emanato sotto il fascismo, emerge una sostanziale avversione alle novità introdotte dal c.d. codice Rocco. In particolare, era opinione della suprema magistratura, in un’ottica di adesione – con spiacevole espressione di piaggeria – alla “nuova concezione statale del Fascismo” come negazione del contratto sociale (ovvero, in senso autoritario), che la legittima difesa meritasse di essere confinata nell’ambito della difesa personale e non di qualsiasi altro diritto. Le Corti di appello intervenute sul tema mostrarono forte preoccupazione per la «inopinata» estensione della legittima difesa ai diritti di proprietà, ritenendo “troppo lata e pericolosa la tutela accordata per la difesa di qualunque diritto” (così, ad es., si esprimeva la  Corte d’Appello di Messina). La Corte d’Appello di Napoli annotava la preoccupazione per il prospettato allargamento, laddove “rimanesse in vita il giurì, notoriamente proclive ad accedere alla richiesta di detta scriminante” (Ibid., 399). Anche la Procura Generale di Palermo, si era opposta all’innovazione, richiamando l’attenzione sulla necessità di mantenere limiti alla «incolpata tutela»: “la legittimità dell’azione, che può condurre anche alla uccisione del proprio simile, non può essere conceduta, se non quando vi sia una violenza, non il pericolo di una offesa contro cui si reagisce”. Non dissimile l’atteggiamento delle Università, mentre più aperte al dialogo appaiono le posizioni assunte dagli ordini degli Avvocati. Mentre le Commissioni Reali degli Avvocati e Procuratori di Bologna, di Genova, Trieste, Udine, Pisa e Palermo manifestavano il medesimo scetticismo, per una formula legislativa che allargava il campo fino a comprendere la difesa dei diritti di proprietà, e così anche il Sindacato degli Avvocati e Procuratori di Cagliari e Lanusei, non mancarono le adesioni al progetto innovativo. Gli avvocati di Milano, ad es., consideravano “ottimo l’art. 54, che precisa il concetto della legittima difesa e costituisce un encomiabile miglioramento in confronto alla formulazione dello stesso concetto nell’art. 49, n. 2 codice vigente”. Anche per gli avvocati di Venezia, l’estensione della legittima difesa a qualsiasi diritto, “benché osteggiata dalla Corte suprema, ci sembra approvabile: la Corte si preoccupa che l’art.54 allarghi eccessivamente i confini della difesa privata, mentre questa dovrebbe essere circoscritta al caso di attacco alla persona. È strano l’appunto della Corte Suprema che, pur vigendo l’articolo 49 attuale, aveva molte volte fatto applicazione della massima di diritto comune qui continuat non attentat la quale evidentemente è di una portata molto più ampia di quella vim vi repellere licet”. In Commissione, emersero le medesime preoccupazioni sull’eccessivo allargamento dello spazio concesso alla difesa privata, inteso come una concessione al lassismo. Nel verbale del 16 marzo 1928, il commissario Gregoraci sintetizza e ribadisce la critica: “la cosa è tanto più pericolosa, in quanto, non solo i giurati ma la stessa magistratura, è già oggi troppo proclive ad ammetterla”. Era però di contrario avviso il

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LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA

di Saverio Loiero* –  La necessità di porre un freno al fenomeno della medicina difensiva è stata ed è il fondamento politico delle recenti vicende normative attinenti alla responsabilità penale del medico. La legge Balduzzi, prima, e la legge Gelli-Bianco, poi, sono state emanate proprio allo scopo di contenere la sempre più dilagante citazione in giudizio dei medici in sede penale, cui ha fatto seguito la crescente manifestazione di pratiche mediche superflue e/o eccessive rispetto al normale iter clinico. Con entrambe le riforme si è tentato di far riacquistare valore e forza normativa all’opinione, fatta propria dalla giurisprudenza formatasi già a partire dalla prima metà degli anni ottanta ed ancorata alla disposizione di cui all’art. 2236 del codice civile, volta a sottolineare la speciale difficoltà dell’arte medica ed a limitare, di conseguenza, la responsabilità del sanitario solo ai casi di imperizia grave, oltre che di negligenza e imprudenza. L’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) prevedeva, infatti, che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». La legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha, invece, inteso introdurre una disposizione ad hoc, l’art. 590 sexies del codice penale, stabilendo, in relazione ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 commessi nell’esercizio della professione sanitaria, che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Sul piano della concreta applicazione, l’ultima novella si è rivelata sin da subito di difficile configurabilità, ponendo non poche questioni di carattere interpretativo: quale fosse l’esatto ambito di applicazione della disposizione; se la stessa rivestisse carattere di causa di non punibilità ovvero di scriminante, con le ovvie conseguenze in tema di risarcimento del danno; se avesse ancora un qualche rilievo il grado della colpa; se fosse applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore o meno. A risolvere il contrasto esistente in materia, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272174, Rv. 272175 e Rv. 272176, fissando alcuni insegnamenti, oggi imprescindibili, nella valutazione della responsabilità del sanitario. L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. In sintesi, affinché l’art. 590 sexies comma 2 c.p. possa trovare applicazione, il giudicante dovrebbe verificare che il sanitario abbia correttamente individuato e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate al caso concreto ma, contestualmente, abbia commesso un errore nel momento esecutivo di esse e che tale errore esecutivo sia riconducibile all’imperizia (essendo negligenza e imprudenza escluse dalla causa di non punibilità) e solo allora dovrebbe procedere ad esaminare la gravità della colpa. È parso, all’indomani dell’intervento nomofilattico, subito evidente che la Suprema Corte abbia inteso recuperare la tradizionale distinzione fra colpa grave e colpa lieve, con notevoli ripercussioni anche in tema di successione di leggi penali nel tempo. L’abrogato articolo 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi integra, a parere delle Sezioni Unite, una parziale abolitio criminis mentre l’art. 590 sexies cod.pen. introduce una causa di non punibilità; la prima disposizione, allora, si pone come norma più favorevole rispetto alla seconda, con conseguente applicabilità a tutti i fatti commessi sino all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per i profili della negligenza o dell’imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto. Di estremo rilievo diviene, dunque, l’individuazione e la valutazione del grado della colpa, non certo di immediata comprensione, non essendo rinvenibile, com’è noto, alcun criterio codicistico utile a siffatta distinzione. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, hanno riacquistato autorevolezza in chiave soggettiva i concetti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nei quali si sostanzia l’accertamento della colpa. Ai fini della misura della colpa, assume nuova centralità l’individuazione della condotta dell’agente modello, quale comportamento alternativo lecito, rectius diligente, di talché il parametro positivo si rivela essere la distanza fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente in concreto e quella che era da attendersi. Può affermarsi, tuttavia, ad ormai sette anni dalla sua entrata in vigore, che la legge Gelli-Bianco non abbia risposto alle istanze della classe medica, soprattutto sotto il profilo penale, vanificando così l’originario intento del legislatore, dettato dalla esigenza, anche sul piano della finanza pubblica, di porre un argine alle pratiche difensive del medico. È proprio in punto di esigibilità concreta della condotta che l’interpretazione restrittiva della legge Gelli-Bianco ha mostrato tutti i suoi limiti, soprattutto nel contesto della insorta emergenza pandemica, imponendo al legislatore ulteriori interventi normativi attraverso l’introduzione del c.d. “scudo penale”. Sono stati, così, ridisegnati i confini della responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica, sancendone la punibilità solo nei casi di colpa grave e positivizzando alcuni criteri guida per il giudicante nell’esclusione della gravità della colpa.  Ebbene, tali interventi normativi hanno, certamente, reso ancor

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LA GRAVITÀ INDIZIARIA DI COLPEVOLEZZA QUALE PRESUPPOSTO PER L’APPLICAZIONE DI UNA MISURA CAUTELARE PERSONALE

di Antonio Baudi –  1.Il dato esperenziale. Si immagini, ma con rispettoso senso della realtà effettuale, un dialogo tra un cautelando e il giudice competente per il provvedimento cautelare: “Mi ascolti. Il mio compito è di eseguire il precetto di legge in materia per cui le faccio rilevare che, in base agli elementi probatori addotti dal PM, lei ha commesso il reato che l’inquirente, allo stato delle indagini, le ascrive; inoltre tale giudizio la esporrebbe a condanna comportante la irrogazione di una pena reclusiva; orbene, in attesa ed in vista del processo, se e quando arriverà, lei è anche un soggetto pericoloso perché (a) può sottrarsi al giudizio finale dandosi alla fuga, perché (b) può inquinare la genuinità delle prove da acquisire, perché (c) può commettere altri reati di un certo rilievo; ne consegue, che, poiché l’ordinamento esige che tutto questo non avvenga, lo sottopongo ad una misura cautelare”. Due immediate considerazioni: a) Il discorso del giudice rispecchia fedelmente il senso della legge nella sua fase applicativa e dunque chiarisce la reale natura del provvedimento cautelare, la cui fattispecie fondante è comprensiva di due requisiti nominati rispettivamente, per tradizione civilistica, il “fumus bini iuris” e il “periculum in mora”. b) In realtà il dialogo è inventato posto che non esiste, e non è comunque consentito dal sistema, un preliminare incontro/interrogatorio tra giudice e cautelando. L’interlocuzione avviene tra PM che chiede la misura e allega gli elementi indiziari a sostegno e giudice che deve provvedere, inaudita et altera parte. È notorio che tale incidente giurisdizionale si inserisce nella fase delle indagini preliminari, garantite da segretezza sul punto, come è notorio che esso prelude all’esercizio dell’azione penale, sicché lo spazio probatorio residuo è riservato alle contro-ragioni difensive. Ferma la regola generale per cui, ex art. 192.2 c.p.p., “a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio”  nell’ordinanza cautelare siano esposti gli “indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza” solo sulla carta vale il disposto di cui alla lettera c-bis dello stesso comma che richiede che siano esposti i “motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa”. Poiché nella prassi non è praticato alcun contraddittorio e la misura applicata si esegue all’insaputa del sottoposto, l’incontro con il cautelato avviene dopo, in sede di interrogatorio di garanzia espletato dallo stesso giudice cautelante in tempi brevi: in tale sede l’interrogato, ove decida di avvalersi della facoltà di non rispondere, espone quanto ritiene in sua difesa eventualmente producendo documentati elementi di prova contrari, in concreto di difficile efficacia se quel giudice non eserciti la (per vero doverosa) autocritica, revisionando quanto deciso. 2. La situazione effettuale e l’analisi critica della disciplina. Si utilizza l’aggettivo “critica” in senso costruttivo al fine di evidenziare, anche confutando tesi di portata diversa, la corretta interpretazione delle disposizioni legislative e la ponderata considerazione dei valori sostanziali incidenti.     2.1 Innanzi tutto quanto ai rapporti tra giudizio cautelare e giudizio finale. Il problema si pone in quanto il principio accusatorio esige che il giudizio avvenga davanti al giudice del processo e che, prima della fase giurisdizionale, esistano solo investigazioni finalizzate all’esercizio dell’azione penale, nel cui ambito il legislatore usa una terminologia differenziata in tema di prova. Non va ignorato però che, nella realtà, lo scopo degli inquirenti è quello di acquisire elementi di prova sul fatto di reato finalizzati a sostenere l’accusa, sicché, se la prova si forma dialetticamente in dibattimento o comunque nel successivo giudizio, nella sostanza gli elementi acquisiti in fase investigativa rilevano per valutare la consistenza della ipotesi delittuosa. Del resto, la terminologia è chiaramente sostanziale: compito della P.G. è quello di acquisire notizie di “reato” e le investigazioni mirano ad acquisire elementi che avvalorino la sussistenza di un illecito penale, tali da legittimare l’esercizio dell’azione in vista della condanna. Se il processo penale si evolve in funzione dell’accusa formulata dal PM mediante l’esercizio dell’azione penale e sulla base della valutazione delle prove acquisite per cui, per regola, la ricostruzione compiuta del fatto nei suoi profili rilevanti avviene dialetticamente, mediante il metodo della conferma e della confutazione dell’accusa tramite una rigorosa articolazione ed argomentazione retta dal principio del contraddittorio, è anche indubitabile che non esiste solo la valutazione espressa nel giudizio finale e che anzi la fase processuale del giudizio è preceduta da quella investigativa ove la complessità dell’accertamento sul fatto di reato è caratterizzata da una pluralità di valutazioni incidentali operanti nel corso di essa, i più importanti dei quali sono il giudizio preliminare sulla introducibilità in giudizio dell’azione penale e, prima ancora, quella relativa all’applicazione di misure cautelari la cui operatività avviene notoriamente quando ancora non è stata esercitata l’azione penale. È dato statistico che detta ultima valutazione si pone usualmente nel corso delle indagini preliminari ove non esiste alcun contraddittorio tra le parti, il che accentua il doveroso controllo imparziale e garantistico del giudice. Preme in questa sede sottolineare che tale constatazione non deve compromettere il necessario rapporto strumentale tra cautela e merito finale e che invece, ferma la sempre incombente presunzione di innocenza, occorre sia rispettato il valore della persona del cautelando, che risulta concretamente leso nelle sue libertà, fino a quella personale, la più rilevante. Ribadito che la valutazione dei dati offerti dal PM è indiscutibilmente riferita al fatto che si ascrive al cautelando, quindi al tema investigativo per cui si procede, condizione necessaria per comprimere, sotto diversi profili, ed in via di eccezione, le libertà del destinatario fino, in via estrema, mediante una misura restrittiva, occorre censurare orientamenti indulgenti e apportare argomenti che confortino la tesi secondo la quale la valutazione del giudice è attinente al merito in fase cautelare. In generale il lemma merito è polisemico: riguarda la questione di fatto in contrapposizione alla questione di diritto; riguarda la questione di diritto sostanziale in contrapposizione a quella di diritto processuale; riguarda la questione di sostanza in contrapposizione a quella di forma. E necessita aggiungere che merito non è termine riservato al solo giudizio finale, configurandosi nel sistema sia un merito

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RIFLESSIONI IN TEMA DI GIURISPRUDENZA “CREATIVA”

  di Antonio Baudi –  Giurisprudenza è termine dall’etimo composto: deriva da “ius-iuris” e “prudentia”. “Jus” significa diritto, termine che a mio avviso va preferito a quello di “directum” (che evoca l’unidirezionalità del diritto) non fosse altro perché è la radice di giuridicità, di giurisdizione, di giudice. Quanto a “prudentia”, cioè prudenza, termine che usualmente evoca cautela e moderazione, essa, nel suo significato autentico, quello proprio della prima delle quattro virtù cardinali, esprime nel contempo sapienza, nel saper comprendere gli avvenimenti con realismo e concretezza, e saggezza, nel discernere responsabilmente e valutare le conseguenze dell’agire. Giurisprudenza è l’attività del giurista ma anche il suo prodotto e quindi l’insieme dei discorsi sul diritto anche se, di solito, si distingue la giurisprudenza giudiziaria, dei giudici, e la giurisprudenza dottrinale, degli studiosi del diritto. In questa sede, escluso che la dottrina giuridica possa mai produrre diritto, stante il suo valore puramente teorico, il quesito ha riguardo alle decisioni assunte in sede giurisdizionale, nella specie della materia penale. Così delimitato il campo d’indagine il quesito posto è se la pronuncia dei giudici sia solo atto di conoscenza o anche modifica e creazione del diritto, quindi, come suol dirsi in senso metaforico, se sia fonte di norme giuridiche. Il quesito pare improponibile nel nostro sistema e potrebbe essere risolto negativamente sol che si rifletta sul disposto dell’art. 1 delle “preleggi” per il quale sono fonti del diritto, nell’ordine, le leggi, i regolamenti e gli usi, quindi senza alcun riferimento alla giurisprudenza. Del resto, tale soluzione è tradizionalmente consolidata. Ma, a causa di recenti e più meditate riflessioni nonché, combinatamente, di esperienze sopravvenute, negli ultimi tempi il quesito si è posto, e si tratta di quesito di rilievo generale, attenendo all’assetto normativo del sistema. La risposta tende ad essere affermativa nell’ambito della scienza civilistica, avuto riguardo a pronunce innovative rispetto alla disciplina positiva, mentre, ed è quello che interessa in questa sede, è problematica in materia penale ove si scontra con il principio di legalità penale e con il dettato costituzionale che, nel rispetto della divisione di poteri, vuole la giurisdizione soggetta (soltanto) alla legge. Il problema, occorre notarlo, consegue anche alla sopravvenuta interferenza culturale della normativa di genesi extrastatale, sia di matrice europea, tramite gli atti con efficacia diretta ed indiretta di fonte UE, come vincolativamente interpretati dalle decisioni della Corte di giustizia (CGUE), con sede in Lussemburgo, sia di matrice internazionale, prima tra tutte quella facente capo alla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) come operante attraverso le decisioni, pur esse vincolanti, della Corte EDU, con sede in Strasburgo. In proposito occorre, per quel che concerne la pertinente tematica delle fonti del diritto, soffermarsi sull’impatto del sistema di common law nel nostro sistema di civil law, tanto perché il diritto extraordinamentale in questione non solo vincola le decisioni dei giudici italiani in virtù del principio di supremazia, quanto ancora perché impone il rispetto delle interpretazioni fornite dalle due Corti che, si noti, decidono, jus dicunt, come organi giurisdizionali secondo quel sistema. In generale, per il sistema di common law, la giurisprudenza è intesa come la principale fonte del diritto, con un ridotto intervento del diritto di matrice legislativa. In proposito va rammentato che il common law, sistema ordinamentale originatosi nell’Inghilterra medievale e successivamente diffusosi nei Paesi anglosassoni e negli Stati del Commonwealth, è basato sul principio dello stare decisis, vale a dire sulla efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali, a differenza dei sistemi di civil law, che, derivanti culturalmente dal diritto romano, si sono consolidati all’interno di ordinamenti statali, prima dominati dalla centralità assoluta della volontà del sovrano, poi ispirati ai principi democratici di portata illuministica della sovranità popolare e della separazione dei poteri. Quanto al concetto di precedente giudiziario basti in questa sede precisare che con tale termine si intende una pronuncia resa su un determinato caso e divenuta ormai definitiva ed immutabile. Si può quindi identificare l’insieme dei precedenti con le pronunce rese nel tempo e dunque con l’orientamento giurisprudenziale formatosi rispetto ad una determinata fattispecie. Per incidens, un rilievo di portata concreta: i giudici di common law per decidere devono disporre di immani raccolte di precedenti, il che, da un lato, privilegia il nostro utilizzo di regole scritte e di codici tematici e, dall’altro lato, rende difficile comprendere come ne sia garantita la conoscenza e la stessa certezza giuridica, che appare complicata, oltre che nella individuazione del precedente pertinente al caso da giudicare, prima ancora nel momento di individuazione della somiglianza casistica, condizione che attiva la determinazione del precedente e quindi l’obbligo della vincolatività. Fermo restando l’effetto vincolante delle sentenze dei giudici europei nel nostro ordinamento, effetto derivante dagli obblighi assunti e tale da subordinare l’efficacia di una regola interna alla conformità con la disciplina europea autenticamente interpretata da quelle Corti, ci si è chiesti se sentenze nostrane, in quanto atti giurisprudenziali, siano nel nostro sistema di pari portata vincolante e tali da qualificarsi come “fonti” di diritto in presenza di pronunce di portata “innovativa”. Va subito notato che ogni sentenza ha un preciso ambito decisorio, soggettivo, rispetto alle parti in causa, ed oggettivo, delimitato dal caso deciso sicché, sotto tali profili, ha efficacia particolare, oltretutto condizionata dal tema su cui decidere, sicché non si riesce a comprendere come la pronuncia, certamente vincolante tra le parti, possa assumere efficacia generale ed astratta, sì da trascendere la specificità della soluzione giudiziaria. Ed invece l’ostacolo si sormonta avuto riguardo, da un lato, al carattere tipico del caso, e, dall’altro lato, alla regola normativa utilizzata come guida per la risoluzione della vicenda. Siffatto profilo, ove, a fronte della rilevanza del caso da giudicare, la regola sostenuta sia “nuova”, coinvolge il principio di legalità penale, il quale, se pur modernizzato, impone che ogni norma sia desunta da un testo di genesi parlamentare, comunque formalizzato in una regola scritta. Ne resta coinvolto il termine legge, il quale è notoriamente polisemico designando a volte l’atto normativo, come suggerisce in generale il principio di legalità, ed altre volte la regola e, in questo senso, ha riguardo o al testo oppure alla sua portata normativa che

RIFLESSIONI IN TEMA DI GIURISPRUDENZA “CREATIVA” Leggi tutto »

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