Diritto Sostanziale

RIFLESSIONI SPARSE SU ALCUNI TEMI DI FONDO DELL’ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE

 di Giovanni Flora* Sommario: 1. Premessa 2. L’utilizzazione strumentale della contestazione dell’associazione per delinquere (art. 416 c.p.). 3. La problematica qualificazione della associazione per delinquere come reato di danno, reato di pericolo o reato-ostacolo ed i riflessi sulla struttura tipica della fattispecie. 4. I problematici criteri distintivi tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato.  5. Segue: “Sfruttamento” della organizzazione di una impresa “lecita” per la commissione di reati e configurabilità della associazione per delinquere. 6. La necessità di distinguere tra imprese societarie illecite e illeciti delle imprese societarie. 7. Profili di incostituzionalità della “norma di creazione giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”.   Una trattazione delle problematiche attuali dei reati associativi, con particolare riguardo al reato di associazione per delinquere comune e con inevitabili cenni anche a quello di associazione di stampo mafioso, dovrebbe occupare uno spazio ben maggiore di queste poche pagine, necessariamente sintetiche, che mi onoro di scrivere per questa bella Rivista della battagliera Camera Penale di Catanzaro. Ma come si dice agli amici veri da un amico vero: “non mancherà occasione” (di ritornare sull’argomento). Orbene, la prima riflessione da fare è che costituisce dato incontrovertibile della quotidiana prassi giudiziaria quello dell’utilizzazione in chiave “strumentale”, di politica criminale giudiziaria, della ipotesi di associazione per delinquere. Con il palese obiettivo: di rendere più severa la risposta sanzionatoria laddove la magistratura ritenga troppo mitemente puniti i reati che costruirà come “reati fine” (per es: truffa, appropriazione indebita, reati tributari); di consentire la custodia cautelare in carcere ed il ricorso alle intercettazioni telefoniche le quali da molto tempo e ancor oggi, nonostante qualche intervento legislativo mitigatore, costituiscono la star dei mezzi di ricerca della prova; di affievolire tutte le garanzie processuali (ora è previsto anche il ricorso al “trojan”) che l’ordinamento allestisce allorché si tratti di  reati di criminalità organizzata, tra i quali (contrariamente a qualsiasi criterio di ragionevolezza) la giurisprudenza fa rientrare anche l’associazione per delinquere “comune” (Cass. S.U. 11.05.2005, n. 17706). Non solo, ma la amplificazione mediatica a tappeto di una indagine per associazione per delinquere, contribuisce a radicare nell’opinione pubblica (o meglio in un pubblico senza opinione per dirla con il Presidente dell’UCPI, Francesco Petrelli) la convinzione che gli indagati non abbiano scampo: sono “palesemente colpevoli” (Vittorio Manes docet). Insomma, si ha la sensazione che sia sufficiente contestare una pluralità di delitti ad almeno tre persone ed il gioco è fatto. Pur se nel mio bagaglio di esperienza professionale non manca la contestazione associativa anche in presenza di un solo indagato identificato, dietro la considerazione che non avrebbe potuto da solo realizzare tutta la serie di reati addebitati… se non in associazione con altri da compiutamente identificare. La seconda riflessione che non costituisce solo uno “sfizio” dogmatico riguarda la stessa natura del delitto di associazione: reato di danno? Reato di pericolo? Addirittura “reato ostacolo che punisce già di per sé una condotta prodromica alla realizzazione dei reati fine dei quali non realizzerebbe nemmeno il pericolo di commissione (MANTOVANI, Diritto penale, p. g., XI ed., Padova, 2020, p.229). e la cui realizzazione non è notoriamente requisito tipico della fattispecie associativa. La soluzione comporta implicazioni pratico applicative di non poco momento. A mio parere, poiché l’art. 416 è collocato tra i delitti contro l’ordine pubblico e premesso che l’ordine pubblico va inteso in senso costituzionalmente adeguato come ordine pubblico materiale e non “ideale”, com’era negli intendimenti originari del Codice Rocco, l’associazione per delinquere è reato che lede (e solo quando lede) l’ordine pubblico materiale.  Esso sussiste se e solo quando una struttura organizzata di più persone, legata da affectio societatis, si radica in un determinato territorio facendo aumentare, in quel territorio, il rischio di commissione dei reati oggetto del “programma sociale” Quindi è reato che implica contemporaneamente la lesione dell’ordine pubblico materiale e il pericolo concreto di commissione di un numero indeterminato dei delitti (IACOVIELLO, Ordine pubblico e associazione per delinquere, Giust. Pen., 1990, II, c. 46 segg.; volendo, FLORA, Per una definizione di ordine pubblico (tra codice e leggi speciali), Annali Univ. Molise, I, Napoli, 2003, p. 93 segg.). Una tale ricostruzione in termini di offensività non può non avere ripercussioni sul versante interpretativo e pratico applicativo: in ordine alla stabilità dell’aggregato organizzativo, alla sua effettiva idoneità di comportare il pericolo concreto di attuazione del programma delittuoso. Conseguentemente continua a porsi nella prassi il problema di reperire criteri affidabili per distinguere le ipotesi di associazione per delinquere da quelle di concorso di persone nel reato continuato. A questo proposito, la giurisprudenza, anche di legittimità, a dispetto della apparente linearità dei principi di diritto espressi tralaticiamente, condensati nelle massime di cui bulimicamente gli “operatori” del diritto penale” si cibano, non è mai riuscita in modo convincente ad indicare una costante, univoca e chiara linea di demarcazione tra reato associativo e concorso di persone nel reato continuato. Una pur meticolosa ricerca che frughi anche i più inesplorati canali di approvvigionamento delle massime della Suprema Corte non riesce a reperire se non due sole sentenze (su casi del tutto peculiari) e delle quali si dirà nel prosieguo che affermano l’insussistenza del reato associativo “a favore” dell’ipotesi della continuazione. Insomma: quasi tutte le volte che ci si imbatte in una massima che ripete la stanca litania del criterio delimitativo tra le due figure (indeterminatezza del programma delittuoso, organizzazione, ancorché “rudimentale”, destinata a sopravvivere anche oltre la commissione dei reati-fine = art. 416 c.p.; accordo, pur se strutturato, destinato a cessare dopo la commissione  dei delitti programmati nell’ambito del “medesimo disegno criminoso” = art. 81, comma 2 c.p.), ben difficilmente si riesce poi a comprenderne appieno l’utilizzazione in funzione della soluzione della singola vicenda processuale. Basti pensare che la stessa Suprema Corte si premura di precisare che può configurarsi associazione per delinquere anche se il sodalizio è finalizzato alla commissione, non di un numero indeterminato, ma anche di un numero previamente determinato di delitti (ma allora dove sta il confine con il concorso di persone nel reato continuato?). Non solo, ma spesso (e qui per

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IL “GRATUITO” PATROCINIO A “SPESE” DEL DIRITTO DI DIFESA!

di Renata Accardi* Il diritto di difendersi nel processo (qualunque natura esso abbia) è previsto dal dettato costituzionale e dal D.P.R. 115 del 2002 e successive integrazioni e modifiche, che prevedono anche che la parte processuale possa scegliere un proprio difensore di fiducia che sarà retribuito dallo Stato. Ma la retribuzione che il professionista abilitato al patrocinio a spese dello Stato, per previsione legislativa (art. 82 DPR cit.) non è quella prevista dalle tabelle dei compensi, essendo lasciata alla discrezione del giudice che liquiderà gli onorari, avendo questi un limite massimo nel valore medio della tariffa professionale e la possibilità (art. 106 bis e 130) di ridurli da un terzo alla metà. Al netto della reale mancanza di una giustificazione ancorata ai principi costituzionali di tale differenza di trattamento, l’attuale normativa comporta che nel caso in cui il giudice decida di non applicare il valore medio della tariffa, ma quelli minimi, cosa tutt’altro che infrequente, la riduzione dei compensi di cui agli articoli 106-bis e 130 del citato testo unico porterebbe a liquidare gli onorari dell’avvocato al di sotto dei minimi tariffari. Non c’è chi non comprenda che questa situazione porta (unitamente ai ritardi nelle liquidazioni e ai tempi biblici nei pagamenti) ad allontanare i professionisti da questo istituto con compromissione dei diritti delle parti processuali a poter scegliere un difensore di fiducia e, inutile nasconderlo, ad avere una difesa completa (si pensi al costo di indagini difensive o di consulenti che coadiuvino nella difesa). Tuttavia in alcune aree geografiche maggiormente depresse nelle quali l’accesso al beneficio è più che frequente il difensore non ha che da assoggettarsi allo svilimento della sua professionalità dovendo rinunciare alla rivendicazione della stessa pur di garantire la difesa del cittadino che a lui si rivolge Svilenti sono poi le pratiche attuate ormai frequentemente di adozione di protocolli che nel tentativo non sempre riuscito di porre un freno alla discrezionalità (al ribasso) delle liquidazioni costituiscono una (quasi) inevitabile resa rispetto alla legittima pretesa di una giusta remunerazione dell’attività professionale prestata. Eppure, l’Art. 36 della Costituzione prevede che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Sul solco di tale previsione costituzionale e nel rispetto della professionalità dei difensori è stata emanata la Legge n. 49/2023, che nella contrattazione pubblica ha istituito che gli onorari debbano essere rispettosi delle tariffe professionali ed equi in riferimento alla prestazione svolta. In particolare, si è introdotto il concetto di equo compenso, che è stato definito come la “corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi” previsti dalle tariffe professionali vigenti (art. 1). Dopo tale previsione legislativa e nel solco di una situazione economica che sta inibendo la possibilità per i cittadini di difendersi, rinunciando sia alla nomina del difensore, sia a seguire il processo che lo riguarda, si è già pensato di presentare una proposta di legge che apportasse modifiche agli articoli 106-bis e 130 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. L’incipit della proposta è esemplificativo della volontà di riconoscere la giusta dignità a chi si iscrive negli elenchi dei professionisti che prestano la propria attività anche con l’istituto del Patrocinio a Spese dello Stato: “La presente proposta di legge risponde all’esigenza di porre fine a una forma di discriminazione che colpisce gli avvocati che dedicano le loro competenze e la loro passione alla difesa dei cittadini meno abbienti, nel rispetto delle disposizioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”. De iure condendo, l’Osservatorio, al termine di una capillare disamina delle maggiori criticità del sistema normativo da un lato e delle sue (mal)prassi applicative dall’altro ha ritenuto di formulare una sua proposta modificativa che tenta, senza presunzione di esaustività: di porre rimedio ai margini applicativi della normativa che oggi consentono sperequazioni immotivate e, a nostro avviso, contrarie ai dettati costituzionali di integrare la normativa per renderla più aderente alle realtà procedimentali e processuali, a garanzia della effettività del diritto di difesa del cittadino non abbiente di ridurre i margini interpretativi entro i quali si incuneano certe interpretazioni applicative ideologicamente e pregiudizialmente orientate a discapito del difensore al fine ultimo e con l’auspicio di restituire dignità al professionista e garantire i diritti costituzionalmente previsti ai cittadini che hanno necessità di essere difesi. Spesso infatti la legittima rivendicazione di un compenso adeguato all’attività professionale offerta dal difensore è stata tacciata di “settaria rivendicazione salariale” e non solo da parte dell’opinione pubblica (evidentemente da quella che non ha mai avuto necessità di ricorrere al beneficio) ma anche da parte di “addetti ai lavori”. Orbene, posto che in ogni caso nulla di disonorevole si trova in chi rivendica di essere adeguatamente retribuito per quella che, seppur bellissima e nobile, è pur sempre una professione che si sceglie come attività lavorativa, a noi spetta evidenziare come ciò che si difende è senza dubbio l’effettività di un diritto che sulla carta viene riconosciuto al cittadino ma,  di fatto, viene mortificato nella sua esplicazione. Purtroppo anche la stessa avvocatura ha talvolta sottovalutato l’importanza del tema che oggi invece riteniamo meriti una particolare attenzione sia perché l’istituto   è tutt’altro che marginale, stando ai numeri delle pratiche di accesso allo stesso, sia perché nella sua applicazione pratica finisce con il marginalizzare la funzione difensiva ed in questo senso riguarda tutti, non soltanto quelli tra noi che, volenti o nolenti, devono farvi accesso. Mortificante, infatti, la disamina che l’osservatorio nella sua attività di ricerca ha fatto di provvedimenti abnormi, sia in tema di ammissibilità, sia in ordine alla liquidazione dei compensi, che più che meritare impugnazione, destano indignazione in chi spende professionalità, impegno e dedizione alla funzione difensiva. Da tali condivise considerazioni e dal lavoro di ricerca ed

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DEI (NUOVI) DELITTI E DELLE PENE (ESEMPLARI): BECCARIA NELL’EPOCA DELLE NARRAZIONI

di Valentina Alberta* –  PREMESSA Nel dicembre 2023, appena annunciata la presentazione dell’ennesimo pacchetto sicurezza approvato dal Governo (la cui discussione parlamentare è stata poi avviata nel successivo mese di gennaio dopo la presentazione del ddl AC1660, promosso, con grande enfasi, dai Ministri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa), la Camera Penale di Milano aveva ritenuto di lanciare un allarme, da estendere anche all’avvocatura non penalista, per rappresentare i rischi insiti in un intervento particolarmente preoccupante, non solo per l’eccessivo ricorso allo strumento penale rispetto ad una serie di emergenze piuttosto eterogenee e tutte da dimostrare, ma anche per il target di una serie di interventi, chiaramente orientati ad incidere sul rapporto Stato/cittadino attraverso un atteggiamento repressivo mirato verso la protesta, il disagio e la marginalità, i luoghi di detenzione. Si era allora dato a quel momento di confronto il titolo che si riprende oggi, realizzando come allora ci fosse permessi di ironizzare sui fondamenti del nostro sistema penale. Oggi, la riflessione si è trasformata in protesta e vede coinvolti non solo i penalisti di UCPI ma anche magistrati, professori e cittadini. Addirittura, i primi ad intervenire, a DL annunciato ma non ancora pubblicato, sono stati prima l’Associazione dei Professori di Diritto penale[1], e, a ruota, l’Associazione Nazionale Magistrati[2], con documenti dai toni duri, raramente adottati da interlocutori molto meno “movimentisti” dell’avvocatura penalistica. E proprio noi avvocati penalisti siamo scesi in piazza il 7 maggio scorso, al terzo giorno di astensione[3]; avevamo già protestato il 5 novembre 2024, dopo l’approvazione alla Camera del ddl 1660[4]. Il fronte è ampio e vede una voce unica, che si era peraltro già levata all’unisono – come difficilmente accade – nelle numerose audizioni parlamentari alla Camera sul ddl poi trasmesso al Senato (AS 1236) ed infine “scippato” al Parlamento attraverso lo strumento della decretazione di urgenza. La compattezza delle critiche si è incentrata in prima battuta sul metodo, che forza l’art. 77 Cost. con un provvedimento eterogeneo e non giustificato dalle straordinarie ragioni di urgenza che sole legittimano la potestà legislativa del Governo[5]. Un anno di dibattito parlamentare, che aveva anche portato alla modifica di alcune disposizioni è stato posto nel nulla. Ma oltre al metodo, il dissenso è stato ed è anche sul merito del provvedimento, nella consapevolezza che la prassi dei c.d. “pacchetti sicurezza” non sia certo una novità; essa è stata più volte adottata in passato per interventi marcatamente punitivi, con sanzioni sempre più elevate, con divieti di bilanciamento tra circostanze, con automatismi legati alla recidiva (per indicare tre ambiti nei quali più volte è poi dovuta intervenire la Corte costituzionale ad annullare disposizioni contrarie ai principi di proporzionalità, di individualizzazione della pena, di finalità rieducativa delle pene). La contrarietà nel merito si incentra, in sostanza, a prescindere da ogni valutazione circa le “questioni”, i “fenomeni” considerati nel provvedimento, sul fatto che esso sia stato presentato come volto ad affrontare nel suo complesso temi legati alla sicurezza, ma che in concreto non incida minimamente sulla sicurezza. Questa è una nota comune, volgendo lo sguardo solo poco indietro, con il cosiddetto Decreto Caivano, dichiaratamente rivolto al “contrasto al disagio giovanile, alla poverta’ educativa e alla criminalita’ minorile”, ha invece creato, aumentando la pena per il reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/90 e diminuendo le soglie di applicabilità della custodia in carcere per i minori, un gravissimo problema in ordine alla gestione degli IPM, che non hanno mai sofferto del sovraffollamento attuale[6]; oppure che, vietando la messa alla prova per una serie di reati, ha tolto la speranza di percorsi di reinserimento a ragazzi portatori di un disagio certamente affrontabile con strumenti diversi rispetto al carcere[7]. Ma, voltandosi appena un poco più indietro, è evidente come analoga distonia tra proposito dichiarato ed effetti concreti hanno avuto le normative con le quali si sono introdotti l’omicidio “nautico” o l’omicidio “stradale”, normative che rientrano in quello che il professor Sgubbi aveva, con una efficace espressione, definito “legislazione penale compulsiva”[8], questione attuale come non mai e che si ripropone ora con la disciplina relativa al cosiddetto “femminicidio”. La parossistica legislazione del penale sostanziale, con norme simboliche che creino la percezione di un rimedio istantaneo nell’opinione pubblica, non vede per fortuna analoghi interventi in materia processuale, dove la torsione dei meccanismi per “combattere” fenomeni come la mafia o il terrorismo ha dato luogo in passato a interventi che dall’emergenza si sono via via spostati sul piano della regola; segnalo però che quell’unica norma processuale legata alla occupazione abusiva di immobili, il nuovo art. 321 bis c.p.p., prevede una misura di rilascio immediato coattivo che segue una procedura e tempistiche assolutamente distanti rispetto ai principi di sistema relativi alle misure idonee ad incidere direttamente sulla libertà del soggetto “rimosso” dall’immobile. Ci si deve augurare che non divenga un modello da estendere. In sostanza, il decreto 48 del 2025, ora convertito nella legge 80, ha certamente un carattere illiberale, discriminatorio e criminogeno. Il  diritto penale è usato come strumento di propaganda. Gli esempi sono numerosi: ci sono nuovi reati, nuove aggravanti, aumenti di pena, evidenti sproporzioni sanzionatorie tra fattispecie (occupazione abusiva punita con una pena sovrapponibile a quella previste ad esempio per l’abbandono di persone incapaci con conseguenza lesioni gravi o morte, oppure per il sequestro di persona, o per l’omicidio colposo con la violazione delle norme antinfortunistiche). Vi è poi un’altra linea, quella del potenziamento della tutela delle forze dell’ordine, che “hanno sempre ragione”[9]. Vi è una criminalizzazione particolarmente intensa della protesta, che non ha nulla a che vedere con la sicurezza, soprattutto rispetto a forme di protesta tradizionalmente pacifiche come le occupazioni di vie di comunicazione al fine di ostacolare la circolazione, ovvero l’accattonaggio con minori fino ai 16 anni. Comportamenti riprovevoli o forse disturbanti ma certo non legati alla sicurezza, quanto piuttosto a quel tipo di fastidio che si ritrova nelle ragioni fondanti i provvedimenti che hanno adottato le cosiddette “zone rosse” nelle grandi città; si vogliono rimuovere dalla vista categorie di persone che disturbano, che non piacciono, che esprimono disagio o

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QUESTIONI ATTUALI IN MATERIA DI STALKING, OMICIDIO E FEMMINICIDIO

di Stella Feroleto* –  I DELITTI CONTRO LA PERSONA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLO STALKING, ALL’OMICIDIO VOLONTARIO COMMESSO DALL’AUTORE DI ATTI PERSECUTORI NEI CONFRONTI DELLA STESSA PERSONA OFFESA E AL REATO DI FEMMINICIDIO. SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive in tema di delitti contro la persona. 2. Omicidio volontario commesso dall’autore degli atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa. 3. La “ratio” delle aggravanti tipiche in materia di stalking nell’era della digitalizzazione. 4. La costituzione di parte civile per il risarcimento del danno non patrimoniale. 5. Riflessioni critiche sui delitti alla persona di stalking e di femminicidio: tra esigenze di tutela della persona offesa e garanzie dell’imputato. 1.CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE IN TEMA DI DELITTI CONTRO LA PERSONA Il legislatore del 1930, dopo aver dedicato particolare attenzione, nei primi titoli e capi del codice penale, ai delitti contro lo Stato e l’ordine pubblico, sul presupposto storico ed ideologico, probabilmente, che uno Stato forte sarà in grado di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, nella seconda parte del Codice Rocco, precisamente al titolo XII, Capo I, guarda con occhio prospettico privilegiato ai cosiddetti delitti contro la persona. Ed invero, in ottica storica e sistematica, maggiore rilievo assume sempre più la persona alla luce delle norme contenute nella Costituzione Repubblicana del 1948, i cui principi fondamentali ( di solidarietà sociale, di eguaglianza, di non discriminazione etc…) sono il frutto di un compromesso storico tra le maggiori forze politiche e sociali dell’epoca che, nella prospettiva di convergenza d’interessi e d’intenti verso il bene comune, hanno dato vita a quella che da molti giuristi e sociologi è stata definita “la Costituzione più bella del mondo”. In guisa evolutiva, è da evidenziarsi come, nel tempo, la concezione antropocentrica del nostro assetto sistemico è stata considerevolmente rafforzata dalla nascita, in luogo della CEE, dell’ Unione Europea, a cui fanno capo, in ottica sempre più monistica tra gli stati aderenti, la normativa originaria dei Trattati, quella derivata dei Regolamenti, delle direttive e delle decisioni, ma anche alcune Carte di fondamentale importanza quali: la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ( la quale, in verità, nonostante i tentativi di “comunitarizzazione” operati in occasione del Trattato di Lisbona, non ha ancora assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati) e la Carta di Nizza ( che, invece, ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati ), ma anche la Convenzione sui diritti del fanciullo, la Convenzione di Oviedo contro ogni forma di discriminazione, nonché la CEDAW, ossia la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. E invero, a seguito di una copiosa giurisprudenza che nel tempo ha visto dialogare – ed a volte scontrarsi – la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea (massimo organo giurisdizionale dell’Unione) riguardo ai rapporti tra la normativa nazionale e quella comunitaria, con l’importante sentenza Granital[1], è stata elaborata la cosiddetta teoria dei controlimiti, in base alla quale la normativa europea può prevalere rispetto alla normativa italiana e nel momento in cui una normativa nazionale dovesse porsi in contrasto con, ad esempio, una disposizione di un trattato europeo, il giudice a quo, senza procedere previamente alla dichiarazione di incostituzionalità – a differenza di quanto avviene ancor oggi in relazione alla normativa della CEDU per il tramite dell’interposto articolo 117 della Costituzione – ed esauriti i tentativi di interpretazione sistematica e conforme, potrà disapplicazione direttamente la disposizione nazionale contrastante con il limite, tuttavia, invalicabile dei cosiddetti controlimiti; la normativa europea, infatti, non potrà mai porsi in contrasto con i primi quindici articoli della Costituzione italiana che rappresentano il nucleo duro del nostro ordinamento democratico involvente la tutela dei diritti fondamentali della persona che non possono essere scalfiti neppure soltanto sul piano formale; oltre che sostanziale. In tale prospettiva, è da rilevarsi come, d’altronde, nel sinallagma sovranazionale la tutela dei diritti della persona abbia assunto pregnante rilievo altresì alla luce della elaborazione della più recente teoria della doppia pregiudiziale, in base alla quale, allorquando un diritto della persona venga leso sia da una normativa nazionale che europea si potrà apprestare una duplice tutela, sia davanti alla Corte Costituzionale che dinnanzi alla Corte di Giustizia dell’UE; tuttavia, la Corte Costituzionale, che all’interno del nostro assetto sistemico rappresenta il giudice della legge, nel ribadire l’importanza del suo ruolo, ha messo in evidenza come, pur restando certamente ferma la possibilità di tutela dei diritti della persona davanti alla Corte di Giustizia, sarebbe più opportuno rivolgersi previamente alla Corte Costituzionale per invocare la tutela dei diritti in quanto essa rimane l’organo ontologicamente deputato alla garanzia della Costituzione e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Tale posizione della Consulta viene, inoltre, avallata dal fatto che la differenza di tutela dinanzi al giudice delle leggi italiano è senz’altro rafforzata poiché la Corte, nel dichiarare la illegittimità costituzionale di una legge, la espunge in maniera tendenzialmente definitiva dall’ordinamento ed erga omnes. Quella, invece,  dinanzi alla Corte di Giustizia è una tutela del caso concreto che non consente di depurare definitivamente una normativa dall’ordinamento, col rischio inevitabile che la questione possa riproporsi pro futuro. In guisa sistematica appare, pertanto, evidente che, nell’attuale momento storico, l’attenzione alla tutela dei diritti della persona è particolarmente alta sia a livello sovranazionale che nazionale e ciò determina, inevitabilmente, delle ripercussioni su quello che è il diritto penale sostanziale e processuale che costituiscono, senza dubbio, gli ambiti all’interno dei quali, da una parte, si richiede una particolare sensibilità del legislatore nazionale alla spinta evolutiva del sentire sociale di riferimento; d’altra parte, essendo,  oggigiorno, molte norme frutto di una spinta emotiva dell’allarme sociale dell’opinione pubblica a cui la politica è chiamata ontologicamente a piegarsi, gli interventi legislativi in materia penale finiscono per diventare terreno di scontro tra impostazioni esegetiche a volte opposte ma forse,  per certi, versi sicuramente conciliabili.  Ne è attuale testimonianza proprio la recentissima previsione del delitto di femminicidio ad opera del disegno di legge dell’8 Marzo del 2025 che introduce all’interno del codice penale l’art. 577 bis il quale punisce chiunque (quindi sia un uomo che una donna) cagioni la morte di

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MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

di Oliviero Mazza* – 1. Riparazione e confessione. – Quando si affronta il tema della giustizia riparativa bisogna porsi una domanda preliminare: qual è il presupposto per accedere a questo procedimento incidentale1, così delineato dal meccanismo dell’invio d’ufficio ex art. 129-bis c.p.p.? I sostenitori del brave new world si nascondo dietro fumisterie verbali: non «si richiede una confessione all’imputato», trattandosi di un «percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato»2. Il primo impatto giurisprudenziale, invece, ci ha richiamato a un sano realismo giuridico: vi sono soverchie «difficoltà di ammettere un programma di giustizia riparativa in corso di un processo (e ancora più di un procedimento) allorché l’imputato (o l’indagato) contesta la fondatezza dell’accusa»3. Del resto, al di là della prevedibile interpretazione giurisprudenziale, era la logica a riportare l’interprete a una realtà normativa che, finalizzata alla riparazione di qualcosa, ne postulava prima la rottura. Detto altrimenti, la giustizia riparativa delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 non è un gioco di società e nemmeno una seduta di analisi collettiva, ma è calata integralmente nel sistema penale come forma di risoluzione alternativa del conflitto interindividuale rappresentato dal reato. A riprova di ciò, è sufficiente ricordare quali siano gli effetti penali del procedimento incidentale di mediazione: per i reati procedibili a querela, il cui novero è stato significativamente incrementato proprio dalla riforma Cartabia, la risoluzione alternativa della controversia determina la remissione di querela (art. 152 comma 2 n. 2 c.p.). Il collegamento fra il procedimento principale e quello incidentale è reso ancor più chiaro dalla previsione che, «quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati». Per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’esito riparativo determina l’applicazione di una specifica diminuente (art. 62 n. 6 c.p. che parifica la riparazione al risarcimento del danno e alle condotte riparatorie) nonché la sospensione condizionale della pena (art. 163 comma 5 c.p.). Senza dimenticare la prospettiva, tutt’altro che remota, di una surrettizia applicazione dell’archiviazione meritata – istituto abbozzato e poi abbandonato nei la vori preparatori della riforma – in seguito al buon esito della giustizia riparativa avviata per decisione del pubblico ministero. Il quadro normativo certifica che davanti al mediatore non si discute di “nudi fatti”, privi di rilevanza penale, posto che l’unico oggetto del procedimento incidentale è la “rottura” dei rapporti personali determinata dal reato, con tutte le conseguenze del caso, tanto in termini di procedibilità e di definizione del procedimento già in fase di indagini quanto di dosimetria sanzionatoria e di benefici di legge. Al di là della ricostruzione quasi esoterica della “conca riparativa”, per il giurista positivo è innegabile che l’ammissione da parte dell’imputato dei fatti che gli vengono addebitati costituisca la precondizione indispensabile per l’accesso stesso ai programmi riparativi. Del resto, il rinvio generale ai principi internazionali, contenuto nell’art. 53 comma 1 d.lgs. n. 150 del 2022, è più che sufficiente per importare nella disciplina nazionale proprio quelle regole europee che impongono, quale condizione essenziale per l’avvio del procedimento, che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso» (art. 12, c. 1, lett. c, dir. 2012/29/UE). Analoga affermazione si ritrova nel par. 30 della Raccomandazione 8(2018) del Consiglio d’Europa, secondo cui «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda». Il primo mito è dunque sfatato, la giustizia riparativa rimane, fin dalla sua matrice europea e nella sua connotazione finalistica, un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la sua responsabilità. 2. Vittimocentrismo occultato. – I conditores hanno alimentato un secondo mito, quello del sistema paritario non vittimocentrico4, e la giurisprudenza questa volta sembra prenderli in parola quando afferma che l’istituto è «del tutto disfunzionale alla tutela delle vittime dei reati a sfondo sessuale o di genere, in totale distonia con la vocazione securitaria, spesso solo apparentemente pubblicizzata, dalle norme relative a tale specifico settore»5. Non si può negare la conclamata schizofrenia normativa. Si pensi al giudice che applica una misura coercitiva all’imputato, magari il divieto di avvicinamento alla persona offesa, e al tempo stesso ordini l’invio di entrambi i soggetti in conflitto davanti al mediatore affinché possano “avvicinarsi” oppure a tutti i casi in cui l’imputato sia ristretto nella sua libertà personale in ragione del pericolo di recidiva e venga nondimeno disposto il suo invio al centro per la giustizia riparativa al fine di incontrare proprio chi si assume abbia già subito le conseguenze della condotta violenta. Al di là delle sempre più evidenti contraddizioni di un sistema penale irrazionale, la giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore fra i primi commentatori, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono giudiziale dell’imputato a condizione che compia tangibili atti di contrizione.Questo è il programma delineato dal legislatore che, in entrambe le chiavi di lettura, risulta ben lungi dalla mistica delle emozioni, attingendo a una smaccata presunzione di colpevolezza. Ogni riflessione ulteriore deve prendere le mosse, ancora una volta, dal dato di realtà giuridica: il legislatore non mette sullo stesso piano vittima e colpevole, il sistema è intriso di una cultura europea

MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA Leggi tutto »

LA GIUSTIZIA RIPARATIVA: UNA SFIDA DEL NOSTRO TEMPO

di Gian Luigi Gatta* – 1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma. Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società. Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi. 2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma vecchio come il diritto penale, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima. C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato. Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare». Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia va proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale. Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore. 3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e

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QUESTIONI INTERPRETATIVE IRRISOLTE NELLA TUTELA PENALE DELLA PRIVACY

di Tommaso Passarelli* –  1. Esigenze criminologiche e stratificazione legislativa. Dal punto di vista criminologico, fin dall’avvento dell’informatica, siano sorti specifici bisogni di tutela del diritto alla riservatezza e, in particolare, della protezione dei dati personali, sovente gestiti da banche dati pubbliche e private[1]. Da lungo tempo, infatti, l’esigenza maggiormente avvertita è quella di garantire alla persona il controllo sull’utilizzo dei propri dati effettuato mediante i programmatori informatici, poiché il funzionamento della rete internet è basato sulla profilazione degli utenti, che nello spazio virtuale condividono una gran quantità di informazioni personali. Proprio quest’ultimo aspetto riflette una intrinseca tensione tra l’espansione dello spazio digitale, che invade aree sempre maggiori nella vita delle persone a causa dell’elevata diffusione dei dati, e le suddette esigenze di tutela, ciò che ha spinto alcuni autori a teorizzare un moderno habeas data, sulla scia del più classico habeas corpus. La materia è caratterizzata da frequenti novelle legislative – innervate dai dicta provenienti dal diritto sovranazionale – finalizzate ad adeguare la tutela legale dei dati personali alla costante evoluzione tecnologica, che li espone a sempre più sofisticate forme di illecita diffusione nello spazio web. In questo senso, il Regolamento UE n. 679 del 27 aprile 2016, noto come G.D.P.R. (General data protection regulation), ha sostituito la previgente disciplina dettata dalla dir. 95/46/CE. In Italia, esso è stato recepito col d.lgs. n. 101 del 10 agosto 2018, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria. La legislazione domestica, in subiecta materia, era ferma alle statuizioni del d.lgs. n. 196/2003, che a sua volta aveva sostituito la primigenia disciplina di cui alla L. n. 675 del 31 dicembre 1996. Sul piano sovranazionale, la protezione dei dati personali è riconosciuta e garantita come diritto fondamentale della persona all’art. 8, c. 1, della C.D.F.U.E. (c.d. “Carta di Nizza) e all’art. 16, c. 1, del T.F.U.E. . Anche la Convenzione EDU, all’art. 8, contempla la protezione dei dati personali, che assume rilievo onde garantire il rispetto del diritto alla vita privata e familiare, il quale si alimenta dell’autodeterminazione informativa della persona e consente di rivendicare il diritto alla riservatezza dei dati raccolti, trattati e diffusi in guisa da investirne direttamente gli interessi. Le predette operazioni, pertanto, non devono eccedere la soglia della ragionevole prevedibilità in capo all’utente medio. Emerge chiara, sulla scorta di questa ricostruzione di sintesi, la dimensione transnazionale del diritto alla privacy, in ragione della globale circolazione dei dati personali, che comporta la necessità di predisporre tutele e garanzie altrettanto ampie, in ossequio al principio di proporzionalità. Seguendo il solco tracciato dal diritto sovranazionale, gli Stati membri, infatti, predispongono, nell’esercizio della loro autonomia legislativa, discipline di protezione coerenti, onde assicurare un livello omogeneo di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone.   2. Il reato di “Trattamento illecito di dati” ex 167 d.lgs. n. 196/2003. La tutela penale dei dati personali è affidata, nel nostro ordinamento, alla fattispecie di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 196/2003[2], che nella sua veste attuale si apre con la clausola di riserva che recita «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Quest’ultima evidenzia l’attenuato disvalore penale attribuito al delitto in parola, rimarcato anche dal ridotto editto sanzionatorio, da sei mesi a un anno e sei mesi. Sotto questo profilo, giova fin da subito rilevare come il comma 6 preveda anche una diminuzione di pena per il caso in cui, sulla scorta dell’idem factum, sia applicata e riscossa una sanzione amministrativa pecuniaria. Con questa previsione, il legislatore ha contemperato l’afflittività derivante dalla congiunta irrogazione di sanzioni penali e amministrative, in ossequio al principio del ne bis in idem[3]. Nello specifico, al comma 1 sono sanzionate le condotte finalizzate a produrre un profitto (illecito) in capo agli agenti o a terze persone, ovvero a cagionare un danno all’interessato. Si configura così l’elemento soggettivo del dolo specifico, rappresentato proprio da questa doppia e alternativa finalità. Successivamente, viene individuato l’evento giuridico del reato nel solo nocumento arrecato al soggetto passivo, e non anche nella concreta realizzazione del profitto. A parere di chi scrive, si tratta di una precisa scelta di politica criminale, volta a sanzionare le azioni realmente dannose perpetrate nei confronti dei titolari dei dati personali, in ossequio alla ratio legis sottesa alla disposizione – orientata, sul piano assiologico, a tutelare la riservatezza e la privacy della persona – e al fine di selezionare gli aspetti di maggior disvalore penale. Il soggetto attivo è individuato in “chiunque”, configurando così un reato comune. Non si condivide, sul punto, la tesi, invero minoritaria, volta a promuovere un’interpretazione restrittiva della fattispecie, declinata alla stregua di un reato proprio, secondo la quale solo i soggetti istituzionalmente deputati alla tenuta dei dati potrebbero integrare il tipo legale. Questa tesi, infatti, introduce per via ermeneutica elementi qualificanti che il legislatore non ha inteso adottare, ciò che escluderebbe indebitamente dal novero dei destinatari del precetto tutti quei soggetti che facciano un uso illecito dei dati altrui senza essere in alcun modo predisposti, professionalmente o istituzionalmente, al loro trattamento, così da aprire la strada ad estese aree di impunità. Proseguendo, il comma 2 configura una diversa ipotesi di reato, che strutturalmente ricalca il modello di cui al comma 1. In questa sede, tuttavia, è sanzionato il trattamento dei dati sensibili (quali i dati genetici e biometrici) e giudiziari. Rispetto alla previsione di cui al comma precedente, questi dati si presentano dunque “qualificati” da un maggior grado di invasività e involgono aspetti sensibili della personalità del titolare, ciò che connota le condotte offensive di un disvalore penale superiore, rappresentato dalla più elevata pena della reclusione da uno a tre anni. Ai sensi del comma 3, poi, alla medesima pena soggiace anche colui che trasferisca i predetti dati verso Paesi esteri e organizzazioni internazionali, all’infuori del perimetro tracciato dagli artt. 45, 46 e 49 del GDPR. Ai commi 4-5, infine, è affidata la disciplina dei rapporti tra l’azione del P.M. e quella del Garante per la protezione dei dati personali in ordine alla gestione delle notizie di reato afferenti al trattamento

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L’ENTICIDIO DELLA PERSONNE MORALE MAFIOSA: ANALISI E PROBLEMATICHE

 I componenti dell’Osservatorio 231/2001 della Camera Penale “A. Cantafora” di Catanzaro* –   “Non furono, di regola, speculatori temerari e senza scrupoli, nature di avventurieri economici, quali se ne incontrano in tutte le epoche della storia dell’economia, o semplicemente gente molto danarosa; coloro che crearono questa trasformazione esternamente invisibile ma decisiva per l’affermazione del nuovo spirito nella vita economica: ma sibbene uomini formati nella dura scuola della vita, calcolatori ed audaci al tempo stesso, ma soprattutto riservati e costanti, completamente dedicati all’oggetto della loro attività, con opinioni e principi severamente borghesi”.  Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1922.   La costante elaborazione dottrinale in ordine al fenomeno dell’ingerenza mafiosa nell’economia a libero mercato, ha negli anni realizzato un’accurata sintesi delle differenti prospettive analitiche di approccio alla questione, essenzialmente incentrate sullo studio delle relazioni e degli scambi tra attori economici e realtà consortili (Sciarrone e Storti 2019), sulle caratteristiche dell’imprenditore colluso con le organizzazioni criminali (Dalla Chiesa 2013) ovvero sui vantaggi delle imprese mafiose (Arlacchi 1983) evidenziando in particolare come la gestione di transazioni complesse, interazioni economiche e attività lecite e illecite a livello globale, proprie dei sodalizi di tale natura, richieda ingenti risorse finanziarie, basi operative e logistiche decentrate e una organizzazione coerente con tali necessità in modo da coniugare efficacia, efficienza e segretezza. È chiaro che dinanzi a tali esigenze, come emerso giudizialmente (si pensi più di recente e fra le altre, alle dinamiche trapelata nel contesto dell’indagine Aemilia), irrompe la potenzialità delle strutture imprenditoriali ad attirare l’attenzione degli ambienti criminali, così favorendo l’avvicinamento tra questo tipo di associazioni e le società commerciali. Del resto, tali dinamiche, erano note sin dai lavori preparatori alla Legge “Rognoni-La Torre”. Nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge si sostiene, infatti, la necessità di «misure che colpiscano la mafia nel patrimonio, essendo il lucro e l’arricchimento l’obiettivo di questa criminalità che ben si distingue per origini e funzione storico-politica dalla criminalità comune e dalla criminalità politica strettamente intesa. L’espansione dell’intervento mafioso e l’articolazione complessa della mafia, che, mentre non trascura alcun settore produttivo e di servizi, trova nell’intervento pubblico la sua principale committenza, esigono oggi più puntuali strumenti proprio nell’ambito di arricchimenti illeciti e dei reati finanziari. La mafia, peraltro, opera ormai anche nel campo delle attività economiche lecite, e si consolida l’impresa mafiosa, che interviene nelle attività produttive forte dell’autofinanziamento illecito […], e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico […] scoraggiando la concorrenza con la sua forza intimidatrice» (Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, 3, 243), con ciò intendendosi la manifesta volontà di arginare quella peculiare vocazione imprenditoriale che siffatte organizzazioni avevano già palesato. Sicché il nuovo reato associativo fu considerato strumento di repressione certamente più efficace rispetto alla fattispecie “semplice”, esonerando l’autorità inquirente dalla prova di un programma criminoso cui riconnettere il possibile arricchimento dalla societas sceleris e pertanto rendendo sufficiente, per la punibilità del fatto associativo secondo il paradigma dell’art. 416 bis c.p., la sola dimostrazione del metodo mafioso utilizzato dall’organizzazione criminale e la prova della sua preordinazione all’ottenimento di profitti (o anche solo vantaggi) ingiusti. Astenendosi da considerazioni più prettamente sociologiche o storiografiche, quel che rileva in questa sede è che il predetto accostamento speculativo tra enti leciti e enti illeciti, ha di fatto indotto l’ingresso di un terzo gruppo di soggetti nel rapporto bilaterale, di pura lotta, tra lo Stato e il cd. “Antistato”, indentificato negli enti collettivi che nascono dall’iniziativa privata e che si propongono originariamente di realizzare fini non solo penalmente irrilevanti, ma costituzionalmente garanti, tra i quali si annoverano le società commerciali, soggetti collettivi che trovano la loro ragion d’essere nel libero esercizio, appunto, dell’iniziativa economica. Proprio la potenziale intersezione, ai limiti sovente della identificabilità, tra associazioni avente stampo mafioso e società commerciali ha determinato una ferma risposta legislativa, finalizzata a reprimere – o prevenire – le differenti forme di cointeressanza tra i due contesti. Nell’impossibilità di esplorare ogni aspetto della materia d’interesse, saranno nello specifico valorizzate quelle misure – di recente introduzione – per le quali all’accertamento della sussistenza di un’attività economica funzionale al perseguimento di finalità illecite mafiose, consegua finanche la liquidazione – latamente intesa – dell’attività reputata insanabile tramite un procedimento definito in dottrina “enticidio”[1] in una chiara e netta logica distruttiva evidentemente divergente con quella posta a fondamento del complessivo impianto ordinamentale riservato alla responsabilità amministrativa dei soggetti collettivi. L’art. 24 ter d.lgs. n. 231/2001, sul punto, pone non pochi problemi interpretativi. In primo luogo, il richiamo operato alla circostanza per la quale debba applicarsi la sanzione pecuniaria o l’interdittiva qualora l’ente sia chiamato a rispondere della consumazione di reati associativi (artt. 416 e 416-bis c.p.) e dei delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione criminosa o mafiosa, richiede senza dubbio la prodromica individuazione, non sempre agevole, delle effettive modalità di estrinsecazione di tale agire ovvero della pervicacia intimidatoria propria del metodo in questione sì da delineare adeguatamente il delitto presupposto, fra una molteplicità di fatti integranti la condotta tipica, idoneo all’applicazione dell’imperativo. Ma ancor più decisa si palesa la scelta riportata all’ultimo comma della disposizione che precisa come l’ente lecito – o la sua unità organizzativa – debba essere sanzionato con la dissolution prevista dall’art. 16, comma 3 del medesimo decreto, qualora si accerti che sia stato «stabilmente utilizzato allo scopo unico di consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nei commi 1 e 2», quindi, tra gli altri, del reato associativo mafioso. Innegabile la portata innovativa del precetto, lo stesso diverge in modo assoluto tuttavia – si è detto – con il complessivo impianto sotteso alla normativa del 2001, rivolta generalmente a forme di criminalità d’impresa occasionale da “responsabilizzare” e redimere sul sentiero della legalità, ossia ad enti – o a formazioni ad essi assimilabili – ordinariamente agenti in contesti leciti e solo in parte deviati da cellule criminali. A riscontro dell’assunto, la circostanza che già precedentemente all’introduzione della norma in parola, il Decreto dedicava un unico cenno all’art. 16, comma III,

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VIETARE È IL CONTRARIO DI REGOLAMENTARE: A PROPOSITO DI REATI UNIVERSALI E GPA E DEL FALLIMENTO (ENNESIMO) DEL DIRITTO PENALE MASSIMO

di Aurora Matteucci* Nel marzo del 2023 è uscito, per Einaudi, il libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”. Un’introspezione spietata, senza sconti, a tratti violenta, mani e piedi dentro l’ossessione di un desiderio che non si realizza – quello di diventare madre – incastrato nei territori ameni della medicalizzazione esasperata. Una vertiginosa ricerca del sé, in costante bilico tra esigenza di affermazione professionale, clessidre che scorrono senza sosta, idee e desideri che cadono in frantumi di fronte alla dissociazione tra la dimensione biologica del tempo e quella sociale. Lattanzi racconta, attraverso la sua esperienza, quella di molte altre donne che (legittimamente) hanno sorvegliato per anni il desiderio di maternità considerandolo rimandabile ad un dopo indefinito che non arriva più. Una storia, la sua, che lascia senza fiato, ma che al contempo restituisce ossigeno per raccontare le cose che non si ha il coraggio di raccontare, estraendole, una ad una, dalla polvere dei molti cliché che segnano, con il marchio dell’ipocrisia, ampia parte di quel che ruota intorno alla maternità e, più in generale, alla genitorialità.  Quando si ha a che fare, poi, con la gestazione per altri (il c.d. utero in affitto secondo una scelta lessicale spudoratamente negativa) il dibattito è ridotto ad una sfida tra assolutismi etici, slogan urlati, luoghi comuni tanto più odiosi quanto più irrispettosi delle implicazioni umane che ne sono coinvolte: si pensi alle difficoltà di un’intera generazione sul piano riproduttivo; o ancora alle strettoie ideologiche che impediscono alle coppie omosessuali di realizzare un progetto di famiglia alternativo a quello tradizionale. Molte persone, per ragioni diverse, di fronte al bivio tra impossibilità di fare altrimenti e tentativo di realizzare un desiderio, ricorrono all’estero, nei paesi in cui è consentita, per affidarsi alla gpa[1]. Questo perché in Italia è un reato. Tra i molti luoghi comuni che alitano le ragioni del divieto assoluto contro la gpa (e che la filosofa Chiara Lalli nel suo podcast “Affittasi Utero” per Fandango ha rigorosamente smascherato) ve n’è uno che suona quasi come un rimprovero cui dovrebbe corrispondere persino un senso di colpa: perché non ricorrere all’adozione? Perché, al netto della libertà di ognuno di decidere come e se diventare genitore, la strada dell’adozione è un labirinto esasperante riservato alle sole coppie sposate o conviventi stabilmente da almeno di 3 anni. Eterosessuali, si intende.  Qualsiasi analisi dell’esistente che abbia a che fare con il tentativo di regolamentare fenomeni complessi come quello del far venire al mondo qualcuno, attraversati, più di altri, da implicazioni biologiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche, deve inevitabilmente fare i conti con la straordinaria varietà delle biografie che ne costituiscono il presupposto, deve numerarle, nominarle, identificare i percorsi della vita che, ad un certo punto, finiscono sull’orlo di decisioni laceranti: condurre un’esistenza segnata dal lutto di un desiderio irrisolto, provare altrimenti a superarlo e vivere, ugualmente, una vita felice, oppure affidarsi alle possibilità che l’evoluzione scientifica offre? Sono domande, queste, completamente dimenticate nel discorso pubblico ormai dominato, non solo in questo settore, da un ipertrofico ricorso al divieto, alla sanzione, alla criminalizzazione di scelte etiche non in linea con il pensiero dominante. È quello che è accaduto nel dibattito politico che ha condotto, lo scorso 4 novembre 2024, all’approvazione della legge 169 che ha esteso la criminalizzazione del ricorso alla surrogazione di maternità anche a quella commessa all’estero da cittadino italiano. Una pesante mannaia che non tiene in considerazione almeno due aspetti. Anzitutto esiste, anche per coloro che ricorrono alla gpa e che non contribuiscono alla gestazione con il proprio patrimonio genetico (dunque per i c.d. genitori d’intenzione, non biologici), il diritto alla piena realizzazione di una famiglia. Diritto che la Corte europea, nel noto parere consultivo del 10.4.2019[2], ritiene ricadente entro il raggio di azione dell’art. 8 Cedu, purché connesso sempre al riconoscimento del c.d. best interest of child. Si sa bene, per carità, che in Italia questo diritto viene dosato con il contagocce, affidato com’è al percorso tortuoso dell’adozione in casi particolari. Eppure, non è revocabile in dubbio. Le due sentenze a Sezioni unite della Cassazione civile (la n. 12913 del 2019 e la n. 38162 del 2022) stanno lì a ricordarci che, seppur declinato come interesse del minore alla propria famiglia (e non del genitore intenzionale), questo diritto esiste, salvo sempre il limite – moloch inscalfibile – dell’ordine pubblico (sic!)[3]. Ma il divieto assoluto, universale, del ricorso alla gpa dimentica anche che le donne non sono un corpo muto (prendo in prestito la felice espressione di M. Nicchi, Una donna non è un corpo muto, in CRS, 20.4.2023) e che silenziare la voce di chi decide, consapevolmente e scientemente, di disporre del proprio corpo per la realizzazione di desideri altrui, non porta a niente di buono. Men che meno usare il diritto penale massimo per tutelare una dignità che la titolare, quando è libera di autodeterminarsi, non ritiene in alcun modo offesa. Occorrerebbe, invece, – secondo la lezione di Luigi Ferrajoli- fare ricorso al diritto penale in misura “minima”, usarlo con l’unico scopo di offrire uno strumento di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che, in sua assenza, si produrrebbero.  Un approccio, questo, decisamente soppiantato dall’uso egemonico del diritto penale, onnivoro catalizzatore di istanze repressive e strumento di regolamentazione a senso unico – mediante il divieto e la sanzione- dei fenomeni sociali. Che il punire sia passione contemporanea (per citare D. Fassin) è questione nota e da tempo oggetto di acute critiche e riflessioni. Non è il caso di attardarsi su questo, se non per sottolineare come, anche con l’estensione territoriale dell’incriminazione del reato di surrogazione di maternità, punito oggi urbi et orbi ad opera della L. 169/2024, si è inteso agitare lo strumento penale a dispetto di una regolamentazione seria della materia, capace di interagire in modo più adeguato con le numerose domande che solleva, inevitabilmente, il ricorso a questa pratica e che hanno a che fare con desideri complessi, con il dolore dei fallimenti riproduttivi, con le potenzialità, non sempre a misura umana, della scienza e della medicina. È una

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USURA E REATI “A DUPLICE SCHEMA”: QUANDO IL TENTATIVO È GIÀ CONSUMAZIONE. UN MODELLO ALTERNATIVO È POSSIBILE?

di Pietro Luigi Riillo* – SOMMARIO: 1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie – 2. Il tentativo – 3. Un modello alternativo – 4. La replicabilità del modello nelle fattispecie corruttive, ma non in quella concussiva o di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. – 5. Conclusioni.   1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie Il reato di usura, disciplinato all’art. 644 c.p., può essere delineato attraverso due aspetti caratterizzanti: il primo relativo alla fissazione di una soglia legale oltre la quale è da ritenersi integrata la presunzione di usurareità del tasso; il secondo, invece, concerne l’eliminazione – attraverso l’iter riformatore degli anni ‘90 – del requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo (e delle sue condizioni di difficoltà economiche), rinvenibile ora nella circostanza aggravante di cui all’art. 644, comma 5, n. 3, c.p. La norma punisce chiunque “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità[i], interessi o altri vantaggi usurari”. Prima dell’entrata in vigore della L. 7 marzo 1996 n. 108, dottrina e giurisprudenza fissavano la consumazione del delitto di usura attraverso la “stipula” dell’accordo usurario[ii]. L’effettivo versamento degli interessi, d’altra parte, rappresentava una (eventuale) consecutio post-factum. Di diverso avviso – a seguito dell’introduzione dell’art. 644-ter c.p.[iii] – la giurisprudenza formatasi in ordine al momento consumativo della fattispecie. Difatti, qualora alla promessa seguisse poi una dazione “effettiva” (anche se rateale), quest’ultima – in quanto porzione del fatto – deve essere considerata parte integrante della fattispecie concreta[iv]. Alla luce di ciò, parrebbe giustificata l’adozione dottrinal-giurisprudenziale circa la natura a duplice schema del delitto in esame, potendosi configurare sia un “modello unitario” della condotta, allorquando alla promessa di versare interessi o vantaggi usurari (ed alla relativa accettazione) non seguisse la dazione vera e propria, e sia attraverso il modello “a condotta frazionata” (di natura eventuale), incidente sul calcolo della prescrizione e, conseguentemente, pure in ordine al tempus commissi delicti[v]. Sul medesimo schema distintivo si incastona, altresì, la duplice natura di reato di pericolo o di danno della fattispecie in esame. La struttura oggettiva del reato, difatti, alla luce del proprio carattere mutevole, fa dipendere la propria realtà naturalistica in ordine alla possibilità che la condotta si sia limitata alla sola accettazione della promessa da parte dell’agente (in tal caso ci si troverebbe di fronte ad un reato di pericolo), o all’eventualità che, dopo l’accettazione della promessa, sia avvenuta la dazione vera e propria (in un’unica soluzione o ratealmente), di tal guisa si avrebbe la tramutazione, post-factum, in reato di danno. Il legislatore, pertanto, ha scelto di punire già la fase (strumentale) della stipulazione dell’accordo, quale momento perfezionante la fattispecie, a nulla rilevando, in termini di punibilità, se ad essa seguisse (o addirittura potesse seguire), la dazione economica vera e propria. Il disvalore perseguito dalla norma risiede, dunque, semplicemente nella dazione o nell’accordo di corrispondere interessi o vantaggi usurari, supportato sul piano soggettivo dalla consapevolezza (dolo generico) dell’agente di superare il tasso soglia stabilito dalla legge (usura “in astratto”) o dalla sproporzione tra la prestazione fornita e la controprestazione richiesta (usura “in concreto”). Questo avviene a prescindere dall’iniziativa del reo nel promuovere l’operazione illecita di finanziamento e dall’eventuale accettazione volontaria delle condizioni usurarie da parte della vittima. Più articolato appare, peraltro, eseguire una ricognizione in ordine al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Non è univoco, difatti, capire quale sia il bene che la norma ha inteso porre alla sua tutela anticipata. Sul punto, la questione non ha trovato soddisfacimento neppure a seguito della riforma del 1996. Secondo un orientamento dottrinale prevalente, occorre ritenere come il bene giuridico non debba individuarsi nel patrimonio individuale della persona – fisica o giuridica[vi] che sia – bensì nella tutela del mercato creditizio[vii] o, in alternativa, nella correttezza dei rapporti economici[viii] o delle obbligazioni nascenti dai rapporti di credito al fine di porre un limite al costo del denaro[ix]. Inoltre, prendendo le mosse dal testo normativo dell’art. 644 c.p., la Corte di Cassazione, Sez. II, ha osservato[x] come “ai fini dell’integrazione del delitto di usura non è richiesta una condotta induttiva da parte di chi pone in essere la condotta usuraria, rilevando unicamente l’usurareità oggettiva delle condizioni pattuite”. All’interno del provvedimento dei giudici di legittimità, è stato pertanto escluso che ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie, ricorra la necessità che il soggetto agente debba realizzare una qualche condotta “preparatoria” di natura induttiva, neppure di tipo intimidatorio[xi]. Di tal guisa, è l’accordo tra le parti a rappresentare l’elemento costitutivo della fattispecie. Sul punto, il Supremo Consesso – nella medesima pronuncia – teneva a precisare come “il nucleo essenziale dell’elemento oggettivo consiste ora nel «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità»” e che “nonostante il fatto che la formulazione legislativa «si fa dare o promettere» sembri presupporre l’iniziativa dell’usuraio, non rileva neppure il fatto che l’iniziativa di dare il via alla negoziazione usuraria sia stata presa dal soggetto che ha necessità del prestito”. Pertanto, esclusa dalla condotta tipica ogni genere di attività “pre-contrattuale” – l’attuale struttura oggettiva del reato di usura si sviluppa attraverso diverse fasi, alcune delle quali penalmente irrilevanti ed altre, invece, determinanti l’effettiva consumazione del reato.  La fase preliminare può consistere sia nell’attività di procacciamento – ossia nella ricerca attiva del soggetto agente, disposto a concedere denaro a condizioni usurarie – e sia nell’attività di ricerca del capitale a interessi usurari da parte del “soggetto debole” del contratto. Tali attività, pur essendo potenzialmente sintomatiche di un contesto illecito, non hanno rilevanza penale diretta, sebbene possano giustificare l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti del soggetto agente. Successivamente, si verifica la fase della trattativa, nella quale le parti avviano un negoziato circa le condizioni del contratto usurario. Anche in questa fase, l’ordinamento non attribuisce rilevanza penale alla condotta, trattandosi di una mera negoziazione priva di effetti giuridici vincolanti, fatta sempre salva l’applicabilità di misure di sicurezza nei confronti dell’agente. La successiva

USURA E REATI “A DUPLICE SCHEMA”: QUANDO IL TENTATIVO È GIÀ CONSUMAZIONE. UN MODELLO ALTERNATIVO È POSSIBILE? Leggi tutto »

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