Diritto Processuale

CERTEZZA STATALPUNITIVA DEL GIUDICE. LA CULTURA DEL DUBBIO FARMACO PER RISANARE IL PROCESSO ACCUSATORIO

di Roberto Capra* – Il confronto sulla riforma comunemente chiamata “separazione delle carriere” vede, ormai da tempo, radicalizzarsi due fazioni, ognuna convinta della bontà delle proprie argomentazioni. Una riforma di natura costituzionale, destinata per ciò solo a incidere sugli assetti ordinamentali dello Stato e sull’equilibrio dei Poteri può essere osservata, giustificata o avversata, da più di un punto di vista. Il piano del confronto, dell’equilibrio o, meglio, del riequilibrio tra i Poteri dello Stato è quello che sembra agitare ANM e Politica ed è, ovviamente, da tenere nella massima considerazione. Ve ne è però un altro, a mio avviso parimenti necessario, che dimostra come l’esigenza di questa riforma provenga dal “basso”, così come ha efficacemente sintetizzato, in un recente intervento, il professor Ennio Amodio[1]. Dal “basso” non in una scala di valori, ma esclusivamente in una distinzione tra piano “alto” e, dunque, relativo all’architettura costituzionale dei Poteri dello Stato e un piano diverso, e quindi, solo per alternativa, definibile “basso”, in tal modo indicando la sfera di applicazione diretta per il cittadino coinvolto in un processo penale. Ed è il piano “basso” sul quale provare a proporre alcune considerazioni, per offrire spunti di riflessione sul tema, evidenziando come l’appartenenza di giudice e pubblico ministero al medesimo Ordine abbia determinato, progressivamente, lo stravolgimento di alcuni istituti processuali, mettendo seriamente a repentaglio la tenuta del processo accusatorio. Il nostro Legislatore, come noto, con un gestazione durata alcuni decenni, ha individuato nel rito accusatorio lo strumento processuale migliore per arrivare alla migliore verità possibile, attraverso, in estrema sintesi, il contraddittorio nella formazione della prova. Si è ritenuto, dunque, che il prodotto di un confronto tra le parti sia migliore del prodotto dell’accertamento lasciato ad una parte soltanto. L’esame incrociato nelle prove dichiarative, ma non solo, assicura a chi deve giudicare un risultato più attendibile. L’art. 111 della nostra Carta dà copertura costituzionale a tutto questo. Pur non essendo unanimemente condiviso, occorrerebbe mettersi il cuore in pace e accettarlo. Le critiche, come sappiamo, non sono mancate e non mancano, dalle sentenze della Corte Costituzionale del 1992 sino a quanto si ha modo di assistere nei processi di tutti i giorni. Le resistenze maggiori arrivano da parte della magistratura e la ragione, credendo di non sbagliare, deve individuarsi nella permeabilità degli orientamenti culturali tra pubblico ministero e giudice. L’anomala vicinanza tra le due figure processuali ha determinato, infatti, la conservazione nel giudice, sebbene non più inquisitore, di una cultura che possiamo definire “statalpunitiva”, la medesima che appartiene al pubblico ministero, ma che ne condiziona le categorie di pensiero e, dunque, le correlate decisioni. Anche a sua insaputa, anche in buona fede. È così che si è assistito e si assiste all’orientamento di gran parte dei giudicanti che vedono il processo come un percorso, nei fatti troppo lungo e troppo complicato, per porre il sigillo dell’infallibilità alle scelte operate dal “collega di pensiero” pubblico ministero e comunque per poter esercitare la funzione punitiva che lo Stato assegna loro. Non sono queste osservazioni solo dalla portata generale ovvero astratta, anche se gli orientamenti culturali recano in sé profili di condizionamento generale delle umane condotte che poi ritroviamo, ad esempio, nelle scelte di appiattimento decisionale che siamo soliti vedere in sede cautelare. Non sono osservazioni vaghe o teoriche, perché, come avremo modo di osservare a breve, la trasmigrazione e la permeabilità della cultura accusatoria dal pubblico ministero al giudice si è manifestata e si manifesta nell’interpretazione sia di alcuni dei principi cardine del rito sia di alcuni istituti processuali. La convinzione che sta alla base di questo orientamento, radicato a tutti i livelli della giurisdizione e, soprattutto, in sede di legittimità, è determinata dall’idea che, in fondo, gli istituti processuali siano un limite spesso inaccettabile per l’accertamento della vera verità e che, dunque, in ragione di un obiettivo più importante, possano essere stravolti o quantomeno interpretati in modo difforme rispetto alla volontà del Legislatore del 1989. Il principio, frutto della cultura statalpunitiva, che ammanta l’interpretazione di diversi istituti processuali è, come messo in evidenza di recente in un interessante articolo, quello della non dispersione della prova[2]. È un principio che parte della magistratura ritiene dover informare il processo penale, ma che, invece, non si ritrova né nella Carta costituzionale né nelle regole fondanti il rito accusatorio. Non è che non ci si possa confrontare sul punto essendo comprensibile perché la magistratura giudicante, in larga parte, lo ponga come principio orientatore della propria azione, ma tale profilo nasce, a nostro avviso, dalla convinzione che il processo accusatorio e il suo cuore pulsante, vale a dire il contraddittorio nella formazione della prova, non siano effettivamente lo strumento migliore per l’accertamento di un fatto e delle correlate responsabilità, il tutto ammantato, come detto, dal condizionamento delle categorie del pensiero che la cultura statalpunitiva determina in chi è chiamato a giudicare. Le regole del rito accusatorio puro, con il principio dispositivo in testa, possono, talora, portare a pronunce che comunemente potrebbero definirsi “ingiuste”, perché viene lasciata alle parti la gestione della prova e l’errore sul punto, sia dell’accusa che della difesa, può anche determinare una sentenza non convincente rispetto al fatto storico avvenuto. Certo che, se poste a confronto con le regole del rito inquisitorio, laddove sostanzialmente la difesa è pretermessa dalla formazione della prova, il rischio di errore è davvero contenuto. In ogni caso, in qualunque sistema processuale, è fisiologico che vi siano pronunce non corrette rispetto al fatto storico, ma si tratta di ridurre il più possibile tali, inevitabili, situazioni critiche e, in ogni caso, i ragionamenti di sistema devono operare sui grandi numeri e non sul singolo caso. Si deve allora tornare al confronto tra rito accusatorio e rito inquisitorio ed alla scelta, mai digerita realmente da gran parte della magistratura, che il Legislatore, anche costituzionale, ha scientemente operato. La magistratura, soprattutto quella giudicante, si deve arrendere al Legislatore, perché ne va dell’equilibrio tra i Poteri dello Stato da un lato e, dall’altro, della tenuta del rito accusatorio. Nel gioco dei numeri delle decisioni corrette a confronto con

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LA NON DISPERSIONE DELLA PROVA NEL PROCESSO PENALE: LA VACUITÀ DI UN “PRINCIPIO” INCOSTITUZIONALE

di Alberto de Sanctis* e Roberto Impeduglia** –  Desta più di una preoccupazione la constatazione che nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione continui a serpeggiare indisturbato il richiamo al principio di non dispersione dei mezzi di prova. Secondo alcuni arresti di legittimità, che vi fanno espresso riferimento, un simile principio assumerebbe portata “generale” e si modulerebbe in concreto in specifiche disposizioni della disciplina sulle prove, quali ad esempio l’art. 238 c.p.p. in materia di acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti o l’art. 270 c.p.p. in materia di intercettazioni[1]. Addirittura, a ben vedere, in altre pronunce di Cassazione sembra quasi che il ritenuto principio sia il cardine che informa l’acquisizione delle prove nel procedimento penale, rispetto al quale la sanzione processuale dell’inutilizzabilità, che discende dall’art. 191 c.p.p., sarebbe semmai da ritenersi l’eccezione insuscettibile di applicazione estensiva[2]. È ben noto che l’enucleazione di un simile principio debba larga parte della sua “fortuna” alle pronunce della Corte Costituzionale della c.d. “svolta inquisitoria”[3] del 1992, allorchè il Giudice delle Leggi si espresse con una sequenza di sentenze convergenti che diedero corpo al tentativo di demolire il neonato processo accusatorio e restaurare il vecchio rito misto appena abbandonato dal Legislatore[4]. In tali arresti – in particolare nella sentenza n. 255/1992[5] – la Corte Costituzionale collegò espressamente il teorizzato “principio di non dispersione dei mezzi di prova” al fine supremo della “ricerca della verità”, istituendolo quasi a contraltare correttivo del principio del contraddittorio nella formazione della prova che contraddistingue il modello accusatorio. Secondo l’assunto in allora fatto trasparire dalla Corte, il processo accusatorio porterebbe alla costruzione di una verità formale, se si vuole una fictio frutto dell’attenta selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo le regole tipiche del contraddittorio nella formazione della prova. Secondo tale ordine di argomentazioni, siccome tendenzialmente la verità “costruita” del processo accusatorio si avvicina alla “verità Vera”, il processo accusatorio è un modello processuale tollerabile, ma occorre mettere in conto che esistano casi in cui la “verità Vera” irrompe nel processo e smentisce la verità formale del processo accusatorio: ebbene, in tali ipotesi, poiché il “fine primario ed ineludibile del processo penale”[6] è la ricerca della verità – e non di un suo simulacro – non vi sarebbe da esitare un istante ad abbandonare le regole formali di selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo il modello accusatorio per prediligere – sia pur in deroga – le regole del metodo inquisitorio che riconoscono dignità di prova utilizzabile anche alle prove raccolte unilateralmente nella fase delle indagini. V’è chi ha fatto autorevolmente osservare, già commentando le richiamate sentenze della Corte Costituzionale, che nel ragionamento sviluppato nel 1992 dal Giudice delle Leggi non viene contrapposto alle regole del processo accusatorio alcun principio costituzionale di diretta rilevanza processuale; anzi la Corte conia un principio non costituzionalizzato che ha la pretesa di ribaltare il corretto rapporto tra “regola” ed “eccezione”: “degno di nota è il fatto che la Corte si guardi bene dall’indicare un principio a diretta rilevanza processuale con cui quelle regole contrasterebbero; o, meglio, l’unico che esibisce è un sedicente «principio di non dispersione della prova» di cui non v’è traccia nella Costituzione, ma che la Corte stessa ricava per amplificazione dalle deroghe all’oralità e al contraddittorio previste dal codice di rito (col singolare risultato di convertire in regola le eccezioni)”[7]. È stato anche illustrato con meridiana chiarezza che la sfiducia nel modello accusatorio sottesa all’associazione tra il ritenuto principio di non dispersione della prova ed il modello inquisitorio sconta un limite assai profondo, che origina da un’accezione di “verità” non accettabile sul piano euristico. Che il processo abbia per scopo l’accertamento della verità e che di verità ne esista una sola sono postulati fuori discussione. Il punto è semmai riconoscere che la verità che viene cercata nel processo penale è, per forza di cose, una verità storica, la verità di fatti occorsi nel passato, che non si manifestano concretamente davanti agli occhi del giudice[8]. Da ciò discende necessariamente che l’attività di ricerca del giudice non trova riscontri materiali del fatto-reato che si vuole accertare, come accadrebbe in relazione alla ricerca di un bene materiale e tangibile da “scoprire”; tale ricerca è semmai da configurarsi nei termini di una “ricostruzione” e di una “elaborazione” attraverso un “metodo”: allora sì, in questi sensi, “ogni verità prodotta da un giudice è «formale» in quanto non «trovata», ma «elaborata» attraverso una metodologia”[9]. Ciò posto, in dottrina si è poi ampiamente dimostrato che il “metodo” migliore sul piano euristico per la “ricostruzione” della verità è quello del contraddittorio, giacchè la validazione della tesi accusatoria sulla sussistenza del fatto-reato – che non può trovare riscontro nella realtà materiale in quanto fatto appartenente alla sfera del passato – non può che discendere dallo schema dialogico del contraddittorio, secondo il quale una tesi è vera oltre ogni ragionevole dubbio e con alto grado di credibilità razionale se ogni tentativo di falsificazione argomentativa fallisce. Com’è noto, queste ed altre vicissitudini dottrinali e storiche hanno poi portato alla costituzionalizzazione del nuovo art. 111 Cost., alla luce del quale ci si sarebbe potuti illudere che il ritenuto “principio” di non dispersione della prova e di pretesa superiorità euristica del metodo inquisitorio si fossero definitivamente estinti dopo la novella costituzionale. In questo senso si sono espressamente pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, allorché hanno affermato che “nel nuovo quadro costituzionale, […] non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale perchè le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita” (Cass., S.U., 25 novembre 2010, n. 27918)[10]. Come si è visto in apertura, tuttavia, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla revisione costituzionale e nonostante la pregnanza della costituzionalizzazione del principio del

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SISTEMA PENALE E  NUOVE “ENCLOSURES”

di Orlando Sapia* «La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane» (Anatole France, Il giglio rosso, 1894) È invalso da almeno tre decenni un uso massiccio del sistema penale nel governo della società: aumento spropositato delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che è possibile riscontrare. Un sistema che teoricamente dovrebbe garantire giustizia nel rispetto dei diritti dei cittadini, ma con frequenza nega la giustizia, a causa della lungaggine dei processi causata da un fenomeno di overload del contenzioso, e, a volte, per una perversa eterogenesi dei fini, realizza degli orrori giudiziari.[1] Un sistema penale che diviene sempre più pervasivo, tentando di controllare, mediante la previsione di una miriade di fattispecie di reato, ogni aspetto del vivere sociale, un “diritto penale totale”.[2] Ciò è l’opposto del garantismo penale, il cui principio fondamentale è quello di limitare l’uso del potere coercitivo/punitivo da parte dello Stato (indagini, misure cautelari, processo, esecuzione penale), così da intenderlo quale extrema ratio. In Costituzione sono fissati i principi cardine di un sistema penale finalizzato a garantire i diritti dell’uomo indagato, imputato e, eventualmente, condannato. L’idea di fondo è quella della riduzione della violenza, anche nella punizione del reo, poiché l’obiettivo finale è riaggregarlo nella società, come disposto chiaramente dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 313/1990[3].  Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione tardiva, laddove le riforme sono intervenute, e per altri aspetti assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354; il nuovo codice di procedura penale è varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930. Il legislatore, tuttavia, a partire dagli anni novanta del secolo passato ha realizzato una legislazione fortemente repressiva, improntata alla logica dell’eccezione, nella quale lo spazio delle garanzie legislative ha subito con sistematicità una costante riduzione[4]. Esemplare, in tal senso, è l’introduzione del regime dell’ostatività, ex art.  4 bis L. n. 354/1975, che laddove riguardi il condannato alla pena dell’ergastolo comporta l’ostatività alla concessione della sospensione condizionale, elidendo così le possibilità di concreta riducibilità della pena perpetua. Più in generale, sotto il profilo del diritto sostanziale, si assiste al proliferare delle fattispecie di reato e all’innalzamento degli edittali di pena, in alcuni casi proprio dei minimi, così sottraendo al giudice di merito la possibilità di realizzare una corretta dosimetria della pena da irrogare.[5] Sarebbe troppo lungo in questa sede operare una ricostruzione degli svariati pacchetti sicurezza che si sono succeduti negli ultimi tre decenni, ma è di certo utile ripercorrere quello che è avvenuto per lo meno nell’ultima legislatura. Uno dei primi atti dell’attuale esecutivo, che si muove in perfetta continuità con i precedenti governi almeno per quanto concerne l’uso della penalità, è stato il c.d. decreto contro i rave party, n. 162/2022 poi convertito nella legge n. 199/2022,  che ha introdotto il reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione; normativa finalizzata a punire chiunque promuova o organizzi invasione di terreni o edifici allo scopo di realizzare raduni musicali che possano nuocere alla salute pubblica a causa del consumo di droghe oppure per violazione della normativa in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli  e  delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. È evidente che si tratti di una norma del tutto superflua poiché le condotte, ora riconducibili nel 633 bis, erano già sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 633 c.p. invasioni di terreni o edifici. Si è dinanzi alla volontà di ricondurre nella sfera di rilevanza penale la condotta organizzativa dell’incontro musicale, di per sé neutra, poiché connessa alla pratica delle occupazioni temporanee piuttosto che al consumo di droghe.  Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina prevedendo  la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 TUI), ma soprattutto l’introduzione del nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis Dlgs. n. 286/98), in cui se nell’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persona la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale. Il D.L. n. 123/23 c.d. decreto Caivano che traendo origine sempre da fatti di cronaca, avvenuti per l’appunto a Caivano, rappresenta un ulteriore di esempio di atto avente forza di legge che viene emanato in via di urgenza, e senza nessuna necessità, sull’onda delle emozioni di piazza per parlare alla pancia del paese. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene delle norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione. Fortunatamente non sono passate quelle proposte che avrebbero voluto un abbassamento dell’età ai fini dell’imputabilità, che per adesso permane a quattordici anni. Gli effetti del decreto Caivano non si

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ANCHE AL PEGGIORE DEI NEMICI

di Fabio D’Offizi* Leggendo i preziosi contributi monografici fin qui pubblicati su “Ante Litteram” in tema di tortura, ho ritenuto opportuno segnalare una vicenda processuale che, a parer mio, non gode dell’eco che meriterebbero tutti quei giudizi in cui vi è la tendenza a ribaltare il paradigma accusatorio garantista e, di conseguenza, a distorcere la procedura penale fino a intenderla quale neo-limite all’esercizio del diritto di difesa. In un sistema accusatorio garantista, infatti, le regole processuali devono limitare l’autorità procedente per bilanciare l’asimmetrico rapporto fra lo Stato, che avanza la pretesa punitiva, e il cittadino, a garanzia del quale sono poste. E ciò deve valere a fortiori se il delitto oggetto dell’accertamento è un crimine contro l’umanità, come lo è la tortura, anche se si tratti di quella propriamente intesa, ossia la terribile e inaccettabile pratica di interrogatorio medievale. In tale prospettiva si inserisce la sentenza n. 192/2023 con cui la Consulta, in relazione al cd. Processo Regeni, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 420-bis, comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa. In particolare secondo la Consulta, il factum principis (ossia il rifiuto delle autorità egiziane di rendere noti i recapiti dei quattro funzionari ai fini della notifica della loro vocatio in iudicium) ha determinato obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla, e idonea a impedire il compimento degli accertamenti giudiziali previsti in sede pattizia, così ledendo la dignità della persona offesa perché comprime il suo diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti e quello dei familiari della persona la cui morte sia stata causata direttamente da quel reato[1]. Sulla scorta di queste ragioni, ampliando il novero delle ipotesi di assenza non impeditiva previste dal terzo comma dell’art. 420-bis c.p.p., la Corte costituzionale ha permesso la celebrazione, a carico di quattro assenti inconsapevoli, di un giudizio che a breve si concluderà, seppur caratterizzato ab initio «dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini»[2]. In un contesto mediatico dai risvolti altamente politici, questa scelta del giudice delle leggi mi è parsa un’operazione ermeneutica giustificata più da una spinta esterna di matrice vagamente populista che dall’asserita necessità di bilanciare interessi confliggenti ma al contempo riconosciuti dalla carta fondamentale. Infatti, in tale prospettiva, la ritengo opinabile per due ordini di motivi. In primo luogo, il bilanciamento operato dalla Consulta non mi convince nel relazionare il diritto di difesa con il “diritto inviolabile della persona che del reato di tortura è stata vittima”, poiché altrimenti (ossia impedendo sine die la celebrazione del processo per la verifica del reato di tortura) si annullerebbe il suo diritto fondamentale all’accertamento della verità. A mio parere, tale impostazione presta il fianco a due differenti critiche. Per un verso, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza che assiste anche i quattro funzionari egiziani, non può esservi aprioristicamente una “vittima” perché, in un ordinamento pienamente democratico, tale status soggettivo dovrebbe maturare solamente al momento del passaggio in giudicato della condanna emessa al di là di ogni ragionevole dubbio, ossia solamente quando viene accertato il “colpevole”. Fino ad allora in un giusto processo, proprio in ossequio alla presunzione di non colpevolezza, non potrà esservi per definizione una “vittima”, ma al più una “presunta vittima”, almeno in relazione a quello specifico “presunto non colpevole”, quindi bilanciare l’inviolabile diritto di difesa di quest’ultimo con un diritto all’accertamento della “presunta vittima” mi lascia perplesso. Per altro verso, l’accertamento processuale è direttamente proporzionale al rispetto delle regole che lo disciplinano; quindi, una procedura deviata ab initio restituirà una “verità” quanto meno dubbia, incerta, se non addirittura discutibile e non convincente, con ciò negandosi la stessa funzione conoscitiva del processo penale e, pertanto, anche il menzionato diritto della “vittima” alla verità. Quest’ultima, infatti, conseguirà a un non-accertamento, frutto della sola posizione accusatoria, che nel percorso processuale avrà beneficiato illegittimamente della mancanza di un vero contraddittorio a causa dell’assenza incolpevole degli accusati. In secondo luogo, se la Consulta, da un lato, pone il diritto partecipativo dell’imputato[3] (funzionale all’esercizio della cd. autodifesa, che compone il diritto di difesa nell’interazione con il concorrente diritto alla difesa tecnica, rispetto al quale rimane comunque distinto e ulteriore[4]) e, dall’altro, il diritto/dovere dello Stato di perseguire tutti i reati, bilanciarli negando la pienezza del primo significa avvantaggiare irragionevolmente il secondo, perché si pregiudica in modo irrimediabile il diritto inviolabile di difesa. Infatti, la mancata conoscenza da parte dell’imputato della vocatio in iudicium (caposaldo del giudizio penale) non è altrimenti surrogabile e rappresenta un vulnus irreparabile che elide l’idea stessa di giusto processo, ossia dello strumento democratico attraverso cui lo Stato può svolgere l’interesse repressivo… anche in relazione ai crimini contro l’umanità. Anzi, tanto più grave è il reato, tanto maggiori devono essere le garanzie che lo Stato assicura al presunto non colpevole, per dimostrare di tal guisa, anche al peggiore dei nemici, la propria superiorità democratica. Prendendo dichiaratamente atto del pregiudizio che stava arrecando al sistema alla cui tutela sarebbe invece preposta, la Consulta ha ritenuto comunque possibile ridurre questo vulnus a legittimità «per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun

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LA COSIDDETTA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA SISTEMA PENALE E CARTA COSTITUZIONALE

di Amedeo Di Franco* –  La vexata quaestio relativa alla cd. separazione delle carriere (o, meglio, degli statuti ordinamentali) della magistratura requirente e della magistratura giudicante si (ri)presenta sul panorama politico-istituzionale del nostro Paese nelle forme del d.d.l. costituzionale n. 1917 approvato alla Camera e trasmesso al Senato.1 Senza la pretesa di affrontare la moltitudine di implicazioni che la specifica proposta di riforma costituzionale porta con sé, le brevi osservazioni che seguono ruotano attorno al rapporto tra la c.d. separazione (o unicità) delle carriere e il sistema penale vigente in uno specifico ordinamento in un determinato momento storico. Orbene, in quest’ottica, il principio della riflessione ben può risiedere nella circostanza per la quale molti, in particolare tra gli studiosi e operatori del diritto, si sono chiesti e si chiedono tutt’ora perché cambiare e, dunque, perché “separare” le carriere. Un interrogativo, questo, che sembra provenire da uno scenario nel quale le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti siano ontologicamente unite – secondo un ordine giusnaturalistico2 – da un vincolo indissolubile (e ontologico è proprio il termine utilizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati nella mozione finale del trentaseiesimo congresso nazionale di Palermo dello scorso anno, dove si legge che: «L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme»)3. Ecco, si diceva, è come se in tale scenario qualcuno all’improvviso – come un deus ex machina, forse nelle vesti di Eride, dea spietata che gode nell’animare conflitti tra gli uomini – abbia manifestato l’intenzione di recidere tale nodo indissolubile. Appare preferibile, invece, una diversa postura nei confronti del tema, che imponga di chiedersi, innanzitutto, le ragioni per le quali le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione siano accomunate e, di conseguenza, perché siano unificati i relativi statuti ordinamentali. In questo senso, un interessante punto di partenza si può senza dubbio rinvenire nella relazione del guardasigilli fascista Dino Grandi al codice di procedura penale del 1930 di matrice inquisitoria – che sostituì quello tendenzialmente accusatorio e liberale del 1913 –, presentata alla Maestà del Re Imperatore.4 Nel testo si evince che alla base della decisione di unificare le funzioni ci fossero, in primo luogo, «ragioni di ordine politico, in quanto, superata la distinzione fondamentalmente erronea tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta. Ciò determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione». In secondo luogo, venivano in rilievo «ragioni d’ordine pratico […] perché la separazione non potrebbe giovare ai fini di una specializzazione di funzioni e, quindi, ad una più perfetta formazione dell’abito e delle attitudini dei singoli magistrati, in quanto la formazione intellettuale e professionale del magistrato, lungi dall’esser turbata, è, invece, avvantaggiata dall’esercizio di entrambe le funzioni, che offre il modo di perfezionarsi in tutti i campi del diritto. L’ordinamento, perciò, fissa l’istituto del Pubblico Ministero in armonia con l’attuale sistema». Ecco, tale sistema, che resistette, seppur con molte modificazioni, anche all’avvento della Legge fondamentale, come è noto, non è più vigente. È stato abrogato nel 1989, a vantaggio di un codice “tendenzialmente” accusatorio. Ciò nonostante, il concetto della “cultura della giurisdizione”, di cui è intrisa la relazione del guardasigilli Dino Grandi, continua tutt’ora a riecheggiare, assurgendo ad uno dei principali argomenti coi quali si ritiene irragionevole la separazione delle organizzazioni ordinamentali. Sul punto v’è dunque da chiedersi se abbia senso parlare di “cultura della giurisdizione” nell’attuale sistema di giustizia. In quest’ottica, a voler accedere alla interpretazione più restrittiva del concetto di “cultura della giurisdizione”, ci si dovrebbe riferire alla funzione dello ius dicere, esclusivo appannaggio dell’organo giudicante e, dunque, nel sistema attuale preclusa alla pubblica accusa. Se, invece, si volesse prediligere una concezione più lata di tale concetto, inteso, dunque, più ampiamente come “cultura della legalità” – o come cultura del rispetto delle regole all’interno del processo –, l’unicità delle carriere non potrebbe non includere il terzo anello del giusto processo triadico scolpito nell’art. 111 Cost., rappresentato dall’avvocato difensore.5 A ciò si aggiunga, inoltre, che non è per nulla scontato che il mantra della “cultura della giurisdizione” – anche a voler accedere alla ambigua accezione con cui viene non di rado declinata – dispensi buoni frutti; anzi, tanto può aversi un’influenza equilibratrice – e quindi virtuosa – della pubblica accusa, tanto può registrarsi, al contrario, un appiattimento della giurisdizione su posizioni inquisitorie (come, secondo autorevole dottrina penalistica, è avvenuto in plurimi casi di scelte ermeneutiche effettuate in relazione fattispecie chiave del nostro sistema penale, come la corruzione o il c.d. concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Appiattimento che rischia di mortificare la natura stessa del processo penale di stampo accusatorio. È appena il caso di ricordare, poi, la circostanza per la quale proprio l’insigne giurista che firmò il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, il Ministro, Professore, Onorevole, Giudice della Corte costituzionale e Avvocato, Giuliano Vassalli ha scritto e sostenuto in più occasioni che il processo penale per come delineato all’epoca non avrebbe assunto con pienezza i connotati del processo accusatorio in assenza della separazione delle organizzazioni ordinamentali dei magistrati e che in questo modo le funzioni non sarebbero state mai del tutto distinte. Disse, infatti, in un’intervista del 1987 che non fosse leale parlare di processo accusatorio, ove i giudici e i pubblici ministeri avessero continuato ad avere medesime carriere e a ricoprire gli stessi ruoli, essendo necessario, in tal senso, un allineamento della Carta costituzionale.6 Ancor più valore assume, poi, la profezia di Vassalli se si considera che nel 1999 è stato riformato l’art. 111 della Costituzione: da allora, invero, la nostra Legge fondamentale fa proprio il principio del giusto processo, da svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Pertanto, l’esigenza di differenziare

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IL MERITO PROCESSUALE, TRA ACCUSATORIO ED INQUISITORIO

di Antonio Baudi Dopo essermi intrattenuto nei due precedenti scritti su merito cautelare e merito preliminare dovrei ora completare l’impegno in tema di merito processuale, tema coinvolgente l’inquisitorietà (come esemplarmente nel giudizio abbreviato che implica rinuncia al dibattimento e al contraddittorio quale metodo acquisitivo della prova di matrice accusatoria) e l’accusatorietà (operante per l’appunto nei giudizi dibattimentali). Nella loro essenza risalta il rigoroso divergere tra i due opposti sistemi, l’uno che privilegia il monodico potere del giudice, quale depositario della verità, nonché il ricorso all’applicazione di misure cautelari, l’altro che privilegia la verità come obiettivo finale risultato del contraddittorio tra i soggetti principali del processo e che esclude compromissioni preprocessuali di libertà personale. Tale rigore è smentito dal sistema vigente, che si vuole a procedura mista, e dagli stessi principi della carta costituzionale come sanciti con gli artt. 13 e il 27.    Il primo disposto, di cui all’art. 13, evoca l’inquisitorietà. Esso esordisce proclamando che “la libertà personale è inviolabile”.  Precisa quindi che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e casi e modi previsti dalla legge”. Però “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”, fermo restando che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Persiste con l’enunciato dell’ultimo comma, una terminologia antisistema: “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. Il secondo disposto, di cui all’art. 27, dispone che “La responsabilità è personale” ed esalta la presunzione di innocenza quando detta che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Nel rispetto della dignità personale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ulteriori notazioni sono emerse dall’esperienza ed è su queste che intendo soffermarmi. In sede di riunione indetta dal CSM tra tutti i dirigenti delle sezioni dei giudici per le indagini preliminari (in breve “i capi Gip”) sono state conosciute, me presente, realtà sorprendenti. In un ufficio del Nord si era formata la prassi per cui in sede dibattimentale la pena non era mai inflitta al di sotto della media edittale e, in tal modo, era scongiurato l’accesso al giudizio dibattimentale risultando oltremodo favorito il giudizio abbreviato, ove, in caso di condanna, la pena, muovendo dalla base minimale, era premialmente ridotta di un terzo. Quell’ufficio era elogiato per la sua straordinaria efficienza. In altro grande ufficio, sempre del Nord, l’inoltro nella cancelleria dibattimentale monocratica dei fascicoli del PM avveniva con due giorni di anticipo rispetto alla data di udienza per problemi organizzativi. Ne conseguiva che il giudice era inevitabilmente indotto a consultare entrambi i fascicoli e quindi aveva una totale conoscenza degli atti, il che gli consentiva di spadroneggiare nel processo in funzione di una decisione ormai formata come nel passato. Difatti quel giudice era in grado di definire tutti i processi calendarizzati in udienza. Tutto questo ho constatato di persona essendo parte civile nell’ultimo processo da definire. Numeri statistici alla mano anche tale ufficio era elogiato per la sua efficienza! In entrambi i casi la logica del sistema del codice e della riforma era brillantemente aggirato in funzione dell’efficienza e della giustizia in concreto. Quando, nel prosieguo delle audizioni, si ascoltarono altri presidenti, del centro sud, emergeva una opposta realtà e le statistiche denunciavano il ritardo nei giudizi e l’anomalo accumularsi dell’arretrato. Occorre in proposito rammentare che Il nuovo codice è stato approvato all’unanimità e nei commenti dell’epoca si precisava che in tanto il sistema avrebbe funzionato in quanto era vantaggioso optare per il giudizio abbreviato e ridurre al minimo i giudizi accusatori. Sarebbero state necessarie, a mio avviso, due concorrenti evenienze; che i giudizi del merito preliminare bloccassero accuse prive di prognosi di fondatezza nel merito e che i difensori convincessero gli assistiti sui vantaggi della premialità. Ed invece i controlli preliminari si sono, anche con il diffuso favore dottrinario, risolti in un comodo ed irriflessivo rinvio a giudizio e nell’eccessivo sovraccarico era una meta allungare i tempi ed agevolare la maturazione della prescrizione. Sul rapporto tra Giustizia ideale e Giustizia reale, o meglio sui metodi per l’efficienza del sistema, in concreto ormai fallimentare, è bene evitare qualsiasi ulteriore commento.

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IL DIRITTO,LA PROVA E I COSTI: DIVAGAZIONI

di Fabrizio Cosentino* 1. Uno dei punti fondamentali di ogni ordinamento giuridico riguarda le prove da ritenere ammissibili e il loro grado di sufficienza ai fini di una pronuncia di condanna, civile o penale. L’importanza delle procedure, per la salvaguardia dei diritti delle parti contrapposte – ma al contempo come direttiva per il giudice – è sempre stata posta all’attenzione del legislatore, perché non basta affermare un diritto, se non si sa in che modo lo si può far valere: l’accertamento di un diritto e l’imposizione di una sanzione riuscirebbero impossibili se  non si sapesse come compiere l’accertamento e come imporre la sanzione. Così avvertiva Antonio Azara, presidente di sezione della Corte di Cassazione, all’epoca delle nostre – tuttora vigenti – codificazioni, aggiungendo: L’evoluzione degli istituti di diritto sostanziale procede nel complesso di pari passo con quello degli istituti di diritto processuale quando manca la sincronia d’insieme il vero progresso si arresta… La difficoltà per la formazione di un buon codice di procedura sta nel trovare un giusto mezzo nella tutela del diritto fra la rapidità e la sicurezza. La meticolosità e la sovrabbondanza di norme si presta ai cavilli e porta lungaggini di giudizi che sono grandemente dannose; l’eccessiva brevità ristrettezza può determinare incertezza di applicazione nei casi pratici rigore e plasticità che sono requisiti essenziali della norma procedurale non vanno facilmente insieme ma sono certo accordabili è un buon sistema di diritto processuale deve dare alle parti la possibilità di un pronto accertamento del diritto e di una sicura protezione e al giudice la possibilità di giungere presto a una chiara e precisa decisione con piena cognizione di causa ([1]). 2. Nei sistemi basati sul contraddittorio, spetta a chi promuove il giudizio, la parte o il P.M., fornire la prova dei fatti costitutivi fondamentali del diritto dedotto o della pretesa punitiva fatta valere con la richiesta di condanna (art. 2697 c.c.; arg. ex artt. 187 e 190 comma primo, prima parte). Vale pertanto il criterio generale, per cui ciascuna delle parti in causa è tenuta a provare i fatti che implichino l’applicazione di una norma sfavorevole all’altra parte. Il bilanciamento e la distribuzione dell’onere della prova da parte del legislatore sono operazioni estremamente delicate.  In un giudizio penale, ad es., l’accusa è tenuta a provare il tenere o l’agevolare il gioco d’azzardo e il prenderne parte, senza esserne mero connivente, e – ai fini dell’aggravante – anche dell’entità della posta in gioco (art. 718, 720 c.p.). In tal modo, si diminuisce il rischio che l’imputato venga condannato benché innocente, ma si aumenta contemporaneamente il rischio che l’imputato venga assolto, benché colpevole. La fondamentale presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27 comma secondo, Cost.) in presenza di (almeno) un doppio grado di giurisdizione, comporta analoghi effetti, anche se non è esente da aporie: un secondo giudizio potrà correggere gli errori del primo, in un senso (condanna) o nell’altro (assoluzione), ma lascerà lo spazio – soprattutto nell’opinione pubblica – al dubbio (chi ha visto bene, il primo o il secondo giudice?). Il sistema americano, per i reati basati sul verdetto di una giuria, non conosce questo problema, poiché l’appello può essere fondato soltanto su elementi di procedura (in primis, le corrette istruzioni date dal giudice ai giurati) ([2]). Anche le rigide regole procedurali pongono evidenti problemi: quid iuris in presenza, ad es, di una intercettazione illegale, o di una confessione acquisita in violazione dei c.d. “Miranda warnings” ([3]), che pure provino con schiacciante evidenza la commissione del fatto da parte dell’imputato, in assenza di altri elementi agli atti? Si impone l’assoluzione, a tutela di tutti gli innocenti che incappano nelle maglie della giustizia e a protezione degli abusi, secondo il principio “meglio un colpevole in più in libertà che un solo innocente in carcere”, eppure la coscienza comune istintivamente soffre (in questo caso, è la ragione che prevale) ([4]). La presunzione di innocenza, inoltre, sembra soffrire un vulnus, laddove il singolo incolpato viene inserito in processi dai grandi numeri, rischiando di venire schiacciato dalla mole processuale, e dalla difficoltà di cogliere ogni singolo aspetto individuale, e quindi di “individualizzare” il giudizio: le camere penali puntano il dito sul tasso di sommarietà e di errore che i processi di massa recano inevitabilmente con sé, senza contare che nei “grandi” processi, i costi di difesa possono diventare insopportabili per gli imputati marginali. 3. È evidente che la legge, prima di fare certe scelte, ne valuta i costi. Condannare una persona senza aver raggiunto un’apprezzabile soglia di evidenza costa (dal punto di vista morale ed economico), in quanto comporta il rischio di punire chi non ha commesso il fatto, minando, al margine, la forza produttiva della società, e imponendo i costi dell’esecuzione della pena. Spingersi sino a richiedere la prova “diabolica” della colpevolezza parimenti ha un costo, perché vi è il rischio di un intollerabile tasso di assoluzioni e, al limite, nessun colpevole potrebbe essere condannato, nemmeno il reo confesso, compromettendo gravemente l’ordine pubblico. Il punto di giusto equilibrio non è definito, e non può essere definito, se non con un margine di incertezza. Vi sono alcune “regole”, anche non scritte, quotidianamente in uso da parte dei giudici per raggiungere il convincimento su determinati fatti, riguardo ad esempio al nesso causale (tipicamente il c.d. giudizio controfattuale), ma occorre fare i conti con i pregiudizi logici, i c.d. bias cognitivi, che possono influenzare negativamente le decisioni. Ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale o della stessa condanna, ad es., il giudice può farsi influenzare dai precedenti penali dell’imputato (più sono, e più sono specifici, più viene ritenuto probabile che l’imputato abbia nuovamente delinquito) o dai proprio convincimenti personali circa il particolare fatto da giudicare: in determinati reati, ad es., gioca il pregiudizio contro o a favore della donna, o nei confronti degli orientamenti di genere; nei reati concernenti gli stupefacenti, in quelli commessi da immigrati o da persone di etnia diversa, un’eventuale accentuata avversione personale, o al contrario un’eccessiva propensione alla tutela del diverso. La regola del ritenere la

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BENEFICIO PREMIALE DISCENDENTE DALLA MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO AVVERSO LA SENTENZA DI CONDANNA EMESSA ALL’ESITO DI GIUDIZIO ABBREVIATO. L’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP, APPRODI GIURISPRUDENZIALI E PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

di Vittoria Bossio – RIDUZIONE DI 1/6 AD OPERA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE DELLA PENA IRROGATA IN CASO DI MANCATA IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DELLA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO NELLE FORME DEL RITO ABBREVIATO La disposizione dell’art. 442 cod. proc. pen. è stata modificata mediante l’introduzione del comma 2-bis, per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, in conseguenza del quale quando l’imputato o il suo difensore non propongono impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena irrogata è ulteriormente ridotta nella misura di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Tale disposizione veniva introdotta in ossequio all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge 27 settembre 2021, n. 137, recante  «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che imponeva al legislatore delegato di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». Nella stessa direzione, inequivocabilmente deflattiva, occorre richiamare la previsione dell’art. 1 comma 10, lett. a), n. 1, legge n. 137 del 2021, che impone al legislatore delegato di «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».   MODALITÀ PER RICHIEDERE LA RIDUZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP La nuova formulazione dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede: «Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2- bis cpp. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La disposizione in questione, dunque, esclude dalla disciplina dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., che prevede il procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. la materia della diminuente esecutiva, che colloca in un diverso e autonomo ambito processuale, nel quale non vi è alcun riferimento esplicito al procedimento de plano. Ne discende che il trasferimento in una sede processuale diversa da quella originaria – ovvero quella disciplinata dal novellato art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. – della regola attributiva della competenza, relativa alle ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in assenza di richiami espressi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., non consente di ritenere applicabile la procedura de plano per concedere la diminuente esecutiva in esame. Ne discende che deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 179, comma 1, cod. proc. pen. e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo de plano, respinga un’incidente di esecuzione presentato al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 666 cod. proc. pen. Cfr. Cass. Pen. Sezione I sentenza n. 07356/2025.   APPLICABILITÀ DELLA RIDUZIONE SOLO IN CASO DI MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO E NON NEL CASO DI RINUNCIA ALL’APPELLO PROPOSTO. La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 51180/2023 ha stabilito che la riduzione di 1/6 della pena consegue solo alla mancata impugnazione e non anche alla rinuncia di quella già presentata. La Suprema Corte premette che appare opportuno richiamare, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in sede di legittimità in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24 d.lgs. n. 150 del 2022, con entrata in vigore alfine fissata al 30 dicembre 2022. La norma, collocata nell’alveo dell’art. 442 cod. proc. pen., volto a disciplinare la fase della decisione di primo grado nel rito abbreviato, stabilisce che quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente (rispetto alla riduzione per il rito a prova contratta fissata nel comma 2) ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Si è, al riguardo, precisato che la condizione processuale che ne consente l’applicazione è costituita dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione ed essa, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente. Per vero, la ratio dell’intervento riformatore si profila individuabile nel perseguimento dello scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo l’emissione della sentenza di primo grado, così da evitare l’ingresso del procedimento stesso nella fase delle impugnazioni, quali che l’ordinamento in concreto consenta nel singolo caso, allorquando – trattandosi di sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio assoggettato al rito abbreviato – l’imputato e il difensore valutino come non sorretta da un apprezzabile interesse la prospettiva di sottoporre a nuova verifica la decisione emessa dal primo giudice e considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciarvi al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata. È, dunque, la radicale mancanza dell’impugnazione – e soltanto essa – che, determinando l’effetto deflattivo perseguito, integra il presupposto necessario per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma. Conferma tale approdo la scelta che la norma ha operato per individuare il giudice competente a sancire la riduzione e, conseguentemente, il procedimento occorrente per la relativa determinazione: a provvedere deve essere il giudice dell’esecuzione; e ciò esige l’instaurazione del procedimento esecutivo, secondo le forme proprie che, in questa sede, non è necessario approfondire. Certo è che, avendo previsto l’esclusiva competenza del giudice dell’esecuzione per l’applicazione della riduzione, la norma corrobora l’approdo ermeneutico secondo cui soltanto la mancanza dell’impugnazione avverso la sentenza di primo grado integra la condizione legittimante la riduzione stessa. Se il legislatore avesse inteso applicare questa riduzione premiale alla diversa fattispecie della rinuncia

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QUELLA CHIMERA DELLA “CROSS EXAMINATION” NELLA PRASSI DEL PROCESSO PENALE ATTUALE

  di Pasquale Foti* –    La cross examination, o esame incrociato, rappresenta uno dei momenti cruciali del dibattimento penale, consentendo il confronto diretto tra le parti e offrendo garanzia di imparzialità nel processo. Nel contesto del sistema processuale italiano, essa trova il proprio fondamento normativo principalmente negli articoli 498 e 499 del Codice di Procedura Penale (CPP), ma è profondamente influenzata anche dai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana. È l’articolo 498 CPP che stabilisce le modalità con cui le parti possono procedere all’esame diretto dei testimoni, fissando criteri di pertinenza e rilevanza delle domande al fine di assicurare una dialettica ordinata e funzionale alla formazione della prova. L’articolo 499 CPP si pone quale norma cardine in tema di controesame, riconoscendo alle parti il diritto di porre domande volte a verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, in conformità al principio del contraddittorio quale pietra angolare del giusto processo. Il giudice, nel sistema italiano, è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia e controllo, evitando di assumere una funzione investigativa o eccessivamente interventista. Egli può porre domande solo dopo che le parti hanno esaurito i propri quesiti (art. 506 CPP), con l’obiettivo di chiarire eventuali ambiguità o lacune emerse nel corso dell’esame. Questo limite è essenziale per preservare il principio di terzietà del giudice, sancito dall’articolo 111 della Costituzione e rafforzato dal diritto europeo (art. 6 CEDU). Nel paradigma del processo accusatorio, il giudice è chiamato a essere custode dell’equilibrio processuale e garante della parità delle armi tra le parti. Ogni sua iniziativa probatoria deve essere circoscritta a esigenze di integrazione probatoria strettamente necessaria, pena il rischio di alterare la percezione di imparzialità e il naturale svolgimento del contraddittorio. Un intervento eccessivo e invasivo del giudice nell’ambito della cross examination potrebbe tradursi in una compromissione dell’imparzialità percepita, con riflessi negativi tanto sulla legittimità del processo quanto sulla stabilità delle risultanze probatorie. L’interazione giudiziale, in tal senso, deve essere improntata a un rigoroso equilibrio, affinché l’esame incrociato non perda la sua vocazione a momento di verifica dialettica delle prove. Eppure, ormai quotidianamente avviene che il giudice dimenticandosi di tali limiti, nell’asfissiante desiderio di fare giustizia piuttosto che amministrarla si intrometta in momenti cruciali dell’esame del teste ed ancor più nel controesame, momento unico ed ineliminabile, oltre che a volte determinante nel quale l’imputato e la sua difesa, portatori di conoscenze che il giudice e persino l’organo di accusa non dispongono, possono fare emergere gli elementi a proprio discarico, e financo l’inattendibilità e la menzogna della fonte di accusa. Quando il giudice eccede nel suo ruolo, interferendo in modo invasivo nell’esame delle parti, si producono conseguenze negative tanto sul piano pratico quanto su quello teorico. Si ha così un palese sovvertimento del ruolo delle parti. Un giudice che assume un ruolo attivo nell’indagine rischia di alterare l’equilibrio processuale, riducendo la capacità delle parti di condurre l’esame secondo le proprie strategie. Ma tale comportamento comporta persino la compromissione della sua imparzialità. L’intervento eccessivo può far emergere un’apparente parzialità, compromettendo la fiducia degli imputati e della società nella giustizia; ciò potrebbe portare alla violazione delle norme sul contraddittorio, con il rischio di vedere invalidate le prove raccolte in violazione delle regole. Calamandrei, in una visione di straordinaria modernità, ammoniva contro i rischi di un giudice che, travalicando il proprio ruolo di arbitro imparziale, si trasformi in un attore della dialettica processuale. Tale degenerazione – secondo l’autore – tradisce la logica stessa del processo accusatorio, che trova la propria essenza nell’antagonismo ordinato e regolato tra le parti. Altavilla, nel delineare il ruolo del controesame, ha messo in luce come esso rappresenti lo strumento principale per verificare l’affidabilità della prova testimoniale. Egli sottolinea che il giudice, nell’esercitare il proprio potere di intervento, debba astenersi da comportamenti che possano orientare o condizionare il contenuto delle dichiarazioni. Wellman, nella sua celebre opera sull’arte del controesame, ha esaltato l’importanza di tale istituto come momento privilegiato per smascherare le incongruenze e le eventuali falsità della testimonianza. Sebbene le sue riflessioni siano profondamente radicate nella tradizione anglosassone, esse risultano di grande utilità anche nel contesto italiano, dove il controesame si configura come il banco di prova della credibilità della prova orale. La dottrina penalistica italiana, da ultimo, ha frequentemente denunciato il rischio di derive inquisitorie nel sistema accusatorio, specie laddove il giudice assuma un ruolo iperattivo nell’esame dei testimoni. Autori quali Antolisei e Pagliaro richiamano la necessità di preservare la dialettica tra le parti quale strumento di accertamento della verità processuale, ribadendo la centralità del principio di parità delle armi. Le critiche mosse dalla dottrina penalistica e dall’avvocatura penalista, in particolare dall’Unione delle Camere Penali Italiane, evidenziano ulteriori e rilevanti implicazioni negative derivanti dall’eccessivo protagonismo del giudice nella fase della cross examination: La distorsione del Principio di Parità delle Armi: un intervento iperattivo del giudice può generare un’asimmetria processuale, ponendo una delle parti in una posizione di svantaggio rispetto all’altra. Ciò risulta particolarmente grave nei confronti dell’imputato, la cui difesa rischia di essere marginalizzata. La riduzione dell’Efficacia del Contraddittorio: il sovrapporsi del giudice all’attività delle parti può svuotare di significato il principio del contraddittorio, trasformando il processo in un’arena dominata dall’iniziativa giudiziale piuttosto che da una dialettica equilibrata. L’alterazione della Credibilità della Prova: domande formulate dal giudice in modo suggestivo o che orientano il testimone rischiano di comprometterne l’autonomia dichiarativa, con conseguente indebolimento del valore probatorio delle sue affermazioni. La percezione di Parzialità: l’avvocatura penalista ha più volte sottolineato come un giudice eccessivamente interventista possa dare adito a dubbi sulla propria imparzialità, minando la fiducia nel sistema giudiziario e, più in generale, nella giustizia. Il rischio di Annullamento delle Prove: qualora l’intervento del giudice superi i limiti posti dalle norme processuali, vi è il pericolo concreto che le prove così raccolte vengano invalidate, con gravi conseguenze sul piano dell’economia processuale e della certezza del diritto. La cross examination rappresenta un momento essenziale del processo penale, espressione massima della dialettica tra le parti e del principio del contraddittorio. Nel rispetto delle coordinate normativo-costituzionali, essa assolve una

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LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI Leggi tutto »

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