CERTEZZA STATALPUNITIVA DEL GIUDICE. LA CULTURA DEL DUBBIO FARMACO PER RISANARE IL PROCESSO ACCUSATORIO
di Roberto Capra* – Il confronto sulla riforma comunemente chiamata “separazione delle carriere” vede, ormai da tempo, radicalizzarsi due fazioni, ognuna convinta della bontà delle proprie argomentazioni. Una riforma di natura costituzionale, destinata per ciò solo a incidere sugli assetti ordinamentali dello Stato e sull’equilibrio dei Poteri può essere osservata, giustificata o avversata, da più di un punto di vista. Il piano del confronto, dell’equilibrio o, meglio, del riequilibrio tra i Poteri dello Stato è quello che sembra agitare ANM e Politica ed è, ovviamente, da tenere nella massima considerazione. Ve ne è però un altro, a mio avviso parimenti necessario, che dimostra come l’esigenza di questa riforma provenga dal “basso”, così come ha efficacemente sintetizzato, in un recente intervento, il professor Ennio Amodio[1]. Dal “basso” non in una scala di valori, ma esclusivamente in una distinzione tra piano “alto” e, dunque, relativo all’architettura costituzionale dei Poteri dello Stato e un piano diverso, e quindi, solo per alternativa, definibile “basso”, in tal modo indicando la sfera di applicazione diretta per il cittadino coinvolto in un processo penale. Ed è il piano “basso” sul quale provare a proporre alcune considerazioni, per offrire spunti di riflessione sul tema, evidenziando come l’appartenenza di giudice e pubblico ministero al medesimo Ordine abbia determinato, progressivamente, lo stravolgimento di alcuni istituti processuali, mettendo seriamente a repentaglio la tenuta del processo accusatorio. Il nostro Legislatore, come noto, con un gestazione durata alcuni decenni, ha individuato nel rito accusatorio lo strumento processuale migliore per arrivare alla migliore verità possibile, attraverso, in estrema sintesi, il contraddittorio nella formazione della prova. Si è ritenuto, dunque, che il prodotto di un confronto tra le parti sia migliore del prodotto dell’accertamento lasciato ad una parte soltanto. L’esame incrociato nelle prove dichiarative, ma non solo, assicura a chi deve giudicare un risultato più attendibile. L’art. 111 della nostra Carta dà copertura costituzionale a tutto questo. Pur non essendo unanimemente condiviso, occorrerebbe mettersi il cuore in pace e accettarlo. Le critiche, come sappiamo, non sono mancate e non mancano, dalle sentenze della Corte Costituzionale del 1992 sino a quanto si ha modo di assistere nei processi di tutti i giorni. Le resistenze maggiori arrivano da parte della magistratura e la ragione, credendo di non sbagliare, deve individuarsi nella permeabilità degli orientamenti culturali tra pubblico ministero e giudice. L’anomala vicinanza tra le due figure processuali ha determinato, infatti, la conservazione nel giudice, sebbene non più inquisitore, di una cultura che possiamo definire “statalpunitiva”, la medesima che appartiene al pubblico ministero, ma che ne condiziona le categorie di pensiero e, dunque, le correlate decisioni. Anche a sua insaputa, anche in buona fede. È così che si è assistito e si assiste all’orientamento di gran parte dei giudicanti che vedono il processo come un percorso, nei fatti troppo lungo e troppo complicato, per porre il sigillo dell’infallibilità alle scelte operate dal “collega di pensiero” pubblico ministero e comunque per poter esercitare la funzione punitiva che lo Stato assegna loro. Non sono queste osservazioni solo dalla portata generale ovvero astratta, anche se gli orientamenti culturali recano in sé profili di condizionamento generale delle umane condotte che poi ritroviamo, ad esempio, nelle scelte di appiattimento decisionale che siamo soliti vedere in sede cautelare. Non sono osservazioni vaghe o teoriche, perché, come avremo modo di osservare a breve, la trasmigrazione e la permeabilità della cultura accusatoria dal pubblico ministero al giudice si è manifestata e si manifesta nell’interpretazione sia di alcuni dei principi cardine del rito sia di alcuni istituti processuali. La convinzione che sta alla base di questo orientamento, radicato a tutti i livelli della giurisdizione e, soprattutto, in sede di legittimità, è determinata dall’idea che, in fondo, gli istituti processuali siano un limite spesso inaccettabile per l’accertamento della vera verità e che, dunque, in ragione di un obiettivo più importante, possano essere stravolti o quantomeno interpretati in modo difforme rispetto alla volontà del Legislatore del 1989. Il principio, frutto della cultura statalpunitiva, che ammanta l’interpretazione di diversi istituti processuali è, come messo in evidenza di recente in un interessante articolo, quello della non dispersione della prova[2]. È un principio che parte della magistratura ritiene dover informare il processo penale, ma che, invece, non si ritrova né nella Carta costituzionale né nelle regole fondanti il rito accusatorio. Non è che non ci si possa confrontare sul punto essendo comprensibile perché la magistratura giudicante, in larga parte, lo ponga come principio orientatore della propria azione, ma tale profilo nasce, a nostro avviso, dalla convinzione che il processo accusatorio e il suo cuore pulsante, vale a dire il contraddittorio nella formazione della prova, non siano effettivamente lo strumento migliore per l’accertamento di un fatto e delle correlate responsabilità, il tutto ammantato, come detto, dal condizionamento delle categorie del pensiero che la cultura statalpunitiva determina in chi è chiamato a giudicare. Le regole del rito accusatorio puro, con il principio dispositivo in testa, possono, talora, portare a pronunce che comunemente potrebbero definirsi “ingiuste”, perché viene lasciata alle parti la gestione della prova e l’errore sul punto, sia dell’accusa che della difesa, può anche determinare una sentenza non convincente rispetto al fatto storico avvenuto. Certo che, se poste a confronto con le regole del rito inquisitorio, laddove sostanzialmente la difesa è pretermessa dalla formazione della prova, il rischio di errore è davvero contenuto. In ogni caso, in qualunque sistema processuale, è fisiologico che vi siano pronunce non corrette rispetto al fatto storico, ma si tratta di ridurre il più possibile tali, inevitabili, situazioni critiche e, in ogni caso, i ragionamenti di sistema devono operare sui grandi numeri e non sul singolo caso. Si deve allora tornare al confronto tra rito accusatorio e rito inquisitorio ed alla scelta, mai digerita realmente da gran parte della magistratura, che il Legislatore, anche costituzionale, ha scientemente operato. La magistratura, soprattutto quella giudicante, si deve arrendere al Legislatore, perché ne va dell’equilibrio tra i Poteri dello Stato da un lato e, dall’altro, della tenuta del rito accusatorio. Nel gioco dei numeri delle decisioni corrette a confronto con