L’angolo di Baudi

Il diritto giurisprudenziale e i problemi del fine-vita

  di Antonio Baudi –  Introduzione sul tema della vita umana Nella complessa categoria della materia vivente la vita umana occupa una collocazione privilegiata, sistematicamente superiore a quella degli organismi del mondo vegetale e animale. In tale contesto la vita umana si presenta fenomenicamente come un dato di fatto, un esistere ricompreso tra un inizio (la nascita) e una fine (la morte). Nel contempo la vita è in sé anche un valore, anzi un valore fondamentale, perché la vita sorregge ogni altro interesse e ogni altro specifico valore, i quali, in assenza di vita, non potrebbero nemmeno configurarsi. Nella dimensione valoriale la vita umana si abbina alla dignità, la quale, essenzialmente intesa come rispetto connaturato, è ormai esplicitamente esaltata in ogni livello culturale. Quanto al tema che interessa, il fine-vita coincide banalmente con la morte, accadimento che occorre definire concettualmente nel suo profilo fattuale e, nello specifico, in quanto evento provocato da una causa umana, estranea, operante dall’esterno all’insaputa del destinatario, oppure intranea, perché cooperativa, materialmente o psichicamente, della altrui morte. In effetti si tratta di evento che più di ogni altro compromette l’esistenza umana dal momento che la morte ne determina la radicale cessazione. Il concetto di morte sembra ovvio: si muore quando cessa la vita. Eppure il concetto è dibattuto a livello scientifico e la stessa dottrina giuridica si pone il problema della precisa individuazione del tempo di accadimento. L’interesse specifico deriva dalla emergenza di situazioni in cui necessita individuarne il momento a partire dal quale sia possibile ritenere un soggetto sia morto e quando invece sia da considerare ancora in vita. La demarcazione è rilevante, anzi ai nostri fini è di portata fondamentale. Ove il soggetto fosse ancora in vita l’omicidio non potrebbe definirsi consumato e potrebbe porsi il problema legato alla liceità dell’eutanasia che, come è noto, riguarda solo il caso in cui un soggetto sia da considerare ancora in vita. L’individuazione del momento della morte assume un ulteriore rilievo in ambito sanitario, come si evince dalle più comuni regole deontologiche e dalla stessa previsione di cui all’art. 32 della Costituzione. Infatti, il dovere del medico di curare viene meno solo nel momento in cui si verifica la morte, poiché, qualora si perseverasse nel praticare cure nonostante l’intervenuto decesso, saremmo in presenza di un trattamento terapeutico inutile e sproporzionato rispetto ai prevedibili risultati, dunque contrario ai principi deontologici che vietano l’accanimento terapeutico. Prima che venissero alla luce le moderne tecniche di rianimazione, la morte veniva generalmente considerata come cessazione delle funzioni cardiache, respiratorie e nervose, dandosi così rilevanza all’aspetto meccanico (biologico) della vita piuttosto che al profilo psichico, della coscienza umana. La diversa prospettiva è stata discussa in senso critico anche dal Comitato italiano per la Bioetica, secondo cui riferire il momento della morte alla cessazione dell’attività della coscienza determina numerose incertezze; in particolare, secondo il Comitato, l’idea che la morte debba essere legata alla coscienza dell’uomo risulterebbe ambigua perché non sussistono criteri obiettivi in grado di stabilire la sicura cessazione della coscienza stessa. Le riferite impostazioni teoriche sul concetto di esistenza e, di conseguenza, il problema della esatta individuazione del tempo di morte connesso con quello sulla nozione di morte vanno confrontate con la presa di posizione del legislatore, che, a differenza di quanto accade per l’eutanasia, di cui non esiste né una definizione normativa né una regolamentazione specifica, ne ha definito in maniera precisa il confine. La disposizione, elaborata dal legislatore con riferimento ai trapianti di organi, fu subito indicata come un modello di autorevolezza scientifica, tanto che la sua ratio è stata poi trasfusa nell’art. 1 della legge 29 dicembre 1993, n. 578, ai sensi del quale “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”, quindi intesa come morte celebrale. L’identificazione normativa del concetto di morte, oltre a fornire un elemento di certezza giuridica, assume portata generale. La morte, dunque, è oggi identificata, sotto il profilo giuridico, nel momento della cessazione delle attività del sistema nervoso centrale, anche se dovessero essere ancora attive, con l’ausilio di particolari macchinari, le funzioni di altri organi.   L’imperativo di non uccidere Uccidere è verbo complesso perché, come tante altre denominazioni normative, si riferisce a due evenienze diverse: comprende da un lato il risultato, identificato nell’evento cagionato, la morte, e comprende dall’altro lato il comportamento, l’atto che ha causato la morte; con una necessaria precisazione, sia rispetto all’evento, che interessa in quanto riguardante la morte altrui, sia rispetto alla causa, perché interessa in quanto atto commesso da un essere umano. Uccidere è vietato ed il divieto fonda l’enunciato “non uccidere”, imperativo categorico negativo. Non uccidere è una regola di varia genesi. La regola ha matrice religiosa, ed in tali termini è formulato categoricamente il quinto comandamento del cristianesimo. La regola ha matrice etica, ed è condiviso in via generale che sia un male assoluto uccidere. La regola ha matrice giuridica: nello specifico il nostro codice penale punisce come il più odioso e grave dei delitti l’omicidio commesso da condotta umana e punisce il fatto sotto diversi e tipizzati profili di colpevolezza a seconda che l’evento morte sia cagionato intenzionalmente, oppure sia colposo, preterintenzionale (o commesso altrimenti, secondo inquadramento ormai superato). La diversa natura della regola, se religiosa etica o giuridica, si chiarisce meglio convertendo l’imperativo categorico in forma ipotetica. L’uccisione dal punto di vista religioso è un peccato mortale e l’autore merita l’inferno, quando sarà. L’uccisione dal punto di vista etico comporta la disistima morale e sociale: l’autore è un reprobo. La condotta omicidiaria dal punto di vista giuridico espone l’autore al processo e costui, ove se ne accerti la colpevolezza, merita una condanna a lunga pena reclusiva carceraria, se non addirittura, in casi aggravati, all’ergastolo. E’ dunque pacifico ed indiscusso che la vita altrui non sia disponibile. Per la verità la regola non è assoluta, vigente inderogabilmente in ogni tempo ed in ogni luogo. Basterebbe pensare all’uccisione del nemico in tempo di guerra o alla pena di morte quale sanzione penale: si noti in proposito che la pena di morte

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Riflessioni in tema di giurisprudenza “creativa”

di Antonio Baudi –   Giurisprudenza è termine dall’etimo composto: deriva da “ius-iuris” e “prudentia”. “Jus” significa diritto, termine che a mio avviso va preferito a quello di “directum” (che evoca l’unidirezionalità del diritto) non fosse altro perché è la radice di giuridicità, di giurisdizione, di giudice. Quanto a “prudentia”, cioè prudenza, termine che usualmente evoca cautela e moderazione, essa. nel suo significato autentico, quello proprio della prima delle quattro virtù cardinali, esprime nel contempo sapienza, nel saper comprendere gli avvenimenti con realismo e concretezza, e saggezza, nel discernere responsabilmente e valutare le conseguenze dell’agire. Giurisprudenza è l’attività del giurista ma anche il suo prodotto e quindi l’insieme dei discorsi sul diritto anche se, di solito, si distingue la giurisprudenza giudiziaria, dei giudici, e la giurisprudenza dottrinale, degli studiosi del diritto. In questa sede, escluso che la dottrina giuridica possa mai produrre diritto, stante il suo valore puramente teorico, il quesito ha riguardo alle decisioni assunte in sede giurisdizionale, nella specie della materia penale. Così delimitato il campo d’indagine il quesito posto è se la pronuncia dei giudici sia solo atto di conoscenza o anche modifica e creazione del diritto, quindi, come suol dirsi in senso metaforico, se sia fonte di norme giuridiche. Il quesito pare improponibile nel nostro sistema e potrebbe essere risolto negativamente sol che si rifletta sul disposto dell’art.  1 delle “preleggi” per il quale sono fonti del diritto, nell’ordine, le leggi, i regolamenti e gli usi, quindi senza alcun riferimento alla giurisprudenza. Del resto, tale soluzione è tradizionalmente consolidata. Ma, a causa di recenti e più meditate riflessioni nonché, combinatamente, di esperienze sopravvenute, negli ultimi tempi il quesito si è posto, e si tratta di quesito di rilievo generale, attenendo all’assetto normativo del sistema. La risposta tende ad essere affermativa nell’ambito della scienza civilistica, avuto riguardo a pronunce innovative rispetto alla disciplina positiva, mentre, ed è quello che interessa in questa sede, è problematica in materia penale ove si scontra con il principio di legalità penale e con il dettato costituzionale che, nel rispetto della divisione di poteri, vuole la giurisdizione soggetta (soltanto) alla legge. Il problema, occorre notarlo, consegue anche alla sopravvenuta interferenza culturale della normativa di genesi extrastatale, sia di matrice europea, tramite gli atti con efficacia diretta ed indiretta di fonte UE, come vincolativamente interpretati dalle decisioni della Corte di giustizia (CGUE), con sede in Lussemburgo, sia di matrice internazionale, prima tra tutte quella facente capo alla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) come operante attraverso le decisioni, pur esse vincolanti, della Corte EDU, con sede in Strasburgo. In proposito occorre, per quel che concerne la pertinente tematica delle fonti del diritto, soffermarsi sull’impatto del sistema di common law nel nostro sistema di civil law, tanto perché il diritto extraordinamentale in questione non solo vincola le decisioni dei giudici italiani in virtù del principio di supremazia, quanto ancora perché impone il rispetto delle interpretazioni fornite dalle due Corti che, si noti, decidono, jus dicunt, come organi giurisdizionali secondo quel sistema. In generale, per il sistema di common law, la giurisprudenza è intesa come la principale fonte del diritto, con un ridotto intervento del diritto di matrice legislativa. In proposito va rammentato che il common law, sistema ordinamentale originatosi nell’Inghilterra medievale e successivamente diffusosi nei Paesi anglosassoni e negli Stati del Commonwealth, è basato sul principio dello stare decisis, vale a dire sulla efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali, a differenza dei sistemi di civil law, che, derivanti culturalmente dal diritto romano, si sono consolidati all’interno di ordinamenti statali, prima dominati dalla centralità assoluta della volontà del sovrano, poi ispirati ai principi democratici di portata illuministica della sovranità popolare e della separazione dei poteri. Quanto al concetto di precedente giudiziario basti in questa sede precisare che con tale termine si intende una pronuncia resa su un determinato caso e divenuta ormai definitiva ed immutabile. Si può quindi identificare l’insieme dei precedenti con le pronunce rese nel tempo e dunque con l’orientamento giurisprudenziale formatosi rispetto ad una determinata fattispecie. Per incidens, un rilievo di portata concreta: i giudici di common law per decidere devono disporre di immani raccolte di precedenti, il che, da un lato, privilegia il nostro utilizzo di regole scritte e di codici tematici e, dall’altro lato, rende difficile comprendere come ne sia garantita la conoscenza e la stessa certezza giuridica, che appare complicata, oltre che nella individuazione del precedente pertinente al caso da giudicare, prima ancora nel momento di individuazione della somiglianza casistica, condizione che attiva la determinazione del precedente e quindi l’obbligo della vincolatività. Fermo restando l’effetto vincolante delle sentenze dei giudici europei nel nostro ordinamento, effetto derivante dagli obblighi assunti e tale da subordinare l’efficacia di una regola interna alla conformità con la disciplina europea autenticamente interpretata da quelle Corti, ci si è chiesti se sentenze nostrane, in quanto atti giurisprudenziali, siano nel nostro sistema di pari portata vincolante e tali da qualificarsi come “fonti” di diritto in presenza di pronunce di portata “innovativa”. Va subito notato che ogni sentenza ha un preciso ambito decisorio, soggettivo, rispetto alle parti in causa, ed oggettivo, delimitato dal caso deciso sicché, sotto tali profili, ha efficacia particolare, oltretutto condizionata dal tema su cui decidere, sicché non si riesce a comprendere come la pronuncia, certamente vincolante tra le parti, possa assumere efficacia generale ed astratta, sì da trascendere la specificità della soluzione giudiziaria. Ed invece l’ostacolo si sormonta avuto riguardo, da un lato, al carattere tipico del caso, e, dall’altro lato, alla regola normativa utilizzata come guida per la risoluzione della vicenda. Siffatto profilo, ove, a fronte della rilevanza del caso da giudicare, la regola sostenuta sia “nuova”, coinvolge il principio di legalità penale, il quale, se pur modernizzato, impone che ogni norma sia desunta da un testo di genesi parlamentare, comunque formalizzato in una regola scritta. Ne resta coinvolto il termine legge, il quale è notoriamente polisemico designando a volte l’atto normativo, come suggerisce in generale il principio di legalità, ed altre volte la regola e, in questo senso, ha riguardo o al testo oppure alla sua portata normativa che

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