di Antonio Baudi –
È un dato di fatto che nella persona umana, in quanto soggetto giuridico, convergano situazioni giuridiche di vario tipo ed è anche incontestato che si compenetrino in essa una serie di diritti detti per l’appunto della personalità o, in senso generale, diritti umani.
Tali diritti sono nel loro insieme i diritti fondamentali dell’essere umano, come tali dovrebbero essere riconosciuti ad ogni persona per il solo fatto di appartenere al genere umano senza distinzione alcuna e senza alcuna necessità di evidenza esterna.
Tale enunciato d’esordio, nella sua ineccepibile evidenza, lascia trasparire la sottostante problematica, perché, nel momento in cui si sottolinea la connaturalità di tali diritti con la persona umana, quale che essa sia, purché vivente, se ne invoca il dovere di riconoscimento, come se tale dovere fosse da conseguire e quindi come se sussistesse uno scarto tra essere e dover essere, tra fatto e valore.
Il rilievo esplicita questione di fondo: quale sia la reale genesi e natura di tali diritti che si assumono inerenti all’essere umano.
La persona umana, come essere vivente, esiste in fatto dalla nascita fino alla morte, ma, elevandosi dal mero stato fattuale dell’esistere, si erge al di sopra della (mera) sopravvivenza organica e si immerge contestualmente nel piano dei valori con portata basilare, quale centro unitario di molteplici interessi, unitarietà concentrata nell’appellativo della dignità, valore di portata fondamentale ed ormai celebrato ed esaltato a livello planetario ed oggetto di sterminata recente letteratura.
La dignità possiede un plusvalore, in quanto è il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il costituzionalismo contemporaneo.
La dignità si coniuga con il rispetto dovuto all’essere umano per cui, più che una dote, si identifica con la persona stessa nella sua concretezza: un individuo che sia privato della sua dignità soffre della negazione della sua stessa umanità.
Questa affermazione ha come conseguenza logica e giuridica che la dignità, in quanto presupposto assiologico dei diritti fondamentali, ha valenza prioritaria rispetto alla stessa sovranità popolare ed al relativo ordine politico.
Si discute in dottrina se la categoria dei diritti della personalità sia unica (teoria monista) per cui esiste un solo diritto declinato nei suoi contenuti, oppure se sia plurima, (teoria atomistica) come di solito viene esposta e studiata, ma, quale che sia l’impostazione privilegiata, resta comunque il fondamento unitario di tutela, mediante il ricorso ad azione inibitoria o risarcitoria.
Tali diritti, inerendo alla persona umana, sono inviolabili, assoluti, essenziali e necessari, indisponibili, intrasmissibili, imprescrittibili, nella loro essenza immateriali e non economici, fatto salvo il risarcimento del danno (morale) in caso di violazione.
Usualmente i diritti umani sono classificati in diritti civili, politici e sociali.
I diritti civili sono quelli che attengono alla personalità dell’individuo, quale la libertà di pensiero, la libertà personale, di riunione, di religione ed ancora la libertà economica. Invero, nella sfera di questi, all’individuo è garantita un ambito di arbitrio, purché il suo agire non violi i diritti civili degli altri soggetti. Per tal ragione, i diritti civili obbligano gli Stati a un atteggiamento di astensione.
I diritti politici sono, invece, quelli che attengono alla formazione dello Stato democratico e comportano una libertà attiva, ossia una partecipazione dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato: tali sono, ad esempio, la libertà di associazione in partiti e i diritti elettorali.
Infine, vi sono i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute, ossia i diritti derivanti dalla maturazione di esigenze nuove e nate relativamente allo sviluppo della moderna società industriale. Questi diritti, invece, implicano un comportamento attivo da parte dello Stato, il quale deve garantire ai cittadini una situazione di concretezza e certezza nella tutela degli stessi e nel riconoscimento delle relative garanzie.
Nell’ambito del nostro ordinamento tali diritti hanno fondamento normativo e, nello specifico, rilievo costituzionale, comunque sostenuti anche implicitamente da principi. Tanto premesso il quesito di ordine generale che si è posto concerne la loro matrice, problema che coinvolge la stessa qualificazione di essi come diritti.
La prima diffusa impostazione di pensiero è che si tratti di diritti naturali.
In proposito è nota la tesi giusnaturalistica la quale ritiene che i diritti umani siano diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo e preesistenti ad ogni altra organizzazione sociale, ivi compreso lo Stato, la cui potestà sovrana è naturalmente limitata al punto che lo Stato può e deve unicamente riconoscerli. Si tratta pertanto di diritti esistenti in fatto.
La tesi in questione coinvolge il concetto di natura, termine di non univoco significato.
In senso generale e totalitario per i materialisti natura ricomprende l’intera realtà, quella dei corpi, sia dei non viventi come dei viventi. Nel senso più ristretto, come per gli spiritualisti, natura coincide con la sola realtà materiale, l’insieme di corpi.
Più diffusa e condivisa è la concezione intermedia: natura non è il tutto reale perché vi si oppone la sfera della cultura. Ed allora si intende per natura non solo il mondo esterno e materiale, l’insieme delle cose esistenti nello spazio e nel tempo, cose che esisterebbero comunque, anche se l’uomo non ci fosse e non ci fosse mai stato, ma anche gli organismi intesi come prodotti naturali, escludendosi, nell’ambito di tutto ciò che esiste, ogni produzione riconducibile all’intervento umano nel reale.
La natura, intesa come mondo esterno e materiale, è energia che si spiega nello spazio e nel tempo, anche se ciò che la caratterizza è piuttosto lo spazio che il tempo, dimensione che meglio risalta nella vita interiore della coscienza umana.
La più tipica categoria dello spazio è il corpo, stato energetico definibile in modo intuitivo come sostanza, ciò che nel suo interno essenziale (sub) non cambia (stat) anche se può subire modifiche, ma di superficie. Corpi strettamente fisici sono per esempio, una pietra, un cucchiaio, un vaso di cristallo, un blocco di marmo, un tavolo. Questi sono non solo corpi ma, come si suol dire, corpi solidi ove rilevanti forze interne di coesione molecolare ne rafforzano la compattezza.
Valorizzando nella realtà esterna la dimensione temporale subentra il dinamismo degli eventi: se i fenomeni spaziali si presentano alla vista come figure, i fenomeni temporali si svolgono come avvenimenti e, per senso comune, siamo soliti distinguere ciò che permane, una cosa che è in quiete, corpo tra altri corpi, rispetto a ciò che diviene e che è in moto, dove l’ordine sistematico non è di coesistenza ma di successione.
“Tutto è evento, un eterno divenire”, sosteneva Eraclito.
All’opposto, e sempre in senso assoluto, tutto permane, come sostenevano gli Eleati; due estremismi filosofici da confutare, perché secondo il buon senso esistono cose, corpi, ed esistono eventi, tutti comunque privi di eternità.
Resta così compreso perché la fenomenologia giuridica, riferita alla realtà, non possa che trattare di cose e fatti: di cose, nella loro dimensione spaziale, e di fatti, nella loro dimensione temporale; e poiché il diritto si interessa come destinatario naturale di persone, la fenomenologia si quadruplica: le cose o sono oggetti oppure, in quanto corpi di persone, sono soggetti, mentre tra i fatti si evidenziano quelli naturali, distinti da quelli ad opera umana, denominati atti. In sintesi il diritto in generale si occupa di quattro realtà fenomeniche: soggetti, oggetti, fatti ed atti.
Ma è anche evidente che in natura, nel senso fenomenico esposto, non è rinvenibile alcun valore ed alcun diritto: si constata un terreno ma non il diritto di proprietà; si constata la dazione di una somma ma non una obbligazione pecuniaria cui corrisponda un credito di avere.
Passando all’esame della restante realtà naturale risaltano i corpi viventi.
Essi si qualificano come organismi, ormai pacificamente distinti in tre sfere ordinate progressivamente: la sfera vegetale, la sfera animale, la sfera degli umani.
Tale distinzione tra sfere di realtà si sviluppa per cerchi concentrici: tutti i viventi hanno un organismo, alcuni di essi sono anche animali, alcuni altri sono anche umani.
Gli umani, trattati dal diritto come soggetti, nella realtà di vita si orientano secondo interessi, i quali, specificati tipologicamente, sono denominati come bisogni riguardo alla sfera della realtà organica, come esigenze riguardo alla sfera animale, ed infine come aspirazioni generate dalla sfera prettamente umana, quella spirituale.
Tali interessi, personali ed individuali, si generano nell’intimo della coscienza come proiezioni futuribili, perché bisognevoli di auspicabile realizzazione nella vita sociale ove si confrontano con limiti di vario ordine.
Insorge il campo vasto delle regole umane, che non sono leggi nel senso naturale.
Se il termine legge è definito in generale come necessità di evento, altro è la necessità operante in natura altro è la necessità operante come esigenza di cultura: mentre la legge di natura designa un legame tra fatti per cui fatto è il fattore causante e fatto è la conseguenza causata (si ponga mente ad una legge fisica o chimica) la legge di cultura designa un legame tra un fatto ed un valore.
E pertanto, a fronte di un uso generico del termine legge, appare fondamentale distinguere la legge di natura da quella culturale, il cui termine più appropriato è quello di regola, intesa come riferimento normativo dell’agire umano: se altro è la necessita di tipo culturale, le relative leggi vanno meglio qualificate come norme perché regolano condotte umane in funzione di valori.
In breve: la realtà naturale è neutra, anassiologica mentre la realtà culturale si orienta secondo valori.
L’ambito operativo delle norme non è quello naturale e in tale ambito, non esistendo regole normative, non è configurabile alcun diritto, nemmeno nella specie nobile dei diritti umani.
Escluso che i diritti umani abbiano fondamento naturale, necessita il transito dal mondo della natura al mondo della cultura.
Se, come si è detto, naturale è tutto ciò che esiste a prescindere dall’intervento umano, all’opposto la cultura ha preciso riferimento all’essere umano ed alla sua operatività.
Si muove come fatto di natura la vita dell’individuo e delle sue vicende quale organismo, eventi del nascere, del vivere, del riprodursi e del morire, vicende prettamente naturali anche se, a seguito dell’intervento della cultura, determinato dal progresso scientifico e tecnico, sono emerse problematiche sulla vita umana coinvolgenti bioetica e biodiritto.
Il termine cultura viene mentalmente associato alla cultura umanistica, all’uomo come persona colta, come persona dotata di sapere appreso di tipo teorico. E si ritiene anche che la cultura sia legata ad attività intellettuale.
Ma cultura è ben altro che solo sapere umanistico; cultura designa tutto ciò che l’uomo crea elabora e produce per la migliore fruizione sociale umana.
E poiché gli esseri umani appartengono a popoli distinti, anche nel tempo, cultura è la storia evolutiva di ogni popolo.
Un primo dato è certo: la cultura è una elaborazione umana, non è naturale.
La filosofia dell’illuminismo ha molto insistito sul contrasto tra lo stato primitivo di natura e lo stato attuale di civiltà. Senza dubbio, a confronto dell’uomo primitivo l’uomo civilizzato ha una cultura assai più elaborata e potente. Ma non si può fondatamente sostenere che l’uomo primitivo non avesse cultura: l’antropologia odierna è molto cauta nell’accentuare lo scarto tra umanità primitiva e umanità civilizzata: in realtà anche l’uomo primitivo possedeva e mostrava di possedere una propria cultura, il che è dimostrato dal fatto che, per quanto si risalga addietro verso i primordi umani, si trovano popoli che hanno un loro linguaggio, spesso di notevole complessità, e si servono di strumenti, sia pur rudimentali.
Se la cultura si avvale essenzialmente del linguaggio tanto da essere definita cultura simbolica, esiste un altro tipo di cultura, quella tecnica, che produce utensili. È ovvio che questi nuovi tipi di oggetti non sono creati dal nulla occorrendo l’apporto di materia della natura, tra cui le ben note materie prime. Tuttavia, se è vero che l’uomo non crea dal nulla, è anche vero che egli trasforma radicalmente la materia su cui agisce. Anzitutto operando sulla terra, mediante la coltivazione dei campi, lavorando la pietra e i metalli, costruendo case e città, inventando strumenti e macchine. Questo mondo dei nuovi oggetti, macchine strumenti e simili, è il mondo della cultura materiale, il mondo creato dalla tecnica e tecnologia umana, da ultimo computer e cellulari.
Esiste altra sfera culturale operativa, quella sociale dell’uomo che è detta pratica: in tale sfera risaltano le regole del vivere umano, religiose, etiche, economiche, giuridiche, più banalmente di galateo e di costume.
Tralasciata in questa sede la valenza culturale della religione ove l’aspirazione alla sopravvivenza riguarda lo spirito che si prolunga nella speranza della vita eterna, ben oltre i limiti della prassi umana, attività pratica è principalmente l’attività economica, diretta com’è alla produzione dei beni per la soddisfazione di bisogni che sono da ultimo i bisogni elementari della vita. L’economia è legata alla tecnologia già nelle più remote origini umane ma soprattutto nei tempi attuali: notoriamente la civiltà industriale moderna è una civiltà tecnica e meccanica; e all’economia sono di aiuto simboli come la moneta, il bene mediatore degli scambi.
Ma al piano della prassi appartengono anche la politica, la morale, il diritto.
La vita per definizione corrente non è mero esistere, è orientamento verso valori. E non si tratta solo della vita umana ma di ogni vita.
Un albero è dotato di radici, di terra, di sole, di aria ed è ben orientato verso i suoi valori che sono nascere, crescere, riprodursi e poi cessare.
Un animale presenta una vita più complessa, ha bisogno di muoversi, anche strisciando, e segue l’istinto, anche in comunità di simili.
A maggior ragione è complessa, e ben lo sappiamo, la vita umana che, nel suo orientarsi verso interessi, di sopravvivenza, di bisogni, di esigenze, di aspirazioni, si imbatte in situazioni concrete problematiche.
Tali interessi al fine della loro realizzabilità sociale sono oggetto di valutazione.
Interesse e valore non sono intercambiabili, perché valore è misura e giudizio di interessi umani.
Valore è termine connesso con l’atto valutativo, comporta una operazione di scelta basata su criteri, che possono essere di preferenza soggettiva o di apprezzabilità oggettiva.
È certo, come si è già notato, che valore appartiene alla sfera vitale: la materia, pur soggetta a regole (fisiche, chimiche, organiche) non ha potere orientativo, non sceglie in base a criteri, è essenzialmente anassiologica.
La sfera vitale, in specie quella animale ed umana, gerarchicamente più elevata e più complessa, si proietta verso obiettivi e comporta delle scelte, teoriche e pratiche.
In sintesi conclusiva valore è ogni giudizio di rilevanza sul piano dell’interesse. Gli interessi da regolare di solito emergono emotivamente, quindi si razionalizzano, e vanno misurati sul piano reale.
I valori, che si reputano ideali, sono invece reali, perché generati da bisogni, esigenze, aspirazioni dell’animo umano, e sono reali perché pertinenti alla vita umana.
Il percorso di misurazione, dall’emersione di interesse fino alla sua realizzazione in fatto, è complesso.
In radice la coscienza prospetta bisogni, esigenze, interessi. Quindi la mente, operando in una seconda fase, ne opera la selezione valutativa.
La valutazione genera un dover essere, che può essere ad esempio un dovere civico, un dovere etico o un dovere giuridico. Il dover essere si traduce in un dover fare.
Infine il dover fare, che evoca la necessità assiologica di un comportamento, si orienta verso la realizzazione.
Sono state in tal modo individuate cinque fasi di sviluppo evolutivo dell’orientamento vitale spirituale: l’esigenza in genere, la scelta valutativa, il dover essere, il dover fare, il fare in concreto. E poiché le tappe sono progressive inevitabile si presenta lo scarto tra il dover essere, il dover fare ed il fatto.
La realizzabilità del dovere rispetto al fare presenta due limiti.
La realizzabilità ha innanzi tutto un limite pratico, quello della possibilità reale: l’uomo non può volare da solo né fare il sub senza respiratori; comunque non può agire se la situazione pratica non lo consente in concreto.
La realizzabilità, in secondo luogo, presenta un limite deontologico: la liceità, che può essere morale o sociale o giuridica.
Ciò chiarito occorre chiedersi se la categoria dei diritti umani, certamente riferita all’essere umano ed alla sua vita, in quanto essere vivente, e certamente ricompresa nella sfera della cultura e dei valori, sia di matrice etica o prettamente giuridica.
Un esempio è di ausilio: concerne l’imperativo del “non uccidere”.
Tale regola è di portata universale, pur con le dovute eccezioni, e presenta un fondamento di valore assoluto: la vita umana, condizione di esistenza di ogni diritto e quindi da salvaguardare contro ogni condotta soppressiva commessa da terzi.
La regola presenta matrice religiosa, enunciata solennemente bel quinto comandamento, ma anche matrice etica e giuridica.
Per comprenderne la diversa natura basti convertire l’imperativo assoluto nella forma condizionale: se si uccide sul piano religioso la sanzione è l’inferno; sul piano etico è la repulsione sociale o un rimorso di coscienza; sul piano giuridico è una pena carceraria.
Ci si chiede dunque se il fondamento dei diritti umani, espresso da regole, quindi normativo, sia di ordine etico o giuridico, e se quindi esistano diritti morali da diversificare rispetto ai diritti giuridici.
Etica e diritto sono collegati ma di diversa concettualità.
L’etica è insieme di regole basate su valori ma si affida alla coscienza ed alla efficacia della reprimenda esterna, sociale.
Il diritto è insieme di regole ma la giuridicità esprime una diversa disciplina perché se il fatto è doveroso per i destinatari, tale doverosità non è affidata alla sanzione della coscienza (senso di colpa) o della reprimenda sociale, bensì ad un sistema di tutela organizzato da forze legittime, dell’ordine e del giudizio processuale.
I diritti umani sono riconosciuti sul piano etico, dei valori, ma sono giuridici in quanto tutelati dal sistema normativo.
Il presente studio è dedicato ai diritti umani ma tutte le riflessioni sulla loro natura costituiscono il risultato, sia pure sintetico, di quanto appreso alla facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Messina nel corso di lezioni di filosofia del diritto e di teoria del diritto e delle successive pubblicazioni in tema di cultura e diritto.