ETTORE RANDAZZO, AVVOCATO E SCRITTORE

di Lucia Randazzo* –

Martedì 24 giugno 2025, presso la suggestiva cornice del The Siracusa International Institute of Criminal Justice and Human Rights a Siracusa, si è tenuto un sentito evento in memoria di mio padre Ettore, difensore appassionato e scrittore raffinato, protagonista della cultura giuridica siciliana e nazionale. L’incontro è stato organizzato dal Rotary Club Monti Climiti di Siracusa, insieme all’associazione La.P.E.C.[1] e Giusto Processo “Ettore Randazzo”, con l’intento di ricordare non solo l’avvocato ma anche la sua produzione letteraria. A dare avvio all’incontro sono stati i saluti istituzionali del Segretario del The Siracusa Institute, Dott. Filippo Musca, che ha brevemente tratteggiato le principali cariche ricoperte da mio padre nel corso della sua carriera, sottolineandone il ruolo di guida morale e culturale all’interno della comunità forense e soprattutto all’interno del The Siracusa Institute (già Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) di cui è stato anche Presidente del Consiglio Regionale Scientifico.

A seguire, è intervenuto il Presidente del Rotary, Dott. Aurelio Alicata, che ha ribadito l’impegno del Club nel valorizzare figure che hanno saputo coniugare l’eccellenza professionale con l’impegno sociale e umano sottolineando la sua personale ammirazione per le sue idee su carcerazione preventiva, ragionevole durata del processo e soprattutto sulla separazione delle carriere.

 L’incontro, articolato e ricco di contributi, è stato condotto con competenza e sensibilità dalla giornalista Dott.ssa Laura Valvo che, dopo aver tratteggiato la carriera di mio padre con sensibilità e intensità, ha saputo guidare gli interventi con equilibrio e partecipazione, creando un clima di profondo ascolto e condivisione.

Ad aprire la serie degli interventi è stata mia madre, Elisabetta Guidi, anch’ella avvocato e compagna di una vita, che ha condiviso un ricordo intenso e affettuoso, rievocando la gioia che mio padre provava nello scrivere. Elisabetta ha spiegato che il suo intento era quello di celebrare mio padre anche come scrittore. La volontà di Ettore era quella di avvicinare anche gli appartenenti al mondo non giuridico alla giustizia. Per ricordare a tutti che la Giustizia è la nostra base, ha rammentato che siamo un paese meraviglioso con una cultura giuridica antica di cui dobbiamo essere fieri.

Se siamo in un paese democratico, è grazie alla Giustizia e al Giusto Processo, tanto amato da Ettore. “Un Giusto Processo che deve essere applicato secondo le regole, con un Giudice terzo e al di sopra delle parti, con un Pubblico Ministero che ricerca la verità e con un Difensore. Questo diritto meraviglioso di Difesa del cittadino. Un ruolo sociale che i media non riconoscono perché gli avvocati sono talvolta ritratti, in modo ingiusto, come “intrighini, pasticcioncelli”. No! L’avvocato è il tutore del diritto di difesa, colui che deve accompagnare chi incorre nelle maglie della giustizia ed è normale che sia giudicato secondo le regole”.  Ettore si divertiva scrivendo. Era un po’ un modo di staccare la tensione emotiva dall’intenso mestiere del Difensore. Con tono partecipe e vivace, Elisabetta ha offerto al pubblico una descrizione pittoresca del romanzo Doppio inganno[2], a lei dedicato “Ad Elisabetta con i perché di una vita”, ambientato nella magica Ortigia, dove il confine tra realtà e finzione si fa sottile e letterario incuriosendo gli intervenuti sulla trama del romanzo. “Doppio inganno è un libro particolarmente bello, non solo perché traspare un amore per la Giustizia, ma traspare un amore per Siracusa, la bella Ortigia, qui chiamata Pantalica Marina, che è idealizzata. Si parla di un isolotto, che è separato da un ponte dal resto della città, con una bellissima porta spagnola, che purtroppo è stata abbattuta. Si entra in carrozza e, chi entra, apprezza la bellezza, i silenzi, il profumo di zagara, di gelsomino. Questi vicoletti ti riportano lontano.  La storia è un giallo: si parla di una famiglia siracusana, in cui i personaggi si vogliono molto bene, con un senso forte della famiglia. C’è un peso su questa famiglia, una vicenda non risolta, che non vi dico… perché dovete leggerlo”. Ettore è riuscito a fare capire l’atmosfera che si vive a Siracusa e soprattutto l’incanto di Ortigia. Questo isolotto magico senza tempo.  

Mio zio Marcello Randazzo, anche lui avvocato, ha introdotto il libro Il pieghevole dei sogni[3]: “Una storia di famiglia che è soprattutto una storia di scelte, di sogni sacrificati, di tensioni tra il dovere verso gli altri e la fedeltà a sé stessi. Attraverso le vicende di tre generazioni — il primo Enea, il figlio Ernesto, e il secondo Enea — Ettore ci racconta un conflitto universale: quello tra gli obblighi familiari e le aspirazioni più intime… E in tutto questo, ci sono altri due protagonisti che accompagnano la vita della famiglia Latomia: lo stabilimento tipografico e l’incantevole Ortigia. Lo stabilimento, posto al pian terreno del palazzo di famiglia, con le sue macchine che lavorano instancabilmente — Tu-tu tu-tum, tu-tu Tu-tum… — quasi un respiro meccanico, costante e ipnotico. Un “mostro ammaliatore”, così lo percepiscono i suoi eredi: fonte di orgoglio e di sostentamento, ma anche di vincoli, di obblighi, di rinunce. È quel battito delle macchine che scandisce i giorni e le notti di tre generazioni di Latomia, accompagnando la vita familiare come un sottofondo inevitabile, familiare, e talvolta ingombrante. E poi Ortigia: un’isola abitata sin dalla preistoria, ideale e idealizzata nelle sue strade millenarie, nei suoi profumi, nella luce limpida che si riflette sul mare, nei canti degli uccellini del mattino. Ortigia diventa nel romanzo un personaggio essa stessa, un teatro della memoria e della vita, un luogo dove passato e presente si intrecciano in modo indissolubile. In ogni vicolo, in ogni scorcio di mare, in ogni angolo di questa terra antica, il lettore può avvertire quella sottile malinconia che solo i luoghi intrisi di storia sanno trasmettere.  I temi trattati da Ettore sono temi universali che spesso tutti noi, in prima persona, o nel momento in cui sono i nostri figli a dover scegliere il proprio percorso di vita, ci troviamo ad affrontare” (…)“Ecco: nelle pieghe di questo romanzo non c’è solo la storia di una famiglia, non c’è solo una riflessione sulla giustizia.  C’è, soprattutto, l’Uomo che Ettore è stato. Un Uomo che ha saputo onorare la toga, e che ha saputo trasmettere, anche a noi, il senso più alto di questa meravigliosa professione e della vita stessa alzando le vele e prendendo i venti del destino che lo hanno condotto ad una vita piena ed appagante umana, familiare e professionale”.

 Ed ancora mio zio nel regalarci splendide parole ha chiuso il suo intervento con un ricordo del magistrato, già Presidente del Tribunale di Siracusa, Dott. Domenico Brancatelli: “Ettore Randazzo? Avvocato e scrittore lo fu di sicuro. Ma oggi bisogna ricordare l’Uomo, perché, come dice Sartre, al fondo di tutte le domande la risposta è sempre la stessa: l’Uomo. Ettore era innanzitutto bello come gli eroi greci, e portava pure l’accattivante nome dell’eroe omerico. Ma era soprattutto un Uomo. Il suo sguardo pulito rifletteva la purezza dell’idealista. Egli credeva fermamente in ciò che scriveva e diceva, e le sue sofferte battaglie erano mosse dalla sincera compassione per chi patisce le pastoie della nostra complicata giustizia. Dunque stima e rispetto eterni per Colui che ha saputo onorare la toga — e mi si conceda il ricordo affettuoso dell’Amico che fu”.

Dopo mio zio, tremante per l’emozione di ritrovarsi tra parenti, amici e colleghi, ho parlato di Difendere[4], un saggio che può definirsi la summa del suo pensiero giuridico. Una dichiarazione d’amore per la toga.  Difendere riflette la passione per l’idea che ha animato tutta la vita di mio padre Ettore: il diritto di ogni persona ad essere difesa. “Per me è particolarmente emozionante parlare di Difendere, perché io ho avuto il privilegio di averlo non solo come meraviglioso padre, ma anche di viverlo come difensore insieme ai carissimi amici Avvocati Gaetano Maria Greco, Silvestre Costanzo, Marco Galati, Maria Letizia Galati, Pasquale Saraceno, Emanuele Bosco e Raffaele Garipoli ovviamente con i suoi fratelli Marcello e Giovanni e sua moglie. E noi abbiamo visto come, fin dall’inizio dei colloqui, si rapportava a colui che chiamava il maltrattato: gli spiegava il processo com’è e il processo come dovrebbe essere, quasi a giustificarsi nel caso in cui l’esito non fosse stato quello giusto. Ho fatto un anche viaggio interiore nella scelta di questo meraviglioso mestiere. Quando ho riletto la dedica, otto anni dopo, l’ho capita meglio: Questo libro è dedicato agli Avvocati di ogni età, perché ci credano, anche sognando un po’. Nonostante tutto. All’epoca non avevo capito sino in fondo cosa volesse dire.

Questo libro è una pacca sulla spalla all’Avvocato che, nella solitudine delle sue sofferenze, si ritrova in queste pagine: nei tumulti, nelle angosce, nelle inquietudini che lo assalgono nel ripensare a come ha difeso, e se ha difeso nel modo giusto… se ha fatto davvero tutto il possibile. Io l’ho sentito come un incoraggiamento a continuare a credere nella Giustizia, anche sognando un po’. In questo libro c’è tutta la sua passione per la Difesa. È un viatico, è un vademecum, è un’incitazione al rispetto della legalità. Lui ci dice un sorvegliare sulla legalità perché il Difensore è questo che fa. È un’esortazione al rispetto della nostra dignità, anche deontologica. Mio padre definisce la codificazione deontologica una protezione autentica e concreta. Questo libro ci esorta al rispetto del Dovere di Difesa, costituzionalmente garantito, e ai suoi corollari: ai doveri di diligenza, di lealtà e di correttezza. Il mio più grande lascito è la passione che mi ha, e che ci ha, trasmesso. Ancora ad oggi, per esempio gli avvocati che hanno partecipato al corso di Deontologia e tecnica del penalista a Roma, più di vent’anni fa, e moltissimi ancora, lo ringraziano per la passione trasmessa.

La deontologia è la tela su cui dipingere la nostra storia di Avvocato.  Ricordo i suoi appassionati controesami. In Difendere racconta che una volta, a causa di un controesame particolarmente veemente, era stato denunciato per violenza privata. Il procedimento ovviamente fu archiviato. Ricordo le sue arringhe appassionate.

Il saggio è un’ode alla Difesa, a continuare a credere nella Difesa. Nonostante tutto. Quel nonostante tutto che continua anche dopo 20 anni. Aveva già scritto La giustizia nonostante[5]. Sebbene sia un’ode ci sono anche degli sfoghi. Contro gli avvocati perora, cioè quelli che sperano di superare un concorso, o gli avvocati purtroppo cioè quelli che purtroppo non l’hanno superato. C’erano — diceva mio padre Ettore — gli avvocati “riportisti”. Quei difensori che, una volta giunti in Cassazione, al momento in cui il Presidente li invitava a “riportarsi al ricorso”, si limitavano a pronunciare quella formula di rito, senza aprir bocca, senza discutere realmente il ricorso.  Ma così — aggiungeva — truffavano il loro assistito. Mio padre oggi non sarebbe contento della deriva cartolare derivante dal periodo emergenziale che è diventata, in alcuni casi, la regola. E siamo noi avvocati a dover chiedere la trattazione orale. E proprio grazie al suo insegnamento, oggi, non posso fare altro che chiederla. Si scontra anche contro gli avvocati che fanno quella che definisce una sconcertante obiezione di coscienza. Cioè con quelli che difendono solo gli innocenti. Mio padre si immaginava l’avvocato che eseguiva un piccolo processo in studio con le segretarie e, proprio nel luogo ove si sarebbe dovuto difendere, il possibile assistito veniva giudicato, e se lo stesso avvocato avesse ritenuto che lui fosse colpevole, allora non lo avrebbe difeso. Tutto ciò lo indignava enormemente perché, anche quando veniva pubblicizzata questa obiezione, passava il messaggio che sia più nobile l’avvocato che non difende il reo confesso di reati gravi rispetto a colui che lo fa tremando nell’indossare la toga – come diceva mio padre – sentendosi penetrato da ciò che lui chiamava la malia della difesa. Perciò in Difendere lui ci insegna e ci ha insegnato che l’avvocato non difende il reato ma il diritto di essere giudicati secondo le regole di un Giusto Processo perché l’avvocato non può violare l’art. 50 del Codice Deontologico Forense e introdurre prove false!

Alla fine del saggio Ettore si chiede come sarà l’avvocato di domani:
«L’avvocato di domani può sperare nell’avvocato del Giusto Processo, dunque? Non solo sperare, direi pretendere! Intimamente, pervicacemente, e talvolta contro ogni evidenza, non siamo affatto pessimisti, e tanto meno arresi. Non possiamo permettercelo perché siamo avvocati e dobbiamo crederci almeno noi… Perché ci crediamo, dunque? E perché ci saremo anche domani, brandendo se del caso la nostra toga e obiettandola ad ogni involuzione autoritaria?Perché noi avvocati siamo legati da un sentimento indefinibile e stupendo, che è emozione della nostra toga, conforto della solidarietà forense, vanto indescrivibile della vera Difesa».

Nell’ultima parte di questo meraviglioso saggio c’è un glossario della difesa tra cui la definizione del Difensore:
«Il mestiere del Difensore
Il nostro non è un mestiere che si insegna, è un mestiere che si impara.
Si impara battendosi contro gli errori, le ingiustizie, le angherie, a volte le meschinità.
Si impara indignandosi di ogni sopruso giudiziario, da chiunque provenga.
Si impara nelle notti insonni, nei tumulti delle nostre angosce. 
Si impara soffrendo con i nostri assistiti, scusandoci con loro dei misfatti del sistema giudiziario e di chi lo gestisce.
Si impara coltivando una fede doverosa e irragionevole nella Giustizia.
Si impara tremando nell’indossare la toga, sentendosi penetrati dalla sua malia.
Si impara osservando all’opera –se possibile- i Maestri d’Avvocatura, studiandone le mosse, cercando di emularli, illudendoci di carpire il loro ingegno.
Si impara ringraziando i nostri Padri per aver custodito e tramandato l’incantevole seduzione della Difesa».

È poi intervenuto mio fratello Tommaso, educatore sociale e scrittore, che ha offerto una lettura più stilistica e letteraria dell’opera di nostro padre. Con sensibilità e acume, ha analizzato le figure retoriche e il sarcasmo pungente che caratterizzavano la scrittura di nostro padre Ettore, accompagnando la riflessione con racconti di vita familiare ricchi di umanità e ironia: “Vorrei parlarvi di un aspetto quotidiano di mio padre che apparentemente sembra meno pertinente. Però, forse, è un collante tra il suo essere una persona che scrive e la sua attitudine letteraria e il suo essere avvocato e la sua attitudine giuridica nell’essere uomo di giurisprudenza”. Tommaso ci spiega che il libro intitolato E forse una condanna al silenzio[6] parla di un professore di lettere che viene condannato ad un periodo di silenzio rischiando addirittura l’ergastolo linguistico. “È una storia effettivamente surreale. È da una parte un saggio e da una parte un racconto avvincente”. Tommaso ha posto l’attenzione sui suoi giochi linguistici che condivideva con la sua famiglia.

“Ettore usava l’inversione invertendo le frasi come alcuni slang urbani che troviamo in Celine, in Eduardo De Filippo, Queneau, in Borges”. Usava trasformare in riflessivi alcuni verbi. Ha raccontato episodi di vita quotidiana e intima con nostro padre. Ettore creava in casa “una dimensione teatrale che ho trovato in Tristan Tzara, in Breton, sono cose che faceva in maniera semplice ma avevano un background di studio. Utilizzava il linguaggio in maniera irriverente, non discriminatoria. Univa i due aspetti da una parte una tensione letteraria e dall’altra una critica all’autorità. Da avvocato era critico nei confronti delle istituzioni totali e da avvocato mi ha lasciato un modo di portare una critica alle istituzioni totali come quello che fa Erving Goffman[7]: una critica agli ospedali psichiatrici, carceri, caserme, scuole che hanno una forte impronta gerarchica e gli avvocati in effetti sono la difesa più forte che hanno le persone come critica alle istituzioni totali”. L’avvocato si oppone alla violenza del potere.

Particolarmente toccante è stato il contributo dell’amico e collega Avv. Bruno Leone, che ha condiviso un bel ricordo vissuto nelle aule di giustizia oltre alla lettura dell’arringa conclusiva nel processo in difesa di Serafino Famà contro gli imputati del suo omicidio, quale parte civile per conto della Camera Penale di Catania, intitolata all’indimenticabile Avvocato Serafino Famà, trucidato per non essersi piegato alla criminalità mafiosa: “Difendo Serafino Famà, e quindi la Toga dell’avvocato, il diritto di Difesa, la Libertà di difendere… e i loro tutori (appunto, la Camera Penale e l’Ordine Forense: sono “clienti” straordinari, che non sono stati sfiorati dalla gravissima intimidazione. Che anzi in essa hanno trovato una nuova linfa per esaltare le proprie funzioni e i propri valori, invincibili e immortali. Che soffrono la perdita di un difensore eccellente, di un combattente irriducibile, di un uomo vero.

Di un Avvocato. Ucciso per una logica distorta e balorda, prima ancora che crudele e perversa. Ad opera di chi ha poi dovuto ricorrere ad altri avvocati, augurandosi di trovarli altrettanto liberi, coraggiosi, fieri, intemerati. Ché queste sono le qualità che hanno richiesto ai loro difensori, e che ne garantiscono la professionalità.
Non li invidio: difendono, forse, gli assassini di un Avvocato. Li invidio: sventolano il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità, quando si fa strada controcorrente, in difesa pur sempre di presunti innocenti.
Serafino Famà è stato ucciso da pochi miserabili. La Toga, per nostra e loro fortuna, è immacolata, invincibile. La Toga vive anche nei Colleghi che li difendono.
La Toga non muore… la Camera Penale catanese… dichiara che l’impossibile risarcimento… sarà destinato ai figli dei detenuti.
Quei detenuti ai quali Serafino ha dedicato, e poi immolato la sua vita, e che – se potesse – continuerebbe imperterrito a difendere, con la sua splendida, insuperabile passione”.

A concludere l’evento è stato l’intervento del magistrato Dott. Michele Consiglio, Consigliere della Corte di Appello di Catania, che ha raccontato il loro primo incontro e il rapporto, saldo e leale, costruito negli anni. Ne è emersa l’immagine di un avvocato tenace, profondamente convinto della necessità di correggere le storture del sistema giudiziario, ma sempre nel rispetto del confronto e del diritto.

Ettore era splendido e combattivo, come quello del mito, né più né meno.  Era noto ed esposto e battagliava, sostanzialmente solo, in nome del “giusto processo” in un’epoca post stragista in cui sembrava che non tutti gli imputati meritassero le garanzie che la legge garantiva loro. Un’epoca in cui molte di queste garanzie sono state messe in discussione.  Lo guardavo allora con sospetto, come uno che mira a scardinare un sistema di somma giustizia, quel sistema nel quale mi ero formato ed al quale ero restio a riconoscere difetti di sorta. Ma Ettore era troppo elegante, era troppo signore per resistergli. Lo studiavo all’inizio e lo faceva anche lui con me.  Io fin da subito, in lui, ho riconosciuto qualcosa di raro: la capacità di coniugare rigore e comprensione, lucidità e pietas, tecnica e umanità. Ettore non era solo un avvocato, era un uomo che navigava nel diritto con lo sguardo rivolto all’uomo. Sempre.

Abbiamo condiviso decine di convegni, tavole rotonde, dibattiti serrati. Ricordo la sua voce – ferma, calma, netta – che scuoteva le certezze e accendeva domande. Ricordo le cene dopo i convegni, quando la tensione si scioglieva e lasciava spazio alle risate, ai racconti, alla vita. Ricordo il suo modo di guardarmi quando le parole non bastavano: uno sguardo che diceva “continuiamo a crederci”, anche nei momenti più difficili.

La grandezza di Ettore è stata di superarsi. Di guardare oltre il suo ruolo, la toga che non solo egli stesso ma che anche altri hanno voluto mettergli addosso egli l’ha indossata, nella parte matura della sua vita, insieme agli abiti del sogno creativo, della libertà e della gioia grandissima che si prova quando si percepisce di essere al proprio giusto posto. Ettore è un grande Avvocato ma soprattutto è un uomo straordinariamente libero. Non c’è libertà più grande di quella di scoprire chi si è nel profondo e cosa si vuole dalla vita. Molti, moltissimi, non lo scoprono mai e mettono i giorni che sono loro concessi in fila uno dopo l’altro. Ettore no. La sua grandezza è stata di scrivere il suo destino e non di lasciarlo scrivere a chi ci vede e ci vuole in un determinato modo. Le sue opere letterarie e saggistiche sono lette come manifestazioni di un bisogno autentico: raccontare la giustizia come esperienza viva, mai astratta. Per Ettore, il processo penale non era teatro ma luogo in cui si gioca la dignità delle persone. Il cuore del suo pensiero era che non si può perdere l’uomo, nemmeno dietro le sue colpe, ma neanche le regole, che sono ciò che salva dalla disumanità e dal pregiudizio. In conclusione, il ricordo di Ettore è luce: una presenza che evoca bellezza, forza, saggezza e un’umanità profonda, quasi paterna. Come un diapason, la sua memoria fa vibrare corde intime, delicate, che trasmettono non malinconia, ma gioia”.

Scrivere queste righe per la Camera Penale di Catanzaro Alfredo Cantàfora è stato, per me, un onore profondo. Non solo perché ho avuto il privilegio di ricordare mio padre, ma perché questo gesto suggella un legame antico e autentico tra la sua storia professionale e quella della comunità forense catanzarese. Catanzaro era per lui una città viva, densa di pensiero giuridico e di umanità. Vi tornava spesso, con entusiasmo e rispetto, per confrontarsi con colleghi che stimava profondamente- e che anche io continuo a stimare- come il compianto Avvocato Mario Casalinuovo e il figlio Avvocato Aldo Casalinuovo.

A distanza di anni, sentire l’abbraccio della Camera Penale di Catanzaro è come ritrovare un frammento di quella storia, oggi rivissuta nella memoria e nella gratitudine. Desidero ringraziare sinceramente gli amici Avvocati Francesco Iacopino e Danilo Iannello per aver reso possibile tutto questo. In conclusione posso solo dire: grazie papà.

*Avvocato, Componente Comitato di gestione Scuola “Giuseppe Brandino” della Camera Penale di Siracusa

 

[1] Il LA.P.E.C. (Laboratorio Permanente Esame e Controesame) è un’associazione culturale che si è costituita a Siracusa nell’anno 2008, presso il prestigioso Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali (ora The Siracusa International Institute of Criminal Justice and Human Rights). L’associazione è sorta inizialmente con lo scopo di studiare e approfondire le problematiche giuridiche connesse all’esame incrociato nel processo penale. Partendo dalla considerazione che il metodo dialettico e il criterio della formazione della prova in contraddittorio costituiscono gli elementi cardine del sistema accusatorio, anche nella forma adottata dal nostro legislatore, il LAPEC ha avviato la propria attività e incentrato le proprie iniziative, al fine di studiare, monitorare e, se possibile, migliorare le prassi e le tecniche della cross examination, quale metodo di formazione della prova orale, in quanto ritenuta lo strumento più idoneo ad assicurare il principio del contraddittorio e l’accertamento della “verità processuale”. Regole, tecniche, prassi spesso soffocate da resistenze culturali degli operatori del diritto, a causa di un atteggiamento valutato come superficiale o pigramente rassegnato ad una comoda “semplificazione” della procedura.
[2] Edizioni Anordest, 2015.
[3] Edizioni ETS, 2021.
[4] Giuffrè Editore, 2017.
[5] Sellerio Editore, 2006.
[6] Edizioni ETS, 2012.
[7] Nel famoso libro Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza del 1961. 

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