LA TENTAZIONE AUTORITARIA: COLPIRE L’AUTONOMIA E L’INDIPENDENZA DEGLI AVVOCATI

di Ezio Menzione* –

Colpisce e induce a riflettere il fatto che due paesi così diversi si stiano scagliando contro l’indipendenza degli avvocati: Turchia e USA. Certo la differenza è grande: diversi i presupposti, diversi alcuni degli scopi perseguiti (mentre altri sono comuni), diversi i metodi e gli strumenti di intervento. Vediamo da vicino le due realtà, poi passiamo a confrontarle e a richiamare quanto accade anche in altri paesi ed infine traiamo alcune conclusioni per quanto riguarda l’Italia, anche alla luce di alcuni richiami storici.

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Ci eravamo “abituati”, ammesso che a certe violazioni si possa fare l’abitudine, a constatare che in certi paesi gli avvocati venivano attaccati dal governo perché difendevano gli oppositori del governo stesso. È così in maniera massiccia in Turchia, ma anche nelle Filippine e in alcuni paesi dell’America Latina e altrove. Si tratta, in genere, di paesi dalle democrazie deboli perché non ancora compiute (perennemente incompiute) o in crisi (perennemente in crisi). Prendiamo il caso della Turchia. Dall’ascesa al potere di Erdogan, cioè da quando divenne primo ministro  e dunque ben prima di diventare Presidente della Repubblica e quindi della trasformazione del paese in una repubblica presidenziale, l’esecutivo da lui presieduto colpì con l’accusa di terrorismo gli avvocati che difendevano persone accusate di terrorismo e specificamente di essere terroristi del PKK, il partito curdo dei lavoratori, considerato terrorista dalla Turchia e dall’Europa e dagli USA, ma non dall’ONU: insomma nella lista nera stesa dagli USA dopo l’11 settembre 2001 e recepita dall’Europa. Gli avvocati dei terroristi venivano e vengono perseguiti secondo un paradigma molto comune in queste situazioni: non per avere compiuto atti di terrorismo, ma perché difendevano i terroristi e le accuse erano e sono appartenenza a vario titolo e con varie responsabilità ad associazione terroristica ed eversiva. Al reato associativo di solito si abbinava anche il reato (o più reati) di propaganda sovversiva e siccome il codice penale turco non prevede la continuazione fra reati, ogni singolo episodio di propaganda vale circa un anno di reclusione che, al momento della condanna, va a sommarsi al reato associativo. E la propaganda consiste in dichiarazioni rilasciate alla stampa a commento dell’andamento di un processo oppure interventi in convegni giuridici e occasioni simili. Insomma, il ben noto paradigma secondo cui il difensore deve rispondere dello stesso reato dell’accusato che sta difendendo ha cominciato a colpire in maniera massiccia dall’inizio degli anni 2000 e non accenna ad affievolirsi. Talora il target di questa vera e propria persecuzione erano e sono avvocati appartenenti o vicini ad associazioni – per esempio il CHD o lo OHD – che della difesa degli oppositori al regime avevano fatto la propria “specializzazione”, per cui difendevano anche le vittime di sciagure sul lavoro, o le vittime dei femminicidi o le vittime di sfratti di occupanti o residenti in aree destinate alla gentrificazione e così via. Ma non sempre gli avvocati perseguitati facevano parte o riferimento a strutture di difesa o a studi professionali o associazioni, molto spesso si trattava e si tratta di avvocati singoli, impegnati magari in un solo processo per terrorismo o associazione sovversiva. Lo schema descritto viene comunemente e massicciamente utilizzato anche contro i giornalisti (ed anche contro le testate, chiudendole in via amministrativa) con la differenza che mentre i giornalisti talora vengono assolti, gli avvocati assolti non lo sono stati mai: e le pene comminate non stanno nella condizionale, ma sommano a tre, cinque, dieci anni e su su fino a 13, 18, 20 e più. Avvocati e giornalisti che osano schierarsi o almeno prendere in considerazione le ragioni degli oppositori: è chiaro l’intento di colpire i singoli, ma altrettanto chiara è l’intenzione di intimidire le due categorie, dissuadendo i possibili interessati dallo schierarsi. Durante i tre anni di stato di emergenza che seguirono il tentativo di colpo di stato del luglio 2016, tramite apposito decreto, si sancì che l’avvocato sotto processo con accusa di terrorismo non potesse difendere in nessun processo della stessa natura.

Da un anno, però, Erdogan ha posto in essere un nuovo schema di attacco per minare l’indipendenza degli avvocati, prendendo di mira l’autonomia della avvocatura stessa. Circa un anno fa si tennero le elezioni del nuovi consigli dell’ordine (il termine non è appropriato, sarebbe meglio bar association, dato il carattere semiprivatistico della compagine, ma uso consiglio dell’ordine o COA per farmi capire meglio) e a Istanbul, dove sono iscritti 65.000 avvocati (il più grande ordine al mondo) fu eletto un presidente, Ibrahim  Kaboglu, anziano costituzionalista, che proviene dalle fila del maggior partito di opposizione, il CHP, che nelle ultime politiche e  presidenziali – era il 2023 –  per un soffio non ebbe la maggioranza. L’intero consiglio si colloca in area d’opposizione, anche se è sempre difficile capire lo schieramento di appartenenza dei singoli consiglieri. Dopo pochi mesi dall’insediamento il consiglio uscì con un comunicato in cui, a fronte dell’uccisione con un drone turco di due giornalisti siriani che stavano per oltrepassare la frontiera Siria-Turchia, si chiedeva una indagine “accurata e imparziale”. È partita immediatamente dalla Procura di Istanbul una incriminazione contro il Presidente del COA e dieci consiglieri, per aver “attentato alla nazione” e per diffusione di notizie atte a sovvertire l’ordine pubblico”; “propaganda per un’organizzazione terroristica” e “diffusione pubblica di informazioni ingannevoli”. Reati, perlopiù,  di opinione di cui è costellato il codice penale turco.

Il codice di procedura, in questi casi, prevede due ordini di procedimenti: uno civile, in cui la Procura richiede che il COA decada e l’altro in sede penale per i reati contestati. Il procedimento dinnanzi ad un giudice monocratico civile si è tenuto nel marzo scorso e con un’unica sbrigativa udienza è stata accolta la richiesta della procura. Fortunatamente la sentenza è appellabile ed è stata appellata e non è esecutiva fino alla definitività. In sede penale, dove si procede contro il Presidente e 10 consiglieri, si è già tenuta la prima udienza, ma ha subìto un rinvio a settembre prossimo perché uno dei dieci, arrestato al suo arrivo all’aeroporto da Strasburgo dove era andato a difendere in un caso contro la Turchia, non era potuto comparire. Possiamo dire che la vicenda penale ha un esito scontato, con una condanna e quindi l’interdizione dalla carica per l’oggi e per il domani? Purtroppo la condanna è facilmente prevedibile.

Come è facile constatare l’attacco mosso al COA di Istanbul – non a caso in contemporaneo con la carcerazione del sindaco di Istanbul, anche lui esponente del maggiore partito di opposizione – costituisce una escalation rispetto alla pratica, che pur continua, tutt’altro che dismessa, di attaccare i singoli avvocati. Nel caso del COA, siamo di fronte al perseguimento dello scopo di minare l’indipendenza non di un singolo avvocato, ma dell’intera compagine dell’avvocatura, che si intende mettere sotto tutela politica per farla tacere.

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Per la verità, questo scopo era già stato perseguito, in maniera molto maldestra, dal presidente Erdogan con un decreto degli anni dell’emergenza, con il quale si prevedeva che, nelle città in cui l’ordine superava i 50.000 iscritti era possibile, raccogliendo 2.000 firme di iscritti, procedere all’elezione di un secondo e diverso COA. L’intento era chiaro: superavano la soglia gli ordini di Istanbul, Ankara e Smirne, storicamente in mano a esponenti dell’opposizione, peraltro talora neppure tanto radicalizzati. Si cercava dunque di creare un contraltare ai COA storici, frantumando la unitarietà degli ordini. Alle successive elezioni, però, l’escamotage si rivelò inconsistente ed anzi i rappresentanti storici degli avvocati ne guadagnarono in autorevolezza e compattezza. Sull’onda lunga di questo tentativo fallimentare le elezioni del COA di Istanbul dell’ottobre 2024 raggiunsero un inedito livello di partecipazione e il COA stesso divenne chiara espressione di una sia pur moderata opposizione. Da qui la mossa del governo, tramite il Procuratore Generale e quindi il Ministero della Giustizia, di far saltare l’organismo eletto con una incriminazione che implicava la decadenza. Come si vede, siamo di fronte ad una escalation dell’attacco agli avvocati poiché non si tratta più di colpire i singoli (o più o meno ristretti gruppi) in ragione del loro mettere la loro professionalità e il loro sapere a disposizione degli oppositori, ma si tratta di colpire le strutture che sorreggono e garantiscono l’indipendenza della professione.

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Negli stessi mesi in cui si rafforzava l’attacco di Erdogan all’avvocatura associata, al di là dell’Atlantico il neoeletto presidente Trump non perdeva tempo e, nei primi mesi del suo mandato scovava un modo per mettere sotto scacco i grandi studi legali, strutturati in law firm, vere e proprie società di professionisti dagli immensi fatturati e dall’immenso (ancorché incontrollato) potere: togliere loro i contributi pubblici, per esempio ciò che percepivano dallo stato federale come erogazione diretta o come esenzione fiscale: una montagna di soldi. Il target erano quegli studi che avevano lavorato per i democratici o, addirittura, avevano difeso questi nei vari processi in cui era imputato (o comunque convenuto, se erano stati processi civili) Trump durante e dopo il suo primo mandato. Chiaro l’intento intimidatorio della mossa, ma anche quello di “mordere” economicamente tali law firm, per indurle a non contrapporsi a Trump in futuro. Giustamente il Presidente della autorevolissima National Bar Association uscì con un breve, ma proprio per questo chiarissimo comunicato in cui si spiegava come ciò costituisse all’evidenza un attacco alla libertà e all’indipendenza degli avvocati. La cosa si è malamente chiusa in poche settimane con gli studi aggrediti che hanno cercato di salvare il salvabile con accordi bilaterali fra loro e l’amministrazione, con i quali si impegnavano a non più partecipare direttamente o indirettamente a processi o azioni legali contro l’amministrazione (talora con vere e proprie liste di soggetti da non difendere) e ad agire pro bono (gratuitamente) in favore dell’amministrazione o di soggetti da questa indicati e a questa favorevoli. Si impegnavano addirittura a non prendere posizione né sui media né altrove contro l’amministrazione oggi al governo. Poche sono state le voci che si sono levate per unirsi alla presa di posizione della NBA, preferendosi il silenzio e la trattativa privata per salvare ciò che era economicamente salvabile. Bella la presa di posizione della giovane Avvocata Rachel Cohen, associata in una delle più grandi law firm attaccate, che ha preferito dare le dimissioni piuttosto che sottostare ad accordi che minavano alla base l’indipendenza e la autonomia della professione. Altre law firm aggredite non hanno inteso piegare la testa e si sono rivolte ai giudici perché fosse valutata la legittimità del diktat trumpiano ed hanno ottenuto ragione.

Per inciso, notiamo che questo attacco è andato in parallelo con quello scatenato contro alcune grandi università (Harvard e Columbia, in primis) che avevano dato spazio alle proteste contro Israele e pro Palestina e più in generale che portavano avanti politiche di inclusione diametralmente opposte a quelle del nuovamente eletto Trump. Segno evidente che il presidente intende colpire tutte le forme di opposizione o anche solo di autonomia di pensiero e di azione che potrebbero, anche solo ipoteticamente, condurre a posizioni contrarie a quelle da lui affermate.

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Turchia e USA, dunque, si assomigliano nel portare avanti azioni di contrasto all’autonomia dell’avvocatura attaccando le sue forme di aggregazione e strutturazione: tipicamente pubblicistiche quelle turche, sostanzialmente privatistiche quelle statunitensi. Ma il mondo è pieno di paesi non democratici che tengono un occhio vigile sull’avvocatura associata: dalla Cina, che ogni due anni rivede i processi condotti da ogni singolo avvocato, al quale non viene rinnovata la licenza professionale ove anche solo una quota di processi non sia gradita al partito (unico) dominante; l’Azerbaijan che anch’esso conosce simili procedure invasive e negatorie dello stato nelle modalità con cui viene esercitata la professione; e via e via, in una sfilza di paesi di cui la Giornata dell’Avvocato in Pericolo si è andata occupando negli ultimi anni. Si torna poi, tragicamente, all’attacco ai singoli avvocati con uccisioni ed assassini da parte di forze statuali o parastatali (Colombia, Filippine e tanti altri) che, con la loro forza di intimidazione, sono nei fatti un attacco alla funzione stessa del difensore.

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In questo contesto si collocano quelle forme di attacco al difensore che anche noi, qui in Italia, conosciamo bene: gli attacchi da parte degli hater da tastiera contro chi “osa” difendere posizioni sgradite alla massa di costoro. Sono per lo più attacchi sui social, ma talora anche diretti, verbalmente o peggio. Sbaglierebbe chi credesse che si tratta di forme appartenenti solo a “civiltà avanzate”, per esempio all’Italia. Come i social sono una forma di comunicazione globale, anche questo tipo di intimidazioni sono onnipresenti. Gli attacchi alla collega che difende la famiglia Regeni da parte di un soggetto presumibilmente egiziano sta lì a dimostrare proprio la trasnazionalità o globalità di questi attacchi. Essi si collocano, mi pare, a metà strada fra le intimidazioni per i singoli che difendono posizioni sgradite (in questo  caso non necessariamente sgradite alle forze dominanti) e, in ragione della loro frequenza e pervasività, anche contro la funzione stessa del difensore. Se ne intende colpire uno (ma sono tantissimi quelli singolarmente colpiti, non passando giorno senza che arrivino notizie da qui e da là di colleghi presi di mira) perché imparino anche tutti quanti gli altri, mirando, in sostanza, a che certe posizioni non vengano nemmeno difese. E dunque mirando alla funzione e alla figura non solo del singolo ma dei difensori in quanto tali. Si potrebbe dire che di tali attacchi anonimi via web un avvocato di lungo o anche medio corso o dotato di giovanile baldanza può anche non curarsi. Ma non sarebbe né corretto né opportuno: se l’attacco è sì contro il singolo, ma è la funzione stessa che si vuol colpire, allora è un certo clima culturale, negatorio dei diritti, che si intende far crescere in questo o quel paese. E c’è da giuraci che simili forme di pressione troveranno prima o poi orecchie ben disposte. Controprova: il ruolo, sempre più pervasivo, della vittima durante le indagini e nel processo ed il proliferare dei soggetti che, in quanto vittime, possono accedere all’accollo da parte dello stato delle spese legali. Con il corollario, che fra un po’ risulterà evidente ove non lo fosse già, il crearsi di liste di difensori graditi a chi a questi benefici ha accesso. Con una retrocessione di un trentennio, a quando cioè i difensori d’ufficio erano sempre i soliti, vale a dire quelli graditi alle procure. Oppure all’epoca dei terroristi pentiti, quando chi intendeva lucrare sui benefici del “pentimento” era costretto ad abbandonare il proprio difensore e nominarne un altro, più prono a non intralciare le procure. Con buona pace di quel delicatissimo rapporto fra difensore ed assistito in cui anche si sostanzia l’indipendenza dell’avvocato. Ma proprio a questo mirano le intimidazioni via web che sfruttano in maniera  nuova il  paradigma della identificazione fra difensore e delitto dell’assistito: non tanto, infatti, si tratta di identificazione con l’assistito quanto con il delitto che si suppone da questi commesso. Frasi come “Ma non hai figli anche tu, avvocato? Allora ti auguro che facciano la stessa fine” e mille altre, identificano il difensore non tanto con l’assistito quanto con il delitto che si suppone da questi commesso. In ciò il paradigma è diverso e ancor più distorto e pericoloso di quello classico che abbiamo preso in considerazione esaminando la Turchia, per il quale il difensore viene considerato criminale quanto il suo assistito.

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Si va delineando con chiarezza negli ultimi anni una forma di aggressione all’avvocato e alla sua funzione da parte dei magistrati. È accaduto più volte nell’ultimo anno (processo Pifferi, processo Bibbiano) che in udienza il rappresentante della Procura abbia lanciato accuse verso uno o più difensori, rei, secondo lui, non di scorrettezze, ma di vere e proprie azioni criminali concernenti il processo, quando invece si trattava semplicemente di scelte difensive del tutto lecite. Nemmeno di illeciti disciplinari, figuriamoci di reati. Gli episodi, all’evidenza, sono gravissimi. Non solo perché si tratta, in genere, di processi con molta attenzione mediatica, e dunque dove l’attacco al difensore da parte di un magistrato raggiunge comunque un’audience vastissima davanti ad una platea che spesso non è in grado di valutare la perfetta legittimità della scelta difensiva che si vorrebbe censurare da parte della procura. Si aggiunge poi che in genere il giudice rimane perfettamente silente e mai osa dire “PM, ma cosa dice mai?!”, apparendo così consonante con l’accusa che ha lanciato l’accusa. Anche in questo con buona pace della sua terzietà.

Ma perché ciò accade? Se non possiamo certo dire che tutti i magistrati hanno invisi gli avvocati, non possiamo nemmeno ridurre simili episodi al nervosismo che troppo spesso si palesa durante il processo in tutte le parti. Probabilmente è la volontà di colpire gli avvocati difensori (sempre quelli degli imputati, mai quelli delle vittime) perché li si ritiene uno schieramento avversario, il “nemico”. Non a caso gli episodi che si è inteso richiamare si collocano dopo che la battaglia per la separazione delle carriere è passata da essere una aspirazione dell’avvocatura penale ad essere una possibilità politicamente praticabile. La distorta logica amico/nemico sembra prevalere fra le più annebbiate menti della magistratura. Senza rendersi conto (o forse sì, ma lo facciamo lo stesso!) che l’attacco va a colpire lo stesso diritto di difesa

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Un po’ di storia patria.

Vi è stato un momento in cui anche in Italia si è tentato di mettere gli avvocati e la loro organizzazione sotto il giogo dell’esecutivo. Fu durante il fascismo ed il tentativo, sotto il profilo ordinamentale, durò più di dieci anni, dal ’26 al ’38, con una raffica di leggi e norme collegate. Si era iniziato con la “iscrizione” degli avvocati ad un unico sindacato, naturalmente corporativo. Poi si era proceduto a incidere sulle forme tipiche della aggregazione liberale: i consigli dell’ordine ed il consiglio nazionale forense. Soprattutto quest’ultimo fu oggetto di una revisione che lo ribattezzava Consiglio Superiore Forense e lo snaturava prevedendo che la metà dello stesso fosse composta da soggetti di scelta ministeriale, ed in genere si trattava di magistrati. I quali peraltro avevano già in mano la selezione dei futuri avvocati essendo gli esaminatori al momento dell’ingresso nella professione. Evidentemente il governo fascista si trovava più a proprio agio con i magistrati, già direttamente sottoposti all’esecutivo, che non con gli avvocati, ancora da assoggettare. Nel ’38 il piano era pressoché portato a termine, ma i risultati erano tutt’altro che consolidati, come è dimostrato dal fatto che persino le leggi razziali furono in qualche modo e assai spesso evase dagli ordini, con mille escamotage. Eppure moltissimi avvocati, forse la maggioranza, erano sinceri e ferventi fascisti. Ma il richiamo all’ordine e alla fascistizzazione della categoria non riuscì affatto. Era una sorta di irriducibilità della categoria ad un unico pensiero. Molti avvocati di allora si erano formati nell’Italia liberale e, consciamente o inconsciamente, consideravano l’indipendenza e l’autonomia, anche ordinamentale, un valore iscritto nel loro DNA, si direbbe oggi, allora si sarebbe detto e fu detto valori fondanti e condivisi. Il tentativo di omologare a sé gli avvocati, tutti gli avvocati, intervenendo soprattutto sulla loro rappresentanza istituzionale, non riuscì. Così che, caduto il fascismo e poi conclusa la parentesi bellica, si tornò alla rappresentanza indipendente tramite i consigli dell’ordine ed il CNF, proprio le stesse istituzioni scritte e praticate fino dal 1874.

Se questa è molto in sintesi la vicenda dell’avvocatura italiana sotto il fascismo, non osiamo affrontare cosa essa dovette essere in Germania sotto il nazismo o in Unione Sovietica sotto lo stalinismo, dove in pratica si era avvocati solo se iscritti e obbedienti al partito nazista o a quello comunista.

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Dunque questa refrattarietà alla reductio ad unum e alla subordinazione all’esecutivo è da un lato la caratteristica della categoria, ma dall’altro spiega perché ogni governo autoritario (già autoritario, come in Turchia, ma anche aspirante all’autoritarismo, come gli Stati Uniti di Trump) avverte il bisogno di sottomettere la categoria, sia direttamente, con interventi legislativi o amministrativi o persino giudiziari, sia indirettamente, favorendo la crescita di una opinione pubblica che si scaglia contro la libertà di  scelta dell’avvocato e alla fin fine contro il diritto di difesa come diritto di ognuno quando è giudizialmente perseguito.

A cosa è riconducibile questa refrattarietà a farsi strumento dell’esecutivo da parte degli avvocati, nonostante che spesso si identificano politicamente con l’esecutivo, come accadde negli anni del fascismo? Vi sono probabilmente più cause. Per gli avvocati italiani una è la cultura liberale, che è stata ed è tuttora la cultura dominante in campo giuridico, non incrinata significativamente nemmeno da decenni di dominio della cultura collettivista, socialista prima e comunista e socialista dopo il fascismo: ci vuole ben altro per smantellare principi sanciti da Giustiniano; passati poi tal quali nel diritto comune e poi fondanti il diritto moderno. Vi è poi la collocazione sociale dell’avvocato, che tende – ancora oggi – a collocarsi come una monade, tutt’altro che insensibile alle sollecitazioni della società circostante (anzi, spesso essendone promotore e stimolo), ma pur sempre incline a rivendicare e presidiare la propria indipendenza. E ciò vale per i front men dell’avvocatura, pensiamo a chi si occupa di diritti umani e stato di diritto, così come per l’avvocato civilista più comune, quello tutto legge e ordine, ma pronto a rivendicare la propria autonomia quando insidiata, dall’alto o dal basso.

Tutto ciò comporta una certa conflittualità, o almeno una certa imprevedibilità, nelle posizioni del singolo avvocato e dell’avvocatura nel suo complesso ed è per questo che chi punta all’instaurazione di una società autoritaria fatalmente finisce per essere proclive a tacitare questa “infida” categoria tramite tutti i mezzi che abbiamo descritto e analizzato più sopra. Le intimidazioni saranno tante e dunque saranno mille i pericoli che l’avvocatura dovrà affrontare in simili frangenti, ma altrettanto forte sarà la risposta di questa e la partita sarà sempre e ancora tutta da giocare. È proprio vero quanto scriveva nel ’43 Piero Calamandrei: la libertà professionale è l’aspetto  “politicamente più importante e più nobile” per gli avvocati.

 

*Responsabile dell’Osservatorio Avvocati Minacciati dell’Unione Camere Penali Italiane.

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