RIFLESSIONI SPARSE SU ALCUNI TEMI DI FONDO DELL’ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE

 di Giovanni Flora*

Sommario: 1. Premessa 2. L’utilizzazione strumentale della contestazione dell’associazione per delinquere (art. 416 c.p.). 3. La problematica qualificazione della associazione per delinquere come reato di danno, reato di pericolo o reato-ostacolo ed i riflessi sulla struttura tipica della fattispecie. 4. I problematici criteri distintivi tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato.  5. Segue: “Sfruttamento” della organizzazione di una impresa “lecita” per la commissione di reati e configurabilità della associazione per delinquere. 6. La necessità di distinguere tra imprese societarie illecite e illeciti delle imprese societarie. 7. Profili di incostituzionalità della “norma di creazione giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”.

 

  1. Una trattazione delle problematiche attuali dei reati associativi, con particolare riguardo al reato di associazione per delinquere comune e con inevitabili cenni anche a quello di associazione di stampo mafioso, dovrebbe occupare uno spazio ben maggiore di queste poche pagine, necessariamente sintetiche, che mi onoro di scrivere per questa bella Rivista della battagliera Camera Penale di Catanzaro. Ma come si dice agli amici veri da un amico vero: “non mancherà occasione” (di ritornare sull’argomento).
  1. Orbene, la prima riflessione da fare è che costituisce dato incontrovertibile della quotidiana prassi giudiziaria quello dell’utilizzazione in chiave “strumentale”, di politica criminale giudiziaria, della ipotesi di associazione per delinquere. Con il palese obiettivo: di rendere più severa la risposta sanzionatoria laddove la magistratura ritenga troppo mitemente puniti i reati che costruirà come “reati fine” (per es: truffa, appropriazione indebita, reati tributari); di consentire la custodia cautelare in carcere ed il ricorso alle intercettazioni telefoniche le quali da molto tempo e ancor oggi, nonostante qualche intervento legislativo mitigatore, costituiscono la star dei mezzi di ricerca della prova; di affievolire tutte le garanzie processuali (ora è previsto anche il ricorso al “trojan”) che l’ordinamento allestisce allorché si tratti di  reati di criminalità organizzata, tra i quali (contrariamente a qualsiasi criterio di ragionevolezza) la giurisprudenza fa rientrare anche l’associazione per delinquere “comune” (Cass. S.U. 11.05.2005, n. 17706). Non solo, ma la amplificazione mediatica a tappeto di una indagine per associazione per delinquere, contribuisce a radicare nell’opinione pubblica (o meglio in un pubblico senza opinione per dirla con il Presidente dell’UCPI, Francesco Petrelli) la convinzione che gli indagati non abbiano scampo: sono “palesemente colpevoli” (Vittorio Manes docet).

Insomma, si ha la sensazione che sia sufficiente contestare una pluralità di delitti ad almeno tre persone ed il gioco è fatto. Pur se nel mio bagaglio di esperienza professionale non manca la contestazione associativa anche in presenza di un solo indagato identificato, dietro la considerazione che non avrebbe potuto da solo realizzare tutta la serie di reati addebitati… se non in associazione con altri da compiutamente identificare.

  1. La seconda riflessione che non costituisce solo uno “sfizio” dogmatico riguarda la stessa natura del delitto di associazione: reato di danno? Reato di pericolo? Addirittura “reato ostacolo che punisce già di per sé una condotta prodromica alla realizzazione dei reati fine dei quali non realizzerebbe nemmeno il pericolo di commissione (MANTOVANI, Diritto penale, p. g., XI ed., Padova, 2020, p.229). e la cui realizzazione non è notoriamente requisito tipico della fattispecie associativa. La soluzione comporta implicazioni pratico applicative di non poco momento.

A mio parere, poiché l’art. 416 è collocato tra i delitti contro l’ordine pubblico e premesso che l’ordine pubblico va inteso in senso costituzionalmente adeguato come ordine pubblico materiale e non “ideale”, com’era negli intendimenti originari del Codice Rocco, l’associazione per delinquere è reato che lede (e solo quando lede) l’ordine pubblico materiale.  Esso sussiste se e solo quando una struttura organizzata di più persone, legata da affectio societatis, si radica in un determinato territorio facendo aumentare, in quel territorio, il rischio di commissione dei reati oggetto del “programma sociale” Quindi è reato che implica contemporaneamente la lesione dell’ordine pubblico materiale e il pericolo concreto di commissione di un numero indeterminato dei delitti (IACOVIELLO, Ordine pubblico e associazione per delinquere, Giust. Pen., 1990, II, c. 46 segg.; volendo, FLORA, Per una definizione di ordine pubblico (tra codice e leggi speciali), Annali Univ. Molise, I, Napoli, 2003, p. 93 segg.).

Una tale ricostruzione in termini di offensività non può non avere ripercussioni sul versante interpretativo e pratico applicativo: in ordine alla stabilità dell’aggregato organizzativo, alla sua effettiva idoneità di comportare il pericolo concreto di attuazione del programma delittuoso.

  1. Conseguentemente continua a porsi nella prassi il problema di reperire criteri affidabili per distinguere le ipotesi di associazione per delinquere da quelle di concorso di persone nel reato continuato.

A questo proposito, la giurisprudenza, anche di legittimità, a dispetto della apparente linearità dei principi di diritto espressi tralaticiamente, condensati nelle massime di cui bulimicamente gli “operatori” del diritto penale” si cibano, non è mai riuscita in modo convincente ad indicare una costante, univoca e chiara linea di demarcazione tra reato associativo e concorso di persone nel reato continuato.

Una pur meticolosa ricerca che frughi anche i più inesplorati canali di approvvigionamento delle massime della Suprema Corte non riesce a reperire se non due sole sentenze (su casi del tutto peculiari) e delle quali si dirà nel prosieguo che affermano l’insussistenza del reato associativo “a favore” dell’ipotesi della continuazione. Insomma: quasi tutte le volte che ci si imbatte in una massima che ripete la stanca litania del criterio delimitativo tra le due figure (indeterminatezza del programma delittuoso, organizzazione, ancorché “rudimentale”, destinata a sopravvivere anche oltre la commissione dei reati-fine = art. 416 c.p.; accordo, pur se strutturato, destinato a cessare dopo la commissione  dei delitti programmati nell’ambito del “medesimo disegno criminoso” = art. 81, comma 2 c.p.), ben difficilmente si riesce poi a comprenderne appieno l’utilizzazione in funzione della soluzione della singola vicenda processuale.

Basti pensare che la stessa Suprema Corte si premura di precisare che può configurarsi associazione per delinquere anche se il sodalizio è finalizzato alla commissione, non di un numero indeterminato, ma anche di un numero previamente determinato di delitti (ma allora dove sta il confine con il concorso di persone nel reato continuato?). Non solo, ma spesso (e qui per vero a “peccare” è per lo più la giurisprudenza di merito) nella prassi applicativa si confonde l’estremo organizzativo, caratteristica strutturale implicita, ma essenziale del delitto associativo, con l’aggravante dell’organizzazione/direzione dell’opera dei concorrenti contemplata, come aggravante, nell’art. 112, n. 2) c.p.

Vero è che proprio l’indeterminatezza della fattispecie associativa, in unione con l’indeterminatezza della condotta di partecipazione costituisce formidabile terreno di coltura dei batteri di cui si alimenta il diritto penale giurisprudenziale. Come dimostrano le vicende del c.d. “concorso esterno” che – com’è noto – si sono arricchite di un nuovo capitolo con l’invio della questione della sua configurabilità, proprio in relazione all’associazione comune, alle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., Sez. I, 3/05/2016, Addeo), clamorosamente rispedita al mittente con delibera del Primo Presidente della Corte.

  1. In questo contesto si inserisce anche la problematica, che si presenta sempre più frequentemente nella prassi applicativa, della configurabilità del reato associativo, quando siano commessi una pluralità di delitti nell’esercizio di una attività imprenditoriale lecita .

Gli orientamenti giurisprudenziali, infatti, sono sufficientemente attestati su una posizione francamente non condivisibile, nonostante qualche “apertura” di sentenze rese su vicende giudiziarie del tutto peculiari; ma i cui principi giuridici potrebbero essere adeguatamente ripresi e “generalizzati”.

Secondo indirizzi assai consolidati non necessariamente la struttura idonea a perseguire i reati-fine deve essere creata ad hoc, ma può anche consistere nell’ “adattamento” a finalità delittuose di una preesistente organizzazione lecita (come, ad esempio, quella tipica di una società di capitali) (v. ad esempio: Cass., Sez. I, 3.10.1989, n. 134, Pintacuda, rv. 182999). Cosicché la commissione di una pluralità di delitti, “supportata”, vorrei dire inevitabilmente, dai meccanismi organizzativi tipici dell’impresa societaria integrerebbe pienamente gli estremi dell’associazione per delinquere.

Per vero – come si diceva – è rintracciabile anche qualche decisione, la quale richiede che alla struttura societaria lecita si sovrapponga una “autonoma” struttura dedita alla commissione di delitti. Anche se le vicende dei casi concreti cui si riferiscono sono – come si diceva – del tutto peculiari.

La prima sentenza (Cass., Sez. VI, 8.08.1997, n. 1329) si riferisce al noto caso di Scientology, alla quale viene riconosciuta la natura di confessione religiosa con la conseguente implicazione che sarebbe configurabile come associazione per delinquere solo nel caso in cui vi fosse una sorta di mutamento genetico determinato da una dedizione al delitto da parte dei proprio seguaci (il che viene escluso nel caso concreto).

La seconda sentenza (Cass., Sez. VI, 30.01.2013, n. 34489) riguarda invece le vicende di alcuni funzionari dell’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Milano che non furono ritenuti responsabili di associazione per delinquere, mancando la prova della creazione di un autonomo organismo associato destinato in via permanente ad attività delinquenziali, né che la comune struttura di appartenenza (Uffici di Polizia Giudiziaria Questura Milano) fosse stata piegata a finalità delinquenziali.

Entrambe le sentenze, ed in particolare l’ultima, sembrano riprendere il principio stabilito dalla Seconda Sezione della stessa Suprema Corte di Cassazione (n. 5838 del 9 febbraio 1995, Avanzini ed altri rv. 201516) secondo la quale non può configurarsi l’associazione se manca la prova del collegamento tra i fatti illeciti e le “linee guida” dell’organizzazione stessa.

Rimane un dubbio di fondo: come è possibile che “delitti di impresa” (perché solo questo è il caso problematico) possano essere commessi da una struttura sovrapposta a quella dei “responsabili” della politica di impresa?

E ancora: se la struttura organizzativa tipica della fattispecie associativa ha da essere destinata a protrarsi anche oltre la commissione dei delitti fine e se è connaturata alla attività imprenditoriale la vocazione a “durare” anche oltre i limiti temporali delle singole condotte che ne costituiscono esecuzione; come possono ancora “funzionare” i classici criteri di delimitazione tra delitto associativo e concorso di persone nel reato continuato, anche a voler considerare i principi espressi nelle sentenze “favorevoli” che abbiamo appena ricordato?

Se, ad esempio, i dirigenti in un’impresa societaria, per superare un momento di crisi, decidono di abbattere i costi di alcuni periodi di imposta, ricorrendo a fatture per operazioni inesistenti, davvero dovranno ritenersi integrati gli estremi della associazione per delinquere, per il solo fatto che ciò presuppone un accordo con i dirigenti della società emittente la falsa fattura?

E dovranno rispondere di associazione per delinquere i dirigenti di una società che fabbrica e commercializza automobili, mette in circolazione vetture che non corrispondono alle caratteristiche di conformità anti inquinamento degli scarichi falsamente dichiarate ai consumatori, per il solo fatto che si avvalgono “naturalmente” della struttura imprenditoriale lecitamente finalizzata alla produzione e vendita?

  1. Per risolvere correttamente il problema è necessario fissare alcuni punti fermi, anche previa ricognizione di dati normativi “sparsi” nel sistema che possono essere adeguatamente valorizzati. Operazione di alta chirurgia ricostruttiva che però vale la pena prospettare.

Una costatazione banale, ma fondamentale, da cui muovere: l’associazione per delinquere è delitto contro l’ordine pubblico, categoria cara ai compilatori del codice Rocco, un po’ meno ai padri costituenti.

Una nozione di ordine pubblico costituzionalmente accettabile, – come già ho evidenziato –  non può che connotarsi in senso materiale di sicurezza pubblica, compromessa dall’insediamento nel territorio di organizzazioni dedite alla commissione di delitti, poiché ne consegue l’accrescimento del pericolo di un numero potenzialmente indeterminato di delitti.

Già in base a questa semplice considerazione dovrebbe convenirsi che l’attuale dilatazione della portata applicativa dell’art. 416 c.p. non trova alcun fondamento nella configurazione tipica della fattispecie forgiata al fuoco dell’oggettività giuridica che ne costituisce l’anima. Anima che in un sistema a legalità formale dovrebbe essere di acciaio inossidabile e che nella prassi ha assunto invece la consistenza dell’argilla modellata a seconda delle contingenti finalità di politica criminale giudiziaria che si intendono perseguire.

Seconda osservazione. L’art. 16 del d.lgs. 231 del 2001, contiene due previsioni di estremo interesse. Dopo avere stabilito nel primo comma che l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività “può” essere discrezionalmente disposta se l’ente ha tratto dall’illecito un profilo di rilevante entità ed è già stata condannata negli ultimi sette anni per almeno tre volte all’interdizione temporanea dall’esercizio dell’attività; nel terzo comma contempla la indefettibile sanzione della definitiva interdizione dall’esercizio dell’attività  “se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità”.

Se ne può fondatamente dedurre che il sistema (complessivamente considerato) distingue e tratta diversamente le ipotesi di “criminalità societaria” a seconda che la struttura organizzativa imprenditoriale si connoti per una sua vocazione esclusiva (o semi-esclusiva) alla commissione di illeciti penali oppure venga per così dire a tali fini “piegata”, ancorché ripetutamente e con una frequenza non certo sporadica.

E ciò vale anche ai fini di individuare le caratteristiche connotative di una associazione per delinquere, allorché la trama organizzativa coincida con la struttura imprenditoriale allestita per finalità “istituzionali lecite”.

Quindi, solo allorché si possa fondatamente ritenere che l’impresa societaria “lecita” abbia per così dire subito una degenerazione dei suoi connotati istituzionali  che non la identificano più nella realtà socio-economica come “società commerciale”, ma come organismo dedito alla commissione di delitti caratteristici della criminalità del profitto, potrà configurarsi nei confronti di “tre o più” soggetti cui si deve la trasformazione genetica della compagine sociale, il delitto di associazione per delinquere.

Lo stesso, e a maggior ragione, è a dirsi allorché la forma “societaria” non sia che lo schermo di un’impresa ab origine “illecita”.

Ancora una notazione critica sugli orientamenti giurisprudenziali in materia. Di solito, ancorché gli “associati” tengano condotte perfettamente in linea con le attribuzioni loro proprie alla stregua dell’organigramma societario, si sentono tutti quanti attribuire la qualifica di promotori (o di organizzatori). Emblematico il caso di una società esercente il commercio di auto nuove ed usate alcune delle quali (in percentuale minima rispetto al totale delle vetture usate rivendute), prima di essere di nuovo immesse sul mercato, venivano fatte oggetto di un trattamento di “ringiovanimento” che comprendeva anche un intervento dell’abbassamento del chilometraggio attestato nel relativo “contachilometri”.

Ebbene, ai tre soci che ricoprivano anche ruoli operativi, è stata riconosciuta la qualifica di “promotori”/“organizzatori” di una associazione dedita alla truffa.

Orbene, a prescindere dalla circostanza che qui non ricorrono i connotati che consentono, in base a quanto siamo andati fino ad ora sostenendo, di ritenere integrata la fattispecie associativa, perché mai imputare la condotta di promozione/organizzazione?

Se le condotte di ciascuno sono né più né meno quelle “tipiche” dell’esercizio imprenditoriale lecito (acquisizione/valutazione dell’usato ritirato in parziale permuta del nuovo, “risistemazione” dell’usato ritirato su parte del quale si “abbassa il chilometraggio”; rivendita dell’usato così ricondizionato assieme a quello con chilometraggio “reale”) dov’è l’attività di costituzione ed organizzazione? A meno che non si confonda la funzione di organizzazione dell’associazione con la promozione/direzione/organizzazione dell’attività dei concorrenti che è tutt’altra cosa (art. 112, n. 2) c.p.).

  1. Due considerazioni finali con riguardo ad ipotesi di frequente riconoscimento dell’ipotesi associativa in relazione a fatti commessi nell’ambito di attività imprenditoriale di per sé lecita: l’utilizzazione “continuata” di fatture per operazioni inesistenti; il contrabbando “continuato” di prodotti petroliferi.

Si tratta a mio modo di vedere di ipotesi problematiche perché tanto l’utilizzazione di false fatture (che presuppone l’accordo con l’emittente) che il ricorso all’importazione di prodotti petroliferi senza il pagamento delle accise (o con pagamento di importi inferiori a quelli corretti) presuppongono, nella fenomenologia socio-criminale corrispondente, la partecipazione di una pluralità di soggetti e un minimo di strutturazione “organizzativa” dell’attività.

Non solo ma, nonostante che la giurisprudenza ragioni in termini esattamente rovesciati, il legislatore mostra di averne tenuto conto, sia quando ha escluso la punibilità del concorso c.d. “incrociato” tra chi emette (e concorre ad emettere) e chi utilizza (e chi concorre ad utilizzare) false fatture (art. 9 d. lgs. n. 74 del 2000); sia quando, nel sottosistema dei delitti di contrabbando, ha voluto incriminare espressamente l’associazione dedita al traffico illecito di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. n. 473 del 1973). Che conclusioni se ne possono trarre?

Per quanto concerne l’esclusione della punibilità del concorso reciproco tra emittente ed utilizzatore delle false fatture e che esplicitamente si estende anche ai rispettivi concorrenti nell’emissione e/o utilizzazione, non ci si può certo limitare a coglierne la ratio nella semplice volontà di non punire più volte un soggetto per il medesimo fatto, come fa la giurisprudenza, senza neanche domandarsi perché. Quasi che il legislatore penal-tributario, còlto da un raptus di benevolenza, abbia voluto creare una eccezionale deroga alla regola dell’art. 110 c.p. Quando si afferma che non si intende punire “due volte per lo stesso fatto” si dice solo una mezza verità, perché non se ne approfondiscono le ragioni fondative.

Esse sono da rintracciarsi nelle regole logico-razionali che presiedono l’attività di tipicizzazione dei comportamenti che il legislatore ha il dovere costituzionale (principio di tassatività/determinatezza, materialità, ragionevolezza) di forgiare e valutare (attraverso la comminatoria edittale) così come (con le caratteristiche fattuali con le quali) si presentano nella realtà sociale, secondo l’id quod plerumque accidit (nella maggior parte dei casi).

Cosicché la previsione della Direttiva PIF (Direttiva UE 2017/1371) che contempla l’abrogazione della norma sulla non punibilità del “concorso incrociato” risulta in palese contrasto con i principi fondativi, anche costituzionali, del nostro sistema penale e quindi si scontra con il muro dei “controlimiti” con conseguente dovere di disapplicazione da parte del Giudice domestico.

Orbene, è del tutto ovvio che, nella realtà sociale, i fenomeni della utilizzazione ed emissione di fatture false sono solitamente complementari e presuppongono un accordo, supportato dalle strutture organizzative dell’impresa emittente e di quella utilizzatrice. Cosicché si deve ragionevolmente ritenere che il legislatore, nel misurare il disvalore dei fatti di ciascuna delle due fasi complementari (emissione/utilizzazione) abbia già considerato anche la quota da attribuirsi all’attività di “collaborazione” alla realizzazione del delitto “complementare”. Come pure abbia già tenuto conto che la fenomenologia criminale in questione è, nei fatti, “necessariamente plurisoggettiva” e non può che essere “sostenuta” da una “sia pur rudimentale” struttura organizzativa. Con il che si determina una incompatibilità logica tra questa tipologia di delitti e l’associazione per delinquere finalizzata alla loro realizzazione. A meno che – naturalmente – non ci si trovi in presenza di imprese dedite prevalentemente o esclusivamente alla “produzione” di false fatture e/o ad imprese che svolgono attività finalizzata esclusivamente o prevalentemente all’ottenimento di indebiti rimborsi mediante l’utilizzo di false fatture. Imprese, dunque, che in realtà non svolgono alcuna attività lecita ma sono solo schermi, costruzioni cartacee tesi a nascondere un’attività intrinsecamente delittuosa.

Anche muovendo da questo specifico dato normativo, che non costituisce dunque una “eccezione” alla “regola” della punibilità del concorso di persone, ma risponde ad un più generale principio fondativo del diritto penale liberal-democratico, possono trovare conferma le conclusioni che mi sono permesso di avanzare in questo breve scritto.

Venendo poi all’ipotesi della associazione a fini di contrabbando si possono svolgere le seguenti considerazioni.

Certamente non può tout court ritenersi che una simile previsione inibisca la configurabilità dell’associazione finalizzata ad un qualsiasi altro delitto fiscale. Ma quando si tratta di delitti fiscali, la cui concreta realizzazione, secondo quanto emerge dalla esperienza socio-criminale, richiede la predisposizione di una idonea struttura organizzativa (e a maggior ragione quando venga “sfruttata” la intelaiatura tipica dell’assetto societario) ritengo si possa fondatamente escludere la compatibilità della realizzazione plurisoggettiva continuativa di simili figure delittuose con l’associazione per delinquere.

Proprio perché il legislatore non può non aver tenuto conto nello stabilire i limiti edittali, della sottostante fenomenologia concreta. È il caso, ad esempio, del contrabbando di notevoli quantitativi di prodotti petroliferi. A ben diversa conclusione si dovrebbe invece pervenire, ancora una volta, in caso di impresa societaria dedita esclusivamente o prevalentemente al contrabbando. E la specifica previsione del delitto di associazione finalizzata all’illecita importazione di tabacchi lavorati esteri costituisce a mio parere una conferma del ragionamento che sono andato sviluppando.

Deve infatti ritenersi dato incontestabile dell’esperienza socio-criminale che il contrabbando di tabacchi lavorati esteri è appannaggio di pericolose organizzazioni criminali, spesso di carattere trans-nazionale e assolutamente sporadici sono i casi che coinvolgono imprese “lecite”.

Non pare dunque insensato concludere per una tendenziale incompatibilità tra figure associative e commissione di illeciti penali nell’ambito dell’attività di struttura imprenditoriale organizzata in forma societaria che svolgano, in via assolutamente prevalente, attività economica di per sé lecita.

  1. Non posso però infine esimermi da qualche considerazione sullo scottante tema del concorso c.d. “esterno” (rectius eventuale, ma già il ricorso ad una diversa qualificazione è sintomatico di “qualcosa che non va”) in associazione di stampo mafioso che la Corte EDU nella nota sentenza Contrada contro Italia (14 aprile 2015), ha ritenuto di creazione giurisprudenziale e inapplicabile retroattivamente (ovvero prima del consolidamento dell’indirizzo giurisprudenziale che l’ha appunto creata). E ciò sulla base del principio euro-unitario della prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

Normalmente si obietta che in realtà la norma legislativa esisterebbe e deriverebbe dalla “normale” combinazione tra la norma di parte speciale (art. 416-bis c.p.) e la norma generale sul concorso di persone (art. 110 c.p.).

Né più né meno come effetto estensivo della “tipicità” che si produce in forza dell’art. 110 c.p.

Ma l’unione di una fattispecie a costruzione legislativa socio criminologica, quanto mai “gelatinosa”, come quella contemplata dall’art. 416-bis con una norma che costituisce il prototipo dell’indeterminatezza come l’art. 110 c.p. (Ronco, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, p.287 segg.) non può avere diritto di cittadinanza in un sistema penale costituzionalmente orientato poiché le “figure “  di “concorrenti esterni”, più che le condotte di “concorso eventuale” sono tutte, dicasi tutte,  di elaborazione giurisprudenziale: il medico che cura il “mafioso”, il prete che gli dà l’assoluzione, il “postino” che occasionalmente trasmette messaggi, il salumiere che porta da mangiare al mafioso latitante, finanche l’avvocato troppo zelante (tutti esempi di fantasia)  e chi più ne ha più ne metta. Tutti “tipi di autore “che presentano le stimmate socio – criminologiche del concorrente esterno secondo insindacabili giudizi di (dis)valore. Non solo, ma mentre secondo gli schemi classici del concorso la condotta di partecipazione, pur non potendo esaurirsi nell’accedere alla condotta tipica della fattispecie plurisoggettiva necessaria (secondo la teoria della accessorietà) deve contribuire quanto meno alla agevolazione dei comportamenti sussunti nella fattispecie di parte speciale. Qui la sintassi e forse anche la grammatica penalistica vengono sconvolte, perché il riferimento al fatto tipico del comportamento partecipativo eventuale si perde nei meandri della costruzione della fattispecie associativa in forma descrittiva del fenomeno identificato in un agglomerato organizzativo caratterizzato dallo sfruttamento delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla forza intimidativa propria della consorteria. Ed allora “a che cosa” dovrebbe dare un contributo “atipico” il concorrente esterno?

Quanto tali figure/pseudo-condotte si concretizzino in comportamenti dotati di concreta carica offensiva e quindi con il principio di offensività, in un contesto dove già la determinatezza è sacrificata, davvero non è dato comprendere.  Come non è dato comprendere (ma questo riguarda un problema che attiene a tutti i reati plurisoggettivi necessari per i quali possa ipotizzarsi un concorso eventuale) perché mai il concorrente esterno dovrebbe essere assoggettato alla medesima pena dell’intraneo come vorrebbe la rigida regola dell’artt. 110 c.p. Un tale esito è conforme al principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio tanto caro alla Corte Costituzionale?

Mi pare che i profili di incostituzionalità di una norma che si pretende di ricavare dal combinato disposto degli artt. 416-bis e 110 c.p. siano più d’uno e forse bisognerebbe cominciare a farne oggetto formale di eccezioni di costituzionalità. Anche a costo di vedercele respingere, anche a costo di essere tacciati di essere “contigui alla mafia”. Ma ormai ci siamo abituati (anche se non rassegnati) e certo non ci spaventeremo.

 

*Già Prof. Ord. di Diritto penale nell’Università di Firenze Componente del Direttivo del Centro Marongiu dell’UCPI

Torna in alto