di Roberto Capra* –
Il confronto sulla riforma comunemente chiamata “separazione delle carriere” vede, ormai da tempo, radicalizzarsi due fazioni, ognuna convinta della bontà delle proprie argomentazioni.
Una riforma di natura costituzionale, destinata per ciò solo a incidere sugli assetti ordinamentali dello Stato e sull’equilibrio dei Poteri può essere osservata, giustificata o avversata, da più di un punto di vista. Il piano del confronto, dell’equilibrio o, meglio, del riequilibrio tra i Poteri dello Stato è quello che sembra agitare ANM e Politica ed è, ovviamente, da tenere nella massima considerazione.
Ve ne è però un altro, a mio avviso parimenti necessario, che dimostra come l’esigenza di questa riforma provenga dal “basso”, così come ha efficacemente sintetizzato, in un recente intervento, il professor Ennio Amodio[1].
Dal “basso” non in una scala di valori, ma esclusivamente in una distinzione tra piano “alto” e, dunque, relativo all’architettura costituzionale dei Poteri dello Stato e un piano diverso, e quindi, solo per alternativa, definibile “basso”, in tal modo indicando la sfera di applicazione diretta per il cittadino coinvolto in un processo penale.
Ed è il piano “basso” sul quale provare a proporre alcune considerazioni, per offrire spunti di riflessione sul tema, evidenziando come l’appartenenza di giudice e pubblico ministero al medesimo Ordine abbia determinato, progressivamente, lo stravolgimento di alcuni istituti processuali, mettendo seriamente a repentaglio la tenuta del processo accusatorio.
Il nostro Legislatore, come noto, con un gestazione durata alcuni decenni, ha individuato nel rito accusatorio lo strumento processuale migliore per arrivare alla migliore verità possibile, attraverso, in estrema sintesi, il contraddittorio nella formazione della prova.
Si è ritenuto, dunque, che il prodotto di un confronto tra le parti sia migliore del prodotto dell’accertamento lasciato ad una parte soltanto. L’esame incrociato nelle prove dichiarative, ma non solo, assicura a chi deve giudicare un risultato più attendibile. L’art. 111 della nostra Carta dà copertura costituzionale a tutto questo.
Pur non essendo unanimemente condiviso, occorrerebbe mettersi il cuore in pace e accettarlo. Le critiche, come sappiamo, non sono mancate e non mancano, dalle sentenze della Corte Costituzionale del 1992 sino a quanto si ha modo di assistere nei processi di tutti i giorni.
Le resistenze maggiori arrivano da parte della magistratura e la ragione, credendo di non sbagliare, deve individuarsi nella permeabilità degli orientamenti culturali tra pubblico ministero e giudice.
L’anomala vicinanza tra le due figure processuali ha determinato, infatti, la conservazione nel giudice, sebbene non più inquisitore, di una cultura che possiamo definire “statalpunitiva”, la medesima che appartiene al pubblico ministero, ma che ne condiziona le categorie di pensiero e, dunque, le correlate decisioni.
Anche a sua insaputa, anche in buona fede.
È così che si è assistito e si assiste all’orientamento di gran parte dei giudicanti che vedono il processo come un percorso, nei fatti troppo lungo e troppo complicato, per porre il sigillo dell’infallibilità alle scelte operate dal “collega di pensiero” pubblico ministero e comunque per poter esercitare la funzione punitiva che lo Stato assegna loro.
Non sono queste osservazioni solo dalla portata generale ovvero astratta, anche se gli orientamenti culturali recano in sé profili di condizionamento generale delle umane condotte che poi ritroviamo, ad esempio, nelle scelte di appiattimento decisionale che siamo soliti vedere in sede cautelare. Non sono osservazioni vaghe o teoriche, perché, come avremo modo di osservare a breve, la trasmigrazione e la permeabilità della cultura accusatoria dal pubblico ministero al giudice si è manifestata e si manifesta nell’interpretazione sia di alcuni dei principi cardine del rito sia di alcuni istituti processuali.
La convinzione che sta alla base di questo orientamento, radicato a tutti i livelli della giurisdizione e, soprattutto, in sede di legittimità, è determinata dall’idea che, in fondo, gli istituti processuali siano un limite spesso inaccettabile per l’accertamento della vera verità e che, dunque, in ragione di un obiettivo più importante, possano essere stravolti o quantomeno interpretati in modo difforme rispetto alla volontà del Legislatore del 1989.
Il principio, frutto della cultura statalpunitiva, che ammanta l’interpretazione di diversi istituti processuali è, come messo in evidenza di recente in un interessante articolo, quello della non dispersione della prova[2]. È un principio che parte della magistratura ritiene dover informare il processo penale, ma che, invece, non si ritrova né nella Carta costituzionale né nelle regole fondanti il rito accusatorio.
Non è che non ci si possa confrontare sul punto essendo comprensibile perché la magistratura giudicante, in larga parte, lo ponga come principio orientatore della propria azione, ma tale profilo nasce, a nostro avviso, dalla convinzione che il processo accusatorio e il suo cuore pulsante, vale a dire il contraddittorio nella formazione della prova, non siano effettivamente lo strumento migliore per l’accertamento di un fatto e delle correlate responsabilità, il tutto ammantato, come detto, dal condizionamento delle categorie del pensiero che la cultura statalpunitiva determina in chi è chiamato a giudicare.
Le regole del rito accusatorio puro, con il principio dispositivo in testa, possono, talora, portare a pronunce che comunemente potrebbero definirsi “ingiuste”, perché viene lasciata alle parti la gestione della prova e l’errore sul punto, sia dell’accusa che della difesa, può anche determinare una sentenza non convincente rispetto al fatto storico avvenuto.
Certo che, se poste a confronto con le regole del rito inquisitorio, laddove sostanzialmente la difesa è pretermessa dalla formazione della prova, il rischio di errore è davvero contenuto.
In ogni caso, in qualunque sistema processuale, è fisiologico che vi siano pronunce non corrette rispetto al fatto storico, ma si tratta di ridurre il più possibile tali, inevitabili, situazioni critiche e, in ogni caso, i ragionamenti di sistema devono operare sui grandi numeri e non sul singolo caso.
Si deve allora tornare al confronto tra rito accusatorio e rito inquisitorio ed alla scelta, mai digerita realmente da gran parte della magistratura, che il Legislatore, anche costituzionale, ha scientemente operato. La magistratura, soprattutto quella giudicante, si deve arrendere al Legislatore, perché ne va dell’equilibrio tra i Poteri dello Stato da un lato e, dall’altro, della tenuta del rito accusatorio.
Nel gioco dei numeri delle decisioni corrette a confronto con quelle non corrette, gioco peraltro di sciaradica soluzione, il contraddittorio nella formazione della prova, questo sì principio che trova nella Carta Costituzionale spazio e tutela, garantisce risultati migliori e, nei fatti, più accettabili.
Le resistenze che l’orientamento culturale della magistratura giudicante ha manifestato da subito e che, peraltro, nei fatti, continua a manifestare, hanno portato allo stravolgimento di alcuni istituti processuali, non raramente interpretati addirittura contro il significato semantico delle parole usate dal Legislatore per definirne contorni e contenuti.
È anche da qui che si è determinato l’imbastardimento del nostro rito accusatorio, minandone alcuni aspetti fondamentali e, conseguentemente, pregiudicandone i risultati complessivamente intesi[3]. E’ questa la strada che parte della magistratura ha voluto seguire per contrastare il rito accusatorio ovvero per disegnare un rito diverso rispetto a quello disegnato dal Legislatore e più vicino a categorie di pensiero giuridico inquisitorie.
Ma vediamo, senza alcuna pretesa di esaustività e più a titolo esemplificativo, alcuni istituti interpretati, negli anni, in senso distonico rispetto alla voluntas legis ed esclusivamente in ragione dell’orientamento “statalpunitivo” dei giudicanti.
L’art. 468 c.p.p. prevede esplicitamente che le parti che intendano chiedere l’esame dei testimoni o di altri dichiaranti debbano farlo con la presentazione della lista almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, con l’indicazione esplicita delle circostanze sulle quali deve vertere l’esame. La ratio della norma è semplice: il giudice per valutarne l’ammissione e le altre parti per calibrare il controesame nonché per poter esercitare il diritto di indicare prove a contrario devono conoscere in anticipo i nominativi dei testimoni e i temi specifici sui quali verterà la loro escussione.
È uno degli aspetti processuali che concorre a disegnare i contorni dell’esame incrociato, espressione principe del contraddittorio nella formazione della prova e, dunque, passaggio cardine del nostro ordinamento processuale.
Nel tempo si è, invece, radicata una giurisprudenza che ha sostanzialmente posto nel nulla sia il termine per la presentazione della lista testimoniale sia la necessità di indicare le circostanze sulle quali un teste verrà esaminato. La ragione, come insegna l’esperienza di tutti i giorni nelle aule, è ascrivibile alle dimenticanze dei pubblici ministeri ovvero alla sciatteria nelle indicazioni dei temi sui quali dovrà vertere l’esame. Gli esempi non mancano, se solo si pone mente ad alcuni orientamenti che consentono legittima l’indicazione di circostanze quali: “sul capo di imputazione”, “su quant’altro utile”, ovvero ancora “sulle sit rese in data…”.
Non solo, ma, come altrettanto noto, la regola che impone un termine per la lista testimoniale deve essere letto di concerto con il disposto dell’art. 507 c.p.p., atteso che, non raramente, il mancato rispetto di esso ovvero addirittura il mancato deposito della lista testimoniale stessa vengono recuperati attraverso l’istituto dell’ammissione di “nuove prove”, così come regolato dalla citata e controversa norma.
E dire che le parole utilizzate dal Legislatore per delineare l’istituto del “507” rimandano a profili di chiarezza cristallina. “Terminata l’acquisizione delle prove” il giudice può disporre “nuovi mezzi di prove” laddove risulti assolutamente necessario per decidere.
Sui profili ermeneutici dei “nuovi mezzi di prove” si è confrontata la giurisprudenza, anche di legittimità, arrivando ad interpretare la dizione normativa non nel senso che il quid di novità preteso per aprire le porte all’istituto debba individuarsi nell’eventuale esito dello sviluppo dibattimentale, bensì che siano acquisibili, per volontà del giudice e superando il principio dispositivo, tutte le prove indistintamente, anche quelle ben note alle parti già in sede di indagini preliminari[4].
E’ evidente, nell’interpretazione che di questi istituti si è voluta dare nel tempo, che i giudici ritengano tutto sommato superflui gli sbarramenti e le regole processuali, al contrario funzionali alla tenuta del rito accusatorio. L’esame incrociato di un teste può essere efficace se il controesaminatore sa su quali circostanze verterà l’esame e sia in rado di preparare adeguate linee di domande che rappresentino un’efficace prova di resistenza e di verifica di quanto emergerà nel corso dell’esame diretto. Se le circostanze non sono note perché tollerate nella loro inutile genericità, si preparerà un controesame inevitabilmente approssimativo, con un risultato di apporto di conoscenza per il giudice inferiore e che dovrebbe preoccupare innanzitutto quest’ultimo, che, invece, ignaro dei suoi stessi percorsi culturali, non si pone neppure tale tipo di problema.
Questi passaggi interpretativi, ormai solidamente radicati, nascono dalla cultura che permea la magistratura in ordine alle perplessità sul rito accusatorio come strumento migliore per arrivare alla migliore verità possibile. Ed è una cultura propria della magistratura nel suo complesso, trasmigrabile indifferentemente da pubblico ministero a giudice e da giudice a pubblico ministero. In realtà, l’errore sotteso a questo tipo di impostazione si annida nella svalorizzazione del ruolo di strumento cardine nell’apporto di conoscenza che può e deve essere assegnato al difensore. Nel rito accusatorio, infatti, i controesaminatori devono diventare utili strumenti di conoscenza per il giudice attraverso il ruolo assegnato loro in un processo di parti e nel contraddittorio nella formazione della prova.
Il giudice dovrebbe garantire che i messaggi di conoscenza arrivino attraverso il contraddittorio garantito da regole processuali salde, perché saranno messaggi di conoscenza migliori, più completi e filtrati attraverso la necessaria prova di resistenza rappresentata dall’agire di una parte fondamentale nel processo di accertamento.
E’, dunque, come già accennato, proprio alla radice culturale che permea i giudicanti che occorre andare per comprendere quanto sia fuorviato il loro operare in ragione della vicinanza e prossimità di pensiero con il pubblico ministero.
La norma più disattesa del nostro ordinamento processuale è, per distacco, il secondo comma dell’art. 506 c.p.p..
È una norma cardine di ogni rito accusatorio. Il giudice assume la veste di un vigile muto durante esame, controesame e riesame di un testimone e, poi, soltanto al termine della corretta escussione, può rivolgere le domande ritenute opportune ad integrazione di quanto già ottenuto in termini di conoscenza.
La mancanza di cultura dell’esame incrociato che si manifesta in tutta la sua gravità nelle scelte interventistiche del giudice, scelte che, con frequenza inaudita, si manifestano ben prima del serio e preciso limite cronoprocessuale previsto dalla norma. Il giudice interviene durante l’esame o il controesame delle parti perché non ha alcuna cultura del rito accusatorio, non crede realmente che l’apporto di conoscenza migliore derivi dalle prove di resistenza su una determinata circostanza e non sa che le domande che pone chi governa l’udienza rischiano di pregiudicare la genuinità delle risposte. Non raramente, infatti, l’impostazione delle domande provenienti da chi è immediatamente individuato da chiunque in un’aula come il signore del processo e, dunque, anche dal testimone tremebondo, seduto controvoglia a pochi centimetri dal timoroso scranno, hanno l’obiettivo della conferma dell’ipotesi accusatoria, rischiando di sfociare in suggestioni che minano alla radice l’attendibilità del narrato e sulle quali le risorse difensive hanno comunque scarsa possibilità di incidere.
Perché il giudice si comporta così? Non conosce l’art. 506 c.p.p.? Non crediamo proprio. La risposta a quesiti che addebitano a chi giudica responsabilità sulla declinazione in concreto del rito accusatorio non può che ritrovarsi nell’identità di pensiero, nei fatti inquisitorio, che lo lega al pubblico accusatore e che, anche in questo caso, si fonda sulla radicata, anche se non sempre consapevole, convinzione che le regole del rito possano essere scavalcate perché orpelli che pongono soltanto ostacoli all’accertamento di una presunta verità, quella verità già prospettata in pectore nel capo di imputazione formulato dal suo collega di cultura.
Altro istituto che mortifica ogni giorno il rito accusatorio e la sua funzione di strumento di conoscenza migliore, deve individuarsi nelle cosiddette “contestazioni” di cui all’art. 500 c.p.p.. La norma, in vero già di per sé delicata perché consente in qualche modo l’ingresso nel dibattimento di dichiarazioni rese in una fase diversa, è stata, nel tempo e nell’applicazione pratica, sostanzialmente stravolta nel suo significato.
Il disposto del secondo comma dell’art. 500 c.p.p. segna, a nostro avviso, il vero valore processuale da attribuirsi alle dichiarazioni rese in precedenza, non nel contraddittorio, e che una parte ha inteso “contestare”: “Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”.
L’indicazione del Legislatore è chiara: quando si effettua una contestazione, vale a dire quando il teste aveva detto “bianco” e a dibattimento dice “nero”, se ne può tenere conto ai fini della valutazione della complessiva credibilità del testimone.
La prassi è, in vero, tutt’affatto differente. Di fronte alla discrasia delle dichiarazioni, infatti, è quasi sempre il giudice a porre la ferale domanda di chiusura al teste: “quello che aveva detto allora, in quella dichiarazioni resa nelle immediatezze del fatto, è la verità?”
Un giudice realmente terzo, non ammantato della cultura statalapunitiva, non dovrebbe fare altro che prendere atto di trovarsi di fronte a un testimone processualmente inaffidabile e trarne le dovute conseguenze, non certo ricercare a tutti i costi la conferma dell’ipotesi accusatoria. Questo perché l’apporto di conoscenza di una dichiarazione non resa nel contraddittorio delle parti è inferiore a quella resa invece nel contraddittorio. E’ l’essenza del rito accusatorio, continuamente stravolto da una cultura di contiguità tra giudice e pubblico ministero.
Altro tema paradigmatico del condizionamento culturale del giudice lo si individua nel criterio di valutazione della credibilità frazionata delle dichiarazioni di un imputato in un reato connesso o probatoriamente collegato.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha elaborato convinzioni finalizzate a conservare portati dichiarativi anche di fronte a palesi e accertate affermazioni menzognere di un soggetto chiamato, al contrario, a dire il vero. Si salvano parti delle dichiarazioni giustificando le menzogne in ragione di uno specifico interesse a mentire[5].
Non passa la linea: “so che hai certamente mentito su A e allora sei un teste inaffidabile e processualmente non credibile”, ma la più sottile e indifendibile convinzione: “so che hai mentito su A, ma ti riconosco che avevi una ragione di interesse personale per farlo, ma su B e C puoi aver detto tranquillamente il vero”. Vi è un solo limite, di difficilissima interpretazione ed applicazione pratica: non vi deve essere interferenza logico-fattuale tra le dichiarazioni palesemente inveritiere e quelle che si assumono veritiere, perché, altrimenti, non si potrà superare il dubbio sulla credibilità processuale del dichiarante.
E così, grazie ad una complicata interpretazione proposta dai giudicanti in forza della ricorrente cultura statalpunitiva, si hanno analisi minuziose e certosine dei profili di interferenza fattuale e logica tra le diverse dichiarazioni, con buona pace dei principi, più semplici, in ordine alla verifica processuale della (in)credibilità processuale del dichiarante menzognero.
E’ sotto gli occhi di tutti come queste interpretazioni derivino dalla rincorsa dei giudici a cercare conferme dell’ipotesi accusatoria, in posizione realmente asincrona rispetto al ruolo che assegna loro il processo accusatorio.
L’esegesi, stratificatasi nel tempo, del principio della necessaria correlazione tra imputazione contestata e sentenza appare quale ennesima conferma di come, nel concreto, la vicinanza culturale tra giudice e pubblico ministero orienti l’esito dell’attività ermeneutica di istituti cardine del processo, condizionando poi, in concreto, le decisioni.
La contestazione è il perimetro e il limite dello spazio nel quale l’imputato si deve difendere, oltre non può e non deve andare. E’ questo uno dei principi cardine del nostro Ordinamento, espressione di quel diritto liberale che dovrebbe informare il nostro rito e la sua declinazione pratica.
Il pubblico ministero formula l’imputazione, ma gli è consentito, poi, aggiustarla, modificarla e verificarla durante tutto il dibattimento. O meglio dovrebbe poterla modificare, secondo il disposto degli articoli 516 e 517 c.p.p., “se nel corso dell’istruzione dibattimentale” il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero se sia emerso un reato connesso o ancora una circostanza aggravante.
La ratio dell’indicazione del termine della modifica è chiara: la Difesa deve potersi preparare e portare prove a contrario su un perimetro di imputazione ben chiaro, negli equilibri di economia processuale è consentito allargare questo perimetro, ma deve esservi stata una ragione probatoria acquisita in un secondo momento per poter giustificare la parziale compromissione del diritto di difendersi anche provando.
Nella prassi abbiamo assistito e assistiamo, ancora prima della riforma Cartabia che ha in parte inciso su questo passaggio processuale, a pubblici ministeri che, in apertura del dibattimento, ben prima dell’istruttoria dibattimentale, modificano l’imputazione a proprio piacimento, senza che nessuna prova sia stata assunta e senza, dunque, che la modifica sia giustificata da apporti di conoscenze acquisiti in sede istruttoria.
È una stortura procedurale che viene tollerata dai giudici, nonostante il chiaro portato letterale delle norme e la previsione della dimensione cronologica che esse delineano, nei confronti della quale la Difesa non solo non ha possibilità di risposte, quantomeno immediate, ma, soprattutto, si vede costretta a ricalibrare la propria linea difensiva pur a fronte di asincroni segmenti di nuove contestazione.
Se tale situazione è già di per sé poco tollerabile, perché distonica rispetto al portato di norme procedurali chiare, quel che più rileva, ai fini delle considerazioni che qui si stanno svolgendo, è il largheggiare interpretativo, divenuto ormai giurisprudenza granitica, del principio della necessaria correlazione tra imputazione e sentenza, così come previsto e sanzionato dal combinato disposto degli articoli 521 e 522 c.p.p..
L’errore permanente del pubblico ministero nella descrizione del fatto in imputazione ovvero altre criticità del perimetro della contestazione vengono “salvati” dal giudice in ragione di principi diversi rispetto a quelli delineati chiaramente dall’art. 521 c.p.p.. E’ sufficiente la conoscenza generica dei fatti contestabili per arrivare ad una sentenza di responsabilità, anche se la contestazione è approssimativa e come tale limitativa del diritto di difesa, arrogandosi il giudice il diritto di ridefinirla. Tale interpretazione, anch’essa null’altro che frutto di una cultura di vicinanza tra pubblico ministero e giudice, diviene addirittura paradigmatica nell’ambito dei reati colposi, per i quali, come noto, è sufficiente una contestazione “generica” di “colpa” per addivenire ad una sentenza di condanna anche per profili di colpa specifica diversi e non esplicitati nell’imputazione[6]. Non è tanto importante che l’imputato abbia declinato le proprie linee difensive in ragione delle indicazioni della contestazione, quanto, piuttosto, salvaguardare il processo imbastito dal rappresentante della pubblica accusa senza rischiare diseconomie processuali che, soprattutto in processi complessi, diventerebbero, secondo le modalità di pensiero dei rappresentanti dello Stato, insostenibili.
L’orientamento del giudicante è, anche in questo caso, condizionato da quella cultura statalpunitiva che si trasmette da pubblico accusatore a giudice e si alimenta in un circolo culturale pericoloso e che tende a sfuggire a coloro che ne sono pervasi.
Accanto agli esempi di interpretazioni orientate di alcuni istituti processuali che, nell’ottica del Legislatore, avrebbero dovuto rappresentare la declinazione procedurale del rito accusatorio, assistiamo ad altri consolidati orientamenti ermeneutici profondamente errati e riguardanti oneri specifici gravanti sui giudici.
Il richiamo non può non essere all’effettivo obbligo motivazionale di atti limitativi di alcune libertà personali che si è consolidato nel consentire argomentazioni minime o per relationem, in chiaro contrasto con l’intenzione del Legislatore che, invece, indica proprio nella motivazione l’esplicitazione del controllo dell’operato della pubblica accusa.
L’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazioni ovvero la proroga delle stesse ne è un chiaro esempio. Soltanto una profonda vicinanza culturale tra chi chiede (pm) e chi decide (giudice) ha potuto consentire, nel tempo, il sostanziale omesso controllo da parte del secondo rispetto all’operato del primo. E dire che sui piatti della bilancia ci sono diritti che trovano tutela anche in ambito costituzionale e che incidono profondamente sulle libertà esercitabili in concreto nel nostro contesto sociale. Nonostante questo è davvero raro vedere una proroga dell’attività di intercettazione che si interroghi e, conseguentemente, motivi in ordine all’opportunità del sacrificio del diritto alla riservatezza delle conversazioni e, dunque, della vita nel suo complesso, nonché delle ragioni che ne rendano necessario il perpetuato sacrificio. Non è che il giudice delle indagini preliminari di turno non conosca i valori costituzionali, ma è la sua cultura statalpunitiva, la stessa del suo collega pubblico ministero, che ne governa la penna.
Naturalmente il momento più significativo e paradigmatico dello stravolgimento delle regole in concreto derivante dalla vicinanza di pensiero lo si coglie nell’ambito delle misure cautelari. Il modus operandi è il medesimo e i ragionamenti del giudice emittente sono condizionati dalla sua vicinanza culturale al pubblico ministero. E’ così radicato il medesimo approccio alla ponderazione dei fatti, delle prove, delle norme e degli istituti che vengono condizionati tutti i profili di valutazione del giudice.
Il Legislatore del 2015 ha anche cercato di porre rimedio a questa anomalia per via normativa, introducendo un inciso che dovrebbe essere del tutto inutile in un Ordinamento nel quale chi giudica è effettivamente lontano da chi accusa, arrivando a prevedere che l’ordinanza cautelare debba contenere “l’esposizione e l’autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta” (art. 292 lett. c) c.p.p.).
E’ risibile che si debba statuire in una norma che il Giudice debba effettuare una sua ponderazione autonoma, vale a dire indipendente da quanto proposto dal pubblico accusatore, degli elementi che possono giustificare limitazioni della libertà di un cittadino e la debba altresì esplicitare in un controllabile iter logico-argomentativo. E’ risibile perché dovrebbe essere connaturato a dinamiche processuali ordinarie, gestite correttamente da un soggetto equidistante dalle parti. Non essendo, però, questo il presupposto del nostro Ordinamento, ben si comprende lo sforzo, rivelatosi poi sostanzialmente vano, di provare a porre un freno alla prassi del “copia e incolla”.
Potremmo continuare a lungo, perché molti sono gli istituti che soffrono, nella loro interpretazione, della contiguità tra giudice e pubblico ministero e, purtroppo, non è la sbandierata cultura della giurisdizione che tende a essere il patrimonio più comune tra i due, bensì, la cultura statalpunitiva che condiziona l’operato di chi, al contrario, dovrebbe essere terzo e imparziale.
Già, perché poi la nostra Carta Costituzionale indica davvero una strada diversa della posizione del giudice rispetto a tutte le parti processuali, perché solo in questo modo può trovare realmente applicazione il processo accusatorio. Finché non sarà sradicata la cultura comune tra pubblico ministero e giudice non avremo un giudice realmente terzo, terzo nelle categorie di pensiero da utilizzare per ogni singola decisione, terzo nell’approcciarsi alle richieste del pubblico accusatore, terzo a garanzia dei cittadini.
E soprattutto terzo nella cultura del dubbio.
Nel processo, che è anche specchio della vita, il dubbio deve permeare l’operato delle parti, ma, soprattutto del giudice. Il dubbio non è solo categoria di valutazione del provvedimento finale, ma, nel suo essere sospensione delle certezze, dovrebbe caratterizzare ogni singolo passaggio decisionale per addivenire ad una laica valutazione delle richieste e delle proposte delle parti processuali.
Purtroppo l’esperienza quotidiana insegna che non è così, che le categorie di pensiero condivise tra giudice e pubblico ministero pongono il dubbio nelle retrovie a favore di presunte certezze, frutto della culturale statalpunitiva di entrambi. E non c’è norma di legge che possa porre un freno a tutto questo, perché deve essere sradicata una cultura comune attraverso l’allontanamento dei percorsi di formazione, di preparazione, di lavoro, di gestione degli avanzamenti di carriera, dei provvedimenti disciplinari ed anche di contrapposizione nei confronti di altri Poteri dello Stato.
Vi è una sola strada per percorrere il cammino di recupero di profili culturalgiuridici diversi in capo a chi è chiamato a giudicare ed è quella di distanziarlo il più possibile, anzi di distanziarlo secondo il costituzionalmente previsto, da tutte le parti in campo. Separare le carriere dei magistrati significa ridisegnare l’architettura delle posizioni, per poi confidare che, su queste fondamenta, progressivamente, negli anni, la cultura statalpunitiva continui ad essere legittimo patrimonio del pubblico ministero, ma il giudice se ne possa affrancare davvero e incominci ad essere realmente libero nel pensiero e nelle condotte, facendo del dubbio l’unico ragionevole strumento in grado di guidare le proprie decisioni.
* Presidente della Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta.
[1] Il riferimento è, tra l’altro, all’intervento effettuato dal prof. Ennio Amodio al convegno, organizzato da Università degli studi di Milano, “Le riforme dell’ordinamento giudiziario: bilanci e prospettive” del 23 maggio 2025.
[2] “La non dispersione della prova nel processo penale: la vacuità di un “principio” incostituzionale” di Alberto de Sanctis e Roberto Impeduglia, in Ante Litteram – versione digitale, articolo del 13 agosto 2025.
[3] Ovviamente il rito accusatorio è stato stravolto anche dai Legislatori che si sono susseguiti e che, con inopinate riforme, ne hanno intaccato progressivamente la struttura portante.
[4] Sul punto Cass. S.U. n. 112271992 e Cass. S.U. n. 41281/2006.
[5] Così, ex multis, Cass. Sez. IV n. 5821/2004, che precisa che la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie è consentita, “sempre che non esista un’interferenza fattuale e logica fra la parte del narrato ritenuta falsa o non credibile e le rimanenti parti che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrate; il che si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l’una sia imprescindibile antecedente logico dell’altra.”
[6] Ex multis: Cass. Sez, III n. 1971/2010, Cass, Sez. IV n. 6564/2022.