di Alberto de Sanctis* e Roberto Impeduglia** –
Desta più di una preoccupazione la constatazione che nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione continui a serpeggiare indisturbato il richiamo al principio di non dispersione dei mezzi di prova.
Secondo alcuni arresti di legittimità, che vi fanno espresso riferimento, un simile principio assumerebbe portata “generale” e si modulerebbe in concreto in specifiche disposizioni della disciplina sulle prove, quali ad esempio l’art. 238 c.p.p. in materia di acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti o l’art. 270 c.p.p. in materia di intercettazioni[1].
Addirittura, a ben vedere, in altre pronunce di Cassazione sembra quasi che il ritenuto principio sia il cardine che informa l’acquisizione delle prove nel procedimento penale, rispetto al quale la sanzione processuale dell’inutilizzabilità, che discende dall’art. 191 c.p.p., sarebbe semmai da ritenersi l’eccezione insuscettibile di applicazione estensiva[2].
È ben noto che l’enucleazione di un simile principio debba larga parte della sua “fortuna” alle pronunce della Corte Costituzionale della c.d. “svolta inquisitoria”[3] del 1992, allorchè il Giudice delle Leggi si espresse con una sequenza di sentenze convergenti che diedero corpo al tentativo di demolire il neonato processo accusatorio e restaurare il vecchio rito misto appena abbandonato dal Legislatore[4].
In tali arresti – in particolare nella sentenza n. 255/1992[5] – la Corte Costituzionale collegò espressamente il teorizzato “principio di non dispersione dei mezzi di prova” al fine supremo della “ricerca della verità”, istituendolo quasi a contraltare correttivo del principio del contraddittorio nella formazione della prova che contraddistingue il modello accusatorio. Secondo l’assunto in allora fatto trasparire dalla Corte, il processo accusatorio porterebbe alla costruzione di una verità formale, se si vuole una fictio frutto dell’attenta selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo le regole tipiche del contraddittorio nella formazione della prova.
Secondo tale ordine di argomentazioni, siccome tendenzialmente la verità “costruita” del processo accusatorio si avvicina alla “verità Vera”, il processo accusatorio è un modello processuale tollerabile, ma occorre mettere in conto che esistano casi in cui la “verità Vera” irrompe nel processo e smentisce la verità formale del processo accusatorio: ebbene, in tali ipotesi, poiché il “fine primario ed ineludibile del processo penale”[6] è la ricerca della verità – e non di un suo simulacro – non vi sarebbe da esitare un istante ad abbandonare le regole formali di selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo il modello accusatorio per prediligere – sia pur in deroga – le regole del metodo inquisitorio che riconoscono dignità di prova utilizzabile anche alle prove raccolte unilateralmente nella fase delle indagini.
V’è chi ha fatto autorevolmente osservare, già commentando le richiamate sentenze della Corte Costituzionale, che nel ragionamento sviluppato nel 1992 dal Giudice delle Leggi non viene contrapposto alle regole del processo accusatorio alcun principio costituzionale di diretta rilevanza processuale; anzi la Corte conia un principio non costituzionalizzato che ha la pretesa di ribaltare il corretto rapporto tra “regola” ed “eccezione”: “degno di nota è il fatto che la Corte si guardi bene dall’indicare un principio a diretta rilevanza processuale con cui quelle regole contrasterebbero; o, meglio, l’unico che esibisce è un sedicente «principio di non dispersione della prova» di cui non v’è traccia nella Costituzione, ma che la Corte stessa ricava per amplificazione dalle deroghe all’oralità e al contraddittorio previste dal codice di rito (col singolare risultato di convertire in regola le eccezioni)”[7].
È stato anche illustrato con meridiana chiarezza che la sfiducia nel modello accusatorio sottesa all’associazione tra il ritenuto principio di non dispersione della prova ed il modello inquisitorio sconta un limite assai profondo, che origina da un’accezione di “verità” non accettabile sul piano euristico.
Che il processo abbia per scopo l’accertamento della verità e che di verità ne esista una sola sono postulati fuori discussione.
Il punto è semmai riconoscere che la verità che viene cercata nel processo penale è, per forza di cose, una verità storica, la verità di fatti occorsi nel passato, che non si manifestano concretamente davanti agli occhi del giudice[8]. Da ciò discende necessariamente che l’attività di ricerca del giudice non trova riscontri materiali del fatto-reato che si vuole accertare, come accadrebbe in relazione alla ricerca di un bene materiale e tangibile da “scoprire”; tale ricerca è semmai da configurarsi nei termini di una “ricostruzione” e di una “elaborazione” attraverso un “metodo”: allora sì, in questi sensi, “ogni verità prodotta da un giudice è «formale» in quanto non «trovata», ma «elaborata» attraverso una metodologia”[9].
Ciò posto, in dottrina si è poi ampiamente dimostrato che il “metodo” migliore sul piano euristico per la “ricostruzione” della verità è quello del contraddittorio, giacchè la validazione della tesi accusatoria sulla sussistenza del fatto-reato – che non può trovare riscontro nella realtà materiale in quanto fatto appartenente alla sfera del passato – non può che discendere dallo schema dialogico del contraddittorio, secondo il quale una tesi è vera oltre ogni ragionevole dubbio e con alto grado di credibilità razionale se ogni tentativo di falsificazione argomentativa fallisce.
Com’è noto, queste ed altre vicissitudini dottrinali e storiche hanno poi portato alla costituzionalizzazione del nuovo art. 111 Cost., alla luce del quale ci si sarebbe potuti illudere che il ritenuto “principio” di non dispersione della prova e di pretesa superiorità euristica del metodo inquisitorio si fossero definitivamente estinti dopo la novella costituzionale.
In questo senso si sono espressamente pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, allorché hanno affermato che “nel nuovo quadro costituzionale, […] non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale perchè le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita” (Cass., S.U., 25 novembre 2010, n. 27918)[10].
Come si è visto in apertura, tuttavia, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla revisione costituzionale e nonostante la pregnanza della costituzionalizzazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, si assiste invece alla serena reviviscenza del principio di non dispersione della prova e dell’argomento, storicamente invocato a supporto, della ritenuta funzionalità del medesimo a garantire la ricerca della “verità Vera”. Emblematico, in questo senso, risulta il passaggio che segue, che si rinviene in una pronuncia di legittimità, che “ad occhi chiusi” si direbbe di inizio anni ’90 e che invece, a dispetto di tutto quanto si è ripercorso fin qui, risale solo a poco più di un anno fa: “è principio generale, nell’ordinamento processuale, che il giudice ha il potere di disporre l’assunzione dei mezzi di prova anche in caso di inerzia o di lacune delle iniziative delle parti, perché il principio dispositivo, tipico del sistema accusatorio, è recessivo rispetto al canone costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale che, una volta esercitata, impone al giudice – guidato anche dal principio di «non dispersione» dei mezzi di prova (Corte Cost. n. 111 del 1993) – di non abdicare al proprio ruolo nell’acquisizione e formazione della prova nella prospettiva dell’accertamento della verità e della pronuncia di una decisione «giusta»”[11].
Colpisce la disinvoltura con la quale in questo passaggio – come negli altri richiamati in apertura – la Cassazione invochi il principio tralatizio, senza nemmeno darsi la pena di giustificare il fondamento normativo da cui il medesimo dovrebbe discendere, che tuttavia non esiste nell’addentellato normativo di rango ordinario e tanto meno costituzionale che regola il procedimento penale.
Considerato che evidentemente nemmeno la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova è valsa quindi nel tempo a sopire gli aneliti “inquisitori” che sottostanno all’invocato principio di non dispersione della prova ed alla ritenuta funzionalità del medesimo alla ricerca della verità, a parere di chi scrive sarebbe allora forse il caso di spingere l’argomentazione oltre la semplice negazione del principio di non dispersione della prova per arrivare ad affermare che il principio informatore della disciplina processuale è semmai quello opposto, che si potrebbe definire, in antitesi, di “dispersione” della prova difforme dalle regole processuali.
Contrariamente all’assunto che si critica, infatti, la serena analisi del quadro normativo porta a concludere che il procedimento penale è permeato dal principio opposto, secondo il quale il materiale probatorio raccolto, ancorché rilevante, quando differisce dal paradigma normativo di riferimento può e deve essere sacrificato senza alcun attentato al “fine primario ed ineludibile” della ricerca della verità.
In altre parole, la regola posta alla base del procedimento e del processo penale richiede la selezione “chirurgica” del materiale probatorio volta per volta utilizzabile[12] nei diversi segmenti procedimentali, con conseguente, fisiologica, dispersione del materiale probatorio non utilizzabile.
Eccone alcuni esempi chiarificatori, ancorati alle norme più emblematiche, che qui si propongono senza alcuna pretesa di esaustività.
Anzitutto viene subito in gioco la stessa “regola d’oro” del processo accusatorio[13], costituzionalizzata nell’art. 111, comma 4 Cost., secondo cui la prova della colpevolezza dell’imputato si forma necessariamente nel contraddittorio tra le parti dinanzi al giudice terzo ed imparziale, di talché di regola le prove raccolte unilateralmente nelle indagini preliminari da parte degli organi inquirenti non possono essere utilizzate come prove nel giudizio.
Com’è noto tale regola costituzionale si dipana a livello primario in alcune norme-simbolo del codice, che non a caso sono state il bersaglio della “svolta inquisitoria” della Corte Costituzionale del 1992.
La prima a venire in rilievo è la disciplina dell’art. 500, commi 1 e 2 c.p.p., a mente della quale le dichiarazioni raccolte nelle indagini preliminari dalle persone informate sui fatti, laddove contestate in dibattimento al medesimo dichiarante, a quel punto diventato testimone, di regola possono essere valutate dal giudice solo al fine di ponderare la credibilità del testimone, ma non possono essere utilizzate come prova della penale responsabilità dell’imputato[14].
Altra norma cardine della disciplina del dibattimento, che assume rilievo ai fini di quanto si sostiene, è l’art. 512 c.p.p. che disciplina la lettura degli atti assunti nel corso delle indagini preliminari[15] in caso di sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Letta a contrario, com’è noto, tale norma impedisce di recuperare al dibattimento le dichiarazioni raccolte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari quando l’impossibilità di ripetizione sia imputabile a fatti o circostanze a monte prevedibili e concretamente non previste.
Ed ancora, giova richiamare anche l’art. 195 c.p.p., norma nodale nell’articolazione della disciplina dell’istruzione dibattimentale, che nel quarto comma dispone il divieto per ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre de relato sulle dichiarazioni raccolte nelle indagini dalle persone informate sui fatti, sul contenuto delle denunce e delle querele ricevute dalla persona offesa e sulle dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini.
Ebbene, dal reticolato stesso di queste norme, che scolpiscono i tratti fondamentali del dibattimento secondo il rito accusatorio, balza subito all’occhio quanto sia intimamente connessa al quid proprium del modello processuale accusatorio la dispersione dei contributi probatori raccolti nelle indagini, ancorché rilevanti, per ragioni di carattere puramente processuale, ossia in quanto non formati nel contraddittorio tra le parti.
E, se si considera che, come si è ricordato, la “regola d’oro” ha espressa copertura costituzionale nell’art. 111 Cost., si può a buon diritto affermare che il principio di dispersione delle prove, che si ritiene intimamente connesso al principio del contraddittorio nella formazione della prova, ha a sua volta dignità e rango costituzionale – a differenza, lo si è già ricordato, di quello opposto invocato dalla giurisprudenza.
Peraltro, a conferma del fondamento del riconosciuto principio di dispersione della prova non conforme alle regole processuali, quale principio generale informatore di tutto il procedimento penale, non militano soltanto le norme che regolano il riversamento delle prove dalla fase delle indagini al dibattimento, ma si rinvengono valide concrete modulazioni del suddetto principio anche fuori dalla disciplina dell’istruttoria dibattimentale.
In cima a tutte si staglia l’art. 191 c.p.p., norma generale sull’inutilizzabilità, la species di invalidità che attinge le prove.
A parere di chi scrive la norma, che per la stessa collocazione sistematica ha evidente portata generale, è diretta espressione di quel principio di dispersione delle prove difformi dalle regole processuali di cui si tratta, che nella norma in commento si declina nella dispersione delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge[16].
Del resto, l’inutilizzabilità condivide con le altre forme di invalidità processuali – ossia la nullità e l’inammissibilità – l’effetto di rendere l’attività processuale inutiliter data.
Discende, oltre che da tutte le più ampie considerazioni che precedono, anche solo dalla indiscutibile portata generale della norma – e, si ritiene, del principio di dispersione che la sorregge – che chi scrive non condivide i passaggi giurisprudenziali richiamati in apertura, in cui, come accennato, in antitesi al disposto di cui all’art. 191 c.p.p. si valorizza il ritenuto principio di non dispersione della prova, a cui si pretende persino di attribuire una portata generale rispetto al disposto – che si vorrebbe derogatorio – della norma sull’inutilizzabilità.
Oltre che nella norma generale di cui all’art. 191 c.p.p., il codice prevede poi diverse ipotesi speciali di inutilizzabilità, che – al pari della disposizione generale – sono tutti validi precipitati del principio di dispersione della prova difforme dallo schema procedimentale.
Si pensi in questo senso, tornando alla disciplina della testimonianza indiretta, alla sanzione dell’inutilizzabilità che, salve le eccezioni espressamente previste, colpisce, ex art. 195, comma 3 c.p.p., le dichiarazioni rese da un testimone de relato allorché non venga assunta la testimonianza del teste di riferimento nonostante la richiesta di una parte in tal senso.
Altra espressione esemplare del principio di dispersione della prova è la sanzione di inutilizzabilità comminata nell’art. 271 c.p.p. in materia di intercettazioni, inutilizzabilità che discende – oltre che dall’esecuzione di intercettazioni fuori dai casi consentiti – anche dalla violazione delle regole formali relative ai provvedimenti di autorizzazione, convalida e proroga delle intercettazioni.
Tale ipotesi di inutilizzabilità rappresenta probabilmente la massima esplicazione del ritenuto principio di dispersione della prova difforme dalle regole processuali, in quanto si può ben dire che nella norma in commento il principio di dispersione trascende addirittura il piano giuridico e in un certo senso si fa “materia”, laddove il comma terzo dell’art. 271 c.p.p. prevede che il giudice disponga la distruzione fisica del risultato delle intercettazioni inutilizzabili.
Prima di chiudere, si vuol richiamare ancora un’ultima testimonianza del principio richiamato, estranea non solo alla disciplina dell’istruttoria dibattimentale, ma finanche alla disciplina delle prove.
Si allude alla sorte procedimentale delle notizie ed indicazioni raccolte sul luogo o nell’immediatezza del fatto dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, anche se arrestata in flagranza o fermata, in assenza del suo difensore: secondo il disposto dell’art. 350, comma 6 c.p.p., di tali notizie, ancorché utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini, non solo è vietata ogni utilizzazione, ma è radicalmente vietata ogni documentazione, in ossequio, ritiene chi scrive, al principio di dispersione dei mezzi di prova non conformi alle regole procedimentali, che, come si tocca con mano, attraversa tutta la disciplina del procedimento penale.
In conclusione, quanto precede dimostra, a parere di chi scrive, l’inconsistenza del principio di non dispersione dei mezzi di prova, che, dopo le complesse vicende dei primi due decenni di applicazione del codice di rito, sembra tornare alla ribalta negli orientamenti più recenti di legittimità e, al fine di allestire con urgenza un argine efficace alla restaurazione di vecchie istanze inquisitorie, cerca di offrire qualche spunto sulla riconoscibilità, nell’ordinamento processuale, del principio di segno esattamente opposto, ossia di dispersione dei mezzi di prova non conformi ai paradigmi normativi, principio che, in una prospettiva de iure condendo, si potrebbe persino pensare di positivizzare a livello normativo, al fine di prevenire per il futuro cicliche tensioni restauratrici.
*Past President Camera Penale Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta
**Avvocato penalista, socio Camera Penale Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta
[1] Cfr. Cass., sez. I, 27 settembre 2019, n. 43690: “Può quindi affermarsi come la giurisprudenza di questa Corte abbia individuato, nell’ambito dell’art. 238 c.p.p. – al di là, quindi, della collocazione sistematica della norma nel libro terzo del codice di rito, intitolato alle prove, ed, in particolare, nel capo settimo del titolo secondo, relativo ai mezzi di prova – l’operatività di un principio più generale, valido, quindi, anche per la fase delle indagini preliminari e per il sub-procedimento cautelare, concernente l’utilizzabilità, anche dopo la scadenza dei termini di indagini preliminari, di atti di indagine, purché ritualmente compiuti nell’ambito di diverso procedimento penale. Trattasi, all’evidenza, di una modulazione concreta del più generale principio di non dispersione dei mezzi di prova e, quindi, delle attività investigative, che trova, ad esempio, ulteriore applicazione nella disciplina delle intercettazioni di cui all’art. 270 c.p.p.”. In senso conforme cfr. anche Cass., sez. V, 13 giugno 2018, n. 44147.
[2] Cfr.: Cass., sez. IV, 9 aprile 2024, n. 16400: “L’inutilizzabilità della prova consegue alla violazione delle norme che presiedono alla sua acquisizione (art. 191 cod. proc. pen.), talché al di fuori di tale ipotesi è escluso – in applicazione del principio di non dispersione dei mezzi di prova – che vi siano ostacoli normativi all’attivazione di rimedi surrogatori idonei ad assicurare l’utilizzo, ai fini della decisione, delle prove andate disperse fortuitamente, purché ciò avvenga con modalità tali da non compromettere la genuinità della prova e da assicurare il rispetto delle facoltà difensive”. In senso conforme cfr. anche Cass., sez. IV, 13 febbraio 2024, n. 8296; Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 21475.
[3] L’espressione è di Ferrua, Il «giusto processo», Bologna, 2012, 3.
[4] Ci si riferisce a Corte cost., sent. 18 maggio 1992, n. 255. Le altre due sentenze risalenti alle medesima congiuntura sono la gemella Corte cost., sent. 18 maggio 1992, n. 254 e, prima ancora, Corte cost., sent. 22 gennaio 1992, n. 24.
[5] Cfr. Corte cost., sent. 18 maggio 1992, n. 255: “L’oralità, assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento; ciò perché – è appena il caso di ricordarlo – fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità (in armonia coi principi della Costituzione: come reso esplicito nell’art. 2, prima parte, e nella direttiva n. 73, della legge di delega, tradottasi nella formulazione degli artt. 506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258 del 1991 di questa Corte), di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente è dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento”.
[6] Cfr. nota 5.
[7] Id., op. loc. ult. cit..
[8] Al più davanti agli occhi del Giudice si possono manifestare riproduzioni dei fatti (si pensi ad una videoregistrazione del fatto-reato), ma non certo il fatto stesso.
[9] Id., op. cit., 33.
[10] In termini consonanti cfr. anche Cass., sez. II, 14 giugno 2018, n. 38975, laddove, interpretando il disposto dell’art. 512 c.p.p., la Corte ha rilevato che “la rigorosa verifica delle condizioni poste dalla norma è indispensabile al fine di garantire la tenuta di un sistema nel quale il c.d. principio di non dispersione dei mezzi di prova non è più compatibile con il nuovo principio del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio e non è più invocabile un principio di accertamento della verità reale”.
[11] Cass., sez. V, 6 marzo 2024, n. 16121.
[12] L’espressione non è riferita solo alla decisione dibattimentale, ma in senso lato anche nelle indagini preliminari.
[13] Id., op. cit., 2.
[14] La regola com’è noto soffre – sia a livello costituzionale (art. 111, comma 5 Cost.) che primario (art. 500, comma 4 c.p.p.) – le eccezioni correlate a “provata condotta illecita”.
[15] Oltre che dal giudice nel corso dell’udienza preliminare.
[16] Ai fini della tesi che qui si sostiene non ci si addentra nel complesso dibattito tra chi sostiene che i “divieti” rilevanti ai fini dell’utilizzabilità della prova siano da intendersi esclusivamente alla stregua di divieti probatori (cfr. Cordero, Prove illecite, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 147 ss.; Ferrua, op. cit., 54) e chi invece aderisce ad un’interpretazione più ampia e vi comprende ogni divieto di “ottenimento” della prova stabilito da qualsivoglia norma dell’ordinamento giuridico (cfr. Nobili, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, 157 ss.; Gambini, Perquisizioni, sequestri, esclusione probatoria: interpretazioni attuali e prospettive de jure condendo, in Dir. pen. proc., 2005, 1289 ss.): aderendo ad entrambe le tesi, la norma si connota in ogni caso alla stregua di espressione del principio di dispersione di una prova difforme dal paradigma procedimentale.