LA CONDITIO INHUMANA NEI CENTRI DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA

di Donatella Loprieno*

1. Qualche fatto – In una coraggiosa, quanto isolata, sentenza del Tribunale di Crotone del 20121, il giudice dell’epoca si interrogava sulla legittimità delle condizioni di trattenimento dei cittadini stranieri alla stregua del divieto di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3 della CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della relativa Corte. Dopo aver richiamato le principali sentenze in cui il Giudice di Strasburgo aveva proceduto ad affinare la giurisprudenza sulla violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti2, il giudice crotonese rilevava, senza mezzi termini, che «dall’esame del fascicolo fotografico (in atti), nonché dall’ispezione diretta dei luoghi, è risultato che gli imputati sono stati trattenuti nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Isola Capo Rizzuto in strutture che – nel loro complesso – sono al limite della decenza, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere esseri umani. E si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza». Si richiamava, nel caso di specie, la configurabilità della legittima difesa per le condotte di danneggiamento e resistenza aggravata dei tre imputati anzitutto «in ragione dell’ingiustizia dell’offesa ai loro diritti fondamentali, primo tra tutti (in ordine assiologico) quello alla loro dignità umana, lesa da condizioni di trattenimento indecenti». Le condotte dei tre imputati apparivano agli occhi del giudice come la sola forma di manifestazione di protesta efficace quantomeno per impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del centro. Tra il 10 e l’11 agosto del 2013, un’altra rivolta, scatenata probabilmente dalla morte “sospetta” di un ospite marocchino, rese temporaneamente inagibile una parte del CIE di Sant’Anna3.

Dalla vicenda succintamente richiamata sono passati dodici anni durante i quali un numero impressionante di altre rivolte, con relativa devastazione di ambienti, e proteste eclatanti si sono consumate all’interno dei centri di detenzione amministrativa sparsi sul territorio nazionale. L’ultima di cui si ha contezza, nel momento in cui si scrive, è avvenuta nel CPR di Milo a Trapani il 16 novembre 2024. Notizie di stampa riferiscono che cinque agenti del reparto mobile di Palermo sono rimasti feriti nel tentativo di sedare la rivolta. Sempre dalla stampa si apprende che un esponente di rilievo del SAO auspica “che venga approvato al più presto al Senato il ddl sicurezza. Tale ddl, sostenuto da tempo dal SAP, prevede l’inasprimento delle pene per chi usa violenza e resistenza a pubblico ufficiale, nel caso di specie, la modifica del ddl 1236 del 2024 art. 26, secondo cui coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni”.

Che questa sia una soluzione per porre fine al ciclo della violenza nei centri di detenzione amministrativa per persone migranti è dato dubitare, e non poco. E prima di argomentarne le ragioni in punta di diritto, occorre – io credo – insistere sui “fatti” facendoci guidare però da alcuni punti fermi. Tra questi, al momento, basti richiamare come la Corte Edu ha, da sempre, ritenuto che gli standard di tutela di cui all’art. 3, CEDU pur essendo stati elaborati avuto riguardo al contesto penitenziario, si applicano ad ogni forma di privazione della libertà personale, in qualsiasi posto essa si realizzi e certamente anche (e, forse) soprattutto all’interno dei CPR. Di ciò è testimonianza una sentenza molto recente che il giudice di Strasburgo ha adottato con riferimento alla detenzione amministrativa di una donna con evidenti vulnerabilità di natura psichiatrica all’interno del CPR di Ponte Galeria a Roma. Accogliendo la richiesta di adozione di un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 39 CEDU, nella decisione n. 17499/2024 del 3 luglio 2024, la Corte Edu ha ordinato al Governo italiano la liberazione della donna in detenzione amministrativa e il trasferimento in una struttura adeguata al suo stato di salute, incompatibile, alla luce dell’art. 3 CEDU, con lo stato detentivo. Detto in altri termini e più chiari termini, la detenzione in un CPR (in una cella di isolamento) di una persona con problemi di salute mentale è contraria a divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Duole ammetterlo ma il caso di Camelia ed il trattamento disumano ad essa inflitto non è da considerare l’eccezione bensì la regola. Nei CPR le violazioni dei diritti fondamentali della persona umana sono sistemiche e non ci sono meccanismi atti ad evitare che tali violazioni possano degenerare in trattamenti inumani, degradanti e crudeli se in tortura.

2. I rapporti – Per capire cosa succede davvero nei luoghi in cui si consuma la detenzione amministrativa occorrerebbe leggere i numerosi rapporti che, nel corso degli anni, diverse ONG (ma anche associazioni e singoli giornalisti) hanno coraggiosamente elaborato e pubblicato a cominciare dal Report di Medici senza Frontiere del 20044.

In realtà, e paradossalmente, occorrerebbe ritornare a leggere il “Rapporto della Commissione per le verifiche e le strategie nei Centri di accoglienza e Permanenza Temporanea”, meglio noto come Rapporto De Mistura, consegnato a fine gennaio 2007 dopo un semestre di lavoro e visite sul campo. Con toni pacati ma fermi, nel Rapporto si suggeriva una rivisitazione dell’allora sistema normativo nel senso di ricondurre le espulsioni alla loro natura di provvedimenti necessari da applicarsi come ultima ratio e di proponeva il superamento dei CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza, così si chiamavano all’epoca)
«attraverso un processo di svuotamento […] di tutte le categorie di persone per le quali non c’è bisogno di trattenimento».

Nel 2016, per arrivare a tempi più recenti, Amnesty International ha pubblicato Hotspot Italy. How EU’s flagship approach leads to violations of refugee and migrant rights, al cui interno la parola “tortura” compare ben 49 volte. E ancora i report Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia, a cura della campagna “LasciateCIEntrare” del 2022, i report della “Rete mai più lager – No ai CPR”, del Naga (Al di là di quella porta – Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano del 2023) e, ancora, a cura del CILD, L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti, 2023. Tra le fonti ufficiali, sicuramente le relazioni al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e i rapporti sulle visite realizzate nei diversi CPR sono essenziali per comprendere fino in fondo quali siano le condizioni di estremo degrado (in primis igienico-sanitarie) in cui sono costrette a vivere le persone trattenute.

Molto di recente, è stato poi pubblicato l’interessantissimo report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”, nato dalla collaborazione tra ActionAid e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari (2024). I dati e le informazioni, faticosamente, raccolti in quest’ultimo rapporto ci mettono di fronte anche al costo complessivo del sistema detentivo per stranieri: nel periodo 2018-2023, esso è stato di quasi 93 milioni di euro, il 64% dei quali relativi a pagamenti erogati agli enti gestori. In questo stesso lasso di tempo, sono stati spesi oltre 33 milioni di euro per costi di manutenzione, più del 76% dei quali per interventi di manutenzione straordinaria legati ad interventi di ristrutturazione in seguito ad episodi di devastazione che hanno portato alla chiusura totale o parziale di alcuni centri. Dato quest’ultimo che ci riconduce a riflettere sulla sensatezza di interventi normativi volti a penalizzare oltremodo “coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti”.

La scaturigine della invivibilità di questi luoghi è altrove e verrebbe da dire è in re ipsa. Ho altrove provato a sostenere le ragioni, di natura squisitamente giuridico-costituzionali, che conducono a ritenere l’istituto della detenzione amministrativa in sé e per sé incompatibile con i principi della Costituzione repubblicana del 19485  e a ritenere inammissibili quelle ricostruzioni volte a considerare diversamente violabile l’inviolabile libertà personale delle persone straniere6. In questa sede, tuttavia, credo ci si possa soffermare su una delle ragioni, invero la più macroscopica, da cui scaturiscono le condizioni di estremo degrado dei CPR.   

3. Alla ricerca dei “modi” del trattenimento – La fonte del diritto chiamata a definire non solo i “casi” ma anche i “modi” della detenzione amministrativa dello straniero è questione di non poco conto. Appurato senza nessun margine di dubbio che di restrizione della libertà personale si tratta, è lo stesso art. 13 Cost., nel suo secondo comma, a individuare l’organo dello Stato e la relativa fonte del diritto che soli possano individuare casi e modi di detenzione, ispezione, o perquisizione personale e di “qualsiasi altra restrizione della libertà personale”. Questo atto giuridico «non può che essere solamente la legge perché il suo contenuto è stabilito dall’unico potere direttamente rappresentativo della volontà popolare: il Parlamento. Questa riserva di legge, da intendersi dotata di valore assoluto, cioè escludente qualsiasi altra fonte del diritto che non goda di rango primario e che intervenisse anche solo per disciplinare marginali aspetti di dettaglio»7, ha almeno una duplice valenza garantistica. Anzitutto, esclude l’intervento di poteri (Governo e pubblica amministrazione) il cui operato non presenta le caratteristiche, formali e sostanziali, di quelle tipiche delle assemblee parlamentari (rappresentatività, dialettica maggioranza/opposizione, pubblicità e trasparenza delle sedute); in secondo luogo, la riserva assoluta di legge in materia di libertà personale non affida un potere illimitato al legislatore ordinario. Insomma, laddove vi sia riserva assoluta di legge, come insegnano i maestri, tutta la disciplina deve essere «integralmente dettata dalle leggi (ovvero dagli atti aventi forza di legge): tanto da rendere incostituzionale la previsione di regolamenti (fatta forse eccezione per quelli meramente esecutivi delle leggi in questione), come pure il conferimento di poteri discrezionali a favore della pubblica amministrazione»8.

E, invece, quanto ai modi della detenzione amministrativa, la prima cosa che balza agli occhi è che l’art. 14, co. 2, TUI è stata, per più di un ventennio, la sola norma di rango primario in materia e che, però, per la sua stringatezza ben poco poteva dirsi satisfattiva dei requisiti costituzionalmente richiesti. La citata disposizione del TUI si limitava, infatti, a specificare che lo straniero è trattenuto nel centro «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità», che è assicurata in ogni caso la corrispondenza anche telefonica con l’esterno, richiamandosi poi a quanto previsto dall’art. 2, co. 6, TUI9. Soltanto nel 2020, ed esattamente con il d.l. n. 130 (conv. in l. n. 173/2020) tale disposizione è stata modificata prevedendosi ora che «lo straniero è trattenuto nel centro, presso cui sono assicurati adeguati standard igienico-sanitari e abitativi, con modalità tali da assicurare la necessaria informazione relativa al suo status, l’assistenza e il pieno rispetto della sua dignità, secondo quanto previsto dall’art. 21, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394. Oltre a quanto previsto dall’art. 2, comma 6, è assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno».

La novella del 2020 ha poi inserito il nuovo co. 2bis a norma del quale «Lo straniero trattenuto può rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al Garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti delle persone privare della libertà personale». Modifiche, queste ultime, che non a torto sono state qualificate come «meramente cosmetiche, con cui vengono ribaditi principi che già sarebbero risultare ovvi» e che non superano il vizio originario di essere generiche e «ridondanti raccomandazioni di principio, senza fornire alcuna vera indicazione all’autorità amministrativa in ordine ai “modi” di gestione dei centri»10.

Escludendosi che la libertà di corrispondenza, per quanto importante, possa essere considerata garanzia sufficiente del rispetto della riserva di fonte, lampante e plateale appare l’omissione di prescrizioni di rango primario sulle modalità della detenzione amministrativa. Nulla, infatti, da questa disposizione poteva trarsi quanto ai requisiti delle strutture, alla loro dislocazione sul territorio e men che meno sul complessivo sistema dei diritti da assicurare agli stranieri detenuti. La disposizione in esame contiene, infatti, una chiosa finale che rimanda a modalità detentive pienamente rispettose della dignità umana, preceduta da un altrettanto generico riferimento alla categoria, di per sé, amplissima di “assistenza” senza specificare a quale categoria di bisogni della persona in detenzione amministrativa occorre rispondere in termini di servizi, strutture e personale. Una sorta di delega in bianco che ha aperto al potere esecutivo una amplissima sfera di discrezionalità e finendo per giustificare «di tutto e di più»11, mettendoci difronte ad «una sostanziale omissione di prescrizioni specifiche di rango legislativo sulle modalità con le quali è realizzata la restrizione della libertà personale disposta dall’art. 14»12 TUI.

È, invece e problematicamente, contenuta negli artt. da 20 a 23 del Regolamento di attuazione del TUI (d.P.R. n. 394 del 1999) la disciplina di alcuni aspetti delle modalità di trattenimento e di funzionamento dei centri. Al di là del fatto che tali previsioni non abbiano fornito indicazioni sufficienti, e le stesse sono talora pleonastiche, resta inequivoco che trattandosi di fonte secondaria sono, di per sé stesse, inidonee a soddisfare la riserva assoluta di legge di cui all’art. 13 Cost. In particolare, all’art. 20, co. 3, del richiamato Regolamento si dispone, quanto ai modi del ripristino del trattenimento, che lo straniero, all’atto di ingresso del centro, venga informato che, in caso di indebito allontanamento, la «misura del trattenimento sarà ripristinata con l’ausilio della forza pubblica». Alle “Modalità del trattenimento” è interamente dedicato l’art. 21 che, a scanso di equivoci, dopo aver specificato che si devono garantire «nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno […], la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona umana», ribadisce «l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal centro».  Al co. 8 dell’art. 21, si prescrive, in linea del tutto programmatica e replicando quanto già disposto dall’art. 14 TUI, che nell’ambito del Centro siano assicurati i servizi necessari alle esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale, le modalità di svolgimento delle visite. E, tuttavia, tale comma con una delega di secondo livello trasferisce completamente all’autorità amministrativa (il prefetto, sentito il questore) l’adozione delle misure di cui sopra in «attuazione delle disposizioni recate dal decreto di costituzione del centro e delle direttive impartite dal Ministero dell’interno per assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento alle finalità di cui all’art. 14, comma 2 del testo unico». Analoghe perplessità sorgono anche in riferimento a quanto prevede il
co. 9 dell’art. 21 in materia di provvedimenti riguardanti la salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico all’interno dei centri, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso del centro, nonché quelle per impedire l’indebito allontanamento delle persone trattenute e per ripristinare la misura nel caso che venga violata. In tali casi, il questore, avvalendosi degli ufficiali di pubblica sicurezza, richiede la «necessaria collaborazione da parte del gestore e del personale del centro che sono tenuti a fornirla». In cosa consista questa collaborazione e a che titolo il personale che, a vario titolo, presta la propria attività nel centro possa o, meglio, debba, fornirla resta avvolta da una inquietante coltre di nebbia.

Il 19 maggio 2022 è stata adottata la nuova “Direttiva recante criteri per l’organizzazione dei Centri di permanenza per i rimpatri previsti dall’art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni”. All’art. 1 ci si premura di ribadire che allo straniero trattenuto sia assicurata la “necessaria assistenza ed il pieno rispetto dei diritti fondamentali dello straniero, anche in considerazione della sua provenienza, della sua fede religiosa, del suo stato di salute fisica e psichica, della differenza di genere, compresa l’identità di genere, della presenza di esigenze particolati o vulnerabilità, fermo restando il divieto dello straniero di allontanarsi dal Centro e di porre in essere condotte violente nei confronti di persone o di beni”. La direttiva appena richiamata riporta in allegato una “Carta dei diritti e dei doveri” che elenca una lunga serie di servizi a cui lo straniero trattenuto dovrebbe avere accesso e una serie assai più stringata di doveri; definisce i requisiti minimi dell’ambulatorio medico e strumentario presente nel centro e allega i modelli di protocollo di intesa da stipulare tra i prefetti territorialmente competenti e le aziende sanitarie/ospedaliere.

Benché sia da apprezzare lo sforzo di meglio definire l’organizzazione e i servizi ad opera della Direttiva del 2022, non può che rimarcarsi ancora una volta come le modalità del trattenimento amministrativo degli stranieri nei CPR siano contenute in atti non di rango primario. E ciò ha «come precipitato immediato l’inserimento dei centri in un cono d’ombra ordinamentale»13, il tutto aggravato dalla difficoltà di accesso alle fonti sub-regolamentari che stabiliscono le condizioni di (in)vivibilità all’interno dei centri. Un vero e proprio capovolgimento dell’ordine gerarchico delle fonti che non può lasciare indifferenti.

Qualche spiraglio, invero, si è aperto – nella giurisprudenza costituzionale – in materia di disciplina dei modi della restrizione della libertà personale che ha anche validamente guidato la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, TUI.

  

4. Uno spiraglio. La giurisprudenza costituzionale che ha aperto nuovi scenari atti a ricondurre sotto l’egida della Costituzione le garanzie della libertà personale degli stranieri ristretti nei CPR è stata resa con la sent. n. 22 del 2022. Qui, il Giudice costituzionale ha affrontato direttamente una questione concernente la disciplina delle concrete modalità di funzionamento delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), già Ospedali psichiatrici Giudiziari (OPG), affidata quasi per intero a normative di rango secondario. Dopo aver ricostruito ruolo e funzioni delle REMS nel nostro ordinamento giuridico, la Corte costituzionale rileva come la normativa in tale materia non possa considerarsi satisfattiva degli artt. 13, co. 2, 25, co. 3 e 32, co. 2 Cost. In effetti, la sola disposizione di rango primario era costituita dall’art. 3ter del d.l. n. 211/2011, come convertito dalla l. n. 9/2012, e la stessa si limitava a stabilire i principi che avrebbero dovuto segnare il passaggio dal modello OPG a quello delle REMS (esclusiva gestione sanitaria, attività di vigilanza perimetrale e di sicurezza esterna, destinazione di norma di tali strutture a soggetti residenti nella regione). Il co. 2 dello stesso articolo, poi, demandava pressoché interamente la regolamentazione delle REMS a un successivo decreto non regolamentare del Ministro della salute, da adottarsi di concerto con il ministro della Giustizia e d’intesa con la Conferenza Stato e autonomie locali. Di conseguenza, osserva la Corte, la gran parte della vigente disciplina in materia di REMS si fonda su atti non primari (un decreto ministeriale, un accordo adottato in Conferenza unificata e «a cascata, su tutti gli atti conseguenti adottati a livello delle singole Regioni e Province autonome». Ed è qui che la Corte costituzionale recupera il portato garantistico dell’istituto della riserva di legge: «La necessità che una fonte primaria disciplini organicamente tale misura a livello statale, stabilita dalla Costituzione, risponde a ineludibili esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei suoi destinatari, particolarmente vulnerabili proprio in ragione della loro malattia. […] Gli artt. 13 e 32, secondo comma Cost., unitamente all’art. 2 Cost. […] esigono che il legislatore si assuma la delicata responsabilità di stabilire […] se e in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali siano le ammissibili modalità di esecuzione».

E, ancora, «la legge non può non farsi carico della necessità di disciplinare in modo chiaro, e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS […]»14

Il ragionamento del Giudice delle leggi e le conclusioni cui giunge paiono assai chiare: quando è in discussione una misura che incide sulla libertà personale, la riserva di legge di cui all’art. 13, co. 2, Cost. impone che anche i “modi” della privazione della libertà personale siano compiutamente disciplinati da una fonte primaria, non potendosi rinviare quasi integralmente alle fonti subordinate. Non è certamente un caso che due recentissime ordinanze motivate di rinvio, del 17 novembre 2024, emesse dall’Ufficio del Giudice di Pace di Roma15, ed entrambe relative al comma 2, art. 14 TUI, facciano espresso riferimento alla giurisprudenza costituzionale resa con la sent. n.22/2022. In particolare, il giudice remittente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 2, TUI per violazione della riserva assoluta di legge di cui all’art. 13, co. 2, Cost. nella parte in cui non disciplina puntualmente i modi e i procedimenti per la restrizione della libertà personale all’interno dei CPR; nella parte in cui non prevede i diritti e le forme di tutela dei trattenuti; nella parte in cui non indica l’autorità giudiziaria competente al controllo dei “modi” di restrizione della libertà personale delle persone straniere in stato di “detenzione amministrativa” e alla tutela giurisdizionale dei loro diritti; nella parte in cui non disciplina il ruolo e i poteri di tale autorità giudiziaria; nella parte in cui rinvia, pressoché integralmente, a una fonte subordinata.

Ora non resta che aspettare la decisione della Corte costituzionale.

 

*Professoressa Associata di Istituzioni di Diritto Pubblico, Università della Calabria

(Pubblicato in Ante Litteram n. 3 – dicembre 2024)

 

1. Sent. 1410 del 12 settembre 2012, Tribunale di Crotone, sezione penale.
2. E, in particolare, le sentenze Tabash c. Grecia del 26 novembre 2009 (ric. n. 8256/07) e M.S.S. c Grecia e Belgio del 22 gennaio 2011 (ric. n. 30696/09).
3. Non si dimentichi che il 25 luglio del 2017 ha preso avvio il processo “Jonny” proprio in ordine alla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto e sulle probabili infiltrazioni ‘ndranghetistiche nella stessa. 
4. “Rapporto sui Centri di Permanenza Temporanei e di Assistenza”, Medici Senza Frontiere, 2004, ove si legge che “nonostante siano state riscontrate profonde differenze nelle strutture, alcune dinamiche negative di presentano indistintamente in ogni centro. Per dinamiche negative di intendono gli episodi di autolesione, le risse all’interno dell’area detentiva ed eccessiva ingerenza delle forze dell’ordine nella gestione di alcuni centri” (p. 189). Le strutture di Trapani, Lamezia Terme e Torino “non assicurano la minima dignità ai trattenuti presenti nel centro” (p. 190).
5. Si veda il mio “Trattenere e punire”. La detenzione amministrativa dello straniero, Napoli, 2018.
6. Ho affrontato questa tematica in “Quale libertà personale per lo straniero in detenzione amministrativa?”, in C. Panzera, A. Rauti, “Attualità di diritto pubblico”, III, Napoli, 2024, pp. 89-114.
7. C. MARTINELLI, Articolo 13, in AA.VV., La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Vol. I, Bologna, 2018, 105-106. 
8. Così L. PALADIN, Diritto costituzionale, Bologna, 1991, 171.
9. A norma del quale «ai fini della comunicazione allo straniero dei provvedimenti concernenti l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione, gli atti sono tradotti, anche sinteticamente, in una lingua comprensibile al destinatario, ovvero, quando ciò non sia possibile, nelle lingue francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall’interessato».
10. L. MASERA, L’incostituzionalità dell’art. 14 d.lgs. 286/98 nella parte in cui non contiene una disciplina sufficientemente precisa dei “modi” del trattenimento nei CPR, in Questione Giustizia, maggio 2022.
11. A. PUGIOTTO, Di qua della manica, cit., 370.
12. A. DI MARTINO, La disciplina dei «C.I.E.» è incostituzionale, in penalecontemporaneo.it, 2012, 4, che aggiunge «quando la Costituzione richiede la definizione per legge dei “modi” della restrizione […] intende fare riferimento alla necessità che la legge indichi requisiti ulteriori rispetto a quelli della mera coercizione».
13. A. DI MARTINO, I “C.I.E”, le fonti e l’articolo 1 della Costituzione, in Aa.Vv., Libertà dal carcere, libertà nel carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Torino, 2017, 110.
14. Punto 5.3.2. del Cons. in diritto della sent. n. 22/2022.
15. Il testo delle ordinanze è reperibile al seguente link: https://lc.cx/nnKUWm

Torna in alto