di Fausto Giunta*
1. La lunga storia della tortura registra un’importante svolta con l’avvento dell’età moderna. Dalle severe critiche di Cesare Beccaria diparte un filone di pensiero, di impronta razionalista e personalista, che domina, per il vero non incontrastato, il dibattito odierno. Utilizzata fin dall’antichità come legittimo strumento investigativo e probatorio, la tortura costituisce in molti ordinamenti giuridici un delitto gravemente punito, anche in ottemperanza alle richieste provenienti da fonti costituzionali e convenzionali. Per il vero rimangono sul tappeto anche proposte favorevoli a un suo impiego sorvegliato (addirittura medicalmente assistito) finalizzato a contrastare le più temibili forme di criminalità organizzata, come il terrorismo globale. Nel continente europeo, però, queste fughe in avanti sono opinioni isolate.
Da noi, come noto, il delitto di tortura è stato inserito all’art. 613-bis c.p. dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. Si tratta di una fattispecie incriminatrice che, avversata già prima della sua entrata in vigore, ha continuato a esserlo anche dopo. Alla ritenuta inopportunità di criminalizzare l’operato delle Polizie di Stato, impegnate nel contrasto del crimine, si sono aggiunte le censure concernenti la formulazione della fattispecie incriminatrice. Non è azzardato affermare che la nuova figura di reato è riuscita a scontentare quasi tutti.
Ciò ha alimentato critiche ulteriori e ancora più radicali, che sono sfociate nella proposta di legge n. 623 (presentata alla Camera dei deputati il 23 novembre 2022), avente ad oggetto l’abolizione del delitto di nuovo conio. A quest’ultimo proposito si fanno valere due argomenti, l’uno non veritiero, l’altro poco persuasivo. Da un lato, si ridimensiona la preoccupante entità del fenomeno criminoso, confermata, se mai occorresse, dalla cronaca degli ultimi tempi. Dall’altro lato, si sostiene la superfluità dell’innovazione, rilevando che il suo spazio operativo è già occupato da altre fattispecie incriminatrici: dalle percosse alle lesioni, dalle minacce al sequestro di persona. In realtà, la tortura è concetto poliedrico, che comprende vessazioni non sempre riconducibili agli anzidetti tipi criminosi.
Del tutto fondati sono invece gli appunti mossi alla formulazione della fattispecie, foriera di questioni interpretative che, almeno in parte, si sarebbero potute evitare adottando una tecnica legislativa più accorta. Essendo logorroica e pletorica, la nuova figura di reato costituisce un fulgido esempio di insipienza legislativa.
2. La complessità del tema affonda le radici già nel terreno dell’oggettività giuridica. Per il nostro codice, la tortura è un delitto contro la libertà morale. La collocazione sistematica, tuttavia, ha un valore puramente indicativo del bene tutelato. Se si guarda alla notevole varietà dei fatti astrattamente rientranti nel delitto di tortura, ci si avvede agevolmente che il comune denominatore offensivo consiste nella dignità personale. La tortura può ledere anche altri beni della persona (oltre alla libertà morale, quella personale, nonché l’integrità fisica e psichica). Da qui la sua natura di reato eventualmente plurioffensivo.
Un giudizio adesivo merita la scelta politico-criminale del nostro legislatore concernente la latitudine dell’intervento punitivo. Più che mai in un diritto penale di ispirazione liberale, va assoggettata a pena non solo la tortura con abuso dei poteri coercitivi pubblici, ma anche quella che si verifica nel contesto di relazioni private, caratterizzate dalla posizione di supremazia dell’agente rispetto alle vittime potenziali.
Si rende necessario, pertanto, tracciare un duplice e problematico confine operativo, l’uno tra la tortura c.d. di Stato e l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), l’altro tra la tortura privata (o anche detta comune) e i maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.). Quanto al primo, considerato che l’interferenza normativa riguarda il fatto commesso dal pubblico ufficiale, il discrimine sembrerebbe dipendere dal grado di arbitrarietà della condotta, più marcato nella tortura di quanto non sia nell’abuso di misure di rigore, che sono pur sempre disciplinate dalla legge. Il confine con i maltrattamenti, invece, andrebbe ricercato nella maggiore sofferenza prodotta dai singoli atti di tortura.
3. Ma le problematiche attinenti alla struttura del reato interessano anche i rapporti interni al disposto dell’art. 613-bis c.p. Il legislatore non ha provveduto a scindere con la dovuta nettezza le due ipotesi di tortura, che avrebbero meritato di essere collocate in altrettanti articoli di legge, ciascuno con la sua rubrica. Si sarebbe chiarita in tal modo l’autonomia delle figure di reato. Invece, la loro previsione contestuale e l’anteposta collocazione della tortura comune ha indotto l’orientamento prevalente a qualificare quest’ultima come reato-base e a relegare la ben più grave tortura c.d. di Stato al ruolo di fattispecie circostanziale con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla sua attrazione nel vortice del bilanciamento con eventuali attenuanti concorrenti ex art. 69 c.p. Ad un attento esame, però, questa conclusione non è obbligata. Il fatto descritto dal secondo comma dell’art. 613-bis c.p. è simile a quello del primo comma sotto il profilo della condotta, non anche per il resto. Ciò riabilita la tesi che si tratti di figure autonome di reato, accomunate dal groviglio delle problematiche concernenti le molteplici modalità esecutive.
4. Secondo il disposto dell’art. 613-bis, comma 1, c.p., la tortura è integrata da tre distinte condotte, necessariamente attive e rilevanti anche singolarmente, quali le violenze, le minacce gravi e l’agire con crudeltà.
Mentre le prime due sono tipizzate con un lessico ben noto alla parte speciale, la terza condotta, nel riproporre la dicitura della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p., sembrerebbe consistere in comportamenti anche doverosi o altrimenti leciti posti in essere con modalità tanto gratuite, quanto efferate o umilianti.
Il requisito della “crudeltà”, in mancanza di altre connotazioni dell’agire illecito, allenta la determinatezza della fattispecie incriminatrice nell’intento di abbracciare condotte torturanti non rientranti nella violenza o nella minaccia (come la deprivazione del sonno già conosciuta in epoca medievale e magnificata dal giurista Ippolito Marsili perché efficace pur senza affliggere il corpo). A ciò si aggiunga che di “crudeltà” si può parlare tanto al singolare, quanto al plurale. Il canone dell’interpretazione sistematica inclina per la seconda opzione. Questa preferenza non implica, però, che la tortura sia un reato abituale; essa semmai rompe le simmetrie che intercorrono con il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.
Le condotte descritte dall’art. 613-bis, comma 1, c.p. possono distanziarsi nel tempo o verificarsi in un unico contesto spazio-temporale, come accade nel caso del pestaggio eseguito attraverso una pluralità di percosse. Nel caso specifico, dunque, l’uso del plurale allude alla dimensione naturalistica della condotta, che deve cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.
Si tratta di eventi diversi. La sofferenza fisica può essere temporanea e non necessariamente patologica. Il trauma psichico, verificandosi in interiore homine, richiede per il suo accertamento un sapere specialistico di tipo consulenziale. Restano irragionevolmente atipiche le omissioni, pure in presenza di un obbligo di agire, come la privazione di acqua e cibo. Trattandosi di autentiche forme di tortura sarebbe stata opportuna la loro tipizzazione in un’apposita disposizione di legge.
5. Quanto al teatro dell’azione, si delineano altrettanti scenari.
Nel primo il soggetto passivo si trova in stato di privazione della libertà personale. Può trattarsi di una pregressa condizione di cattività (lecita o meno) o di una modalità esecutiva della tortura, con la conseguenza che in quest’ultimo caso il sequestro di persona rimane assorbito nel delitto di cui all’art. 613-bis c.p. quando cessano insieme.
Nel secondo contesto l’agente è legato al soggetto passivo da un preesistente rapporto di custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, quali elementi, non necessariamente normativi, espressivi di una relazione asimmetrica tra il reo e la vittima, che può essere anche di puro fatto. Il più delle volte il reo sarà un garante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. Ma non è questo che rileva ai nostri fini, bensì la forza condizionante dei poteri del reo che restringono la libertà della vittima.
Nel terzo e ultimo scenario, il soggetto passivo presenta una ridotta capacità di resistere o sottrarsi all’aggressione a causa delle sue condizioni, anche temporanee, di vulnerabilità fisica o psicologica.
6. Chiudono il primo comma dell’art. 613-bis c.p. due condizioni di punibilità tra loro indipendenti.
La prima richiede che il fatto sia commesso mediante più condotte, che, come si è detto, devono intendersi in senso naturalistico. Così facendo, il legislatore ha escluso la punibilità di singoli atti di violenza (come un’unica percossa), che potranno rilevare ai sensi di altre fattispecie. Si tratta di una soluzione discutibile perché taglia fuori dal raggio di azione della pena quelle torture unisussistenti e non altrimenti tipiche, come la simulazione dell’uccisione della vittima o il getto di acqua fredda sul corpo denudato del soggetto passivo.
La seconda condizione di punibilità consiste nel trattamento inumano e degradante quale conseguenza della condotta. In realtà e come si diceva, più che di un effetto della tortura, si tratta del suo principale carattere e va considerato come elemento costitutivo del reato.
7. Se la tortura privata (o comune) non richiede il possesso da parte del reo di una particolare qualifica soggettiva, potendo risultare sufficienti i corrispondenti poteri di fatto sulla vittima, la tortura c.d. di Stato, specie se la si considera una fattispecie autonoma, costituisce un reato esclusivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio.
Almeno un cenno merita il terzo comma dell’art. 613-bis c.p., che esclude la configurazione della tortura c.d. di Stato nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. La precisazione appare un tacito e ridondante richiamo della scriminate prevista dall’art. 51 c.p. È chiaro, infatti, che i contenuti afflittivi previsti dalla legge, primi tra tutti quelli propri della pena detentiva, non possono costituire atti di tortura per il principio di non contraddizione che caratterizza gli elementi negativi del fatto.
Questa precisazione impone di tornare sui rapporti con il delitto previsto all’art. 608 c.p. E precisamente, mentre la tortura infligge sofferenze che esorbitano dalle modalità esecutive delle misure limitative dei diritti, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti si mantiene pur sempre nell’orbita disciplinare. L’art. 608 c.p. incrimina la sottoposizione a misure di rigore non consentite sotto il profilo dei presupposti e della misura, ma comunque previste sotto il profilo tipologico.
8. La complessa e imperfetta articolazione del delitto di tortura si riflette sull’oggetto del dolo generico nel cui fuoco rientreranno, di volta in volta, le numerose e variegate sottofattispecie di cui si è detto. Un’ipotesi speciale di omicidio doloso, realizzata mediante tortura e punita con l’ergastolo, è prevista all’ultimo comma.
Necessariamente non voluti dovranno essere, invece, gli eventi aggravatori contemplati al quarto e quinto comma dell’art. 613-bis c.p., quali le lesioni personali, anche gravi e gravissime, e la morte del soggetto passivo. La lettera della legge conduce alla conclusione paradossale di ritenere inapplicabili proprio al delitto più grave i consistenti aumenti di pena previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 613-bis c.p. solo in relazione ai fatti di cui al primo comma.
Sotto il profilo commisurativo, dunque, la nuova figura di reato autorizza valutazioni molto diverse tra loro, che amplificano a dismisura la discrezionalità del giudicante. Questa volta non è l’interprete che invade uno spazio istituzionale altrui. È il carattere labirintico della tortura penalmente rilevante che delega al giudice la ricerca di vie d’uscita non tracciate dal progettista. Quanto più la scelta politico-criminale è compromissoria, tanto più deve rispettare i canoni della buona legislazione. La norma imperita genera mostri.
*Professore Ordinario di Diritto Penale, Università di Firenze
(Pubblicato in Ante Litteram n. 3 – dicembre 2024)