ANCHE AL PEGGIORE DEI NEMICI

di Fabio D’Offizi*

Leggendo i preziosi contributi monografici fin qui pubblicati su “Ante Litteram” in tema di tortura, ho ritenuto opportuno segnalare una vicenda processuale che, a parer mio, non gode dell’eco che meriterebbero tutti quei giudizi in cui vi è la tendenza a ribaltare il paradigma accusatorio garantista e, di conseguenza, a distorcere la procedura penale fino a intenderla quale neo-limite all’esercizio del diritto di difesa. In un sistema accusatorio garantista, infatti, le regole processuali devono limitare l’autorità procedente per bilanciare l’asimmetrico rapporto fra lo Stato, che avanza la pretesa punitiva, e il cittadino, a garanzia del quale sono poste. E ciò deve valere a fortiori se il delitto oggetto dell’accertamento è un crimine contro l’umanità, come lo è la tortura, anche se si tratti di quella propriamente intesa, ossia la terribile e inaccettabile pratica di interrogatorio medievale.

In tale prospettiva si inserisce la sentenza n. 192/2023 con cui la Consulta, in relazione al cd. Processo Regeni, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 420-bis, comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.

In particolare secondo la Consulta, il factum principis (ossia il rifiuto delle autorità egiziane di rendere noti i recapiti dei quattro funzionari ai fini della notifica della loro vocatio in iudicium) ha determinato obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla, e idonea a impedire il compimento degli accertamenti giudiziali previsti in sede pattizia, così ledendo la dignità della persona offesa perché comprime il suo diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti e quello dei familiari della persona la cui morte sia stata causata direttamente da quel reato[1].

Sulla scorta di queste ragioni, ampliando il novero delle ipotesi di assenza non impeditiva previste dal terzo comma dell’art. 420-bis c.p.p., la Corte costituzionale ha permesso la celebrazione, a carico di quattro assenti inconsapevoli, di un giudizio che a breve si concluderà, seppur caratterizzato ab initio «dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini»[2].

In un contesto mediatico dai risvolti altamente politici, questa scelta del giudice delle leggi mi è parsa un’operazione ermeneutica giustificata più da una spinta esterna di matrice vagamente populista che dall’asserita necessità di bilanciare interessi confliggenti ma al contempo riconosciuti dalla carta fondamentale. Infatti, in tale prospettiva, la ritengo opinabile per due ordini di motivi.

In primo luogo, il bilanciamento operato dalla Consulta non mi convince nel relazionare il diritto di difesa con il “diritto inviolabile della persona che del reato di tortura è stata vittima”, poiché altrimenti (ossia impedendo sine die la celebrazione del processo per la verifica del reato di tortura) si annullerebbe il suo diritto fondamentale all’accertamento della verità. A mio parere, tale impostazione presta il fianco a due differenti critiche. Per un verso, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza che assiste anche i quattro funzionari egiziani, non può esservi aprioristicamente una “vittima” perché, in un ordinamento pienamente democratico, tale status soggettivo dovrebbe maturare solamente al momento del passaggio in giudicato della condanna emessa al di là di ogni ragionevole dubbio, ossia solamente quando viene accertato il “colpevole”. Fino ad allora in un giusto processo, proprio in ossequio alla presunzione di non colpevolezza, non potrà esservi per definizione una “vittima”, ma al più una “presunta vittima”, almeno in relazione a quello specifico “presunto non colpevole”, quindi bilanciare l’inviolabile diritto di difesa di quest’ultimo con un diritto all’accertamento della “presunta vittima” mi lascia perplesso. Per altro verso, l’accertamento processuale è direttamente proporzionale al rispetto delle regole che lo disciplinano; quindi, una procedura deviata ab initio restituirà una “verità” quanto meno dubbia, incerta, se non addirittura discutibile e non convincente, con ciò negandosi la stessa funzione conoscitiva del processo penale e, pertanto, anche il menzionato diritto della “vittima” alla verità. Quest’ultima, infatti, conseguirà a un non-accertamento, frutto della sola posizione accusatoria, che nel percorso processuale avrà beneficiato illegittimamente della mancanza di un vero contraddittorio a causa dell’assenza incolpevole degli accusati.

In secondo luogo, se la Consulta, da un lato, pone il diritto partecipativo dell’imputato[3] (funzionale all’esercizio della cd. autodifesa, che compone il diritto di difesa nell’interazione con il concorrente diritto alla difesa tecnica, rispetto al quale rimane comunque distinto e ulteriore[4]) e, dall’altro, il diritto/dovere dello Stato di perseguire tutti i reati, bilanciarli negando la pienezza del primo significa avvantaggiare irragionevolmente il secondo, perché si pregiudica in modo irrimediabile il diritto inviolabile di difesa. Infatti, la mancata conoscenza da parte dell’imputato della vocatio in iudicium (caposaldo del giudizio penale) non è altrimenti surrogabile e rappresenta un vulnus irreparabile che elide l’idea stessa di giusto processo, ossia dello strumento democratico attraverso cui lo Stato può svolgere l’interesse repressivo… anche in relazione ai crimini contro l’umanità. Anzi, tanto più grave è il reato, tanto maggiori devono essere le garanzie che lo Stato assicura al presunto non colpevole, per dimostrare di tal guisa, anche al peggiore dei nemici, la propria superiorità democratica.

Prendendo dichiaratamente atto del pregiudizio che stava arrecando al sistema alla cui tutela sarebbe invece preposta, la Consulta ha ritenuto comunque possibile ridurre questo vulnus a legittimità «per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio[5][…] un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato, riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale[6]», anche perché «[l]’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento penale corrisponde a un obbligo costituzionale e sovranazionale, e già solo per questo non è mai inutile, ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’imputato[7]». 

Seppur per esigenza di brevità queste conclusioni siano state private delle relative argomentazioni poste a sostegno, mi pare preoccupante già solo ipotizzare un giusto processo senza l’accusato e nel quale le sue garanzie partecipative possano essere temporalmente riallocate (ossia non poste all’inizio del giudizio, ma operanti in via eventuale e, comunque, postuma), figurarsi poi se tali possibilità siano vergate expressis verbis in una sentenza costituzionale additiva. Ed a voler entrare nel dettaglio del ragionamento offerto dalla Consulta, tale preoccupazione si acuisce perché non mi pare neanche che vi sia quella amplissima possibilità di riapertura e rinnovazione del processo spettante agli imputati a cui fa menzione il giudice delle leggi[8], seppur la indichi come “necessaria” per la conformità alle prescrizioni degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, nonché “sufficiente” per non ridurre quel processo a un simulacro.

A ben vedere, infatti, se l’ordinanza di assenza nel cd. Processo Regeni è stata emessa ai sensi della “nuova” ipotesi addizionale introdotta al comma 3 dell’art. 420-bis c.p.p., allora essa è “ben dichiarata” e, pertanto, l’eventuale comparsa degli imputati non gli permetterà di accedere a un’eventuale rescissione del giudicato (rimedio straordinario riservato alle ipotesi di assenza “mal dichiarata”), ma solamente a una restituzione nel termine ex art. 175 c.p.p. che, per sua natura, non travolge le prove già acquisite in assenza dell’accusato. Una limitazione che, in caso di condanna, sarà poi inevitabilmente aggravata dalle preclusioni imposte dal novellato art. 581, comma 1-quater c.p.p., che pone a carico del solo difensore d’ufficio dell’imputato assente l’obbligo di munirsi del mandato specifico a impugnare, contenente altresì la sua elezione di domicilio. Tale duplice constatazione conferma ulteriormente, a parer mio, come non vi possano essere garanzie o tutele ex post in grado di sostituire o controbilanciare la primigenia lesione del diritto partecipativo di un imputato assente inconsapevole, essendo la cd. autodifesa il cardine di ogni processo penale giusto, nel quale l’assenza è una rinuncia volontaria e informata a partecipare.

Sulla scorta di queste riflessioni e alla luce dei probabili effetti che l’attuale assetto del regime delle impugnazioni cagionerà sugli sviluppi del cd. Processo Regeni, la disumana e prolungata tortura a cui è stato certamente sottoposto il nostro giovane connazionale prima di essere ucciso non può mai giustificare la creazione di una “procedura penale speciale”, ossia la consapevole ed eccezionale distorsione delle regole processuali al fine di poter così giudicare il Nemico. D’altronde, non mi paiono diversamente interpretabili la scelta della Consulta di consentire l’inizio di un processo penale in virtù di una fictio iuris a cui il nostro Stato pareva aver definitivamente rinunciato con il superamento della contumacia in favore dell’assenza, nonché quella di creare una categoria di “super reati” da accertare ad ogni costo e finanche in ogni modo, ponendoli così al vertice di innovative (rectius: improprie) scale valoriali fra i delitti, in spregio del principio di uguaglianza.

Per queste ragioni, e qui concludo, la tortura merita certamente ogni doverosa attenzione da parte del Legislatore e di noi giuristi, ma al momento della celebrazione del relativo processo penale la parte debole è, come in ogni altra ipotesi delittuosa, l’accusato e, proprio per questa comune regola processuale su cui si impernia il nostro Stato di diritto, non si può esorbitare dal giusto processo come delineato dal dettato costituzionale e codicistico, anche se al cospetto del più abietto dei reati universali o del peggiore dei Nemici.

*Avvocato – Camera Penale di Tivoli e Responsabile dell’Osservatorio Difesa d’Ufficio U.C.P.I. “Paola Rebecchi”

 

[1] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 9.3 Considerato in diritto. «Pertanto, la lacuna normativa denunciata dal rimettente viola l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura; ma viola anche l’art. 2 Cost., in quanto, impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima. Invero, nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità. E ancora, la lacuna normativa censurata dal rimettente viola il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Tale lacuna apre infatti irragionevolmente uno spazio di immunità penale, quale si riscontra in un quadro normativo che impedisce di compiere quegli stessi accertamenti giudiziali che sono stati previsti in sede pattizia; accertamenti tanto più necessari in quanto lo Stato italiano, in sede di ratifica della CAT, ha optato per l’esercizio della giurisdizione penale sui reati di tortura commessi all’estero in danno dei propri cittadini».
[2] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 3 Considerato in diritto.
[3] Il diritto dell’imputato di presenziare al processo ha natura di diritto fondamentale, garantito in particolare dal terzo comma dell’art. 111 Cost., in sintonia con il paragrafo 3 dell’art. 6 CEDU, secondo cui «[n]el processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo».
[4] Cfr. C. cost, sent. n. 65/2023.
[5] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 10 Considerato in diritto.
[6] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 12 Considerato in diritto.
[7] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 17 Considerato in diritto.
[8] Cfr. C. cost., sent. n. 192/2023, § 17 Considerato in diritto «All’imputato stesso, d’altronde, resta garantita ogni facoltà di far sentire la sua voce».

Torna in alto