L’«UNICA SOLUZIONE POSSIBILE»… È UN’ALTRA. ANCORA CONTRO LA TORTURA

di Marina Lalatta Costerbosa* –

Nel suo libro Salvare una vita si può, il filosofo utilitarista Peter Singer scrive: «Prendiamo come esempio l’argomentazione secondo cui la tortura è una pratica da condannare in qualunque caso. Vista la ben documentata propensione di carcerieri e polizia a compiere atti di violenza sui prigionieri e la bassa probabilità di ottenere informazioni utili per mezzo della tortura, sembra verosimile che condannando in toto tale pratica si raggiungano i risultati migliori. Tuttavia, potrei argomentare che se mi trovassi nella assai improbabile condizione in cui solo torturando un terrorista sarebbe possibile evitare l’esplosione di una bomba atomica nel centro di New York, sarebbe mio dovere torturare il terrorista. A volte il mio dovere di individuo non coincide con ciò che prescrive il migliore dei codici morali»1.

In una prospettiva simile incontriamo anche la tesi di Michael Walzer sul politico dalle mani sporche. Walzer, nel suo Political Action: The Problem of Dirty Hands, capovolge le note pagine del saggio Sulla pace perpetua nelle quali Kant ci offriva una visione alta della politica e della filosofia proponendone l’intreccio, sì da favorirne il reciproco sostegno.

Come aveva osservato in una sua intensa intervista quasi due secoli dopo Hannah Arendt,  Kant è stato il filosofo anche autenticamente «politico»2. Per Kant il politico, il «politico morale», nulla ha a che fare con il «moralista politico». Il politico “morale” è colui che tenta di costruire e di sostenere la pubblica libertà di espressione e di pensiero per ogni cittadino, la «libertà della penna», al fine di creare quelle condizioni esterne di possibilità (il diritto) in grado di assicurare il rispetto di ciascuno nella sua autonomia.

In una sorta di eroicizzazione del politico disposto a «intrare nel male, necessitato», secondo Walzer, il “politico morale” è, al contrario, disposto a ricorrere, ove indispensabile, anche alla spregiudicatezza, persino alla tortura. Anzi, il politico “morale” lo si riconoscerebbe per lui proprio dalle «mani sporche», che denoterebbero non illegittimità, bensì assenza di ipocrisia e assunzione di responsabilità3. A essere così capovolto è il ragionamento kantiano, e pure l’intendimento di Sartre sotteso al dramma teatrale del 1948 «Le mani sporche», in cui veniva sollevato il problema relativo alla possibilità di esercitare il potere in modo innocente. La risposta di Sartre, con riferimento specifico alla tortura, era stata consegnata alla nota introduttiva di Tortura, la testimonianza tristemente toccante del giornalista Henri Alleg, il racconto delle torture da lui subite in Algeria per mano francese4.

È un testo prezioso, in cui Sartre denuncia la sistematica e devastante futilità della tortura, «vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori di portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo, se applica la question dovrà sempre ricominciare» 5. Si tortura per torturare, il suo scopo è solo apparentemente legato al contenuto di verità delle informazioni o alla loro utilità. È esibizione tremenda di potere fine a se stessa, destinata a reiterarsi.

Nella stessa scia di Walzer, e più di recente di Singer, si era collocato invece in passato Niklas Luhmann.

In una conferenza tenuta a Heidelberg nel 1992, il noto sociologo aveva proposto l’ormai consueto scenario tipico dell’argomento della bomba a orologeria, ritraendo una grande quantità di terroristi (di destra e di sinistra) in possesso di diverse bombe atomiche, pronti a usarle6. Su questo sfondo egli arrivava a formulare la domanda cruciale e, dal suo punto di vista, solo retorica, relativa a cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. La conclusione è che accederemmo al terreno della tortura, dimostrando coi fatti che nessuna norma possa più dirsi valida in senso assoluto, neppure quella che vieti il ricorso alla tortura.

Evidente qui la doppia fallacia dell’argomentazione: da un lato, la fallacia dell’analogia tra l’individuo privato e lo Stato (di diritto), e dall’altro, la fallacia dello scenario apocalittico, immaginato nella fantasia per trarre conclusioni valide nella realtà. 

Come è noto, sono numerosi gli argomenti che nel dibattito internazionale, in corso da più di vent’anni, vengono avanzati per sostenere la compatibilità della tortura con un diritto democratico. Altrettanti e più forti sono però i controargomenti che si possono presentare per confutarne la correttezza e l’ammissibilità, logica e politico-morale7.

Tra questi vorrei qui soffermarmi soltanto su due falsi argomenti, forse tra quelli che più di frequente ricorrono, mostrando la loro grande capacità persuasiva; inossidabili nonostante l’intrinseca precarietà teorica. Sono gli stessi falsi argomenti che vengono utilizzati spesso per giustificare le guerre, le presunte guerre “giuste”.

Il primo è stato definito «argomento dei danni collaterali». Così lo descrive Ernesto Garzon Valdés nel suo bel saggio Guerra e diritti umani. «L’espressione “danni collaterali” – afferma – è un eufemismo per designare la morte di civili innocenti e la distruzione di obiettivi non militari come scuole, ospedali, musei o fabbriche destinate a una produzione non militare. Il ricorso all’argomento dei “danni collaterali” è una variante dell’argomento del doppio effetto che consente di giustificare un qualsiasi danno, purché l’intenzione del soggetto agente non sia di provocare un danno, bensì quella di perseguire un bene. La debolezza morale di questa argomentazione è nota»8.

In questo contesto Garzon Valdés introduce l’argomento per contestarne la validità se usato in particolare per legittimare guerre d’intervento umanitario; la stessa obiezione che avanza per questo caso vale tuttavia senz’altro quando essa viene impiegata a favore della tortura in un contesto democratico. Si tratta di un vecchio argomento, risalente persino all’etica tomista, ma, appunto, in un ambito discorsivo e teorico ben diverso, fondato su presupposti teologici e metafisici. Se trasferito su di un terreno che non può essere né l’una cosa né l’altra, pena l’inattuale uscita da uno scenario politico e giuridico laico e democratico, non può che cedere a fronte dell’obiezione secondo la quale «contro l’’argomento dell’irrilevanza dei danni collaterali‘ si può muovere l’argomento della fallacia morale del “doppio effetto”»9, della sua non pertinenza, giusta la sua implicita, ma costitutiva, relativizzazione del valore della persona umana, rispetto alla quale è sempre possibile una strumentalizzazione o un “sacrificio” in nome di un bene superiore. Peccato che in una democrazia un bene superiore non possa darsi.

Il secondo argomento sul quale ancora con più forza vorremmo richiamare l’attenzione è il cosiddetto “argomento dell’unica soluzione possibile”. Scegliamo anche in questo caso di tornare alle riflessioni proposte nel saggio già ricordato da Garzon Valdés.

«L’“argomento dell’unica soluzione possibile” si propone quale espediente giustificativo di un ragionamento controfattuale: se la condotta d’azione fosse stata diversa da quella adottata (l’intervento armato) [la tortura, aggiungiamo noi], si sarebbero verificati danni più gravi di quelli provocati dall’intervento armato [dalle pratiche di tortura]»10. Senza alcuna verifica o evidenza empirica, senza neppure il tentativo di addurne qualcuna, si esibisce totale chiusura a ogni ipotesi diplomatica o a ogni tattica investigativa o difensiva compatibile con un tessuto giuridico-politico rispettoso dell’habeas corpus. E così, non resta che osservare come «“sbattere la porta” conduca il soggetto che agisce in un vicolo cieco, a un predicament, ovvero, in una situazione in cui l’unica soluzione possibile è deonticamente proibita. Tuttavia al predicament si giunge solo “attraverso qualche precedente peccato o violazione dell’ordinamento normativo”»11. Insomma, si tratta di una scelta, non di una impossibilità: la scelta di rifiutare le vie della diplomazia o di altri strumenti di intervento alternativi alla violenza per ottenere il risultato voluto, sulla scorta del pre-giudizio, promosso a giudizio ponderato, che ogni altra via sia preclusa, inefficace o fallimentare. 

Sicuramente l’argomento del ticking bomb sconta, ancora prima di venire introdotto, questo preliminare e generalissimo deficit argomentativo. Il quadro tuttavia si aggrava, dal punto di vista del difensore “democratico” della tortura, quando cerca di sostenerne l’utilità e dunque il dovere persino morale di farvi ricorso.

Come già aveva detto Montaigne nel Cinquecento, due scoli prima della stagione abolizionista settecentesca, la tortura rappresenta una pratica disumana e inutile che si ritorce contro coloro che a essa fanno ricorso, come avviene per la vespa che «punge e fa male ad altri, ma più a se stessa, poiché perde il suo pungiglione e la sua forza per sempre». «Quella dei supplizi – osserva nel saggio sulla Coscienza, dedicato al tema e alla condanna della tortura – è un’invenzione pericolosa, e sembra che sia piuttosto un modo di mettere alla prova la pazienza che la verità. E colui che li può sopportare, nasconde la verità come colui che non li può sopportare. Infatti per quale ragione il dolore mi farà confessare quello che è, piuttosto che forzarmi a dire quello che non è? E, al contrario, se colui che non ha commesso ciò di cui lo si accusa è abbastanza paziente per sopportare quei tormenti, perché non lo sarà colui che l’ha commesso, dato che gli sarà promessa una così bella ricompensa come la vita? Penso che il fondamento di quella invenzione è basato sulla considerazione dello sforzo che fa la coscienza. Infatti, nel colpevole, sembra che essa dia forza all’innocente a sopportare la tortura. A dir vero essa è un mezzo pieno di incertezza e di pericolo […]. Da ciò deriva che quello che il giudice ha messo alla tortura per non farlo morire innocente, lo faccia morire innocente e torturato. Molto disumanamente tuttavia e molto inutilmente, secondo me! Che colpa ha egli della vostra ignoranza? Non siete forse ingiusti voi che per non ucciderlo senza ragione, gli fate peggio che ucciderlo?»12. Inutilità dunque sia rispetto all’intenzione di estorcere al sospettato la confessione sia per ottenere informazioni eventualmente in suo possesso.

Resta a questo punto un’ultima possibilità per l’avvocato della tortura “democratica”, “umanitaria” o “moderata” – come ancora talvolta viene definita –, impegnato a difenderla sulla scorta dell’argomento utilitaristico della bomba a orologeria.

Siamo al cospetto però non di un’utilità giudiziaria ma eventualmente politica.  Il criterio dell’utile, assunto a fondamento del giudizio di legittimità di un’azione o di una norma nello scenario teorico utilitaristico, nel quale rientra l’argomento della bomba a orologeria, è da esso applicato in modo scorretto. Se si vuole suggerire che la tortura sia utile sul terreno giudiziario si sostiene qualcosa di palesemente inconsistente, se lo si fa valere in senso politico, allora si afferma qualcosa di verosimile, ma di non pertinente. Una qualche specie di utilità per l’autorità politica potrà anche darsi, ma essa dovrebbe essere quantomeno dichiarata. Si dovrebbe ammettere l’indicibile per uno Stato di diritto, ovvero di compiere una scelta che consapevolmente condurrebbe l’ordine giuridico-politico al di fuori del perimetro di una società politica democratica: per la quale la persona umana non può essere ridotta a cosa, non può avere un prezzo. Se non si vuole perdere tutto, per dirla con Kant, è necessario allora investire le proprie energie nella ricerca di alternative migliori, sul piano pratico, e, sul terreno teorico, coerenti con i principi di giustizia di uno Stato di diritto democratico.

*Professoressa Ordinaria di Filosofia, Università di Bologna

 

1. Peter Singer, The Life You Can Save; trad. it. Salvare una vita si può, il Saggiatore, Milano 2009, p. 152.
2. Hannah Arendt, Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, in Guenter Gaus, Zur Person, Piper, München 1965 [trad. it. in La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Mimesis, Milano-Udine 1993].
3. Michael Walzer, Political Action: The Problem of Dirty Hands, «Philosophy and Public Affairs», 2, 1973, pp. 160-80 [trad. it. in id., Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, a cura di Thomas Casadei, Diabasis, Reggio Emilia 2002, pp. 1-26].
4. Jean-Paul Sartre, Saggio introduttivo a Henri Alleg, La question (1958); trad. it. La tortura, Giulio Einaudi, Torino 1959, pp. 5-21.
5. Ivi, p. 17.
6. Niklas Luhmann, Gibt es in unserer Gesellschaft noch unverzichtbare Normen?, C.F. Müller Juristischer Verlag, Heidelberg 1993.
7. Per una ricognizione storica, concettuale e argomentativa, ci permettiamo di rinviare a Marina Lalatta Costerbosa,
Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, DeriveApprodi, Roma 2016.
8. Ernesto Garzon Valdés, Guerra e diritti umani, «dianoia. Rivista di filosofia», 1, 2025 (in corso di pubblicazione).
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Michel de Montaigne, Essais (1580); trad. it. Saggi, a cura di Vincenzo Enrico, Arnoldo Mondadori, Milano 1986, Libro II, pp. 42-46.

(Già pubblicato su Ante Litteram n. 3 – dicembre 2024)

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