di Tullio Padovani* –
Sommario: 1. La fine del processo ordalico. – 2. L’introduzione della tortura giudiziaria. – 3. La resistenza alla sua eliminazione e forme di sopravvivenza. – 4. La Convenzione internazionale del 1994 e la sua problematica attuazione nell’ordinamento italiano.
1. La tortura è un mostro che ha dominato la scena del processo penale per molti secoli, dopo esservisi introdotta sulla scia di una grande riforma di civiltà: mai forse
l’eterogenesi dei fini ebbe modo di esprimersi con più paradossale inversione. Prima che la tortura fagocitasse nel giudizio penale i mezzi di ricerca della prova, la decisione sulla responsabilità o la risoluzione del conflitto giudiziario era infatti basata sul sistema delle ordalie, e cioè su una procedura probatoria il cui esito veniva affidato al “giudizio di Dio”, espresso mediante un giuramento, un duello, oppure sottoponendo una delle parti, o entrambe, ad una situazione di grave pericolo personale. L’esito della prova determinava la risoluzione della controversia e, comunque, il contenuto simmetrico della decisione. Il presupposto dell’ordalia era pertanto costituito da una sorta di “scommessa” religiosa: Dio avrebbe salvato l’innocente, identificando il responsabile.
Di qui la necessità di un appropriato rituale che corroborasse la dimensione “religiosa” e ne assicurasse l’efficacia decisoria: il necessario intervento di un chierico, la somministrazione preventiva dell’eucarestia e la benedizione delle armi.
Il progresso segnato dalla civiltà dopo l’anno mille consentì di scorgere, con evidenza progressivamente crescente, l’assurdità blasfema di un simile sistema processuale.
Il passo decisivo per il suo superamento fu compiuto da papa Innocenzo III, uomo di profonda cultura, con il IV Concilio Lateranense del 1215. Tra le molte decisioni destinate ad avere stabile ripercussione nella struttura della Chiesa (tra le molte il celibato obbligatorio dei preti), il capitolo XVIII delle deliberazioni conciliari sancì anche il divieto tassativo ai chierici di prestare il proprio ministero per lo svolgimento di un rito ordalico, che, in questo modo, veniva privato del sostegno “religioso”. Avrebbe certo potuto sopravvivere ugualmente in gestione “laica”, anche se con minore “dignità”, ma a scongiurare una tale persistenza (probabilmente manifestatasi dopo l’adozione del divieto rivolto ai chierici), intervenne il Concilio di Valladolid, convocato da Giovanni XXII nel 1322, il cui capitolo XVII comminò la scomunica latae sententiae a chiunque avesse preso parte ad un giudizio ordalico.
La portata generale del divieto e la sua sanzione da parte della Chiesa nei confronti della totalità dei fedeli schiudeva così le porte della modernità. L’ordalia, riconosciuta come una patente violazione di una prescrizione del decalogo: non nominare il nome di Dio invano, si profilava così in tutta la sua dissennata infondatezza. Non potendo in alcun modo garantire l’intervento di Dio nell’esito della prova, esponeva gli innocenti al rischio di un’ingiusta condanna, mentre offriva ai colpevoli l’opportunità di un arbitrario salvacondotto.
Peraltro, la struttura dell’ordalia sopravvisse, sotto diverse spoglie, in quelli che diventeranno gli ordinamenti di common law. La forza soprannaturale sarà sostituita dalla forza dei cittadini riuniti: la giuria, composta da dodici persone, membri della stessa comunità cui appartiene l’imputato (e, quindi, suoi «pari»), chiamati a pronunciare un giudizio unanime, dopo aver assistito ad un “duello” giudiziario da parte di accusa e difesa rispettivamente impegnate nell’esibizione delle prove a carico ed a discarico in presenza e sotto il controllo di un arbitro imparziale: il giudice. Il numero (dodici erano gli apostoli) e l’esito (la convergenza unanime delle opinioni) “assicuravano” la fondatezza del verdetto immotivato, che appariva quindi assunto all’esito di uno scontro che, in termini simbolici, rispecchiava e riproduceva l’originario duello ordalico.
2. Ben diverso fu l’esito dell’abolizione del giudizio ordalico nell’Europa continentale, dove si afferma l’idea che la giustizia si legittima soltanto se il suo fondamento è costituito non da una verità per così dire “stipulativa”, raggiunta all’esito di una contesa giudiziaria attraverso il verdetto unanime della giuria, ma da una verità “materiale” intesa come obiettiva adaequatio intellectus et rei. La sua ricerca viene perciò affidata ad un funzionario pubblico qualificato – il giudice – che la ricercherà secondo un metodo razionale. Il sistema probatorio disponibile appare tuttavia periclitante: le prove dirette non sono sempre disponibili; quelle indirette sono sempre inaffidabili. Il criterio di risoluzione del dubbio si staglia all’orizzonte mediante il recupero di un vetusto istituto già noto al diritto romano, ma progressivamente emarginato dal sistema giudiziario: la tortura probatoria, che si inserisce, se non come esito ineludibile, certo come strumento ritenuto consentaneo all’obiettivo primario assegnato al nascente processo inquisitorio: per l’appunto, la ricerca della verità materiale. Molto rapidamente la tortura entrò dunque a vele spiegate nel processo penale dell’Europa continentale e vi permase sino al XVII secolo, con risultati a dir poco rovinosi.
In effetti, la percezione dell’inaffidabilità delle dichiarazioni ottenute attraverso i tormenti apparve chiara anche prima che la riforma illuministica la denunciasse con impeto e vigore, determinando la soppressione dell’odioso istituto. Ma il valore simbolico della confessione, anche se ottenuta all’esito di tormenti reiterati e insopportabili, rintuzzò a lungo le obiezioni razionali opposte a una tale barbarie. In realtà, poiché la tortura avrebbe dovuto essere disposta solo in presenza di indizi qualificati di reità, la sua successiva adozione finiva col costituire, in termini di costruzione dell’accusa, solo una sorta di “conferma”. Ma come ha giustamente rilevato Antoine Garapon (Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, 2007, p. 150), «il processo inquisitorio somiglia a una scommessa progressiva sulla colpevolezza dell’imputato»: ogni sua fase trae fondamento dalla precedente e ne convalida la prospettiva, per cui gli indizi sufficienti a torturare corroborano e convalidano la confessione, pur estorta tra atroci dolori.
Sintetizzando le ragioni di fondo della battaglia contro la tortura giudiziaria Cesare Beccaria, nel XVI capitolo Dei delitti e delle pene, scriveva che essa «è un mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti». D’altra parte, l’unanimità della condanna si spezza quando si tratta di valutare la plausibilità di una particolare forma di tortura, compresa nella formula quaestio in caput sociorum, applicata a chi avesse già confessato la propria responsabilità (o fosse raggiunto da prova certa di essa), per indurlo a rivelare i nomi dei complici la cui presenza fosse accertata. Le ragioni a sostegno della tortura in ipotesi di questo tipo erano variamente atteggiate. Il reo convinto sarebbe tenuto, in quanto testimone, a rivelare l’identità dei complici: in questa prospettiva la tortura costituirebbe la ‘legittima’ conseguenza di un illecito. Peraltro, essa sarebbe anche idonea a soddisfare le esigenze probatorie, sia perché le indicazioni fornite dal reo debbono poi essere sottoposte a verifica e riscontro, sia perché si può ben presumere che, nulla avendo da guadagnare, il reo si asterrebbe dall’indicare innocenti, correndo il rischio di subire una condanna ulteriore per calunnia.
In realtà, l’artificio che sorreggeva (e storicamente sorresse) lo sforzo di tenere in vita la quaestio in caput sociorum venne colto, in largo anticipo sui tempi di maturazione della polemica illuministica contro la tortura giudiziaria, da Friedrich von Spee, gesuita tedesco che nell’infuriare della caccia alle streghe divampata in Germania nella prima metà del Seicento, svolgeva le funzioni di confessore delle streghe condannate al rogo. Personalità straordinaria, in cui fede e intelletto, carità e raziocinio mai procedevano disgiunti, von Spee era pienamente consapevole dell’assurdità abominevole di quello sterminio. Non poteva ovviamente dichiararlo apertamente, ma trovò il modo di dirlo, nella sua Cautio criminalis – un classico “assoluto” mai abbastanza coltivato e meditato -, non discutendo dell’esistenza delle streghe, alla quale tributa formale omaggio, ma precisando tuttavia di non averne mai incontrata alcuna (pur essendo il confessore di tutte). Concedendo alla superstizione il minimo indispensabile per non sconfinare nell’eresia, von Spee può allora procedere ad una serrata e travolgente critica dell’inquisizione in materia stregonesca, concepita ed esercitata in modo da riconoscere la colpa in persone del tutto innocenti. Nell’ambito di questa critica emerge, ovviamente, anche il problema della quaestio in caput sociorum, che veniva largamente utilizzata nei confronti delle “streghe”, già confesse in seguito a tortura, affinché rivelassero i nomi delle loro sodali. La critica di von Spee è lucida ed impeccabile. Argomenta mutuando il punto di vista dei contraddittori, e rileva: se la persona sottoposta alla quaestio non è una strega, è evidentemente inutile torturarla per costringerla rivelare i nomi delle comari, perché non esistono; se si tratta invece di una strega, come pure è possibile, allora bisogna presupporre che sia governata dal demonio, per cui, torturandola, si otterranno verosimilmente indicazioni calunniose, di nessuna affidabilità.
Per quanto confinata nel contesto della lotta alle streghe (il ruolo del demonio non potrebbe certo essere evocato in una vicenda giudiziaria “laica”), l’argomentazione è strutturalmente solida. Il reo sottoposto a tortura potrebbe essere indotto ad una falsa dichiarazione dalle più diverse ragioni, non ultima quella di porre fine ai tormenti, o quella di lucrare benevolenza o favori, o di colpire innocenti per odio od ostilità.
3. D’altro canto, appare significativo come la discussione circa la “legittimità” della tortura in taluni casi e frangenti si sia perpetuata sino ai giorni nostri. Anzi, essa è in realtà sopravvissuta all’abrogazione della tortura, sia pure in abiti diversi, a mala pena capaci di dissimularne il sembiante reale.
Mentre avanza e procede l’abrogazione della tortura nei diversi ordinamenti europei, il primo ad essere colto dal dubbio è Jeremy Bentham, che, in alcuni manoscritti del 1770, rimasti inediti per oltre due secoli, prospetta una revisione, sia pur parziale, del pensiero abolizionista. «Se qualche anno fa – scrive Bentham – mi avessero detto che in qualche caso avrei potuto approvare qualcosa cui possa essere attribuito propriamente il nome di “tortura”, avrei pensato che mi si faceva un grave torto». Ma, in realtà, soggiunge di aver dovuto correggere «l’iniziale sentire alla luce di una più approfondita considerazione dell’utilità». La sua discussione si rivolge quindi alla valutazione dei limiti entro cui dovrebbe poter essere mantenuto il ricorso alla tortura. Non è possibile analizzare partitamente il suo pensiero; è però interessante rilevare che il caso più evidente di utilità ragionevole gli appare più intenso proprio quando si tratta di ottenere la rivelazione del nome dei complici. Il presupposto è ovviamente che il reo sia tenuto a rispondere, e se è certa l’esistenza di concorrenti, una tortura “ragionevole” sarebbe allora del tutto legittima (J. BENTHAM, Of Torture, in W. L. ed E. Twining, Bentham On Torture, in Northern Ireland Legal Quarterly, 3, 1973, p. 305 ss.).
Oggi, l’usbergo contro la tortura in caput sociorum è rappresentato dal riconoscimento del principio nemo tenetur se detergere, in forza del quale l’imputato «ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda», salvo quella relativa alla verifica dell’identità personale (art. 64, c. 3, lett. b c.p.p.). In questa fase interviene piuttosto la sollecitazione premiale, consistente nella prospettiva di impunità o di consistenti riduzioni di pena per la “collaborazione” processuale prestata, ovviamente anche attraverso l’indicazione dei complici. L’inquisizione non si esercita più per tormenta, ma può farsi soave. Ma, come sagacemente scriveva Giovanni Carmignani, «l’utilità di questo espediente, qualunque ella possa essere, se sembra favorevole al bisogno del metodo giudiziario, questo bisogno non esiste se non nella petizione di principio, che informa la tortura: con questa differenza soltanto che la tortura aspira a convertire in criterio di verità il dolore, e la impunità aspira a ottenere lo scopo medesimo col piacere: che la prima cerca la confessione, e la seconda l’accusa, l’una dannosa a chi la emette, l’altra ad un terzo dannosa, a che l’una, e l’altra cercando il vero nè suggerimenti dell’interesse corre il rischio di allontanarsene quando più crede d’esservisi avvicinata» (G. CARMIGNANI, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, III, Pisa 1832, p. 241).
A questa forma di “conversione” della quaestio si affiancano tuttavia forme di sopravvivenza assai più losche. Una vasta categoria di rei, imputati e condannati, subisce una detenzione disegnata secondo il triangolo degli artt. 4-bis, 58-ter e 41-bis ord. penit.. L’art. 4-bis esclude dai c.d. benefici penitenziari ordinari una serie di condannati e internati per una lunga serie di delitti; la preclusione è rimossa, in base all’art. 58-ter, rispetto a coloro che, anche dopo la condanna, abbiano prestato un’efficace collaborazione, anche «per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». Già questo binomio delinea un meccanismo in cui si tratta, in definitiva, di rimuovere una sofferenza aggiuntiva rispetto al regime penitenziario comune e in cui il recupero dello status ordinario è determinato (anche) dall’indicazione dei correi: una riedizione della quaestio in caput sociorum attraverso non sofferenze fisiche, ma restrizioni ulteriori della propria condizione carceraria.
Alle sofferenze fisiche e ai trattamenti inumani si rivolge invece il regime del famigerato art. 41-bis, non a caso e non a torto definito come forma di «tortura democratica» (S. D’ELIA – M. TURCO, Tortura democratica. Inchiesta su «La comunità del 41 bis reale», Venezia 2002): tortura, perché i suoi contenuti sono spesso costituiti da nient’altro che da una gratuita inflizione supplementare di sofferenze, del tutto avulsa e del tutto estranea alle speciali esigenze di prevenzione cui il regime si proclama istituzionalmente rivolto; democratica, perché si tratta di una norma formalmente inserita in un ordinamento democratico, mentre essa appartiene sostanzialmente ed effettivamente alla tirannide.
4. Perduta la legittimazione a percorrere i sentieri aperti del sistema penale, la tortura è sprofondata nei fiumi carsici degli arcana amperii, divenendo l’oscuro e denegato strumento cui ricorrono servizi di sicurezza, forze di polizia e apparati militari (coperti da immunità di fatto), per estorcere informazioni, punire presunti colpevoli o reprimere dissidenti politici, membri di minoranze discriminate, nemici ideologici e così via. Anche in questa nuova dimensione, occulta ed illecita, la tortura continua tuttavia pur sempre a gravitare intorno al rapporto tra autorità e individuo, di cui esprime una delle più odiose forme di perversione. Mediante i tormenti, la soggezione dell’individuo, da condizione giuridica definita entro confini invalicabili, si converte in arbitraria balìa; il potere dell’autorità pubblica, da funzione regolata dalla legge, si traduce in arbitrio violento. È per questo che la tortura non offende tanto e solo i beni della persona di volta in volta aggrediti, ma, soprattutto, demolisce lo status di cittadino e di persona in chi la subisce, degradandolo ad oggetto senza diritti e senza tutela: proprio ad opera dell’autorità che di quei diritti dovrebbe essere garante e quella tutela dovrebbe assicurare.
A questa nuova, umbratile e perversa, dimensione si rivolge la Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, del 10 dicembre 1984, entrata in vigore per l’Italia l’11 febbraio 1985, che impone (art. 4) ad ogni Stato-parte di vigilare «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressione nei confronti del suo diritto penale» e di rendere «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità» In particolare, l’art. 1 della Convenzione attribuisce la qualifica di «tortura» alle sofferenze inflitte per ottenere dalla vittima o da una terza persona informazioni o confessioni, o a punirla per un atto che essa o una terza persona abbia commesso o sia sospettata di aver commesso, o ad intimorirla o a far pressioni su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione.
Ci sono voluti ventott’anni perché il patrio legislatore, lesto nel promettere mai assai guardingo nel mantenere, vincesse la “naturale” riluttanza ad immettere nell’ordinamento una fattispecie incriminatrice che desse attuazione agli obblighi internazionalmente assunti. Per non recare normativa “offesa” all’autorità di cui presume – spesso anche iuris et de iure – l’assoluta e scrupolosa osservanza e tutela dei diritti di cui sono portatori i soggetti variamente sottoposti ad una potestà coercitiva, l’art. 613 bis c.p., introdotto con l’art. 1, comma 1°, l. 14 luglio 2017, n. 110, delinea una fattispecie comune: la qualifica del reo come agente pubblico costituisce una semplice circostanza aggravante, per giunta nemmeno ad effetto speciale. Chiunque può dunque rendersi responsabile di tortura, infliggendo ad una persona le sofferenze o il trauma indicati dalla norma. Gli elementi che qualificano la condizione della persona torturata non individuano in effetti un rapporto di natura pubblicistica: essi possono agevolmente essere identificati in relazioni di natura privatistica (genitore-figlio; medico-paziente; maestro-allievo; assistente-assistito e così via).
In realtà, l’art. 1 della Convenzione postula rigorosamente che le sofferenze in cui la tortura consiste siano inflitte da un agente pubblico, o da persona che agisca su istigazione di questo, o con il suo consenso. Soluzione logica ed ineccepibile, priva di ragionevoli alternative: l’illecito è senza dubbio e necessariamente “proprio”, anche se in forma non esclusiva: l’autorità deve comunque esserci, anche se può non essere «sua» la mano che tormenta. Lo stesso art. 13 Cost. sancisce la necessaria punizione di «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» nel contesto della tutela della libertà personale dagli arbitri dell’autorità pubblica. Descrivere la tortura come reato «comune» non costituisce peraltro un’innocua distonia; in effetti spiana la via all’incongruenza, perché in tal modo la tortura finisce col risultare semplicemente una forma più grave di maltrattamenti, occultando e disperdendo lo specifico disvalore di cui essa è portatrice. Diluita nel vasto lago delle fattispecie comuni si può addirittura insinuare l’eliminazione di quella fastidiosa aggravante che evoca la presenza attrice dell’autorità pubblica: non è forse già presente un’aggravante comune, per i reati commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio? E per l’appunto, non è forse la tortura un reato comune?
Non sappiamo se verrà mai il tempo in cui simili proposizioni non potranno neppure essere concepite. Peraltro, l’esperienza storica non ci rassicura: occorre vigilare.
*Accademico dei Lincei
(Già pubblicato in Ante Litteram n. 3 – dicembre 2024)