MITI E REALTÀ DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

di Oliviero Mazza* –

1. Riparazione e confessione. – Quando si affronta il tema della giustizia riparativa bisogna porsi una domanda preliminare: qual è il presupposto per accedere a questo procedimento incidentale1, così delineato dal meccanismo dell’invio d’ufficio ex art. 129-bis c.p.p.?

I sostenitori del brave new world si nascondo dietro fumisterie verbali: non «si richiede una confessione all’imputato», trattandosi di un «percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato»2.

Il primo impatto giurisprudenziale, invece, ci ha richiamato a un sano realismo giuridico: vi sono soverchie «difficoltà di ammettere un programma di giustizia riparativa in corso di un processo (e ancora più di un procedimento) allorché l’imputato (o l’indagato) contesta la fondatezza dell’accusa»3.

Del resto, al di là della prevedibile interpretazione giurisprudenziale, era la logica a riportare l’interprete a una realtà normativa che, finalizzata alla riparazione di qualcosa, ne postulava prima la rottura. Detto altrimenti, la giustizia riparativa delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 non è un gioco di società e nemmeno una seduta di analisi collettiva, ma è calata integralmente nel sistema penale come forma di risoluzione alternativa del conflitto interindividuale rappresentato dal reato.

A riprova di ciò, è sufficiente ricordare quali siano gli effetti penali del procedimento incidentale di mediazione: per i reati procedibili a querela, il cui novero è stato significativamente incrementato proprio dalla riforma Cartabia, la risoluzione alternativa della controversia determina la remissione di querela (art. 152 comma 2 n. 2 c.p.). Il collegamento fra il procedimento principale e quello incidentale è reso ancor più chiaro dalla previsione che, «quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati». Per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’esito riparativo determina l’applicazione di una specifica diminuente (art. 62 n. 6 c.p. che parifica la riparazione al risarcimento del danno e alle condotte riparatorie) nonché la sospensione condizionale della pena (art. 163 comma 5 c.p.). Senza dimenticare la prospettiva, tutt’altro che remota, di una surrettizia applicazione dell’archiviazione meritata – istituto abbozzato e poi abbandonato nei la vori preparatori della riforma – in seguito al buon esito della giustizia riparativa avviata per decisione del pubblico ministero.

Il quadro normativo certifica che davanti al mediatore non si discute di “nudi fatti”, privi di rilevanza penale, posto che l’unico oggetto del procedimento incidentale è la “rottura” dei rapporti personali determinata dal reato, con tutte le conseguenze del caso, tanto in termini di procedibilità e di definizione del procedimento già in fase di indagini quanto di dosimetria sanzionatoria e di benefici di legge.

Al di là della ricostruzione quasi esoterica della “conca riparativa”, per il giurista positivo è innegabile che l’ammissione da parte dell’imputato dei fatti che gli vengono addebitati costituisca la precondizione indispensabile per l’accesso stesso ai programmi riparativi. Del resto, il rinvio generale ai principi internazionali, contenuto nell’art. 53 comma 1 d.lgs. n. 150 del 2022, è più che sufficiente per importare nella disciplina nazionale proprio quelle regole europee che impongono, quale condizione essenziale per l’avvio del procedimento, che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso» (art. 12, c. 1, lett. c, dir. 2012/29/UE). Analoga affermazione si ritrova nel par. 30 della Raccomandazione 8(2018) del Consiglio d’Europa, secondo cui «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda».

Il primo mito è dunque sfatato, la giustizia riparativa rimane, fin dalla sua matrice europea e nella sua connotazione finalistica, un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la sua responsabilità.

2. Vittimocentrismo occultato. – I conditores hanno alimentato un secondo mito, quello del sistema paritario non vittimocentrico4, e la giurisprudenza questa volta sembra prenderli in parola quando afferma che l’istituto è «del tutto disfunzionale alla tutela delle vittime dei reati a sfondo sessuale o di genere, in totale distonia con la vocazione securitaria, spesso solo apparentemente pubblicizzata, dalle norme relative a tale specifico settore»5.

Non si può negare la conclamata schizofrenia normativa. Si pensi al giudice che applica una misura coercitiva all’imputato, magari il divieto di avvicinamento alla persona offesa, e al tempo stesso ordini l’invio di entrambi i soggetti in conflitto davanti al mediatore affinché possano “avvicinarsi” oppure a tutti i casi in cui l’imputato sia ristretto nella sua libertà personale in ragione del pericolo di recidiva e venga nondimeno disposto il suo invio al centro per la giustizia riparativa al fine di incontrare proprio chi si assume abbia già subito le conseguenze della condotta violenta.

Al di là delle sempre più evidenti contraddizioni di un sistema penale irrazionale, la giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto.

Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore fra i primi commentatori, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono giudiziale dell’imputato a condizione che compia tangibili atti di contrizione.Questo è il programma delineato dal legislatore che, in entrambe le chiavi di lettura, risulta ben lungi dalla mistica delle emozioni, attingendo a una smaccata presunzione di colpevolezza.

Ogni riflessione ulteriore deve prendere le mosse, ancora una volta, dal dato di realtà giuridica: il legislatore non mette sullo stesso piano vittima e colpevole, il sistema è intriso di una cultura europea vittimocentrica che non si cura della questione cognitiva e della presunzione d’innocenza, ma punta solo alla rielaborazione dell’agito delinquenziale e al perdono della persona offesa.

Senza eccedere nell’oggettivismo giuridico, le fonti eurounitarie (art. 12, c. 1, lett. a, dir. 2012/29/UE) ancora una volta non si prestano ad equivoci: «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima».

Superata la narrazione fiabesca di una “conca riparativa” in cui tutti i presenti hanno pari dignità, il testo legislativo risulta paradossalmente lesivo tanto delle prerogative dell’imputato quanto di quelle della vittima per la quale, comunque, nutre una fisiologica propensione.

3. Un procedimento senza garanzie. – La volontà del legislatore è cristallina: incistare la giustizia riparativa nel processo penale in modo tale da istituzionalizzare, con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di spesa pubblica (art. 67 d.lgs. n. 150 del 20226),
un percorso che, se fosse rimasto in ambito privato e volontario, avrebbe avuto pochissime possibilità di essere finanziato e di svilupparsi secondo le aspettative di chi lo ha teorizzato. Il risultato presenta però un prezzo elevatissimo in termini di violazione della presunzione d’innocenza e di azzeramento del diritto di difesa. Per quale ragione il giudice dovrebbe inviare l’imputato davanti al mediatore, per tentare la riparazione con la vittima, se lo ritenesse, come impone l’art. 27 comma 2 Cost., non colpevole? Come si può indicare la strada della riparazione, ossia della responsabilizzazione dell’imputato e del riconoscimento della vittima ex art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2022, se non si è convinti della rottura determinata dal reato attribuito all’accusato?

La risposta a tali cruciali interrogativi sono discorsi confusi in cui l’unico dato che emerge con nettezza è l’adesione ideologica e aprioristica al dogma della giustizia riparativa.
L’invio – non invito, come spesso si sostiene con bischizzo intenzionale – è un atto d’ufficio dell’autorità procedente che prescinde dalla volontà delle parti, contrariamente alla vulgata per cui la giustizia riparativa sarebbe libera e volontaria.

Vittima e imputato sono costretti a presentarsi dinanzi al mediatore, pena l’inosservanza dell’ordine del giudice. Un conto, infatti, è il dialogo riparativo che richiede il consenso per la sua prosecuzione, altro è il procedimento incidentale volto a realizzare il programma che nasce per una scelta autonoma dell’autorità procedente e costringe i soggetti interessati a presentarsi dinanzi al mediatore e a palesare le loro intenzioni.

Il comportamento renitente, se anche non costituisse in sé un illecito, sarebbe certamente valutabile dal giudice una volta chiamato ad apprezzare il comportamento dell’imputato susseguente al reato (art. 133 c.p.) o anche la meritevolezza della pretesa risarcitoria.

Non si può fingere che la scelta di disattendere la volontà del giudice non avrà un costo, anche solo in termini di cattiva impressione. Così come non ci si può trincerare dietro l’idea che il verbale negativo di mediazione non indichi il soggetto che si è reso indisponibile alla riparazione. Le parti, infatti, potranno sempre riferire al giudice il contegno reciprocamente tenuto nell’ambito del procedimento incidentale e ciò nel legittimo intento di sostenere le proprie ragioni nel corso del procedimento principale. Se la presunzione d’innocenza è vilipesa, non va meglio per il diritto di difesa del tutto conculcato: da un lato, l’imputato è chiamato a responsabilizzarsi (art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020) ossia a tenere un contegno autodifensivo remissivo, dall’altro, il suo difensore è escluso dal tavolo della mediazione.

Non si comprende per quale ragione tutti i sistemi di risoluzione alternativa delle controversie prevedano la negoziazione assistita dal difensore, mentre in ambito penale ciò non sia possibile.

Per abbozzare una imbarazzata risposta si ricorre nuovamente al mito: «nella conca della mediazione il difensore non ha alcun ruolo semplicemente perché non si parla il linguaggio tecnico del diritto penale (e non si accerta un reato), ma quello delle emozioni sprigionate dal conflitto»7.

Se così fosse, verrebbe allora da chiedersi come sia possibile che il “linguaggio delle emozioni” determini l’estinzione del reato per remissione di querela, per non dire che su tale percorso emozionale si fondano attenuanti specifiche o i presupposti della sospensione condizionale della pena. A meno che non sia stata introdotta la nuova categoria del “diritto penale emozionale”, nella conca riparativa si parla proprio il linguaggio della responsabilità per un fatto tipico previsto dalla legge come reato. Occorre, pertanto, essere rigorosi: se la mediazione è un fatto puramente morale ed emozionale, come nella vulgata mitologica, allora ben venga il bando del difensore, ma tale percorso non deve avere alcuna rilevanza in ambito penale e non deve intersecarsi con il processo penale di cognizione; se, invece, si vuole incentivare la mediazione con la premialità penale, se si disciplina un vero e proprio procedimento incidentale, allora il difensore deve esserne parte integrante per garantire al meglio gli interessi giuridici del suo assistito.

Il veto alla presenza del difensore rimane comunque una previsione odiosa, come dimostra il fatto che nella accogliente conca riparativa sono ospitati addirittura «enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali» (art. 45 lett. c d.lgs. n. 150 del 2022) ovvero «chiunque altro vi abbia interesse» (art. 45 lett d d.lgs. n. 150 del 2022).

Come si giustifica che l’accusato sia lasciato solo dinanzi a questo variegato “tribunale del popolo” composto addirittura dai rappresentati della polizia? Ma soprattutto, perché chiunque vi abbia interesse può partecipare, ma non il difensore che sarebbe il primo ad avere un interesse per di più qualificato? C’è una sola possibile chiave di lettura, una visione offensiva del ruolo e della funzione difensiva, allineata al più becero populismo penale, indegna di essere normata in una legge dello Stato.

L’ultimo mito procedurale è la presunta impermeabilità del processo penale nel caso di esito negativo del percorso di riparazione, tralasciando, per economia espositiva, altri irresolubili problemi legati alla segretezza degli atti di indagine che verrebbero portati a conoscenza di soggetti terzi presenti al tavolo della mediazione. Secondo gli alfieri della giustizia riparativa, «quello che le persone si dicono non deve confluire nel procedimento ordinario e vi sono diverse paratie per assicurare l’impermeabilità»8.

Le paratie, tuttavia, sono tutt’altro che a tenuta stagna. Non è previsto alcun obbligo di segretezza per i partecipanti, ma solo un eccentrico vincolo di non divulgabilità e di riservatezza, peraltro senza sanzioni di sorta in caso di inosservanza. Pure la previsione della inutilizzabilità processuale dei verbali che riportano le dichiarazioni rese al tavolo della mediazione non impedisce che i contenuti del dialogo riparativo siano portati a conoscenza del giudice attraverso la diversa via della deposizione dei protagonisti. È impossibile teorizzare un divieto di testimonianza su quanto avvenuto dinanzi al mediatore quando tale narrazione possa avere una precisa rilevanza difensiva.

Si pensi all’imputato o alla parte civile che intendano dimostrare al giudice, ossia a chi ha imposto l’avvio al procedimento incidentale, di aver fatto tutto il possibile per giungere all’esito riparativo, contrariamente alla controparte la cui opposizione ha impedito il raggiungimento del risultato sperato. Spiegare le ragioni per cui si è tornati a mani vuote dalla mediazione può rivestire un preciso interesse difensivo. Dunque, anche la vagheggiata separazione fra i procedimenti rientra nei miti effimeri della giustizia riparativa.

4. Morale, laicità e diritto penale. – Il programma di cui il giudice o il pubblico ministero dispongono l’avvio presenta una indiscutibile finalità di carattere etico: responsabilizzare l’imputato e riconoscere la vittima (art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2022). Non c’è nulla di più etico che indurre qualcuno ad assumersi la responsabilità per un reato e, al tempo stesso, distinguere, in un preciso ruolo, chi è stato costretto a soccombere all’altrui condotta. Assunzione di responsabilità e riconoscimento delle ragioni altrui, distinguere fra bene e male, delitto e perdono, sono tutte categorie di un giudizio morale che viene affidato a «un saggio mediatore – psicoanalista o parroco più che giurista – come tale attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto»9.

Se il reato è (mal)inteso quale rottura di un rapporto interindividuale che deve essere ricomposto, il carattere puramente penitenziale della giustizia riparativa è rappresentato in modo plastico dalla vittima surrogata, una specie di “inginocchiatoio” messo a disposizione dell’imputato nel caso in cui la vittima del reato non esista o non voglia partecipare al percorso riparativo.La giustizia riparativa sovrappone, inevitabilmente e volutamente, il piano del diritto con quello della morale. La laicità del diritto penale è però una conquista di civiltà alla quale non si può rinunciare senza avere ben presente che «la giustizia che insegue l’etica è espressione di uno stato autoritario»10.

Finora il reato è stato considerato come violazione di norme legali poste a tutela di beni costituzionalmente rilevanti, con approccio laicamente ispirato all’accertamento cognitivo di un fatto tipico e alla conseguente irrogazione di una pena volta alla rieducazione, intesa come rivisitazione critica delle pregresse condotte criminali tale da condurre alla futura osservanza delle leggi.

La giustizia ripartiva, al contrario, intende il reato come un fatto privato che non riguarda il rispetto delle regole sociali e che non attiene all’attuazione di scelte politiche, ma che incide principalmente sulla vita delle persone nell’ottica di un conflitto interindividuale11. Una concezione privata e relazionale del diritto penale che cambia «la grammatica e la sintassi del reato per effetto della sua trasfigurazione da categoria giuridica a evento psicosociologico12.

Le notevoli ambiguità della visione morale del reato ricordano sempre più da vicino le pericolose deviazioni della concezione medicinale della pena di carneluttiana memoria13. La giustizia riparativa, intesa come catarsi dal reato e come ricostruzione dei rapporti con la vittima e con la comunità, non trova riscontro in un sistema penale, quale quello vigente, in cui la condotta antisociale e deviante oggetto di incriminazione non sempre è determinata dalla rottura di relazioni umane, basti pensare ai reati di pericolo astratto o a quelli che ledono interessi collettivi o comunque sovraindividuali.

A ciò si aggiunga che sarebbe del tutto improprio, nonché costituzionalmente eccepibile, attribuire alla giustizia penale lo scopo di favorire la riconciliazione fra autore del reato e vittima o la ricostituzione dei legami con la società. Si tratta di una «visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato»14.

La riconciliazione personale e di comunità è intrisa di innegabili venature morali che nel modello costituzionale di società laica e pluralista non possono assurgere a valore superiore della giustizia penale.  La riparazione, inoltre, non coincide con la rieducazione alla quale le pene devono tendere ai sensi dell’art. 27 comma 3 Cost. Vi è una profonda diversità fra i due concetti e va sfatato anche questo mito artificioso. La rieducazione, peraltro solo tendenziale, è il portato della laicità del diritto penale e postula che il condannato abbia condotto una rivisitazione critica della sua azione che consenta di escludere un pericolo di recidiva, a prescindere dai rapporti con la vittima o con la comunità di riferimento.

Al contrario, attribuire alla pena una finalità riparativa significa corrompere il paradigma laico della rieducazione, postulandone una componente etica che si sviluppa proprio sul versante delle manifestazioni di interesse e di sensibilità nei confronti della vittima o del suo surrogato. Sarebbe un gravissimo arretramento rispetto alle conquiste di civiltà raggiunte, anche nella fase esecutiva, da quella giurisprudenza che scinde nettamente la rieducazione da ogni altra componente morale rappresentata da scuse o richieste di perdono rivolte alla persona offesa15.

Alla matrice moralizzante si accompagna, quasi paradossalmente, una evidente curvatura per «scopi tecnocratico-efficientisti, cioè finalizzat[i] a deflazionare la machina giudiziaria attraverso una definizione più rapida e informale di vicende delittuose di minore gravità»16, come quelle contenute nel perimetro dei reati procedibili a querela per i quali il nuovo procedimento incidentale surroga appieno il giudizio di cognizione appaltato agli operatori sociali.

La giustizia riparativa presenta, quindi, matrici ideologiche complesse che vanno dalle istanze solidaristiche e comunitariste di ascendenza cattolica fino alla strumentalizzazione in chiave efficientista dell’accertamento penale, il tutto però unificato da una evidente incoerenza con i principi costituzionali della presunzione d’innocenza, del diritto di difesa, della laicità del diritto penale e della finalità tendenzialmente rieducativa della pena.

*Ordinario di Procedura Penale nell’Università Bicocca di Milano

1- Così definito dalla Relazione del Massimario della Cassazione, secondo cui si tratta di un «procedimento incidentale, parallelo alla giustizia contenziosa» (Relazione su novità normativa. La “Riforma Cartabia”, 5 gennaio 2023, p. 277).
2- M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, in Il Dubbio, 26 settembre 2023, da cui è tratta anche la citazione immediatamente precedente nel testo.
3- Trib. Genova, ord. 21 novembre 2023, Pres. Cascini, est. Crucioli, in Sist. pen. 16 febbraio 2024, con nota di R. A. RUGGIERO.
4- V. ancora M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.
5- Trib. Genova, ord. 21 novembre 2023, cit.
6- Che così recita: «nello stato di previsione del Ministero della giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione di euro 4.438.524 annui a decorrere dall’anno 2022».
7-8 M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.
9- B. CAVALLONE, Le prove nel nuovo millennio. Programmi per il passato, in Riv. dir. proc., 2022, p. 526.
10- M. CASSANO, Processo mediatico, paletti ai pm e governo. Parla Margherita Cassano, in Il Foglio, 14 marzo 2024.
11- Sono più che mai attuali le categorie concettuali teorizzate da M. R. DAMAŠKA, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo (1986), trad. it., Bologna, 1991, p. 173 ss.
12- G. FIANDACA, Punizione, Bologna, 2024, p. 142-143.
13- F. CARNELUTTI, Il problema della pena, Roma, 1945, passim; ID., La lotta del diritto contro il male, in Foro it., 1946, IV, c. 1 ss.; ID., Meditazioni sull’essenza della pena, in Riv. it. dir. pen., 1955, p. 3; ID., Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 16-17.
14- G. FIANDACA, Punizione, cit., p. 150.
15- Cfr., ad esempio, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17831 del 20/04/2021 Cc.  (dep. 07/05/2021 ) Rv. 281360 – 01.
16- G. FIANDACA, Punizione, cit., p. 157.

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