IL GRATUITO PATROCINIO: STORIA DI UN SISTEMA QUANTO MAI NECESSARIO

OSSERVATORIO GRATUITO PATROCINIO – di Manuel Curcio e Federico Sapia – 

L’istituto del gratuito patrocinio, inteso nella sua accezione più ampia, risulta essere figlio di una tradizione ormai secolare, per non dire millenaria, ampiamente diffusa in tutto il mondo occidentale fin dai tempi antichi.

L’esigenza di una tutela nei confronti degli individui meno abbienti ha da sempre accompagnato le civiltà, rappresentando un vero e proprio perno morale dell’intero sistema sociale, infatti, basti pensare come già nel tardo diritto romano si prevedeva la possibilità, spettante in capo a determinati soggetti ritenuti più “fragili”, quali, ad esempio, le vedove, gli orfani e persone definite come “miserabili”, di essere giudicati direttamente dal Tribunale imperiale romano in funzione della protezione sociale esercitata nei loro confronti da parte degli esponenti del regno Carolingio.

Anche numerosi statuti medievali predisposero un sistema simile volto, appunto, ad assicurare la difesa a soggetti che per il loro contesto economico e sociale risultavano essere al di fuori del tessuto cittadino e, quindi, privi di un’apposita protezione.

Una testimonianza di un simile approdo storico venne dalla città di Parma, quando, nel 1233, nacque la figura ad hoc del “Difensore del Povero”, creando così un apposito settore statale con competenze specifiche volte in tal senso. Parallelamente, anche altre realtà territoriali, sia Statali che Comunali, iniziarono a predisporre un sistema ove la difesa dei soggetti non abbienti veniva addossata interamente sulle classi degli avvocati e dei procuratori mediante l’istituzione di un apposito titolo onorifico.

Passando invece ai tempi più moderni, è utile sottolineare come, con l’avvicinarsi dell’unificazione d’Italia, gli istituti posti in essere come forma di sostegno per l’accesso alla giustizia ai soggetti non abbienti vennero ricondotti a due macro categorie: da un lato si ebbe la costituzione di un onere in capo ai membri della classe forense di eseguire le loro prestazioni pro bono rispetto le persone rientranti nel novero della disciplina, dall’altro vennero istituiti degli uffici legali di rilievo pubblicistico, ove era lo Stato a intervenire direttamente per la retribuzione dei patrocinanti.

Quest’ultimo istituto prese il nome di “Avvocatura dei Poveri” e nacque inizialmente all’interno del Regno di Sardegna, per poi espandersi a Vercelli, Novara e Cuneo, sotto forma d’ufficio avente carattere pubblicistico, mentre, ad Alessandria si diffuse nell’ambito delle fondazioni private.

Continuando con l’analisi storica, vi è da dire come un’ulteriore formalizzazione del fenomeno si ebbe con il legislatore Piemontese mediante l’adozione della legge “Rattazzi” n° 3871 del 1859, tramite cui nacquero, presso ciascuna corte d’appello, degli appositi uffici, detenuti da un avvocato e da un procuratore dei poveri, i quali vennero inseriti direttamente nell’organigramma magistratuale con funzioni di patrocinio pro bono per i soggetti non abbienti e retribuiti interamente dalle casse statali.

Dopo la nascita del Regno d’Italia, tuttavia, vi fu un netto cambio di tendenza e il fenomeno dell’Avvocatura dei poveri vide due fasi distinte e contrapposte.

Infatti, in un primo momento, l’istituto venne ampliato con i R.D. n°620/1862 e n° 851/1862 alle province di Napoli e della Sicilia, tuttavia, successivamente, il sistema del patrocinio gratuito per i soggetti non abbienti vide, per la prima volta, un vero e proprio ridimensionamento che portò quasi alla sua scomparsa. Le casse del neonato Stato italiano non risultarono in grado di sostenere i costi economici del servizio e fu così che, con la Legge Cortese n° 2626/1865, il parlamento sancì l’eliminazione dell’Avvocatura dei Poveri sostenuta dallo Stato, con l’unica eccezione degli uffici istituiti mediante le fondazioni private che comunque continuarono ad operare.

Da qui in poi la difesa pro bono dei soggetti meno abbienti divenne un vero e proprio incarico di valore prettamente “morale” atteso che l’istituto, a seguito dell’abolizione dei finanziamenti statali, acquisì in toto il carattere della gratuità. Era quindi il singolo professionista a dovesi accollare la difesa senza che vi fosse alcuna retribuzione economica.

Anche nell’epoca fascista si proseguì con questa linea, tuttavia il “regime” volle riorganizzare organicamente la materia de quae, grazie al R.D. n° 3282/1923, venne istituito il gratuito patrocinio indicandolo come un vero e proprio ufficio onorifico ed obbligatorio rispetto la classe degli avvocati e dei procuratori.

La particolarità di un simile approdo legislativo si manifestò essenzialmente nell’organicità della riorganizzazione, infatti, all’interno dell’istituto vennero ricompresi anche i giudizi penali, i cui destinatari del provvedimento di ammissione potevano essere l’imputato, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria.

Ai fini della richiesta della difesa pro bono, il soggetto interessato avrebbe dovuto fornire la prova di un vero e proprio stato di povertà, tale per cui l’individuo doveva ritenersi impossibilitato a sopperire alle spese di lite del giudizio in questione. In concreto, occorreva che il cittadino non abbiente producesse un’attestazione del sindaco del comune nel quale risiedeva, previa esibizione di un certificato dell’agenzia delle imposte ove veniva indicato l’ammontare delle tasse pagate dal soggetto interessato così da provare, appunto, il suo stato di povertà.

In più poi, nell’ambito dei giudizi civili e amministrativi, l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio venne subordinato al rilascio di un’ulteriore certificazione, disposta anch’essa da un’autorità amministrativa avente funzioni ad hoc, vincolata alla presunta probabilità di esito positivo della causa.

Le particolarità eccentriche della procedura in questione, tali da renderla incompatibile rispetto poi ai successivi approdi costituzionali sul tema, furono, in primis, la suddetta potestà dell’autorità amministrativa nel rilascio dei certificati, con la conseguenza che l’accesso al beneficio finiva con l’essere subordinato all’esercizio di una potere di natura esecutiva e non di matrice giudiziaria e, successivamente, la scelta del difensore venne addossata come dominio esclusivo dell’autorità procedente, togliendo quindi la possibilità in capo al richiedente di godere di una difesa di fiducia nel caso di gratuito patrocinio.

Con l’avvento della Carta Costituzionale del 1948, nonostante l’incompatibilità di alcuni principi, tra cui quelli poc’anzi citati, vennero comunque ribaditi alcuni capi saldi della disciplina, soprattutto rispetto l’obbligatorietà della difesa pro bono.

In particolare, è con l’articolo 24 co. 1 e 3 che il Costituente individuò un vero e proprio obbligo gravante sullo Stato rispetto la tutela effettiva circa l’esercizio del diritto di difesa del singolo, con la conseguenza che tale principio avrebbe dovuto attuarsi anche rispetto ai soggetti meno abbienti con quindi applicazione pratica del principio di eguaglianza sostanziale indicato dall’art. 3 co. 2 Cost.

Anche in termini sovrannazionali, il patrocinio a spese dello Stato acquisì una notevole importanza tanto da essere riconosciuto all’interno del quadro internazionale.

Basti pensare come il diritto ad un ricorso effettivo ad un giudice imparziale, imponendo quindi l’addebito nei confronti dello Stato dei costi utili per affrontare la contestazione, venga menzionato sia dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950), sia dal Patto internazionale dei diritti civili e politici di New York (1966).

Tuttavia, tornando all’analisi del panorama nazionale, per far si che si abbia l’attuazione dei principi contenuti nell’art. 24 Cost. occorrerà attendere il 1973 mediante la legge n° 633 che però, ricordiamolo, inizialmente ebbe valenza solo nell’ambito delle controversie di natura giuslavoristica per poi essere estesa anche alle materie dell’adozione e dell’affidamento dei minori con la legge n° 184/1983.

In ogni caso comunque, se pur limitate a determinate branche del diritto, le sopra menzionate leggi ebbero il merito di creare i pilastri del sistema moderno del gratuito patrocinio, facendo si che il costo di tutte le spese necessarie per lo svolgimento del procedimento, incluso anche il pagamento dei compensi e degli onorari difensivi, dei consulenti tecnici e dei vari ausiliari intervenuti nel corso del giudizio, fosse interamente a carico dello Stato.

Il settore penale venne coinvolto soltanto nel 1990 tramite la legge n° 217 che, di fatto, sancì lo sradicamento del principio della difesa pro bono, a favore, invece, di una retribuzione interamente statale rispetto gli onorari dei difensori prestatisi all’esercizio della tutela di soggetti non abbienti. Soltanto poi con la legge n°134/2001 e il D.P.R. n°115/2002 si avrà una disciplina unificata dell’istituto, valevole quindi per tutte le tipologie di giudizio, siano essi penali, civili ovvero amministrativi.

Infine poi v’è da dire come, nel corso dell’ultimo ventennio, vi siano state altre riforme in materia di gratuito patrocinio, tra cui, ad esempio, quella avutasi a mezzo di decreto ministeriale n.140 del 2012, tramite le quali il legislatore nazionale è intervenuto sulla ridefinizione di alcuni aspetti pratici della materia, tralasciando però i principi base della disciplina ritenuti pacifici e ormai consolidati.

Gli aspetti di maggior interesse hanno riguardato la soglia retributiva di riferimento ai fini della concessione del beneficio del gratuito patrocinio e il rispettivo compenso dei difensori. Trattasi, in sostanza, di due aspetti di natura tendenzialmente univoca ma con esiti inversamente proporzionali tra loro. Infatti, se da un lato il legislatore, in considerazione dell’aumento del costo della vita, ha tendenzialmente sempre più innalzato l’ammontare retributivo massimo richiesto ai fini della concessione del gratuito patrocinio, ad eccezione però dell’ultimo quinquennio dove vi sono state delle diminuzioni, dall’altro versante, invece, quindi con riferimento ai compensi dei patrocinanti, il filone legislativo si è mosso per lo più in direzione diametralmente opposta, facendo si che i compensi e gli onorari dei difensori fossero inferiori rispetto le tariffe medie di mercato ed eliminando determinati elementi procedurali tipici della celerità della liquidazione, caratteristica invece propria della legge n°134/2001 e del D.P.R. n°115/2002.

Concludendo, quindi, possiamo certamente affermare come il patrocinio a spese dello Stato, soprattutto in ragione della mole numerica di procedimenti in cui viene applicato il beneficio, rappresenti uno dei perni centrali dell’intero sistema giudiziario, auspicandoci pertanto un costante monitoraggio della materia in modo da renderla maggiormente coerente rispetto le esigenze economiche e sociali tipiche del nostro tempo.

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