di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –
L’approccio critico al sistema penale ha lo scopo di valorizzare la “ideologia della libertà, dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione che è consustanziale, “necessaria” all’ esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere”[1]. Ciò significa che l’attenzione del giurista deve essere indirizzata a contrastare la deriva autoritaria e la passione punitiva dei poteri pubblici e, al contrario, a valorizzare la costruzione di un sistema di limiti e a preservare e rafforzare il complesso delle libertà e dei diritti fondamentali.
Queste finalità, semplici, ma vitali, sono state purtroppo contraddette dall’indirizzo costantemente adottato dalle istituzioni di procedere nei termini di un rafforzamento dei poteri “di polizia” e di un’accentuazione delle istanze repressive, in accordo con l’attuazione di una legislazione “emergenziale” senza fine. Una prospettiva che, con il tempo, si è posta come un connotato strutturale, quasi qualificante, dell’ordinamento giuridico, alimentato da sempre nuove, e differenti, emergenze, che ha prodotto una moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, invadendo in modo incisivo i più diversi ambiti dell’esistenza.
In verità, si è assistito ad un progressivo arretramento dello Stato in tema di aiuto ed intervento in favore dei soggetti più svantaggiati e alla graduale contrazione delle politiche sociali a tutti i livelli, sicché le scelte del potere politico si sono orientate verso un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. A specifico supporto dei programmi nebulosi, spesso improvvisati, di politica criminale, ma in piena aderenza alle pretese emotive sostenute dalla collettività, il più delle volte indotte dalle grida “propagandistiche” di una classe dirigente interessata a mascherare gli autentici problemi economici e sociali dietro il velo immaginario della paura. E con la precisa volontà di precostituirsi sacche di consenso politico, affidandosi alla risposta “irrazionale” della pancia della collettività[2].
Si è prodotto, così, un autentico mutamento di paradigma, che ha maggiormente ridotto lo spazio operativo del mondo dei giuristi e della società libera finalizzato a restringere i confini di manovra della forza dello Stato[3]. E ha fatto esplodere l’idea che alla materia penalistica vada affidato un compito eminentemente repressivo, quasi espressivo di un sentimento vendicativo, capace di svolgere un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica.
Si sono andate sviluppando, così, “le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing”[4], in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Un sistema in cui “l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assunto a religione di massa”[5], sicché l’aspetto rilevante non è dato tanto dalla ricerca della verità o dalla realizzazione della giustizia, quanto dalla sacralizzazione dell’azione punitiva, che ottunde la riflessione e neutralizza i problemi sociali, che permangono, ma vengono celati tra le pieghe delle punizioni.
Le forme finiscono in tal modo a prevalere sui contenuti, di modo che si soprassiede sugli effetti perversi di un sistema penale che si sostiene sull’accanimento repressivo, ma finge di ignorare le lungaggini processuali causate da un fenomeno di overload del contenzioso, e i conseguenti e(o)rrori giudiziari, che non appaiono più effetti fisiologici dell’ordinamento, ma ormai patologici, in ragione dei numeri spropositati. Senza dimenticare le questioni spinose collegate all’esecuzione penale e alle condizioni di sovraffollamento delle carceri.
Chiaramente, queste scelte politiche, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale, che appare sempre più dissonante rispetto alla tavola di valori cristallizzata dalla Costituzione italiana, dove sono fissati i punti fondamentali di un modello garantista di stretta legalità, in cui l’esercizio del potere punitivo è improntato ad un paradigma che ha la finalità di garantire quell’insieme di diritti propri dell’uomo indagato, imputato e eventualmente condannato nelle fasi che via via si possono susseguire. E che mira ad una riduzione delle fattispecie penali, da una parte, e ad una previsione proporzionale ed equilibrata delle pene, dall’altra, in considerazione della loro essenziale finalità rieducativa, secondo quanto disposto dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1990[6].
Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione certamente tardiva, laddove le riforme sono intervenute, mentre per altri aspetti risulta completamente assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354, il nuovo codice di procedura penale è stato varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930, che si è tentato, con scarsi risultati, di rendere costituzionalmente orientato. Inoltre, il legislatore, a partire dagli anni novanta del secolo passato, ha realizzato una legislazione complessivamente repressiva, nella quale la strettoia delle garanzie si è andata progressivamente assottigliando.
Uno sguardo rapido, a titolo esemplificativo, agli ultimi interventi riformatori può essere utile per focalizzare il percorso compiuto dal legislatore italiano. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo (art. 624 bis c.p.), per la rapina (art. 628 c.p.) e per l’estorsione (art. 629 c.p.). Il dato che colpisce è che le modifiche realizzate hanno riguardato i minimi edittali delle pene, con ciò enfatizzando la furia repressiva statale e avvalorando l’idea di pubblici ministeri e giudici considerati alla stregua di “magistrati di scopo”, chiamati alla più severa determinazione delle pene in concreto.
In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018 convertito dalla Legge n. 132 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici”, fino ad un massimo di sei anni di reclusione. È stata, inoltre, data nuova linfa vitale al reato di mendicità, abrogato con i provvedimenti di depenalizzazione del 1999, e reintrodotto quale “esercizio molesto di accattonaggio”, art. 669 bis c.p. Analoga operazione è stata realizzata con il reato di “blocco stradale”, prima abrogato e poi reintrodotto quale “disposizioni in materia di blocco stradale”, punito con una pena da uno a 6 anni di reclusione.
Sempre prodotto della medesima logica securitaria sono le previsioni dell’estensione della misura di prevenzione del Daspo Urbano anche ai presidi ospedalieri e della creazione del reato di violazione delle disposizioni del Daspo, il cui contravventore è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno e, qualora trattasi di soggetto condannato negli ultimi 5 anni per reati contro la persona o il patrimonio, con una pena da uno a due anni. E che vi sia stata una sostanziale continuità nella definizione delle linee guida riguardanti il funzionamento del sistema penale, basta ricordare che l’istituto del Daspo Urbano è stato introdotto da un esecutivo di altro colore con il D.L. n. 14 /2017.
L’ultimo anno ha visto l’introduzione, con il D.L. n. 162/2022 convertito in L. n. 199/2022, del reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione. Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina, punito con la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 anni (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 D. Lgs. n. 286/98).
Ma soprattutto si è introdotto il nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis D. Lgs. n. 286/98), cosicché, se nell’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persone, la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale.
Infine, è di qualche settimana fa il D.L. n. 123/23, c.d. Decreto Caivano, che, traendo origine sempre da fatti di cronaca, interviene in via di urgenza, e senza nessuna necessità, sull’onda delle emozioni di piazza. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione.
Questa breve panoramica rivela come si siano andati smorzando i principi autentici del garantismo penale e come, al contrario di quanto auspicato teoricamente, si è profilato in modo costante e sistematico un vero e proprio diritto penale massimo[7], che silenziosamente ha sfruttato le ansie derivanti dai pericoli del terrorismo, nazionale e internazionale, e della criminalità organizzata, per attuare un processo di espansione del potere punitivo, con il coinvolgimento di un numero sempre più ampio di soggetti inseriti nel circuito della penalità.
Non è sufficiente, però, l’individuazione di quello che è stato chiamato il diritto penale no-limits per rappresentare la condizione del sistema penale italiano. Perché in realtà tutti i fenomeni fin qui descritti hanno portato con sé ulteriori fattori disgregativi, nel senso che hanno di fatto alterato, e stravolto, i principi basilari di un ordinamento penalistico improntato alla tutela dei diritti e alla garanzia della libertà dei cittadini. La parola d’ordine della sicurezza pubblica ha, infatti, soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale, ha alimentato una certa irriflessività nell’applicazione del diritto e, quindi, un’estensione della libertà interpretativa.
Ma soprattutto ha consentito che da lungo tempo si insinuasse nel territorio del penale una sorta di corto circuito, per il quale la presunzione di innocenza si è smaterializzata in favore di una pretesa di colpevolezza. Conseguenza del fatto che si è palesata nel contesto delle relazioni pubbliche una strisciante deriva autoritaria, in cui il cittadino compare come un vero “suddito”, vessato dal corpo politico, e dalle sue propaggini esecutive, come fosse un “nemico”, perseguitato dalle istituzioni con l’implacabilità dell’indifferenza, sempre inseguito dall’assenza di umanità dei sistemi di governo e quasi mai oggetto di comprensione e di aiuto consapevole.
L’implementazione di un vero e proprio diritto penale e processuale penale preventivo e della sicurezza evidenzia, infatti, come nel tempo, e ancor più nell’attualità, la giustizia criminale, si è in concreto indirizzata verso la successiva, e continua, individuazione di “nemici” sempre più specifici, nei confronti dei quali intervenire immediatamente, e duramente, con misure dichiarate urgenti e necessarie. La concettualizzazione del diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), dovuta al giurista tedesco Günther Jacobs, mira a legittimare l’idea della prevalenza della sicurezza della collettività su ogni altro aspetto della realtà giuridica, al punto da poter giustificare la compressione anche dei diritti fondamentali individuali[8]. Per questo motivo, di fronte a soggetti, che, per le loro qualità, sono identificati come una minaccia per l’esistenza stessa dell’ordinamento, si propone l’applicazione delle regole della guerra, con la conseguente degradazione del nemico a non-persona e l’attuazione di misure dirette alla sua totale neutralizzazione. L’annientamento dell’avversario è giustificato, pertanto, in ragione della sua pericolosità “soggettiva” ed è perseguita attraverso la negazione di ogni diritto, l’annullamento di qualunque garanzia processuale e l’aggravamento delle pene.
Il problema è che in origine questo tipo di approccio riguarda effettivamente situazioni emergenziali di eccezione, in cui si innesta lo sfarinamento della tipizzazione delle fattispecie penali, con la formazione di paradigmi a “geometria variabile”, l’innalzamento della severità delle pene, nonché l’attenuazione delle garanzie processuali e un’organizzazione dell’esecuzione penale improntata sulla compressione, fino all’annullamento, degli spazi di esercizio dei diritti. Il punto è che, da una parte, l’emergenza sembra diventata infinita e ciò che è stato dichiarato come eccezionale è rimasto del tutto ordinario, e, per l’altra, che tale modello si è esteso dagli ambiti di acclarata, e momentanea, pericolosità pubblica a settori sempre più diversificati, di volta in volta proclamati come “oggettivamente” offensivi per la sicurezza pubblica.
La normalizzazione di questa forma di diritto ha contaminato il resto del sistema penale, caratterizzato ormai da continue, e vaste, deroghe ai principi fondamentali di garanzia. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”[9].
Il rischio tangibile di una tale deriva è costituito dal mostruoso fantasma del diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), ritornato dal passato non molto lontano delle esperienze dell’autoritarismo novecentesco, ma ingentilito con nuove vesti e opportunamente mascherato. Connotato da una logica che si fonda sull’eliminazione dell’autore del reato, sicché la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è[10].
L’affermazione della priorità del controllo penale invasivo dello Stato a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una profonda crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche, e ha scelto la politica della sicurezza come fulcro di una strategia mirante alla costruzione di una nuova legittimazione, in virtù della quale “attraverso la negazione della sicurezza dei diritti degli scarti umani – viene assicurato – un altro tipo di sicurezza, penale, che è proprio quella da garantire contro coloro ai quali la sicurezza esistenziale è stata negata”[11].
(Pubblicato su Ante Litteram n. 0 – dicembre 2023)
[1] G. Insolera, Per un diritto liberale liberale, in O. Sapia e A. Scerbo, Temi, problemi e prospettive del sistema penale, ESI, Napoli 2022, p. 142.
[2] Cfr. F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, il Mulino, Bologna 2019.
[3] Sul punto si rinvia alle considerazioni di D. Pulitanò, Il penale tra teoria e politica, in “sistemapenale.it”, 9 novembre 2020.
[4] V. Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in “Questione Giustizia”, 2019, n. 1, p. 87.
[5] M. Donini, Il penale come religione di massa e l’ennesima riforma della giustizia, in “sistemapenale.it”, 18 luglio 2023.
[6] Per una sintesi di questi principi cfr. L. Pepino, Giustizia: nessuna riforma senza una grammatica condivisa, in “sistemapenale.it”, 15 settembre 2023.
[7] Si rinvia a L. Ferrajoli, Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Editoriale Scientifica, Napoli 2016.
[8] Cfr. G. Jacobs, Bürgerstrafrecht und Feindstrafrecht, in “Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht”, 2004, trad. it., Diritto penale del nemico, in M. Donini – M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano 2007; Terroristen als Personen in Recht?, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 2005, n. 4; Feindstrafrecht? Eine Untersuchung zu den Bedingungen von Rechtlichkeit, in Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht, 2006, trad. it., Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni di giuridicità, in A. Gamberini – R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna 2007.
[9] L. Pepino, Meccanismi di esclusione e diritto penale del nemico, Pisa 1° marzo 2008, in www.europeanrights.eu/public/commenti/liviopepino.pdf
[10] Il concetto è espresso in questi termini da L. Ferrajoli, L’illusione della sicurezza, intervento al Festival del Diritto, 26 settembre 2009, in http://www-2.radicale.it/
[11] S. Moccia, Vite da scarto, in “Diritto e Giustizia Minorile”, 2014, n. 2-3, p. 16.